19 gennaio 2011

La Cina detta le condizioni per salvare il dollaro


Il pugno: «Il sistema valutario internazionale dominato dal dollaro è un prodotto del passato» . La carezza: «Il renminbi sta dando un grosso contributo allo sviluppo economico mondiale, ma la sua trasformazione in una moneta internazionale comporta un processo dai tempi molto lunghi» . Il ruolo del dollaro come moneta di riserva del mondo, insomma, per ora non è minacciato. Le parole scritte dal presidente cinese Hu Jintao in risposta alle domande dei giornali Usa alla vigilia della sua visita ufficiale a Washington che inizia stasera, accentuano la frustrazione degli americani, la sensazione di essere ormai trattati dalla Cina come una potenza in declino. Siamo veramente alla vigilia di cambiamenti epocali? È vicino il giorno in cui pagheremo il petrolio in yuan (l’altro nome della moneta cinese) anziché in dollari? L’atteggiamento di Pechino non è certamente più quello umile esibito da Deng Xiaoping quando, trent’anni fa, aprì la Cina all’economia di mercato Pechino, né quello, prudente, che lo stesso Hu esibì nella visita ufficiale del 2006 in un’America ancora governata da Bush e non ancora travolta dalla tempesta finanziaria. Ma le sue parole di oggi, benché indigeste per il grande pubblico, non colpiscono più di tanto i mercati e l’amministrazione Obama. Che, dopo aver passato inutilmente tutto il 2010 a chiedere una rapida rivalutazione della moneta cinese, nei prossimi giorni incalzerà Hu soprattutto sulle questioni commerciali, le violazioni della proprietà intellettuale, gli ostacoli frapposti all’attività delle imprese americane che operano in Cina, il sistematico assistenzialismo di Stato di Pechino che altera la concorrenza. Si va facendo strada l’idea che, se non accettano di smettere di sostenere l’export tenendo lo yuan artificialmente basso, i cinesi la riduzione di competitività delle loro merci la subiranno attraverso un aumento dell’inflazione. Già oggi, del resto, a fronte di una rivalutazione delle monete dei Paesi emergenti rispetto al dollaro negli ultimi 24 mesi è stata del 40%per il real brasiliano, del 47%per il rand sudafricano e del 22%per won sudcoreano e rupia indonesiana, lo yuan ha recuperato solo il 3,6%. Ma, se si calcolano anche i differenziali d'inflazione, si arriva a un recupero di competitività a favore degli Usa del 10%. Per questo Obama, al momento di aprire il dossier economico del vertice, insisterà più sulle condizioni di accesso al mercato cinese e sulla creazione di posti di lavoro per le imprese americane, che sullo yuan. Sulle valute i margini d’intervento sono minimi: i mercati sanno che il gigante asiatico vuole diventare una potenza finanziaria capace di sganciarsi gradualmente dal dollaro, valuta nella quale oggi investe gran parte delle sue riserve. Con poco entusiasmo, viste le (criticatissime) politiche espansive della Federal Reserve che tiene bassi tanto i tassi d’interesse (e, quindi, i rendimenti) quanto le quotazioni del biglietto verde. Qui la domanda non è se Pechino cercherà di fare concorrenza a dollaro ed euro con uno yuan pienamente convertibile, ma quando e come. Le prime risposte sono venute nei mesi scorsi con le proposte delle autorità monetarie di Pechino di sostituire gradualmente il dollaro con una «valuta sintetica» , una sorta di paniere composto dalle principali monete mondiali, yuan compreso. Un altro passo è stato fatto la scorsa settimana quando il governo cinese ha autorizzato le sue società a usare lo yuan in transazioni effettuate all’estero per finanziare i loro investimenti. È un passaggio importante, come la creazione a Hong Kong di un mercato basato su prodotti finanziari denominati in yuan aperto agli investitori stranieri. Ma per decollare davvero, questa moneta dovrà non solo essere convertibile, ma dovrà rappresentare un’economia davvero affidabile. Oggi la Cina «fabbrica del mondo» che accumula riserve, finanzia il debito pubblico Usa e si offre di salvare l’euro, sembra solidissima. Molti economisti notano, però, che, in un mondo ormai totalmente interconnesso, il suo modello non è meno fragile di quello americano: «La Cina» spiega Nouriel Roubini su Newsweek, «può crescere rapidamente solo se i Paesi ricchi spendono più di quello che producono e accumulano grandi deficit. Ora che Usa e il resto dell’Occidente spendono meno e cercano di ridurre i debiti, la Cina forza la crescita non sostenendo (come dovrebbe) i consumi dei cittadini, ma spingendo l’acceleratore degli investimenti immobiliari, infrastrutturali e industriali per aumentare ulteriormente la capacità produttiva» . Un modello insostenibile che, se non verrà corretto, porterà allo scoppio di una bolla che certo non invoglierà i risparmiatori a scommettere sulla moneta cinese. Così stando le cose e visto che Hu non vuole o non può fare molto sul piano valutario (l’anno scorso aveva promesso una rivalutazione graduale del renminbi, ma era stato subito «corretto» da altri leader di Pechino, quest’anno ha già messo le mani avanti), a Obama non resta che puntare sulla difesa delle imprese Usa. Usando anche l’arma di un Congresso che minaccia ritorsioni protezioniste. Hu, che nel corso della sia visita andrà anche a Chicago a incontrare i capi della Boeing e a visitare investimenti cinesi negli Usa nel campo del risparmio energetico e dei componenti per auto, sicuramente annuncerà qualche affare come l’acquisto di nuovi aerei, carne e prodotti agricoli. Dovranno essere affari molto grossi per intaccare lo scetticismo americano, visto che il deficit commerciale Usa con la Cina ha superato i 250 miliardi di dollari.
di Massimo Gaggi

18 gennaio 2011

La Cina gioca la carta dell'Euro




Sepolto a pagina 3 della pagina economica del New York Times del 7 gennaio c'era un articolo che segnalava che la Cina si era impegnata ad acquistare bond spagnoli per un valore di 6 miliardi di euro (7,8 miliardi di dollari). Quel che il giornalista non ha notato è l'ampia portata delle conseguenze politiche ed economiche che quest'evento potrebbe avere.

La Cina attualmente detiene 2700 miliardi di dollari in riserve valutarie, oltre 900 miliardi dei quali sotto forma di debiti del Tesoro americano. Per anni i critici della politica monetaria degli Stati Uniti hanno sostenuto che in risposta ai bassi rendimenti sui titoli del Tesoro statunitense e al rischio di un declino precipitoso del valore del dollaro la Cina potrebbe staccare la spina ai suoi investimenti sulla Tesoreria americana. Altri sostengono che ciò non accadrà mai perché l'economia cinese è così dipendente dalle esportazioni verso gli Stati Uniti che esse potrebbero cessare se la Cina con le proprie azioni dovesse innescare un collasso dell'economia statunitense.

Nel contempo, la Casa Bianca continua ad assillare la Cina riguardo al suo record (di violazione) dei diritti umani, oltre a sostenere che il valore della valuta cinese, lo yuan, sia gonfiato.
Quando la Cina si è rifiutata di permettere al Premio Nobel per la Pace Liu Xiaobo di andare ad Oslo per ricevere il premio è stata oggetto di numerose critiche da parte di Washington.

In una serie di recenti visite nelle capitali europee il vice primo ministro esecutivo cinese Li Keqiang ha promesso il sostegno cinese alle economie dell'Unione Europea. Promettendo di comprare obbligazioni per miliardi di euro e impegnandosi per altri miliardi in accordi economici con gli europei, Pechino potrebbe star avvisando Washington che la misura è colma. Investendo nelle economie europee, la Cina rafforza uno dei suoi altri mercati di esportazioni più importanti e si rende meno dipendente dagli Stati Uniti.

E' interessante il fatto che i bond spagnoli dovrebbero essere il primo investimento su Stati facenti parte dell'euro fatto dalla Cina. La Spagna è senza dubbio il paese più indipendente dell'Unione Europea. Il suo primo ministro, José Luis Rodriguez Zapatero, è l'unico leader in Europa che ha il coraggio di resistere a Washington, a Tel Aviv e al Vaticano. Il governo socialista spagnolo è anche il più orientato a sinistra nell'Europa di oggi.

La Spagna ha significative partecipazioni strategiche in America Latina e in Africa, due parti del mondo in cui la Cina vorrebbe espandere la sua influenza nel quadro della ricerca di petrolio e di altre risorse naturali. Giocare la carta spagnola è stato un colpo di genio da parte di Pechino.

Credo che ci siano due motivi per cui Washington non abbia ceduto alle pressioni israeliane per smantellare il programma nucleare iraniano. In primo luogo, la Russia potrebbe danneggiare gravemente l'economia europea se dovesse tagliare le forniture di gas naturale verso l'Europa per rappresaglia. In secondo luogo la Cina potrebbe accelerare il collasso dell'economia statunitense abbandonando i buoni del Tesoro americano. Intervenendo per aiutare salvare l'Unione europea, la Cina dimostra che la minaccia di staccare la spina sui propri investimenti in titoli del Tesoro USA è credibile.

L'unica cosa sorprendente della mossa della Cina sull'Europa è che essa non sia avvenuta prima.
Ma il messaggio di Pechino a Washington è forte e chiaro: "Non scherzate con noi, né con l'Iran."

di Thomas H. Naylor

Thomas H. Naylor è professore emerito di economia alla Duke University. E' co-autore di “Ridimensionare degli Stati Uniti” e “La generazione abbandonata: ripensare l'istruzione superiore” nonché co-fondatore dell'Istituto Middlebury.

16 gennaio 2011

Gli Stati Uniti dichiarano una “guerra finanziaria” al mondo


Il noto economista Michael Hudson – da non confondere con il famoso giornalista investigativo, suo omonimo ma 22 anni più giovane e autore dell’importante libro inchiesta “The Monster”: come una banda di predatori prestatori e i loro banchieri di Wall Street spellarono (sic) gli Stati Uniti e crearono una crisi globale – ha collaborato come consulente ai massimi livelli con grandi banche di Wall Street, lavorando anche tramite il controverso Hudson Institute (legato alla Rand Corporation). Ha progettato nel 1990 il primo fondo del debito sovrano per il Terzo Mondo e aveva previsto con due anni di anticipo lo scoppio della bolla immobiliare negli Stati Uniti (Harper’s, mayo de 2006).
Pochi conoscono come lui il sistema finanziario degli Stati Uniti dall’interno e oggi, dalla sua cattedra presso l’Università del Missuri (nel Kansas), sembra aver avuto una miracolosa conversione.
È l’autore del libro Superimperialismo: la strategia economica dell’impero americano, che rivela le macchinazioni geopolitiche dell’economia globale gestita dagli Stati Uniti. Il suo nuovo libro “Frattura Globale” tratta del nuovo ordine economico internazionale che verrà a crearsi con la divisione del mondo in blocchi commerciali e valutari, tesi coincidenti con quelle pubblicate nei nostri libri più recenti (www.alfredojalife.com).
Fatti
Lo tsunami finanziario globale provocato dall’israelo-statunitense Ben Shalom Bernanke, discusso governatore della Federal Reserve degli Stati Uniti (vedi Bajo la Lupa, 7 y 10/11/10), è stato pesantemente condannato dal resto del mondo e sembrerebbe destinato ad indebolire anche le vulnerabili finanze dei BRIC (Brasile, Russia, India e Cina), che per questo si sono già allarmati.
Michael Hudson sostiene che gli Stati Uniti hanno intrapreso una nuova (sic) guerra finanziaria mondiale, che coinvolgerà praticamente tutti (CounterPunch, 11/10/10).
Dotato di una grande sensibilità geopolitica – non comune di solito negli economisti – sottolinea un aspetto poco seguito della guerra finanziaria (che comprende la guerra delle divise) quando gli Stati Uniti ottengono lo stesso obiettivo dei loro eserciti mediante la ricchezza monetaria e l’usurpazione dei beni semplicemente tramite operazioni finanziarie.
Questo perchè le armi e la finanza sono complementari: gli Stati Uniti – e in passato anche la Gran Bretagna – non potrebbe imporre una guerra finanziaria al mondo senza la copertura delle sue testate nucleari. Chi vince la guerra militare impone il suo doppio ordine, quello economico e quello finanziario.
Non è il momento di questionare con Michael Hudson, che si propone di esporre concetti esplosivi: come gli Stati Uniti stampino grosse quantità di carta straccia come moneta dagli schermi dei loro computer (prima 1,7 miliardi di dollari e ora altri 600 milioni di euro) per acquistare tutte le azioni e le obbligazioni del mondo, terreni ed altri beni in vendita, nella speranza di ottenerne guadagni in conto capitale rimborsando (sic) le differenze tramite l’emissione di prestiti ad un tasso inferiore all’1% di interesse. Così funziona il gioco oggi.
Sostiene che “la finanza è una nuova forma di guerra (...). È una gara nella creazione del credito per comprare risorse straniere, beni immobili, infrastrutture pubbliche e poi privatizzarle, obbligazioni societarie e azioni”. La chiave è quella di convincere le banche centrali ad accettare il credito elettronico.
Questo fino ad un certo punto, perchè oggi le banche centrali del BRIC e alcuni degli stati del G-7 (Germania e, in misura minore, la Francia) – con la rimarcabile eccezione del Messico, che resta controllato da un ex dipendente del FMI – si sono ribellati alla finanza globale, contro i furti del monetarismo vigente negli Stati Uniti e in Gran Bretagna: una vera dittatura delle banche centrali che sono riuscite a mettere da parte una classe politica che non capisce niente di quello che succede e che approva ogni tipo di violenza contro il bene comune, sempre quando le viene riconosciuta la liquidità per far fronte alle spese correnti.
Prima del clamoroso fallimento del G-20 di Seul – fallito a causa dell’effetto Bernanke e che non meritava nemmeno un epitaffio civile da Obama-, Michael Hudson questionava sul grado di masochismo dei Paesi nel soccombere alla finanza anglosassone delle banche centrali: “il mondo è stato costretto a scegliere tra l’anarchia finanziaria e la subordinazione al nuovo nazionalismo economico degli Stati Uniti, cosa che incoraggia i Paesi a creare un sistema finanziario alternativo, con la deludente eccezione del Messico calderonista, che non ha niente a che fare con il G-20 dove solo opera come schiavo degli Stati Uniti”.
Spiega che l’esperimento monetarista è già drammaticamente fallito in Giappone, dove troviamo una recessione e/o una crescita nulla da ormai due decenni. La Cina non è disposta a ripetere il suicidio del Giappone (la rivalutazione dello yen) per beneficiare in modo parassitario del dollaro.
Sostiene che il sistema finanziario internazionale premia la speculazione, che si traduce in stratosferici aumenti di prezzo per distorcere il commercio internazionale e allentare le relazioni di investimento.
A nostro avviso, il grave problema è che le banche degli Stati Uniti vanno verso un fallimento nascosto (la Bank of America è sull’orlo del fallimento ufficiale), non per l’attività del credito, ma perchè sono impegnate a ripulire i loro bilanci dalle poste negative dovute ad una speculazione frenetica.
Secondo Michael Hudson, il sistema è stato destabilizzato per le spese belliche dovute per mantenere l’immunità geopolitica della quale godono gli Stati Uniti. Critica la posizione (sic) dei media che sostengono che il deficit degli Stati Uniti sia in primo luogo commerciale, quando in realtà è ampiamente militare (super sic!). (Nota: la sola avventura di Bush in Iraq costò più di 3 bilioni di dollari, secondo Joseph Stiglitz, The Washington Post, 9/3/08).
Conclusione
Michael Hudson conclude che i paesi (soprattutto i BRIC, che hanno cominciato a creare un sistema parallelo, esteso alla Turchia, all’Argentina, e ad altri membri ribelli del moribondo G-20) possono prevenire la rivalutazione forzata delle loro divise contro la svalutazione forzata del dollaro, in tre modi: 1) raccolta di dollari investiti in titoli del Tesoro degli Stati Uniti; 2) imporre controlli (super sic!) ai capitali; 3) evitare l’uso del dollaro o altro tipo di divisa utilizzato dagli speculatori.
Dopo un flirt con l’oro, Michael Hudson riferisce che si possono ripetere i sistemi che venivano applicati tra gli anni 30 e 50 utilizzando un diverso tasso di cambio a seconda che si trattasse di movimenti finanziari o commerciali. Questo porterebbe alla sparizione del FMI, del Banco Mondiale, dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, con la nascita di nuove istituzioni che escluderebbero gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e l’eurozona.
Non sarebbe male.
Al di là del leggendario nichilismo anglosassone, sarà in discussione la capacità creativa del resto dei paesi – in particolare i BRIC e i paesi emergenti che non hanno perso il desiderio di riparare al danno del colonialismo – per ricostruire il mondo con un nuovo sistema economico e finanziario meno barbaro.
di Alfredo Jalife-Rahme

Traduzione a cura
di Erika Steiner
per italiasociale.net

19 gennaio 2011

La Cina detta le condizioni per salvare il dollaro


Il pugno: «Il sistema valutario internazionale dominato dal dollaro è un prodotto del passato» . La carezza: «Il renminbi sta dando un grosso contributo allo sviluppo economico mondiale, ma la sua trasformazione in una moneta internazionale comporta un processo dai tempi molto lunghi» . Il ruolo del dollaro come moneta di riserva del mondo, insomma, per ora non è minacciato. Le parole scritte dal presidente cinese Hu Jintao in risposta alle domande dei giornali Usa alla vigilia della sua visita ufficiale a Washington che inizia stasera, accentuano la frustrazione degli americani, la sensazione di essere ormai trattati dalla Cina come una potenza in declino. Siamo veramente alla vigilia di cambiamenti epocali? È vicino il giorno in cui pagheremo il petrolio in yuan (l’altro nome della moneta cinese) anziché in dollari? L’atteggiamento di Pechino non è certamente più quello umile esibito da Deng Xiaoping quando, trent’anni fa, aprì la Cina all’economia di mercato Pechino, né quello, prudente, che lo stesso Hu esibì nella visita ufficiale del 2006 in un’America ancora governata da Bush e non ancora travolta dalla tempesta finanziaria. Ma le sue parole di oggi, benché indigeste per il grande pubblico, non colpiscono più di tanto i mercati e l’amministrazione Obama. Che, dopo aver passato inutilmente tutto il 2010 a chiedere una rapida rivalutazione della moneta cinese, nei prossimi giorni incalzerà Hu soprattutto sulle questioni commerciali, le violazioni della proprietà intellettuale, gli ostacoli frapposti all’attività delle imprese americane che operano in Cina, il sistematico assistenzialismo di Stato di Pechino che altera la concorrenza. Si va facendo strada l’idea che, se non accettano di smettere di sostenere l’export tenendo lo yuan artificialmente basso, i cinesi la riduzione di competitività delle loro merci la subiranno attraverso un aumento dell’inflazione. Già oggi, del resto, a fronte di una rivalutazione delle monete dei Paesi emergenti rispetto al dollaro negli ultimi 24 mesi è stata del 40%per il real brasiliano, del 47%per il rand sudafricano e del 22%per won sudcoreano e rupia indonesiana, lo yuan ha recuperato solo il 3,6%. Ma, se si calcolano anche i differenziali d'inflazione, si arriva a un recupero di competitività a favore degli Usa del 10%. Per questo Obama, al momento di aprire il dossier economico del vertice, insisterà più sulle condizioni di accesso al mercato cinese e sulla creazione di posti di lavoro per le imprese americane, che sullo yuan. Sulle valute i margini d’intervento sono minimi: i mercati sanno che il gigante asiatico vuole diventare una potenza finanziaria capace di sganciarsi gradualmente dal dollaro, valuta nella quale oggi investe gran parte delle sue riserve. Con poco entusiasmo, viste le (criticatissime) politiche espansive della Federal Reserve che tiene bassi tanto i tassi d’interesse (e, quindi, i rendimenti) quanto le quotazioni del biglietto verde. Qui la domanda non è se Pechino cercherà di fare concorrenza a dollaro ed euro con uno yuan pienamente convertibile, ma quando e come. Le prime risposte sono venute nei mesi scorsi con le proposte delle autorità monetarie di Pechino di sostituire gradualmente il dollaro con una «valuta sintetica» , una sorta di paniere composto dalle principali monete mondiali, yuan compreso. Un altro passo è stato fatto la scorsa settimana quando il governo cinese ha autorizzato le sue società a usare lo yuan in transazioni effettuate all’estero per finanziare i loro investimenti. È un passaggio importante, come la creazione a Hong Kong di un mercato basato su prodotti finanziari denominati in yuan aperto agli investitori stranieri. Ma per decollare davvero, questa moneta dovrà non solo essere convertibile, ma dovrà rappresentare un’economia davvero affidabile. Oggi la Cina «fabbrica del mondo» che accumula riserve, finanzia il debito pubblico Usa e si offre di salvare l’euro, sembra solidissima. Molti economisti notano, però, che, in un mondo ormai totalmente interconnesso, il suo modello non è meno fragile di quello americano: «La Cina» spiega Nouriel Roubini su Newsweek, «può crescere rapidamente solo se i Paesi ricchi spendono più di quello che producono e accumulano grandi deficit. Ora che Usa e il resto dell’Occidente spendono meno e cercano di ridurre i debiti, la Cina forza la crescita non sostenendo (come dovrebbe) i consumi dei cittadini, ma spingendo l’acceleratore degli investimenti immobiliari, infrastrutturali e industriali per aumentare ulteriormente la capacità produttiva» . Un modello insostenibile che, se non verrà corretto, porterà allo scoppio di una bolla che certo non invoglierà i risparmiatori a scommettere sulla moneta cinese. Così stando le cose e visto che Hu non vuole o non può fare molto sul piano valutario (l’anno scorso aveva promesso una rivalutazione graduale del renminbi, ma era stato subito «corretto» da altri leader di Pechino, quest’anno ha già messo le mani avanti), a Obama non resta che puntare sulla difesa delle imprese Usa. Usando anche l’arma di un Congresso che minaccia ritorsioni protezioniste. Hu, che nel corso della sia visita andrà anche a Chicago a incontrare i capi della Boeing e a visitare investimenti cinesi negli Usa nel campo del risparmio energetico e dei componenti per auto, sicuramente annuncerà qualche affare come l’acquisto di nuovi aerei, carne e prodotti agricoli. Dovranno essere affari molto grossi per intaccare lo scetticismo americano, visto che il deficit commerciale Usa con la Cina ha superato i 250 miliardi di dollari.
di Massimo Gaggi

18 gennaio 2011

La Cina gioca la carta dell'Euro




Sepolto a pagina 3 della pagina economica del New York Times del 7 gennaio c'era un articolo che segnalava che la Cina si era impegnata ad acquistare bond spagnoli per un valore di 6 miliardi di euro (7,8 miliardi di dollari). Quel che il giornalista non ha notato è l'ampia portata delle conseguenze politiche ed economiche che quest'evento potrebbe avere.

La Cina attualmente detiene 2700 miliardi di dollari in riserve valutarie, oltre 900 miliardi dei quali sotto forma di debiti del Tesoro americano. Per anni i critici della politica monetaria degli Stati Uniti hanno sostenuto che in risposta ai bassi rendimenti sui titoli del Tesoro statunitense e al rischio di un declino precipitoso del valore del dollaro la Cina potrebbe staccare la spina ai suoi investimenti sulla Tesoreria americana. Altri sostengono che ciò non accadrà mai perché l'economia cinese è così dipendente dalle esportazioni verso gli Stati Uniti che esse potrebbero cessare se la Cina con le proprie azioni dovesse innescare un collasso dell'economia statunitense.

Nel contempo, la Casa Bianca continua ad assillare la Cina riguardo al suo record (di violazione) dei diritti umani, oltre a sostenere che il valore della valuta cinese, lo yuan, sia gonfiato.
Quando la Cina si è rifiutata di permettere al Premio Nobel per la Pace Liu Xiaobo di andare ad Oslo per ricevere il premio è stata oggetto di numerose critiche da parte di Washington.

In una serie di recenti visite nelle capitali europee il vice primo ministro esecutivo cinese Li Keqiang ha promesso il sostegno cinese alle economie dell'Unione Europea. Promettendo di comprare obbligazioni per miliardi di euro e impegnandosi per altri miliardi in accordi economici con gli europei, Pechino potrebbe star avvisando Washington che la misura è colma. Investendo nelle economie europee, la Cina rafforza uno dei suoi altri mercati di esportazioni più importanti e si rende meno dipendente dagli Stati Uniti.

E' interessante il fatto che i bond spagnoli dovrebbero essere il primo investimento su Stati facenti parte dell'euro fatto dalla Cina. La Spagna è senza dubbio il paese più indipendente dell'Unione Europea. Il suo primo ministro, José Luis Rodriguez Zapatero, è l'unico leader in Europa che ha il coraggio di resistere a Washington, a Tel Aviv e al Vaticano. Il governo socialista spagnolo è anche il più orientato a sinistra nell'Europa di oggi.

La Spagna ha significative partecipazioni strategiche in America Latina e in Africa, due parti del mondo in cui la Cina vorrebbe espandere la sua influenza nel quadro della ricerca di petrolio e di altre risorse naturali. Giocare la carta spagnola è stato un colpo di genio da parte di Pechino.

Credo che ci siano due motivi per cui Washington non abbia ceduto alle pressioni israeliane per smantellare il programma nucleare iraniano. In primo luogo, la Russia potrebbe danneggiare gravemente l'economia europea se dovesse tagliare le forniture di gas naturale verso l'Europa per rappresaglia. In secondo luogo la Cina potrebbe accelerare il collasso dell'economia statunitense abbandonando i buoni del Tesoro americano. Intervenendo per aiutare salvare l'Unione europea, la Cina dimostra che la minaccia di staccare la spina sui propri investimenti in titoli del Tesoro USA è credibile.

L'unica cosa sorprendente della mossa della Cina sull'Europa è che essa non sia avvenuta prima.
Ma il messaggio di Pechino a Washington è forte e chiaro: "Non scherzate con noi, né con l'Iran."

di Thomas H. Naylor

Thomas H. Naylor è professore emerito di economia alla Duke University. E' co-autore di “Ridimensionare degli Stati Uniti” e “La generazione abbandonata: ripensare l'istruzione superiore” nonché co-fondatore dell'Istituto Middlebury.

16 gennaio 2011

Gli Stati Uniti dichiarano una “guerra finanziaria” al mondo


Il noto economista Michael Hudson – da non confondere con il famoso giornalista investigativo, suo omonimo ma 22 anni più giovane e autore dell’importante libro inchiesta “The Monster”: come una banda di predatori prestatori e i loro banchieri di Wall Street spellarono (sic) gli Stati Uniti e crearono una crisi globale – ha collaborato come consulente ai massimi livelli con grandi banche di Wall Street, lavorando anche tramite il controverso Hudson Institute (legato alla Rand Corporation). Ha progettato nel 1990 il primo fondo del debito sovrano per il Terzo Mondo e aveva previsto con due anni di anticipo lo scoppio della bolla immobiliare negli Stati Uniti (Harper’s, mayo de 2006).
Pochi conoscono come lui il sistema finanziario degli Stati Uniti dall’interno e oggi, dalla sua cattedra presso l’Università del Missuri (nel Kansas), sembra aver avuto una miracolosa conversione.
È l’autore del libro Superimperialismo: la strategia economica dell’impero americano, che rivela le macchinazioni geopolitiche dell’economia globale gestita dagli Stati Uniti. Il suo nuovo libro “Frattura Globale” tratta del nuovo ordine economico internazionale che verrà a crearsi con la divisione del mondo in blocchi commerciali e valutari, tesi coincidenti con quelle pubblicate nei nostri libri più recenti (www.alfredojalife.com).
Fatti
Lo tsunami finanziario globale provocato dall’israelo-statunitense Ben Shalom Bernanke, discusso governatore della Federal Reserve degli Stati Uniti (vedi Bajo la Lupa, 7 y 10/11/10), è stato pesantemente condannato dal resto del mondo e sembrerebbe destinato ad indebolire anche le vulnerabili finanze dei BRIC (Brasile, Russia, India e Cina), che per questo si sono già allarmati.
Michael Hudson sostiene che gli Stati Uniti hanno intrapreso una nuova (sic) guerra finanziaria mondiale, che coinvolgerà praticamente tutti (CounterPunch, 11/10/10).
Dotato di una grande sensibilità geopolitica – non comune di solito negli economisti – sottolinea un aspetto poco seguito della guerra finanziaria (che comprende la guerra delle divise) quando gli Stati Uniti ottengono lo stesso obiettivo dei loro eserciti mediante la ricchezza monetaria e l’usurpazione dei beni semplicemente tramite operazioni finanziarie.
Questo perchè le armi e la finanza sono complementari: gli Stati Uniti – e in passato anche la Gran Bretagna – non potrebbe imporre una guerra finanziaria al mondo senza la copertura delle sue testate nucleari. Chi vince la guerra militare impone il suo doppio ordine, quello economico e quello finanziario.
Non è il momento di questionare con Michael Hudson, che si propone di esporre concetti esplosivi: come gli Stati Uniti stampino grosse quantità di carta straccia come moneta dagli schermi dei loro computer (prima 1,7 miliardi di dollari e ora altri 600 milioni di euro) per acquistare tutte le azioni e le obbligazioni del mondo, terreni ed altri beni in vendita, nella speranza di ottenerne guadagni in conto capitale rimborsando (sic) le differenze tramite l’emissione di prestiti ad un tasso inferiore all’1% di interesse. Così funziona il gioco oggi.
Sostiene che “la finanza è una nuova forma di guerra (...). È una gara nella creazione del credito per comprare risorse straniere, beni immobili, infrastrutture pubbliche e poi privatizzarle, obbligazioni societarie e azioni”. La chiave è quella di convincere le banche centrali ad accettare il credito elettronico.
Questo fino ad un certo punto, perchè oggi le banche centrali del BRIC e alcuni degli stati del G-7 (Germania e, in misura minore, la Francia) – con la rimarcabile eccezione del Messico, che resta controllato da un ex dipendente del FMI – si sono ribellati alla finanza globale, contro i furti del monetarismo vigente negli Stati Uniti e in Gran Bretagna: una vera dittatura delle banche centrali che sono riuscite a mettere da parte una classe politica che non capisce niente di quello che succede e che approva ogni tipo di violenza contro il bene comune, sempre quando le viene riconosciuta la liquidità per far fronte alle spese correnti.
Prima del clamoroso fallimento del G-20 di Seul – fallito a causa dell’effetto Bernanke e che non meritava nemmeno un epitaffio civile da Obama-, Michael Hudson questionava sul grado di masochismo dei Paesi nel soccombere alla finanza anglosassone delle banche centrali: “il mondo è stato costretto a scegliere tra l’anarchia finanziaria e la subordinazione al nuovo nazionalismo economico degli Stati Uniti, cosa che incoraggia i Paesi a creare un sistema finanziario alternativo, con la deludente eccezione del Messico calderonista, che non ha niente a che fare con il G-20 dove solo opera come schiavo degli Stati Uniti”.
Spiega che l’esperimento monetarista è già drammaticamente fallito in Giappone, dove troviamo una recessione e/o una crescita nulla da ormai due decenni. La Cina non è disposta a ripetere il suicidio del Giappone (la rivalutazione dello yen) per beneficiare in modo parassitario del dollaro.
Sostiene che il sistema finanziario internazionale premia la speculazione, che si traduce in stratosferici aumenti di prezzo per distorcere il commercio internazionale e allentare le relazioni di investimento.
A nostro avviso, il grave problema è che le banche degli Stati Uniti vanno verso un fallimento nascosto (la Bank of America è sull’orlo del fallimento ufficiale), non per l’attività del credito, ma perchè sono impegnate a ripulire i loro bilanci dalle poste negative dovute ad una speculazione frenetica.
Secondo Michael Hudson, il sistema è stato destabilizzato per le spese belliche dovute per mantenere l’immunità geopolitica della quale godono gli Stati Uniti. Critica la posizione (sic) dei media che sostengono che il deficit degli Stati Uniti sia in primo luogo commerciale, quando in realtà è ampiamente militare (super sic!). (Nota: la sola avventura di Bush in Iraq costò più di 3 bilioni di dollari, secondo Joseph Stiglitz, The Washington Post, 9/3/08).
Conclusione
Michael Hudson conclude che i paesi (soprattutto i BRIC, che hanno cominciato a creare un sistema parallelo, esteso alla Turchia, all’Argentina, e ad altri membri ribelli del moribondo G-20) possono prevenire la rivalutazione forzata delle loro divise contro la svalutazione forzata del dollaro, in tre modi: 1) raccolta di dollari investiti in titoli del Tesoro degli Stati Uniti; 2) imporre controlli (super sic!) ai capitali; 3) evitare l’uso del dollaro o altro tipo di divisa utilizzato dagli speculatori.
Dopo un flirt con l’oro, Michael Hudson riferisce che si possono ripetere i sistemi che venivano applicati tra gli anni 30 e 50 utilizzando un diverso tasso di cambio a seconda che si trattasse di movimenti finanziari o commerciali. Questo porterebbe alla sparizione del FMI, del Banco Mondiale, dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, con la nascita di nuove istituzioni che escluderebbero gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e l’eurozona.
Non sarebbe male.
Al di là del leggendario nichilismo anglosassone, sarà in discussione la capacità creativa del resto dei paesi – in particolare i BRIC e i paesi emergenti che non hanno perso il desiderio di riparare al danno del colonialismo – per ricostruire il mondo con un nuovo sistema economico e finanziario meno barbaro.
di Alfredo Jalife-Rahme

Traduzione a cura
di Erika Steiner
per italiasociale.net