23 aprile 2011

Il debito che strozza l'Italia






La finanza pubblica ha ormai assunto un peso straordinario per tutti i governi europei. È oramai di gran lunga la sfida politica più difficile e lo dimostrano le continue manifestazioni contro i governi di tutta Europa contro i tagli alla spesa, decisi per risanare debiti pubblici oramai fuori controllo. Dopo la Grecia e l’Irlanda anche in Portogallo ormai la crisi è acclarata, con il piano da 75 miliardi di aiuti europei pronto a scattare non appena sia necessario. Ma anche per l'Italia le cose si stanno complicando: si capirà presto quanto sarà pesante il risanamento imposto dalle nuove regole europee approvato nel vertice del 25 marzo 2011.

Per la prima volta dal 1992, da quando cioè esiste il Patto di Stabilità, gli Stati membri dell'Unione si sono impegnati seriamente a ridurre il debito pubblico e non più soltanto a contenere il rapporto deficit/Pil. Donde il ruolo sempre più determinante del Dipartimento del Tesoro. È questa, infatti, la struttura che gestisce le emissioni di titoli di debito e che ha un compito decisivo: assicurare che ci siano sempre compratori per BoT (Buoni ordinari del Tesoro) e Btp (Buoni del Tesoro Pluriennali), ridurre al minimo il costo dei finanziamenti per lo Stato ed evitare che gli investitori si facciano spaventare da un indebitamento oramai arrivato vicino ai 1800 miliardi di euro.

La strategia difensiva elaborata in questi anni dalla dott.ssa Maria Cannata, direttore del Dipartimento del Tesoro, viene dunque messa alla prova da un nuovo contesto: grande attenzione sul debito pubblico da parte dei mercati febbricitanti per i recenti avvenimenti dell’area euro e tassi di interesse in crescita. Appena due giorni fa, infatti, dalle parole si è passati ai fatti con la BCE che, rompendo gli indugi, ha alzando di 0,25 punti i tassi d’interesse ufficiali dell'eurozona, dove il principale riferimento sul costo del denaro sale così all'1,25 per cento. Una manovra attesa dai mercati e che la stessa istituzione aveva lasciato presagire, nella necessità di contrastare le accelerazioni dell'inflazione innescate dai rincari del petrolio.

Ragionamenti un po’ astratti per la famiglie italiane, che vedranno ulteriormente aumentare le spese a fine mese. Il rialzo dei tassi deciso dalla Bce produrrà infatti una stangata per le famiglie italiane che stanno pagando un mutuo a tasso variabile mediamente pari a 204 euro all’anno, cioè 17 euro al mese.

Il calcolo è del Codacons, secondo cui “l’aumento del tasso di riferimento e il conseguente aumento del costo dei mutui metterà in difficoltà con il pagamento delle rate almeno 30.000 famiglie che attualmente riescono a onorare ancora i loro debiti. E’ la fine di un periodo positivo per le famiglie che avevano contratto mutui a tasso variabile”. Per il Codacons, si tratta di “una misura che la Bce è stata costretta a prendere per colpa dei governi europei che non hanno preso misure antinflazionistiche di politica fiscale, demandando alla sola politica monetaria il controllo dei prezzi”. Quindi nulla di buono.

Ma se il debito delle famiglie si fa sempre più precario, è quello dello Stato che rappresenta la vera ossessione dei nostri governanti. "Gli operatori di tutto il mondo hanno verificato che non è mai venuta meno la volontà dello Stato di tenere sotto controllo il debito pubblico, anche nei frangenti più difficili", assicurava pochi mesi fa la dott.ssa Cannata in un'intervista. Mentre il Ministro Giulio Tremonti predicava ottimismo cercando di convincere l'Europa che la ricchezza privata degli italiani è una protezione sufficiente dall'alto debito pubblico, la Dottoressa Cannataa, matematica cinquantasettenne con un passato all'Istat, usava argomenti decisamente più persuasivi e pragmatici per rassicurare i mercati.

Come quelle famiglie prudenti che preferiscono il rassicurante mutuo a tasso fisso rispetto al pericoloso fascino della rata variabile, la Cannata ha allungato le scadenze dei nostri titoli pubblici, pagando quindi un sovrapprezzo (va da sé: più dura il prestito, più si paga d’interessi) ma evitando all'Italia gli psicodrammi di Spagna e Portogallo che si trovano a dover piazzare miliardi di euro sempre con il terrore della bancarotta.

"Abbiamo da anni la tendenza ad allungare la scadenza, attualmente di sette anni, e cerchiamo di allungarla ancora un po' approfittando degli attuali tassi estremamente bassi", spiegava a novembre ad Affari & Finanza. Che la finanza pubblica sia ormai argomento centrale nell’agenda politica lo si può anche dedurre dalle esternazioni del nostro infaticabile uomo della Provvidenza. Ad ogni conferenza stampa, infatti, il premier Silvio Berlusconi ha preso l'abitudine di parlare del peso del debito che vincola ogni politica economica, a cominciare dalla famosa "frustata" alla crescita di cui, a poco più di un mese dall'annuncio, si sono già perse le tracce.

Lontano dai riflettori, invece, il Dipartimento del Tesoro della Cannata ha quantificato il vincolo del debito alla fine di marzo con il programma di emissioni del secondo trimestre 2011: soltanto nel mese di aprile verranno offerti agli investitori titoli per 28 miliardi di euro, in tre diverse aste. Entro fine anno saranno scaduti - e dunque sostituiti da nuove emissioni - oltre 150 miliardi di euro.

A fine anno il Sole 24 Ore promuoveva con queste parole la gestione Cannata: "Assecondando realisticamente l'aumento dei rendimenti imposti negli scambi sul mercato secondario (il luogo dove sono trattati i titoli già in circolazione, che vi rimangono fino alla loro eventuale scadenza ndr) senza strapagare, è in grado di portare a casa la raccolta di fondi programmata anche in condizioni di mercato molto avverse". Insomma una che ci sa fare. Resta da capire se questo sarà abbastanza, visto che il messaggio del Consiglio Europeo di fine marzo è arrivato chiaro Tremonti: i paesi ad alto debito devono cominciare subito a ridurlo, anche oltre lo 0,5% annuo previsto dalle nuove regole.

Se il Ministro non manterrà gli impegni e la crescita non sarà all'altezza delle ottimistiche previsioni - un 2% di crescita annua dal 2012, condizione mai verificatasi neanche nell'Italia pre-crisi 2008 - il lavoro della Cannata non sarà più sufficiente a proteggere l'Italia. E per quel momento c'è da giurare che neanche i presunti e annunciati miracoli di Papi potranno evitare l'inevitabile.

di Ilvio Pannullo

22 aprile 2011

Caso Parmalat, assolte le banche:ma chi sono i padroni?

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Con un’assoluzione, che definire miracolosa è un eufemismo, per tutti i banchieri imputati per aggiotaggio, addirittura con formula piena “per non aver commesso il fatto” o perché “il fatto non sussiste”, si è concluso lo scorso 18 aprile al Tribunale di Milano il processo in merito al collocamento dei titoli obbligazionari Parmalat che hanno ridotto sul lastrico decine di migliaia di piccoli risparmiatori. Anche i difensori delle banche estere Bank of America, Citigroup, Deutsche Bank e Morgan Stanley, e dei loro funzionari, sono rimasti felicemente increduli di tanta magnanimità della giustizia italiana. Insomma, non c’è stata alcuna truffa nei confronti delle malcapitate famiglie italiane. I PM della Procura milanese dovranno meditare parecchio su questa sconfitta, poiché la «vecchia» legge n. 231, non ancora modificata, grazie anche alla loro campagna contro la revisione di tale normativa, si è rivelata non infallibile nel perseguire i reati nei confronti dei propri clienti di cui sono chiamate a rispondere le banche. Del resto se c’è stato chi perlomeno non ha ostacolato, se non proprio favorito, l’ennesima diffusione di titoli “spazzatura”, c’è stato sicuramente a livello internazionale chi ha tratto ingenti profitti dalla vicenda coinvolgente Callisto Tanzi. Le sentenze vanno rispettate, per quanto considerate inique e sgradite, come accade nelle guerre: chi vince ha ragione, scrive la storia e guai ai vinti! Ma in questo caso occorre chiedersi come i Giudici di Milano siano potuti arrivare a una tale decisione: o la norma di legge non è sufficientemente adeguata a proteggere i (comuni) cittadini, oppure le indagini sono state (volutamente?) insufficienti e insabbiate sul più bello, come se non si dovesse giungere a intaccare gli interessi dei “veri” padroni del vapore. Ad ogni modo, gli avvocati delle banche sono riusciti a dimostrare, districandosi nei bizantinismi della legislazione italiana, di aver rispettato la medesima e i regolamenti collegati. Qualcosa sicuramente non va: mentre un onesto e umile cittadino è spesso annichilito e umiliato di fronte all’arroganza della pubblica amministrazione e del potere giudiziario, quest’ultimi si dimostrano timidi e remissivi nei confronti di quei poteri forti, di cui le multinazionali finanziarie sono la suprema espressione. Cosa sarebbe accaduto negli USA o nel Regno Unito, vista la severità in tali paesi nei confronti dei reati finanziari? C’è da ritenere che lor signori difficilmente sarebbero riusciti a farla franca. Non è comunque un messaggio confortante nei confronti della gente che lavora onestamente dalla mattina alla sera per assicurare un futuro sereno per se e i propri figli, alla faccia del tanto sbandierato “Codice etico” delle banche e dell’intesa “Basilea 2”. Quale fiducia potranno continuare ad avere risparmiatori, investitori economici e padri di famiglia o imprenditori che accedono al credito? Non è certo un bel viatico per la ripresa dello sviluppo economico e della competitività del Bel Paese. E l’alzata di scudi di Berlusconi negli ultimi anni contro la Procura di Milano, fra spostamento delle sedi processuali, proposta di improcessabilità per le alte cariche dello Stato e prescrizione breve, sembra mirata essenzialmente a difendere nient’altro che i propri interessi e il proprio status, piuttosto che quelli degli Italiani continuamente vessati. Dall’altra parte, Bersani e compagni, impegnati prioritariamente nella mera demonizzazione dell’avversario, dimostrano di essere inermi, quando non conniventi, nei confronti di “certi poteri” da non toccare, pena la rottura di certi delicati equilibri in cui la politica è succube della speculazione finanziaria. Ciò conferma, se ancora ce ne fosse bisogno, che nella globalizzazione dei mercati i “veri” padroni del vapore sono altri e salvano sempre la corteccia; il segnale allarmante di un sistema malato e marcio fino alle radici è già da molto arrivato: ora una presa di coscienza generale, facendo leva sulle forze sane, è più che mai necessaria finché si è ancora in tempo.

di Roberto Bevilacqua

21 aprile 2011

Privatizzazioni: lo scambio tra rendite politiche e rendite finanziarie



Ho iniziato a occuparmi di privatizzazioni venti anni fa, nel paese dove sono state inventate, la Gran Bretagna di Margaret Thatcher e John Mayor. Stavo trascorrendo un triennio di studio alla London School of Economics, per una ricerca sull’analisi costi-benefici degli investimenti pubblici, proprio mentre l’intervento pubblico veniva visibilmente smantellato dai governi conservatori. Nel giro di pochi anni passavano ai privati, generalmente attraverso collocamento in borsa, elettricità, acqua, gas, telecomunicazioni, ferrovie, autobus, porti, aeroporti, linee aeree, miniere, e molto altro

Ho raccolto in un libro (Privatizzazioni e interesse. Il caso britannico) i risultati della mia analisi critica di quella esperienza. Ho cercato di dimostrare che (a) i cittadini in genere hanno guadagnato poco o nulla dalle privatizzazioni, (b) le fasce di utenti più povere hanno pagato prezzi più alti, (c) i contribuenti ci hanno rimesso perché lo stato ha venduto a prezzi troppo bassi e in vari casi ha perso entrate, (d) la produttività delle imprese non è aumentata significativamente, (e) i maggiori beneficiari sono stati gli azionisti, gli intermediari finanziari, i consulenti (in una parola la City).

Mi sono anche occupato di privatizzazioni in Italia, in dieci edizioni del Rapporto sulla Finanza Pubblica e in altri interventi (tra i quali La sinistra e il fascino concreto delle privatizzazioni). La mia lettura del caso italiano è che le cose qui sono andate anche peggio che in Gran Bretagna. Sia i governi di centro-sinistra che quelli di centro-destra hanno cercato di fare cassa vendendo soprattutto banche, telecomunicazioni, autostrade, aziende del settore dell’energia, anche altro, ma con effetti del tutto irrilevanti o modesti sul piano dell’efficienza e del benessere degli utenti, e invece distribuendo rendite ad ambienti capitalistici più o meno parassitari. Mi sono convinto, soprattutto studiando il caso Telecom Italia (in I ritorni paralleli di Telecom Italia), che la vera origine delle privatizzazioni non sia il liberismo, anche se ovviamente i miti della libera concorrenza hanno avuto un peso nella retorica, ma uno scambio fra rendite politiche e finanziarie. La tesi che ho sostenuto (in Le privatizzazioni come mito riformista) è che in particolare la sinistra, oltre più ovviamente la destra, abbia cercato di accreditarsi presso i gestori della finanza offrendo loro in pasto delle attività perfette per montarvi operazioni speculative, garantite dalla dinamica nel tempo dei flussi di cassa. Il caso delle autostrade è in questo senso emblematico. Il rischio imprenditoriale è nullo, la rendita garantita, gli investimenti attuati minimi e neppure rispettati, le tariffe aumentano con e più dell’inflazione, il contribuente continua a farsi carico della spesa per la rete in aree meno ricche e più a rischio (vedi autostrada Salerno-Reggio Calabria e grande viabilità interregionale), mentre un ambiente imprenditoriale come quello dei Benetton e altri sono diventati dei concessionari, con tutto quello che questo implica di rapporti con la politica. In tutti i settori privatizzati le spese di ricerca e sviluppo sono diminuite, indebolendo il potenziale tecnologico.

Un buon esempio di dove si possa arrivare nello scambio di rendite politiche e finanziarie si ha in Russia, di cui pure mi sono occupato in occasione della crisi finanziaria del 1997 (in Economists, Privatization in Russia, and the Warning of the Washington Consensus). Più recentemente mi sono occupato della dimensione europea delle liberalizzazioni e privatizzazioni (ne L’esperienza delle privatizzazioni), in particolare di elettricità, gas, telefonia, giungendo a queste conclusioni per i quindici stati dell’Unione Europea prima dell’allargamento nel 2004: (a) soprattutto per l’elettricità le privatizzazioni hanno comportato aumenti dei prezzi per i consumatori; (b) la separazione delle reti dalla gestione (vedi Terna, Snam Rete Gas, ecc.) è spesso costosa e senza chiari vantaggi per la concorrenza; (c) l’introduzione della concorrenza peraltro ha mitigato ma non rovesciato in benefici mezzi questi effetti avversi; (d) indagini ufficiali dell’UE, come quelle di Eurobarometro, mostrano che i consumatori si dichiarano più soddisfatti nei paesi che hanno adottato meno le privatizzazioni; (e) dove c’è stata più privatizzazione è aumentato il numero di famiglie in difficoltà nel pagare le bollette.

Verso dove andiamo? Sono convinto, anche osservando l’esperienza degli Stati Uniti, che l’appetito illimitato del capitalismo finanziario, quindi il suo immettere nel gioco sempre nuove scommesse, condurrà alla privatizzazione dello stesso stato sociale, cioè sanità, istruzione, previdenza e persino assistenza; e forse anche di alcune funzioni classiche dello stato come difesa, ordine pubblico e giustizia. In altre parole lo scenario è quello dello “stato minimo”.

Le ragioni di questa tendenza, di nuovo, non hanno molto a che vedere con efficienza e competizione. Non esiste alcuna evidenza empirica che possa sostenere che in generale la gestione privata di ospedali, consultori, asili nido, scuole, università, pensioni, ecc. consenta abbattimenti di costi. Dove li si osserva sono dovuti, in generale, a riduzioni reali di stipendio dei dipendenti o a condizioni di lavoro peggiori, spesso con abbassamento conseguente della qualità delle prestazioni, oppure al ricorso a personale immigrato.

Ovviamente, nel settore pubblico, ad esempio nelle università, si annidano aree anche ampie di parassitismo sociale: ma sarebbe molto meno costoso, e quindi più produttivo, motivare i dirigenti e sensibilizzare gli utenti dei servizi pubblici, eliminando così questa patologia attraverso un maggiore controllo democratico e un management di qualità. Viceversa, quello che ci attende è una tendenza a creare una “industria” della sanità, dell’educazione, della pensione complementare. Negli USA questi settori sono ben presenti in borsa o in altri circuiti finanziari, spremono alte rendite dagli utenti grazie al fatto che comunque, nonostante le apparenze, operano in mercati non competitivi, e soprattutto costituiscono formidabili lobby in grado di impedire, ad esempio, ad Obama di riformare efficacemente la disastrosa sanità statunitense.

Una volta che si creano gruppi che controllano i flussi di cassa derivanti dal controllo dell’energia, dell’acqua, della sanità, della previdenza, ecc., la stessa democrazia come la abbiamo conosciuta in Europa nella seconda metà del 900 è a rischio. La capacità dei gruppi finanziari che controllano gli ex servizi pubblici di influire sui governi e sulle stesse opposizioni parlamentari diviene così formidabile che, di fatto, diventa impossibile tornare alla gestione pubblica. Semplicemente diventa più facile comprare i governi, i parlamentari, i giornalisti, gli economisti, e il dissenso viene emarginato.

Il vero rischio delle privatizzazioni perciò non è la relativamente piccola perdita di benessere sociale (ma non trascurabile per i gruppi in fondo alla scala sociale), caso per caso, industria per industria, ma il rischio politico-economico per il sistema nel suo insieme. Questo aspetto è stato colto nell'ultimo scritto di Tony Judt, uno storico della New York University, recentemente scomparso. “Come nel diciottesimo secolo”, egli scrive, “così oggi: svuotando lo stato delle sue responsabilità e risorse, ne abbiamo ridimensionato la centralità nella vita pubblica. Ne risultano ‘comunità fortezza’, intese nelle varie accezioni dei termini: settori della società che considerano se stessi fondamentalmente indipendenti dai funzionari pubblici e dal resto della società. Se ci si abitua a trattare unicamente o principalmente con agenzie private, nel tempo la relazione con il settore pubblico perde di cogenza e significato. Non importa che il privato faccia le stesse cose, meglio o peggio, a un costo maggiore o minore. In ogni caso, si finisce per perdere il senso di fedeltà alle istituzioni e di comunanza con gli altri cittadini”.

E’ un processo ben descritto da Margaret Thatcher in persona. “La società non esiste affatto”, ella scrive: “esistono solo individui, uomini e donne, e famiglie”. Se non esiste la società, ma solo gli individui e uno stato che agisce da “guardiano notturno” (supervisionando da lontano attività alle quali non prende parte) che cosa ci tiene, e ci terrà, insieme? Abbiamo già accettato la formazione di polizie private, di servizi di posta privati, di agenzie private fornitrici dello stato in tempo di guerra e molto altro ancora. Abbiamo “privatizzato” esattamente quelle responsabilità che lo stato moderno aveva laboriosamente riunito sotto la propria cura nel corso del diciannovesimo e del ventesimo secolo, afferma sempre Judt.

La mia lettura di ciò che sta accadendo è quella di un rischio per la coesione sociale e per la qualità della democrazia. E’ questo l’effetto generale della distruzione del faticoso compromesso raggiunto in Europa dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale fra la tendenza instabile e potenzialmente sempre autodistruttiva del capitalismo e un modo di produzione statale, che, con tutti i suoi limiti, sottrae una parte della società alle febbri speculative. In questo senso, il compromesso “socialdemocratico” europeo, il “modello sociale europeo” e la stessa costruzione dell’UE, nonostante ovviamente non siano un’alternativa al capitalismo, sono l’unica eccezione rimasta in campo al dilagare della finanza globale. Ed è un’eccezione oramai vicina ad essere travolta, anche per la fondamentale incomprensione di buona parte della sinistra europea dei processi in atto (quando non si tratta piuttosto di corruzione più o meno mascherata dei partiti e dei sindacati “riformisti”).

Dunque la mia lettura della recente crisi globale (in Antologia della crisi globale) pone la questione della modifica strutturale dei rapporti di forza fra lavoro e capitale al centro della spiegazione di ciò che sta accadendo, e che trova nelle liberalizzazioni e privatizzazioni un elemento costitutivo. Solo una soggettività politica molto determinata potrebbe a questo punto invertire il processo.

di Massimo Florio - 20/04/2011

23 aprile 2011

Il debito che strozza l'Italia






La finanza pubblica ha ormai assunto un peso straordinario per tutti i governi europei. È oramai di gran lunga la sfida politica più difficile e lo dimostrano le continue manifestazioni contro i governi di tutta Europa contro i tagli alla spesa, decisi per risanare debiti pubblici oramai fuori controllo. Dopo la Grecia e l’Irlanda anche in Portogallo ormai la crisi è acclarata, con il piano da 75 miliardi di aiuti europei pronto a scattare non appena sia necessario. Ma anche per l'Italia le cose si stanno complicando: si capirà presto quanto sarà pesante il risanamento imposto dalle nuove regole europee approvato nel vertice del 25 marzo 2011.

Per la prima volta dal 1992, da quando cioè esiste il Patto di Stabilità, gli Stati membri dell'Unione si sono impegnati seriamente a ridurre il debito pubblico e non più soltanto a contenere il rapporto deficit/Pil. Donde il ruolo sempre più determinante del Dipartimento del Tesoro. È questa, infatti, la struttura che gestisce le emissioni di titoli di debito e che ha un compito decisivo: assicurare che ci siano sempre compratori per BoT (Buoni ordinari del Tesoro) e Btp (Buoni del Tesoro Pluriennali), ridurre al minimo il costo dei finanziamenti per lo Stato ed evitare che gli investitori si facciano spaventare da un indebitamento oramai arrivato vicino ai 1800 miliardi di euro.

La strategia difensiva elaborata in questi anni dalla dott.ssa Maria Cannata, direttore del Dipartimento del Tesoro, viene dunque messa alla prova da un nuovo contesto: grande attenzione sul debito pubblico da parte dei mercati febbricitanti per i recenti avvenimenti dell’area euro e tassi di interesse in crescita. Appena due giorni fa, infatti, dalle parole si è passati ai fatti con la BCE che, rompendo gli indugi, ha alzando di 0,25 punti i tassi d’interesse ufficiali dell'eurozona, dove il principale riferimento sul costo del denaro sale così all'1,25 per cento. Una manovra attesa dai mercati e che la stessa istituzione aveva lasciato presagire, nella necessità di contrastare le accelerazioni dell'inflazione innescate dai rincari del petrolio.

Ragionamenti un po’ astratti per la famiglie italiane, che vedranno ulteriormente aumentare le spese a fine mese. Il rialzo dei tassi deciso dalla Bce produrrà infatti una stangata per le famiglie italiane che stanno pagando un mutuo a tasso variabile mediamente pari a 204 euro all’anno, cioè 17 euro al mese.

Il calcolo è del Codacons, secondo cui “l’aumento del tasso di riferimento e il conseguente aumento del costo dei mutui metterà in difficoltà con il pagamento delle rate almeno 30.000 famiglie che attualmente riescono a onorare ancora i loro debiti. E’ la fine di un periodo positivo per le famiglie che avevano contratto mutui a tasso variabile”. Per il Codacons, si tratta di “una misura che la Bce è stata costretta a prendere per colpa dei governi europei che non hanno preso misure antinflazionistiche di politica fiscale, demandando alla sola politica monetaria il controllo dei prezzi”. Quindi nulla di buono.

Ma se il debito delle famiglie si fa sempre più precario, è quello dello Stato che rappresenta la vera ossessione dei nostri governanti. "Gli operatori di tutto il mondo hanno verificato che non è mai venuta meno la volontà dello Stato di tenere sotto controllo il debito pubblico, anche nei frangenti più difficili", assicurava pochi mesi fa la dott.ssa Cannata in un'intervista. Mentre il Ministro Giulio Tremonti predicava ottimismo cercando di convincere l'Europa che la ricchezza privata degli italiani è una protezione sufficiente dall'alto debito pubblico, la Dottoressa Cannataa, matematica cinquantasettenne con un passato all'Istat, usava argomenti decisamente più persuasivi e pragmatici per rassicurare i mercati.

Come quelle famiglie prudenti che preferiscono il rassicurante mutuo a tasso fisso rispetto al pericoloso fascino della rata variabile, la Cannata ha allungato le scadenze dei nostri titoli pubblici, pagando quindi un sovrapprezzo (va da sé: più dura il prestito, più si paga d’interessi) ma evitando all'Italia gli psicodrammi di Spagna e Portogallo che si trovano a dover piazzare miliardi di euro sempre con il terrore della bancarotta.

"Abbiamo da anni la tendenza ad allungare la scadenza, attualmente di sette anni, e cerchiamo di allungarla ancora un po' approfittando degli attuali tassi estremamente bassi", spiegava a novembre ad Affari & Finanza. Che la finanza pubblica sia ormai argomento centrale nell’agenda politica lo si può anche dedurre dalle esternazioni del nostro infaticabile uomo della Provvidenza. Ad ogni conferenza stampa, infatti, il premier Silvio Berlusconi ha preso l'abitudine di parlare del peso del debito che vincola ogni politica economica, a cominciare dalla famosa "frustata" alla crescita di cui, a poco più di un mese dall'annuncio, si sono già perse le tracce.

Lontano dai riflettori, invece, il Dipartimento del Tesoro della Cannata ha quantificato il vincolo del debito alla fine di marzo con il programma di emissioni del secondo trimestre 2011: soltanto nel mese di aprile verranno offerti agli investitori titoli per 28 miliardi di euro, in tre diverse aste. Entro fine anno saranno scaduti - e dunque sostituiti da nuove emissioni - oltre 150 miliardi di euro.

A fine anno il Sole 24 Ore promuoveva con queste parole la gestione Cannata: "Assecondando realisticamente l'aumento dei rendimenti imposti negli scambi sul mercato secondario (il luogo dove sono trattati i titoli già in circolazione, che vi rimangono fino alla loro eventuale scadenza ndr) senza strapagare, è in grado di portare a casa la raccolta di fondi programmata anche in condizioni di mercato molto avverse". Insomma una che ci sa fare. Resta da capire se questo sarà abbastanza, visto che il messaggio del Consiglio Europeo di fine marzo è arrivato chiaro Tremonti: i paesi ad alto debito devono cominciare subito a ridurlo, anche oltre lo 0,5% annuo previsto dalle nuove regole.

Se il Ministro non manterrà gli impegni e la crescita non sarà all'altezza delle ottimistiche previsioni - un 2% di crescita annua dal 2012, condizione mai verificatasi neanche nell'Italia pre-crisi 2008 - il lavoro della Cannata non sarà più sufficiente a proteggere l'Italia. E per quel momento c'è da giurare che neanche i presunti e annunciati miracoli di Papi potranno evitare l'inevitabile.

di Ilvio Pannullo

22 aprile 2011

Caso Parmalat, assolte le banche:ma chi sono i padroni?

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Con un’assoluzione, che definire miracolosa è un eufemismo, per tutti i banchieri imputati per aggiotaggio, addirittura con formula piena “per non aver commesso il fatto” o perché “il fatto non sussiste”, si è concluso lo scorso 18 aprile al Tribunale di Milano il processo in merito al collocamento dei titoli obbligazionari Parmalat che hanno ridotto sul lastrico decine di migliaia di piccoli risparmiatori. Anche i difensori delle banche estere Bank of America, Citigroup, Deutsche Bank e Morgan Stanley, e dei loro funzionari, sono rimasti felicemente increduli di tanta magnanimità della giustizia italiana. Insomma, non c’è stata alcuna truffa nei confronti delle malcapitate famiglie italiane. I PM della Procura milanese dovranno meditare parecchio su questa sconfitta, poiché la «vecchia» legge n. 231, non ancora modificata, grazie anche alla loro campagna contro la revisione di tale normativa, si è rivelata non infallibile nel perseguire i reati nei confronti dei propri clienti di cui sono chiamate a rispondere le banche. Del resto se c’è stato chi perlomeno non ha ostacolato, se non proprio favorito, l’ennesima diffusione di titoli “spazzatura”, c’è stato sicuramente a livello internazionale chi ha tratto ingenti profitti dalla vicenda coinvolgente Callisto Tanzi. Le sentenze vanno rispettate, per quanto considerate inique e sgradite, come accade nelle guerre: chi vince ha ragione, scrive la storia e guai ai vinti! Ma in questo caso occorre chiedersi come i Giudici di Milano siano potuti arrivare a una tale decisione: o la norma di legge non è sufficientemente adeguata a proteggere i (comuni) cittadini, oppure le indagini sono state (volutamente?) insufficienti e insabbiate sul più bello, come se non si dovesse giungere a intaccare gli interessi dei “veri” padroni del vapore. Ad ogni modo, gli avvocati delle banche sono riusciti a dimostrare, districandosi nei bizantinismi della legislazione italiana, di aver rispettato la medesima e i regolamenti collegati. Qualcosa sicuramente non va: mentre un onesto e umile cittadino è spesso annichilito e umiliato di fronte all’arroganza della pubblica amministrazione e del potere giudiziario, quest’ultimi si dimostrano timidi e remissivi nei confronti di quei poteri forti, di cui le multinazionali finanziarie sono la suprema espressione. Cosa sarebbe accaduto negli USA o nel Regno Unito, vista la severità in tali paesi nei confronti dei reati finanziari? C’è da ritenere che lor signori difficilmente sarebbero riusciti a farla franca. Non è comunque un messaggio confortante nei confronti della gente che lavora onestamente dalla mattina alla sera per assicurare un futuro sereno per se e i propri figli, alla faccia del tanto sbandierato “Codice etico” delle banche e dell’intesa “Basilea 2”. Quale fiducia potranno continuare ad avere risparmiatori, investitori economici e padri di famiglia o imprenditori che accedono al credito? Non è certo un bel viatico per la ripresa dello sviluppo economico e della competitività del Bel Paese. E l’alzata di scudi di Berlusconi negli ultimi anni contro la Procura di Milano, fra spostamento delle sedi processuali, proposta di improcessabilità per le alte cariche dello Stato e prescrizione breve, sembra mirata essenzialmente a difendere nient’altro che i propri interessi e il proprio status, piuttosto che quelli degli Italiani continuamente vessati. Dall’altra parte, Bersani e compagni, impegnati prioritariamente nella mera demonizzazione dell’avversario, dimostrano di essere inermi, quando non conniventi, nei confronti di “certi poteri” da non toccare, pena la rottura di certi delicati equilibri in cui la politica è succube della speculazione finanziaria. Ciò conferma, se ancora ce ne fosse bisogno, che nella globalizzazione dei mercati i “veri” padroni del vapore sono altri e salvano sempre la corteccia; il segnale allarmante di un sistema malato e marcio fino alle radici è già da molto arrivato: ora una presa di coscienza generale, facendo leva sulle forze sane, è più che mai necessaria finché si è ancora in tempo.

di Roberto Bevilacqua

21 aprile 2011

Privatizzazioni: lo scambio tra rendite politiche e rendite finanziarie



Ho iniziato a occuparmi di privatizzazioni venti anni fa, nel paese dove sono state inventate, la Gran Bretagna di Margaret Thatcher e John Mayor. Stavo trascorrendo un triennio di studio alla London School of Economics, per una ricerca sull’analisi costi-benefici degli investimenti pubblici, proprio mentre l’intervento pubblico veniva visibilmente smantellato dai governi conservatori. Nel giro di pochi anni passavano ai privati, generalmente attraverso collocamento in borsa, elettricità, acqua, gas, telecomunicazioni, ferrovie, autobus, porti, aeroporti, linee aeree, miniere, e molto altro

Ho raccolto in un libro (Privatizzazioni e interesse. Il caso britannico) i risultati della mia analisi critica di quella esperienza. Ho cercato di dimostrare che (a) i cittadini in genere hanno guadagnato poco o nulla dalle privatizzazioni, (b) le fasce di utenti più povere hanno pagato prezzi più alti, (c) i contribuenti ci hanno rimesso perché lo stato ha venduto a prezzi troppo bassi e in vari casi ha perso entrate, (d) la produttività delle imprese non è aumentata significativamente, (e) i maggiori beneficiari sono stati gli azionisti, gli intermediari finanziari, i consulenti (in una parola la City).

Mi sono anche occupato di privatizzazioni in Italia, in dieci edizioni del Rapporto sulla Finanza Pubblica e in altri interventi (tra i quali La sinistra e il fascino concreto delle privatizzazioni). La mia lettura del caso italiano è che le cose qui sono andate anche peggio che in Gran Bretagna. Sia i governi di centro-sinistra che quelli di centro-destra hanno cercato di fare cassa vendendo soprattutto banche, telecomunicazioni, autostrade, aziende del settore dell’energia, anche altro, ma con effetti del tutto irrilevanti o modesti sul piano dell’efficienza e del benessere degli utenti, e invece distribuendo rendite ad ambienti capitalistici più o meno parassitari. Mi sono convinto, soprattutto studiando il caso Telecom Italia (in I ritorni paralleli di Telecom Italia), che la vera origine delle privatizzazioni non sia il liberismo, anche se ovviamente i miti della libera concorrenza hanno avuto un peso nella retorica, ma uno scambio fra rendite politiche e finanziarie. La tesi che ho sostenuto (in Le privatizzazioni come mito riformista) è che in particolare la sinistra, oltre più ovviamente la destra, abbia cercato di accreditarsi presso i gestori della finanza offrendo loro in pasto delle attività perfette per montarvi operazioni speculative, garantite dalla dinamica nel tempo dei flussi di cassa. Il caso delle autostrade è in questo senso emblematico. Il rischio imprenditoriale è nullo, la rendita garantita, gli investimenti attuati minimi e neppure rispettati, le tariffe aumentano con e più dell’inflazione, il contribuente continua a farsi carico della spesa per la rete in aree meno ricche e più a rischio (vedi autostrada Salerno-Reggio Calabria e grande viabilità interregionale), mentre un ambiente imprenditoriale come quello dei Benetton e altri sono diventati dei concessionari, con tutto quello che questo implica di rapporti con la politica. In tutti i settori privatizzati le spese di ricerca e sviluppo sono diminuite, indebolendo il potenziale tecnologico.

Un buon esempio di dove si possa arrivare nello scambio di rendite politiche e finanziarie si ha in Russia, di cui pure mi sono occupato in occasione della crisi finanziaria del 1997 (in Economists, Privatization in Russia, and the Warning of the Washington Consensus). Più recentemente mi sono occupato della dimensione europea delle liberalizzazioni e privatizzazioni (ne L’esperienza delle privatizzazioni), in particolare di elettricità, gas, telefonia, giungendo a queste conclusioni per i quindici stati dell’Unione Europea prima dell’allargamento nel 2004: (a) soprattutto per l’elettricità le privatizzazioni hanno comportato aumenti dei prezzi per i consumatori; (b) la separazione delle reti dalla gestione (vedi Terna, Snam Rete Gas, ecc.) è spesso costosa e senza chiari vantaggi per la concorrenza; (c) l’introduzione della concorrenza peraltro ha mitigato ma non rovesciato in benefici mezzi questi effetti avversi; (d) indagini ufficiali dell’UE, come quelle di Eurobarometro, mostrano che i consumatori si dichiarano più soddisfatti nei paesi che hanno adottato meno le privatizzazioni; (e) dove c’è stata più privatizzazione è aumentato il numero di famiglie in difficoltà nel pagare le bollette.

Verso dove andiamo? Sono convinto, anche osservando l’esperienza degli Stati Uniti, che l’appetito illimitato del capitalismo finanziario, quindi il suo immettere nel gioco sempre nuove scommesse, condurrà alla privatizzazione dello stesso stato sociale, cioè sanità, istruzione, previdenza e persino assistenza; e forse anche di alcune funzioni classiche dello stato come difesa, ordine pubblico e giustizia. In altre parole lo scenario è quello dello “stato minimo”.

Le ragioni di questa tendenza, di nuovo, non hanno molto a che vedere con efficienza e competizione. Non esiste alcuna evidenza empirica che possa sostenere che in generale la gestione privata di ospedali, consultori, asili nido, scuole, università, pensioni, ecc. consenta abbattimenti di costi. Dove li si osserva sono dovuti, in generale, a riduzioni reali di stipendio dei dipendenti o a condizioni di lavoro peggiori, spesso con abbassamento conseguente della qualità delle prestazioni, oppure al ricorso a personale immigrato.

Ovviamente, nel settore pubblico, ad esempio nelle università, si annidano aree anche ampie di parassitismo sociale: ma sarebbe molto meno costoso, e quindi più produttivo, motivare i dirigenti e sensibilizzare gli utenti dei servizi pubblici, eliminando così questa patologia attraverso un maggiore controllo democratico e un management di qualità. Viceversa, quello che ci attende è una tendenza a creare una “industria” della sanità, dell’educazione, della pensione complementare. Negli USA questi settori sono ben presenti in borsa o in altri circuiti finanziari, spremono alte rendite dagli utenti grazie al fatto che comunque, nonostante le apparenze, operano in mercati non competitivi, e soprattutto costituiscono formidabili lobby in grado di impedire, ad esempio, ad Obama di riformare efficacemente la disastrosa sanità statunitense.

Una volta che si creano gruppi che controllano i flussi di cassa derivanti dal controllo dell’energia, dell’acqua, della sanità, della previdenza, ecc., la stessa democrazia come la abbiamo conosciuta in Europa nella seconda metà del 900 è a rischio. La capacità dei gruppi finanziari che controllano gli ex servizi pubblici di influire sui governi e sulle stesse opposizioni parlamentari diviene così formidabile che, di fatto, diventa impossibile tornare alla gestione pubblica. Semplicemente diventa più facile comprare i governi, i parlamentari, i giornalisti, gli economisti, e il dissenso viene emarginato.

Il vero rischio delle privatizzazioni perciò non è la relativamente piccola perdita di benessere sociale (ma non trascurabile per i gruppi in fondo alla scala sociale), caso per caso, industria per industria, ma il rischio politico-economico per il sistema nel suo insieme. Questo aspetto è stato colto nell'ultimo scritto di Tony Judt, uno storico della New York University, recentemente scomparso. “Come nel diciottesimo secolo”, egli scrive, “così oggi: svuotando lo stato delle sue responsabilità e risorse, ne abbiamo ridimensionato la centralità nella vita pubblica. Ne risultano ‘comunità fortezza’, intese nelle varie accezioni dei termini: settori della società che considerano se stessi fondamentalmente indipendenti dai funzionari pubblici e dal resto della società. Se ci si abitua a trattare unicamente o principalmente con agenzie private, nel tempo la relazione con il settore pubblico perde di cogenza e significato. Non importa che il privato faccia le stesse cose, meglio o peggio, a un costo maggiore o minore. In ogni caso, si finisce per perdere il senso di fedeltà alle istituzioni e di comunanza con gli altri cittadini”.

E’ un processo ben descritto da Margaret Thatcher in persona. “La società non esiste affatto”, ella scrive: “esistono solo individui, uomini e donne, e famiglie”. Se non esiste la società, ma solo gli individui e uno stato che agisce da “guardiano notturno” (supervisionando da lontano attività alle quali non prende parte) che cosa ci tiene, e ci terrà, insieme? Abbiamo già accettato la formazione di polizie private, di servizi di posta privati, di agenzie private fornitrici dello stato in tempo di guerra e molto altro ancora. Abbiamo “privatizzato” esattamente quelle responsabilità che lo stato moderno aveva laboriosamente riunito sotto la propria cura nel corso del diciannovesimo e del ventesimo secolo, afferma sempre Judt.

La mia lettura di ciò che sta accadendo è quella di un rischio per la coesione sociale e per la qualità della democrazia. E’ questo l’effetto generale della distruzione del faticoso compromesso raggiunto in Europa dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale fra la tendenza instabile e potenzialmente sempre autodistruttiva del capitalismo e un modo di produzione statale, che, con tutti i suoi limiti, sottrae una parte della società alle febbri speculative. In questo senso, il compromesso “socialdemocratico” europeo, il “modello sociale europeo” e la stessa costruzione dell’UE, nonostante ovviamente non siano un’alternativa al capitalismo, sono l’unica eccezione rimasta in campo al dilagare della finanza globale. Ed è un’eccezione oramai vicina ad essere travolta, anche per la fondamentale incomprensione di buona parte della sinistra europea dei processi in atto (quando non si tratta piuttosto di corruzione più o meno mascherata dei partiti e dei sindacati “riformisti”).

Dunque la mia lettura della recente crisi globale (in Antologia della crisi globale) pone la questione della modifica strutturale dei rapporti di forza fra lavoro e capitale al centro della spiegazione di ciò che sta accadendo, e che trova nelle liberalizzazioni e privatizzazioni un elemento costitutivo. Solo una soggettività politica molto determinata potrebbe a questo punto invertire il processo.

di Massimo Florio - 20/04/2011