23 marzo 2011

La crisi libica rivela l'incompetenza della politica europea

Per quanto possa suonare paradossale, il significato strategico della crisi libica è di importanza secondaria rispetto al tema decisivo posto dal pericolo proveniente dalla "Cintura di fuoco" del Pacifico e dalla svolta politica globale dettata dalla mobilitazione economica/scientifica richiesta per fronteggiare quel pericolo.

Per cominciare, la politica dei bombardamenti decisa per iniziativa dell'alleanza anglo-francese finirà con l'aumentare il tasso di caos nella regione. Il Presidente francese Nicolas Sarkozy potrà credersi un piccolo Napoleone, intento a raccogliere i frutti del suo bullismo alle prossime elezioni, ma egli è poco più di una marionetta nel neocoloniale gioco alla "Sykes-Picot" gestito dai britannici. Il gioco britannico mira a "provocare il maggior danno possibile" alla regione, ha commentato LaRouche. Il ruolo USA, sotto l'impulso del Dipartimento di Stato di Hillary Clinton piuttosto che della Casa Bianca di Obama, è apparentemente diverso. Purtuttavia, il modo in cui è stata stilata la risoluzione dell'ONU ed è stato eseguito il confuso mandato alcune ore dopo conferma i timori di LaRouche.

"Il fatto è che non esiste un governo europeo, a questo punto, che abbia una politica competente sull'Africa", ha affermato lo statista americano.

Il caso italiano è esemplare: siamo il principale partner commerciale e acquistiamo un terzo del petrolio e una gran parte del nostro gas naturale dalla Libia. Inizialmente, il governo italiano si è opposto ai bombardamenti, suggerendo un semplice blocco navale. Ma una volta inaugurata la "Coalizione dei volenterosi" al vertice di Parigi, siamo saliti sul tram e abbiamo mandato i Tornado a bombardare il bunker di Gheddafi. E dopo aver perso un terzo delle forniture di petrolio, decidiamo pure di sospendere il piano nucleare. Certo che la follia non ha limiti.

Nell'assenza di una vera politica, che deve includere una prospettiva di sviluppo, il rischio vero è che la Libia diventi una seconda Somalia.

La Germania ha preso una decisione saggia non entrando nella "Coalizione dei volenterosi". In un'intervista al The LaRouche Show, Helga Zepp-LaRouche ha appoggiato la decisione della Merkel, e ha ammonito contro l'aumento di instabilità a seguito dell'intervento militare. Riferendosi al ripreso flusso di migranti verso Lampedusa, Malta e la Grecia, la signora Zepp-LaRouche ha anche appoggiato l'idea di un Piano Marshall per l'Africa proposto da Frattini e Maroni. I britannici sono terrorizzati dal processo di sciopero di massa scatenatosi nelle regioni mediterranea e transatlantica, ha detto, e stanno tentando il loro gioco. Ma invece di giocare sul terreno scelto da loro, dovremmo aggirarli sui fianchi. Il modo per farlo è lanciare un cambiamento della politica globale, e sostituire il sistema monetario con un sistema creditizio per finanziare la ricostruzione economica mondiale.
by Movisol

Miraggi nel deserto

I Francesi sono diventati dei galli da combattimento, gli italiani si comportano come galline disorientate e starnazzanti , le volpi inglesi guaiolano nel deserto ma si adattano all’ambiente, i serpenti americani strisciano lentamente sotto la sabbia, i salmoni norvegesi nuotano controcorrente per tornarsene ai propri fiumi, l’orso russo comincia a bramire dopo i gorgheggi del suo Presidente usignolo. Sul deserto africano piovono razzi ma a disintegrarsi è l’Europa, avanti in ordine sparso in un conflitto che sta diventando un regolamento di conti tra potenze del Vecchio Continente. Sarkozy, va à la guerre per tornare protagonista nel mediterraneo e per fare il macho con Carlà. Difatti, l’anno prossimo ci sono le elezioni e con quel grugno che si ritrova dovesse perderle insieme alla livrea presidenziale verrebbe a cascargli pure il fascino del potere e poi addio mogliettina prelibata. La Francia ha tutto da guadagnare dalla situazione e comunque non aveva nulla da perdere sin dall’inizio. Se il gran colpo dovesse riuscirle gli insorti libici dimostreranno la loro riconoscenza, come già si può percepire dai drapeaux tricolori che sventolano a Bengasi. Gli inglesi sono ugualmente soddisfatti, eccetto per l’eccessivo protagonismo di Parigi, e da un mese, con le loro forze speciali, stanno armando ed addestrando i ribelli per decapitare il dittatore della Sirte. Il nuovo Governo anche con loro sarebbe riconoscente. Gli americani non hanno bisogno di ottenere nulla perché loro la riconoscenza la incutono, sono ancora l’iperpotenza mondiale. A noi italiani invece non ci riconoscerà nessuno, nemmeno se andassimo in giro con una pizza sulla testa e gli spaghetti intorno al collo. Avevamo qualcosa da tutelare in Libia ma appena cesserà il fuoco rimarremo con un pugno di cenere in mano. Comunque vada a finire questa guerra noi italiani siamo fottuti dopo aver intrattenuto relazioni privilegiate ed esclusive in quel paese. Come scrive Davide Giacalone sul suo sito è questo lo scenario che tra breve potrà profilarsi: “…in Tripolitania resta la famiglia del colonnello; in Cirenaica vanno al governo quelli che i francesi hanno già riconosciuto, e di cui noi sappiamo poco e nulla; mentre nel Fezzan resta la sabbia e le tribù. Il che significa: dalla Tripolitania non becchiamo più nulla, piuttosto vendono tutto ai cinesi; dalla Cirenaica smezziamo con gli altri vincitori, vedendo crescere i francesi, consolidarsi gli inglesi e dimagrire gli italiani; dal Fezzan proviamo a prendere i datteri”. Stiamo facendo la figura dei cretini ma i nostri politici si sentono dei paladini della giustizia e della libertà. Se il problema reale era quello di tutelare i diritti umani in quel Paese costoro avrebbero dovuto chiedersi come mai all’Onu finora nessuno si fosse accorto di nulla. Anzi, questo organismo internazionale aveva descritto la Libia come una poesia e Gheddafi come un sovrano illuminato. Ecco cosa diceva un rapporto ufficiale dell'Onu del gennaio 2011: “In Libia la protezione dei diritti umani è generalmente garantita...ed include non solo i diritti politici ma anche quelli economici sociali e culturali...all'avanguardia nel campo del diritto alla salute e nella legislazione sul lavoro...la Libia ha abolito tutte le leggi discriminatorie...”. E così la frittata è fatta. C’era da aspettarselo, la nostra classe dirigente ha le traveggole quando sta a Roma figurarsi cosa poteva capitarle nel deserto. I miraggi si sono centuplicati ed ha perso ogni cognizione della realtà.
di Gianni Petrosillo

22 marzo 2011

L'internazionalismo del capitale e il localismo del lavoro




crisi economica
"Forse il fallimento più grande il progetto neoliberista l'ha subito sul terreno che gli è più proprio: la crescita economica"

Una domanda si aggira inquieta per le menti d'Europa che pensano alla politica come alla leva della libertà dei popoli e del governo del mondo. Per quali ragioni, il neoliberismo, la travolgente iniziativa capitalistica avviata negli '80 in Gran Bretagna e in USA e diventata pensiero unico planetario, è ancora così vivo e dominante in quasi tutti gli Stati?

Eppure, quella stagione è finita nel fango della più grave crisi degli ultimi 80 anni. Non solo. Essa ha mancato pressoché tutti i suoi obiettivi dichiarati. Non ha creato nuovi posti di lavoro, anzi la disoccupazione è dilagata ben prima del tracollo del 2008, nonostante le imprese abbiano ottenuto dai vari governi nazionali flessibilità e precarietà dei lavoratori mai sperimentate prima.

Alla fine degli anni '90, come ha mostrato un grande esperto del problema, Kevin Bales si potevano contare ben 27 milioni di schiavi diffusi nei vari angoli della terra. E nel 2000 erano al lavoro ben 246 milioni di bambini. Uno scacco alla civiltà umana che non può certo essere compensato dai nuovi ricchi affacciatisi al benessere nei paesi a basso reddito. Ma forse il fallimento più grande il progetto neoliberista l'ha subito sul terreno che gli è più proprio: la crescita economica. Tra il 1979 e il 2000 il tasso medio di crescita annuale del reddito mondiale procapite – come ha mostrato Branco Milanovic – è stato dello 0,9%. Assolutamente imparagonabile al 3% e talora oltre dei periodi precedenti.

E allora? Com'è che a questa generale e inoccultabile sconfitta sul terreno economico non è corrisposta una pari disfatta sul piano politico? Non siamo così meccanicisti da non comprendere la diversità dei piani messi a confronto e la differente temporalità dei fenomeni che si agitano nelle due diverse sfere sociali. Ma la domanda si pone.

lavoro_soldi
"Il lavoro, sempre meno rappresentato sul versante politico e sindacale, è incatenato sul suo territorio, mentre il capitale scorrazza liberamente per il mondo"

Io credo che una prima risposta sia da ricercare in questo esito paradossale: concludendo il suo ciclo nel tracollo economico-finanziario, il neoliberismo ha potuto far tesoro di due esiti politici vantaggiosi. La crisi ha infatti rese acute due gravi scarsità: la scarsità del lavoro e la scarsità di sicurezza. Quest'ultima in parte connessa alla prima.

Tali scarsità pongono la classe operaia e i ceti popolari in una condizione di grave asimmetria di potere e forniscono ai ceti dominanti rapporti di forza e materia di manipolazione ideologica in grado di offuscare le sconfitte subite sul piano economico. Come sempre, bisogno e paura sono diventati due formidabili armi di potere.

Ma questa è una parte della risposta. Alla fine del '900 si è consumata una inversione storica per tanti versi stupefacente. Come ha osservato Mario Tronti, sino ad alcuni decenni fa, il movimento operaio aveva una dimensione internazionale a fronte di un confinamento nazionale del capitale. Con tutti i suoi limiti, l'insieme dei paesi comunisti era anche questo: un fronte internazionale. Oggi assistiamo a un capovolgimento completo dello scenario.

Il lavoro, sempre meno rappresentato sul versante politico e sindacale, è incatenato sul suo territorio, mentre il capitale scorrazza liberamente per il mondo: una libertà di movimento che è un potere politico inedito contro chi ha perso la sua rappresentanza globale. La capacità di ricatto di Marchionne, che può muoversi liberamente tra USA, Brasile, Polonia, Serbia è, sotto tale profilo, esemplare.

Ma forse il più grande successo politico del neoliberismo - quello che gli consente oggi di avere ancora diritto di parola - è stata la sua presa egemomica sui partiti tradizionali della sinistra e il loro svuotamento come partiti popolari. Vogliamo ricordare quali sono state le parole d'ordine prevalenti – fatte salve le diversità nazionali - dei laburisti britannici, dei socialdemocratici tedeschi, dei socialisti francesi, degli ex-comunisti italiani, in tutti questi anni? Liberalizzazioni, privatizzazioni, flessibilità del lavoro, riduzione dello stato sociale, emarginazione del sindacato, ecc.

L'idea che la libertà individuale si dovesse far strada come agente dominante di un nuovo progetto di società, regolato dalle logiche dinamiche e vincenti del mercato, è stato il cuore – tutto di marca neoliberista – che ha sostituito il vecchio patrimonio solidarista e internazionalista. Una resa senza condizioni alle ragioni dell'avversario, che, da un punto di vista culturale, si spiega anche con la tradizione marxista e comunque industrialista della sinistra europea.

soldi mano
L'individualismo economicistico su cui il neoliberismo si fondava è apparso ben presto come l'incarnazione di un comportamento sociale non più sostenibile

L'astrale distanza di queste formazioni storiche dal pensiero ecologico contemporaneo, infatti, ha impedito loro di intravedere un nuovo orizzonte solidale e cosmopolita di fronte alla crisi fiscale dello Stato sociale nei paesi industrializzati e al tracollo dell'URSS. Esaurita la spinta riformatrice dei decenni precedenti, ad essi non è rimasta altra strada, se volevano continuare nella promozione della crescita economica, che quella indicata dall'avversario.

Pur tra esorcizzazioni e camuffamenti, il neoliberismo è stato di fatto accettato come la nuova frontiera da seguire. Ma oggi quella nuova religione della crescita, che apparve negli anni '80 come l 'avanguardia di una nuova stagione di modernizzazione e di avanzamento del mondo intero, si mostra in tutta la sua paradossale e stupefacente antistoricità. Era una retroguardia ottocentesca ed è stata scambiata per il fiore in boccio di una nuova stagione dell'umanità.

L'individualismo economicistico su cui esso si fondava è apparso ben presto come l'incarnazione di un comportamento sociale non più sostenibile, perché generatore, tra l'altro, della più grave minaccia che l'umanità abbia avuto davanti a sé: l'esaurimento delle risorse, il tracollo degli equilibri ambientali, il riscaldamento climatico.

È paradossale, ma ricco di significati, il fatto che i partiti popolari non abbiano saputo cogliere il nuovo orizzonte di cooperazione e di solidarietà che i problemi ambientali rimettevano al centro della scena mentre si eclissavano quelli delle vecchie ideologie socialiste e comuniste. Essi non hanno saputo vedere come la scoperta di una 'Terra finita' e in pericolo, con il corredo delle scienze ecologiche, offrivano un nuovo progetto di società nel quale il bene comune, l'interesse generale, si ripresentava in rinnovate forme universali e drammaticamente cogenti. Un nuovo collante ideologico per una moltitudine di figure e di ceti sociali e al tempo stesso la premessa di un nuovo e più vasto internazionalismo.

Oggi, esattamente il disancoramento dall''internazionalismo del lavoro', eredità del passato, e l'inettitudine a comprendere il nuovo, proposto dall'ambientalismo, fanno dei partiti storici della sinistra delle barche di carta nella tempesta. Senza una meta da seguire, senza energie per affrontare il mare. Nell'immediato, tuttavia, è l'assenza di un internazionalismo del lavoro la debolezza più grave e drammatica.

cgil
"La forza che può assumere l'iniziativa – e che deve farlo urgentemente – è il sindacato: la CGIL"

La mancanza di una lettura delle tendenze profonde del capitalismo contemporaneo impedisce di comprendere le distruzioni in atto nel mondo del lavoro. Non fornisce lo sguardo prospettico su ciò che il capitale va preparando, a tutto il lavoro sociale, grazie alla sua capacità di movimento su scala mondiale. Impedisce di prefigurare la gigantesca dissoluzione dei legami sociali e di classe a cui esso è sempre più vitalmente interessato. Il capitale, infatti, oggi colpisce duramente non perché c'è la crisi, ma per il gigantesco potere politico nel frattempo guadagnato sui lavoratori in una fase di aspra competizione intercapitalistica. E allora, che fare?

Io credo che se il capitale è mobile e planetario, altrettanto può esserlo il diritto, la maglia delle regole imposte dalle lotte, dalla politica: anch'essa, del resto, potenzialmente universale. Ma quale soggetto, per esempio in Italia, può muoversi in tale direzione? Dal PD mi sembra assai difficile poterlo pretendere. Dalle catastrofi culturali non si riemerge in breve tempo e per la buona volontà di qualcuno. Dai piccoli partiti di sinistra può venire solo un piccolo contributo. Senza dubbio, la forza che può assumere l'iniziativa – e che deve farlo urgentemente – è il sindacato: la CGIL.

Ritengo che oggi non sia più possibile rinviare una discussione spregiudicata e coraggiosa su questa importante forza operaia e popolare, che ha certo svolto una funzione fondamentale di difesa dei lavoratori in tutti questi difficili anni. Ma noi dobbiamo oggi chiederci e chiederlo ai dirigenti, come sia stato possibile che uno dei sindacati più potenti d'Europa – e forse il più ricco sotto il profilo patrimoniale - abbia potuto consentire un così drammatico arretramento dei redditi operai.

In un rapporto OCSE 2006-2007 i salari dei lavoratori italiani risultavano al 23° posto dei 30 Paesi dell'Organizzazione. E l'Italia, nella graduatoria, non è certo l'ultimo di questi Paesi. La CGIL, dispone di una geniale organizzazione territoriale, mutuata dal sindacalismo francese: la Camera del Lavoro. Essa raggruppa lavoratori delle varie categorie e svolge vari compiti di patronato e assistenza.

giovani
"Un nuovo cosmopolitismo del lavoro bussa imperiosamente alle porte"

Ma perché in tutti questi anni in cui il lavoro è stato frantumato, separato spesso dal luogo di lavoro, disperso, le Camere del Lavoro non hanno svolto un ruolo di ricomposizione locale, di riaggregazione sindacale e politica? Perché le Camere del Lavoro non si sono estese, disseminate nei quartieri delle città, nei piccoli centri, come nuovi presidi del lavoro sul territorio? Non risulta che la CGIL non avesse le risorse per tali iniziative. Risulta invece che essa vive fondamentalmente e anche bene – benché non esclusivamente – con i soldi dei lavoratori e quindi ha obblighi morali più cogenti.

E inoltre: come è stata possibile, mentre si realizzava l'Europa dell'euro e delle varie istituzioni dell'Unione, una così clamorosa assenza di iniziativa volta alla concertazione europea delle varie organizzazioni da parte di uno dei maggiori sindacati del Continente? Sul piano mondiale, infine, l'inerzia politica è ancora più grave e stupefacente, anche se riguarda indistintamente tutti i sindacati.

È dal 1919 che esiste a Ginevra l'Organizzazione internazionale del Lavoro (OIL). Essa è stata creata ben 25 anni prima del FMI e della Banca Mondiale. L'OIL, frutto delle ambizioni internazionaliste di quell'epoca, doveva vigilare sulle legislazioni del lavoro nei vari paesi del mondo. Ma nell'ultimo mezzo secolo essa è uscita di scena, mentre ha trionfato l'internazionalismo finanziario delle istituzioni di Bretton Woods.

E i sindacati dove erano nel frattempo? Perché non sono stati in grado di seguire l'avanzante internazionalizzazione del capitale? Perché non sono stati capaci di fare di tale organismo, oggi membro dell'ONU, un reale potere mondiale dei lavoratori? Evidentemente, insieme alla forza dell'avversario, è l'inerzia dell'istituzione sindacale che ha giocato un ruolo importante.

Per questo, l'insieme di tali fallimenti oggi rende inevitabile rivolgere alla CGIL una serie di richieste pressanti e precise. Essa deve dotarsi di una strategia volta alla creazione di una rete internazionale del movimento sindacale. Un nuovo cosmopolitismo del lavoro bussa imperiosamente alle porte. Ci sono, in Italia, migliaia di ragazze e ragazzi che a 30 anni hanno girato il mondo, conoscono più lingue, praticano ogni giorno connessioni internazionali su internet.

Da essi deve venire una nuova leva di dirigenti sindacali. Per tale ragione la CGIL avrebbe l'obbligo di avviare al proprio interno un censimento che ridefinisca i compiti di dirigenti, funzionari, impiegati, per cambiare in corsa la sua organizzazione e le sue strategie. Le inerzie del passato non sono più comprensibili, né tollerabili. Questo sindacato non può più vivere nella routine mentre sul mondo del lavoro si abbatte la tempesta.

di Piero Bevilacqua

23 marzo 2011

La crisi libica rivela l'incompetenza della politica europea

Per quanto possa suonare paradossale, il significato strategico della crisi libica è di importanza secondaria rispetto al tema decisivo posto dal pericolo proveniente dalla "Cintura di fuoco" del Pacifico e dalla svolta politica globale dettata dalla mobilitazione economica/scientifica richiesta per fronteggiare quel pericolo.

Per cominciare, la politica dei bombardamenti decisa per iniziativa dell'alleanza anglo-francese finirà con l'aumentare il tasso di caos nella regione. Il Presidente francese Nicolas Sarkozy potrà credersi un piccolo Napoleone, intento a raccogliere i frutti del suo bullismo alle prossime elezioni, ma egli è poco più di una marionetta nel neocoloniale gioco alla "Sykes-Picot" gestito dai britannici. Il gioco britannico mira a "provocare il maggior danno possibile" alla regione, ha commentato LaRouche. Il ruolo USA, sotto l'impulso del Dipartimento di Stato di Hillary Clinton piuttosto che della Casa Bianca di Obama, è apparentemente diverso. Purtuttavia, il modo in cui è stata stilata la risoluzione dell'ONU ed è stato eseguito il confuso mandato alcune ore dopo conferma i timori di LaRouche.

"Il fatto è che non esiste un governo europeo, a questo punto, che abbia una politica competente sull'Africa", ha affermato lo statista americano.

Il caso italiano è esemplare: siamo il principale partner commerciale e acquistiamo un terzo del petrolio e una gran parte del nostro gas naturale dalla Libia. Inizialmente, il governo italiano si è opposto ai bombardamenti, suggerendo un semplice blocco navale. Ma una volta inaugurata la "Coalizione dei volenterosi" al vertice di Parigi, siamo saliti sul tram e abbiamo mandato i Tornado a bombardare il bunker di Gheddafi. E dopo aver perso un terzo delle forniture di petrolio, decidiamo pure di sospendere il piano nucleare. Certo che la follia non ha limiti.

Nell'assenza di una vera politica, che deve includere una prospettiva di sviluppo, il rischio vero è che la Libia diventi una seconda Somalia.

La Germania ha preso una decisione saggia non entrando nella "Coalizione dei volenterosi". In un'intervista al The LaRouche Show, Helga Zepp-LaRouche ha appoggiato la decisione della Merkel, e ha ammonito contro l'aumento di instabilità a seguito dell'intervento militare. Riferendosi al ripreso flusso di migranti verso Lampedusa, Malta e la Grecia, la signora Zepp-LaRouche ha anche appoggiato l'idea di un Piano Marshall per l'Africa proposto da Frattini e Maroni. I britannici sono terrorizzati dal processo di sciopero di massa scatenatosi nelle regioni mediterranea e transatlantica, ha detto, e stanno tentando il loro gioco. Ma invece di giocare sul terreno scelto da loro, dovremmo aggirarli sui fianchi. Il modo per farlo è lanciare un cambiamento della politica globale, e sostituire il sistema monetario con un sistema creditizio per finanziare la ricostruzione economica mondiale.
by Movisol

Miraggi nel deserto

I Francesi sono diventati dei galli da combattimento, gli italiani si comportano come galline disorientate e starnazzanti , le volpi inglesi guaiolano nel deserto ma si adattano all’ambiente, i serpenti americani strisciano lentamente sotto la sabbia, i salmoni norvegesi nuotano controcorrente per tornarsene ai propri fiumi, l’orso russo comincia a bramire dopo i gorgheggi del suo Presidente usignolo. Sul deserto africano piovono razzi ma a disintegrarsi è l’Europa, avanti in ordine sparso in un conflitto che sta diventando un regolamento di conti tra potenze del Vecchio Continente. Sarkozy, va à la guerre per tornare protagonista nel mediterraneo e per fare il macho con Carlà. Difatti, l’anno prossimo ci sono le elezioni e con quel grugno che si ritrova dovesse perderle insieme alla livrea presidenziale verrebbe a cascargli pure il fascino del potere e poi addio mogliettina prelibata. La Francia ha tutto da guadagnare dalla situazione e comunque non aveva nulla da perdere sin dall’inizio. Se il gran colpo dovesse riuscirle gli insorti libici dimostreranno la loro riconoscenza, come già si può percepire dai drapeaux tricolori che sventolano a Bengasi. Gli inglesi sono ugualmente soddisfatti, eccetto per l’eccessivo protagonismo di Parigi, e da un mese, con le loro forze speciali, stanno armando ed addestrando i ribelli per decapitare il dittatore della Sirte. Il nuovo Governo anche con loro sarebbe riconoscente. Gli americani non hanno bisogno di ottenere nulla perché loro la riconoscenza la incutono, sono ancora l’iperpotenza mondiale. A noi italiani invece non ci riconoscerà nessuno, nemmeno se andassimo in giro con una pizza sulla testa e gli spaghetti intorno al collo. Avevamo qualcosa da tutelare in Libia ma appena cesserà il fuoco rimarremo con un pugno di cenere in mano. Comunque vada a finire questa guerra noi italiani siamo fottuti dopo aver intrattenuto relazioni privilegiate ed esclusive in quel paese. Come scrive Davide Giacalone sul suo sito è questo lo scenario che tra breve potrà profilarsi: “…in Tripolitania resta la famiglia del colonnello; in Cirenaica vanno al governo quelli che i francesi hanno già riconosciuto, e di cui noi sappiamo poco e nulla; mentre nel Fezzan resta la sabbia e le tribù. Il che significa: dalla Tripolitania non becchiamo più nulla, piuttosto vendono tutto ai cinesi; dalla Cirenaica smezziamo con gli altri vincitori, vedendo crescere i francesi, consolidarsi gli inglesi e dimagrire gli italiani; dal Fezzan proviamo a prendere i datteri”. Stiamo facendo la figura dei cretini ma i nostri politici si sentono dei paladini della giustizia e della libertà. Se il problema reale era quello di tutelare i diritti umani in quel Paese costoro avrebbero dovuto chiedersi come mai all’Onu finora nessuno si fosse accorto di nulla. Anzi, questo organismo internazionale aveva descritto la Libia come una poesia e Gheddafi come un sovrano illuminato. Ecco cosa diceva un rapporto ufficiale dell'Onu del gennaio 2011: “In Libia la protezione dei diritti umani è generalmente garantita...ed include non solo i diritti politici ma anche quelli economici sociali e culturali...all'avanguardia nel campo del diritto alla salute e nella legislazione sul lavoro...la Libia ha abolito tutte le leggi discriminatorie...”. E così la frittata è fatta. C’era da aspettarselo, la nostra classe dirigente ha le traveggole quando sta a Roma figurarsi cosa poteva capitarle nel deserto. I miraggi si sono centuplicati ed ha perso ogni cognizione della realtà.
di Gianni Petrosillo

22 marzo 2011

L'internazionalismo del capitale e il localismo del lavoro




crisi economica
"Forse il fallimento più grande il progetto neoliberista l'ha subito sul terreno che gli è più proprio: la crescita economica"

Una domanda si aggira inquieta per le menti d'Europa che pensano alla politica come alla leva della libertà dei popoli e del governo del mondo. Per quali ragioni, il neoliberismo, la travolgente iniziativa capitalistica avviata negli '80 in Gran Bretagna e in USA e diventata pensiero unico planetario, è ancora così vivo e dominante in quasi tutti gli Stati?

Eppure, quella stagione è finita nel fango della più grave crisi degli ultimi 80 anni. Non solo. Essa ha mancato pressoché tutti i suoi obiettivi dichiarati. Non ha creato nuovi posti di lavoro, anzi la disoccupazione è dilagata ben prima del tracollo del 2008, nonostante le imprese abbiano ottenuto dai vari governi nazionali flessibilità e precarietà dei lavoratori mai sperimentate prima.

Alla fine degli anni '90, come ha mostrato un grande esperto del problema, Kevin Bales si potevano contare ben 27 milioni di schiavi diffusi nei vari angoli della terra. E nel 2000 erano al lavoro ben 246 milioni di bambini. Uno scacco alla civiltà umana che non può certo essere compensato dai nuovi ricchi affacciatisi al benessere nei paesi a basso reddito. Ma forse il fallimento più grande il progetto neoliberista l'ha subito sul terreno che gli è più proprio: la crescita economica. Tra il 1979 e il 2000 il tasso medio di crescita annuale del reddito mondiale procapite – come ha mostrato Branco Milanovic – è stato dello 0,9%. Assolutamente imparagonabile al 3% e talora oltre dei periodi precedenti.

E allora? Com'è che a questa generale e inoccultabile sconfitta sul terreno economico non è corrisposta una pari disfatta sul piano politico? Non siamo così meccanicisti da non comprendere la diversità dei piani messi a confronto e la differente temporalità dei fenomeni che si agitano nelle due diverse sfere sociali. Ma la domanda si pone.

lavoro_soldi
"Il lavoro, sempre meno rappresentato sul versante politico e sindacale, è incatenato sul suo territorio, mentre il capitale scorrazza liberamente per il mondo"

Io credo che una prima risposta sia da ricercare in questo esito paradossale: concludendo il suo ciclo nel tracollo economico-finanziario, il neoliberismo ha potuto far tesoro di due esiti politici vantaggiosi. La crisi ha infatti rese acute due gravi scarsità: la scarsità del lavoro e la scarsità di sicurezza. Quest'ultima in parte connessa alla prima.

Tali scarsità pongono la classe operaia e i ceti popolari in una condizione di grave asimmetria di potere e forniscono ai ceti dominanti rapporti di forza e materia di manipolazione ideologica in grado di offuscare le sconfitte subite sul piano economico. Come sempre, bisogno e paura sono diventati due formidabili armi di potere.

Ma questa è una parte della risposta. Alla fine del '900 si è consumata una inversione storica per tanti versi stupefacente. Come ha osservato Mario Tronti, sino ad alcuni decenni fa, il movimento operaio aveva una dimensione internazionale a fronte di un confinamento nazionale del capitale. Con tutti i suoi limiti, l'insieme dei paesi comunisti era anche questo: un fronte internazionale. Oggi assistiamo a un capovolgimento completo dello scenario.

Il lavoro, sempre meno rappresentato sul versante politico e sindacale, è incatenato sul suo territorio, mentre il capitale scorrazza liberamente per il mondo: una libertà di movimento che è un potere politico inedito contro chi ha perso la sua rappresentanza globale. La capacità di ricatto di Marchionne, che può muoversi liberamente tra USA, Brasile, Polonia, Serbia è, sotto tale profilo, esemplare.

Ma forse il più grande successo politico del neoliberismo - quello che gli consente oggi di avere ancora diritto di parola - è stata la sua presa egemomica sui partiti tradizionali della sinistra e il loro svuotamento come partiti popolari. Vogliamo ricordare quali sono state le parole d'ordine prevalenti – fatte salve le diversità nazionali - dei laburisti britannici, dei socialdemocratici tedeschi, dei socialisti francesi, degli ex-comunisti italiani, in tutti questi anni? Liberalizzazioni, privatizzazioni, flessibilità del lavoro, riduzione dello stato sociale, emarginazione del sindacato, ecc.

L'idea che la libertà individuale si dovesse far strada come agente dominante di un nuovo progetto di società, regolato dalle logiche dinamiche e vincenti del mercato, è stato il cuore – tutto di marca neoliberista – che ha sostituito il vecchio patrimonio solidarista e internazionalista. Una resa senza condizioni alle ragioni dell'avversario, che, da un punto di vista culturale, si spiega anche con la tradizione marxista e comunque industrialista della sinistra europea.

soldi mano
L'individualismo economicistico su cui il neoliberismo si fondava è apparso ben presto come l'incarnazione di un comportamento sociale non più sostenibile

L'astrale distanza di queste formazioni storiche dal pensiero ecologico contemporaneo, infatti, ha impedito loro di intravedere un nuovo orizzonte solidale e cosmopolita di fronte alla crisi fiscale dello Stato sociale nei paesi industrializzati e al tracollo dell'URSS. Esaurita la spinta riformatrice dei decenni precedenti, ad essi non è rimasta altra strada, se volevano continuare nella promozione della crescita economica, che quella indicata dall'avversario.

Pur tra esorcizzazioni e camuffamenti, il neoliberismo è stato di fatto accettato come la nuova frontiera da seguire. Ma oggi quella nuova religione della crescita, che apparve negli anni '80 come l 'avanguardia di una nuova stagione di modernizzazione e di avanzamento del mondo intero, si mostra in tutta la sua paradossale e stupefacente antistoricità. Era una retroguardia ottocentesca ed è stata scambiata per il fiore in boccio di una nuova stagione dell'umanità.

L'individualismo economicistico su cui esso si fondava è apparso ben presto come l'incarnazione di un comportamento sociale non più sostenibile, perché generatore, tra l'altro, della più grave minaccia che l'umanità abbia avuto davanti a sé: l'esaurimento delle risorse, il tracollo degli equilibri ambientali, il riscaldamento climatico.

È paradossale, ma ricco di significati, il fatto che i partiti popolari non abbiano saputo cogliere il nuovo orizzonte di cooperazione e di solidarietà che i problemi ambientali rimettevano al centro della scena mentre si eclissavano quelli delle vecchie ideologie socialiste e comuniste. Essi non hanno saputo vedere come la scoperta di una 'Terra finita' e in pericolo, con il corredo delle scienze ecologiche, offrivano un nuovo progetto di società nel quale il bene comune, l'interesse generale, si ripresentava in rinnovate forme universali e drammaticamente cogenti. Un nuovo collante ideologico per una moltitudine di figure e di ceti sociali e al tempo stesso la premessa di un nuovo e più vasto internazionalismo.

Oggi, esattamente il disancoramento dall''internazionalismo del lavoro', eredità del passato, e l'inettitudine a comprendere il nuovo, proposto dall'ambientalismo, fanno dei partiti storici della sinistra delle barche di carta nella tempesta. Senza una meta da seguire, senza energie per affrontare il mare. Nell'immediato, tuttavia, è l'assenza di un internazionalismo del lavoro la debolezza più grave e drammatica.

cgil
"La forza che può assumere l'iniziativa – e che deve farlo urgentemente – è il sindacato: la CGIL"

La mancanza di una lettura delle tendenze profonde del capitalismo contemporaneo impedisce di comprendere le distruzioni in atto nel mondo del lavoro. Non fornisce lo sguardo prospettico su ciò che il capitale va preparando, a tutto il lavoro sociale, grazie alla sua capacità di movimento su scala mondiale. Impedisce di prefigurare la gigantesca dissoluzione dei legami sociali e di classe a cui esso è sempre più vitalmente interessato. Il capitale, infatti, oggi colpisce duramente non perché c'è la crisi, ma per il gigantesco potere politico nel frattempo guadagnato sui lavoratori in una fase di aspra competizione intercapitalistica. E allora, che fare?

Io credo che se il capitale è mobile e planetario, altrettanto può esserlo il diritto, la maglia delle regole imposte dalle lotte, dalla politica: anch'essa, del resto, potenzialmente universale. Ma quale soggetto, per esempio in Italia, può muoversi in tale direzione? Dal PD mi sembra assai difficile poterlo pretendere. Dalle catastrofi culturali non si riemerge in breve tempo e per la buona volontà di qualcuno. Dai piccoli partiti di sinistra può venire solo un piccolo contributo. Senza dubbio, la forza che può assumere l'iniziativa – e che deve farlo urgentemente – è il sindacato: la CGIL.

Ritengo che oggi non sia più possibile rinviare una discussione spregiudicata e coraggiosa su questa importante forza operaia e popolare, che ha certo svolto una funzione fondamentale di difesa dei lavoratori in tutti questi difficili anni. Ma noi dobbiamo oggi chiederci e chiederlo ai dirigenti, come sia stato possibile che uno dei sindacati più potenti d'Europa – e forse il più ricco sotto il profilo patrimoniale - abbia potuto consentire un così drammatico arretramento dei redditi operai.

In un rapporto OCSE 2006-2007 i salari dei lavoratori italiani risultavano al 23° posto dei 30 Paesi dell'Organizzazione. E l'Italia, nella graduatoria, non è certo l'ultimo di questi Paesi. La CGIL, dispone di una geniale organizzazione territoriale, mutuata dal sindacalismo francese: la Camera del Lavoro. Essa raggruppa lavoratori delle varie categorie e svolge vari compiti di patronato e assistenza.

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"Un nuovo cosmopolitismo del lavoro bussa imperiosamente alle porte"

Ma perché in tutti questi anni in cui il lavoro è stato frantumato, separato spesso dal luogo di lavoro, disperso, le Camere del Lavoro non hanno svolto un ruolo di ricomposizione locale, di riaggregazione sindacale e politica? Perché le Camere del Lavoro non si sono estese, disseminate nei quartieri delle città, nei piccoli centri, come nuovi presidi del lavoro sul territorio? Non risulta che la CGIL non avesse le risorse per tali iniziative. Risulta invece che essa vive fondamentalmente e anche bene – benché non esclusivamente – con i soldi dei lavoratori e quindi ha obblighi morali più cogenti.

E inoltre: come è stata possibile, mentre si realizzava l'Europa dell'euro e delle varie istituzioni dell'Unione, una così clamorosa assenza di iniziativa volta alla concertazione europea delle varie organizzazioni da parte di uno dei maggiori sindacati del Continente? Sul piano mondiale, infine, l'inerzia politica è ancora più grave e stupefacente, anche se riguarda indistintamente tutti i sindacati.

È dal 1919 che esiste a Ginevra l'Organizzazione internazionale del Lavoro (OIL). Essa è stata creata ben 25 anni prima del FMI e della Banca Mondiale. L'OIL, frutto delle ambizioni internazionaliste di quell'epoca, doveva vigilare sulle legislazioni del lavoro nei vari paesi del mondo. Ma nell'ultimo mezzo secolo essa è uscita di scena, mentre ha trionfato l'internazionalismo finanziario delle istituzioni di Bretton Woods.

E i sindacati dove erano nel frattempo? Perché non sono stati in grado di seguire l'avanzante internazionalizzazione del capitale? Perché non sono stati capaci di fare di tale organismo, oggi membro dell'ONU, un reale potere mondiale dei lavoratori? Evidentemente, insieme alla forza dell'avversario, è l'inerzia dell'istituzione sindacale che ha giocato un ruolo importante.

Per questo, l'insieme di tali fallimenti oggi rende inevitabile rivolgere alla CGIL una serie di richieste pressanti e precise. Essa deve dotarsi di una strategia volta alla creazione di una rete internazionale del movimento sindacale. Un nuovo cosmopolitismo del lavoro bussa imperiosamente alle porte. Ci sono, in Italia, migliaia di ragazze e ragazzi che a 30 anni hanno girato il mondo, conoscono più lingue, praticano ogni giorno connessioni internazionali su internet.

Da essi deve venire una nuova leva di dirigenti sindacali. Per tale ragione la CGIL avrebbe l'obbligo di avviare al proprio interno un censimento che ridefinisca i compiti di dirigenti, funzionari, impiegati, per cambiare in corsa la sua organizzazione e le sue strategie. Le inerzie del passato non sono più comprensibili, né tollerabili. Questo sindacato non può più vivere nella routine mentre sul mondo del lavoro si abbatte la tempesta.

di Piero Bevilacqua