![]() Definirei il libro di Luciano Gallino Finanzcapitalismo (Einaudi, 19 euro) decisivo, per comprendere il mutamento radicale di paradigma avvenuto negli ultimi trent’anni. Siamo in un altro mondo, e conviene capirlo più in fretta possibile. Perché il tempo è davvero agli sgoccioli. Ho intervistato l’autore per l’Unità, qui pubblico l’intervista in versione integrale. Sappiamo che l’alternanza tra fasi espansive e produttive e fasi speculative sono sempre state una costante nella storia del capitalismo (ce lo ha spiegato ad esempio Giovanni Arrighi). Ma lei ci fa capire che oggi siamo in presenza di una sorta di salto quantico: ci dice con molta chiarezza che siamo in una fase del tutto nuova, non più nel classico capitalismo industriale, ma nel finanzcapitalismo. E ci dice che questo salto quantico è un salto con esiti potenzialmente tragici. Vi è stato in questi ultimi trent’anni un enorme sviluppo del sistema finanziario a paragone dello sviluppo del sistema dell’“economia reale”: se all’inizio degli anni ottanta il volume degli attivi finanziari corrispondeva al Pil mondiale, al momento della crisi ammontava a oltre quattro volte il Pil. Il mondo è stato radicalmente trasformato da un processo patologico. E’ enormemente e patologicamente cresciuta, in particolare nell’ultimo decennio, l’attività bancaria, che si continua a chiamare così anche se si tratta di attività finanziarie estremamente diversificate, non trattandosi più delle banche classiche depositi e prestiti, ma di conglomerati giganteschi che operano in ogni possibile settore. E” enormemente e patologicamente cresciuta la finanza ombra, un sistema senza nome né indirizzo né identità, formata da una grande quantità di società di scopo (i cosiddetti “veicoli”), e da centinaia di trilioni di dollari di derivati scambiati tra privati (otc) che sono stati un elemento decisivo di destabilizzazione. In questo processo i bilanci delle banche sono diventati incomprensibili e ingestibili, perché molte attività sono state trasmesse ai “veicoli”, in particolare i titoli derivanti dalla cartolarizzazione, ovvero la trasformazione in crediti di debiti derivanti da prestiti alle famiglie o alle imprese (la crisi è iniziata da lì, negli Stati Uniti, dai derivati composti da mutui che le famiglie non erano più in grado di pagare). E’ enormemente e patologicamente cresciuto il ruolo degli investitori istituzionali (compagnie di assicurazione, fondi pensione e fondi comuni di investimento): essi sono i “nuovi proprietari universali”, possedendo oltre la metà del capitale delle imprese di ogni genere. E’ infine enormemente e patologicamente cresciuto il peso che le istituzioni finanziarie hanno assunto nel governo delle imprese. Dal 1980 in avanti si è affermato il criterio che un’impresa funziona unicamente per massimizzare il valore delle azioni, e questo ha modificato il criterio di governo e di gestione quotidiana delle imprese, con conseguenze ben visibili, drammaticamente, ogni giorno. A causa di questo sviluppo abnorme, l’insieme del sistema finanziario non è controllabile da alcuna autorità, non solo per le sue dimensioni, ma anche per la sua composizione: chi parla di costruire “trasparenza del mercato finanziario” davvero non ha compreso i fondamenti della questione. Questo mercato finanziario non può essere trasparente. Siamo su un aereo senza pilota in cabina di pilotaggio. Bisogna riformare il sistema dalle fondamenta, mentre invece dopo la crisi non è stata intrapresa alcuna riforma. Guardando la copertina del suo libro, dove vi è un grattacielo visto dal basso che ricorda la torre di Babele, viene naturale pensare che siamo di fronte a una sorta di hybris degli umani, alla smisuratezza di un processo totalmente sfuggito di mano, che ha preso vita propria, fuori da qualsiasi controllo.Sì, è così. E lo vediamo ogni giorno come l’intera economia sia totalmente a rimorchio del sistema finanziario. Lo vediamo anche da un punto di vista simbolico, ché il linguaggio della finanza ha permeato ogni ambito della civiltà, del discorso quotidiano. Ma se questo sistema tende all’assolutezza, ed è radicalmente incontrollabile, ciò equivale a uno svuotamento di fatto del concetto stesso di democrazia. Peraltro questo processo, lei lo mette in chiaro molto bene nel libro, è stato determinato dalle scelte della politica, contrariamente alla vulgata proposta e introiettata dalla politica stessa che si è dipinta come passiva e impotente di fronte ad esso. Non è stato per nulla un processo naturale. E’ stato invece un grande progetto ideologico, culturale e politico avviato dagli anni cinquanta e che ha preso piede a partire dagli anni ottanta. Non è vero che la politica è stata sopraffatta dalla finanza: l’assoluta libertà di agire che ha acquisito la finanza è stata un’operazione politica, iniziata peraltro in Europa. Si parla, a questo di proposito, di un “consenso di Parigi” che ha preceduto il “consenso di Washington”. La crisi ha dimostrato l’assoluta falsità della tesi ideologica dell’autoregolazione del mercato, eppure essa continua a presentarsi come l’unica possibile. E questo lo verifichiamo anche nella continuità delle persone: il consiglio economico di Obama, ad esempio, è composto da banchieri che hanno avuto parte importante nella deregulation fatta sotto Reagan e Bush. Europa degli anni ottanta, Obama: lei sta dicendo che anche il “centrosinistra” globale è caduto nella trappola? Sì, le cosiddette “sinistre” hanno fatto proprio lo scenario secondo cui la globalizzazione è un fatto economico, laddove esso è stato un fatto eminentemente politico. E’ stato un progetto agevolato da organizzazioni internazionali che di democratico non hanno nulla, dal Fondo Monetario Internazionale alla Banca Mondiale alla Commissione Europea. Le sinistre socialdemocratiche hanno adottato il paradigma della signora Thatcher, credendo al fatto che “non ci sono alternative”: perciò le sinistre si sono distinte solo per “aiutare i più deboli”, e tamponare i disastri. Il mio timore è che ancora oggi non abbiano capito che cosa è successo: sono caduti nella scena del teatro, recitando la parte che la commedia (o meglio, la tragedia) gli ha assegnato, senza rendersi conto che stanno seguendo i dettami di in un immenso sistema industrial-finanziario, agevolato nella sua crescita dalla politica e che alla politica adesso spetterebbe incivilire. Il successo di questo sistema è appunto anche ideologico: esso si presente come il trionfo della ragione (o forse di una coincidenza perfetta di razionale e reale), dove invece esso è, nella sua essenza, pura irrazionalità. Il finanzcapitalismo ha in questo senso radicalizzato un’istanza propria del capitalismo industriale, che ha sempre pensato la crescita come una pietra filosofale. Crescita a ogni costo, a scapito del resto. Ma questa furente irrazionalità la vediamo al lavoro nei suoi esiti tragici, sia nella distruzione dell’ambiente e di qualunque tipo di ecosistema (e qui siamo giunti a un punto limite, davvero di non ritorno), sia nella quotidiana svalorizzazione delle persone. E le persone svalorizzate, infantilizzate come consumatori, non saranno mai in grado di salvare il pianeta. Lei pensa che al punto in cui siamo è possibile un “contromovimento”, un’alternativa al disastro? Un contromovimento è un’incognita grossa, nella presente situazione. Credo che una reazione ai danni globali di questo sistema che ci sta dominando possa prendere due direzioni. Una che potremmo definire socialdemocratica, una autoritaria, e in Europa quest’onda è certamente montante. E’ questo il grande dilemma è questo: e su questo il dado non è tratto. Lei ha segnalato qualche passo possibile da fare. Sì, per esempio la gestione dei fondi pensione, potrebbe essere un passo piccolo ma significativo. La gestione dei fondi pensione è affidata alle banche depositarie che fanno investimenti i quali assicurino un futuro ai fondi stessi, prescindendo del tutto da un investimento sostenibile, responsabile. I sindacati su questo dovrebbero essere più consapevoli e presenti. Ci sono poi riforme che si possono avviare solo in ambito internazionale, ma bisognerebbe cominciare a parlarne: e invece quando se ne parla lo si fa tirando fuori i documenti dell’UE, che però non fa altro che invocare trasparenza e sorveglianza, ciò che equivale a mettere telecamere intorno a un edificio pieno di buchi e con le fondamenta che crollano e buio all’interno. E’ di questo buio che invece occorre discutere. di Luciano Gallino - Marco Rovelli |
06 maggio 2011
Finanzcapitalismo: ultima chiamata
05 maggio 2011
La truffa di Bin Laden per espandere il conflitto

Lo scriba e totalmente disonesto propagandista per la “Fondazione per la Difesa della Democrazia” (FDD) Bill Roggio, che scrive sul "Long War Journal", ha dedicato la sua vita a pubblicizzare la falsissima "Guerra al Terrore”, abbandonando ogni parvenza di obbiettività persino nel nome del suo blog, affiliato all’establishment neoconservatore, che ora sappiamo ufficialmente essere sovvenzionato dal governo. Il termine "Guerra Lunga" naturalmente è un parto dell’era Bush e una rassicurazione costante del presidente che avrebbe garantito una “Guerra al Terrore" senza fine.

"La casa di Osama": sembra quasi una casa in rovina di Los Angeles, ma è più probabile che fosse un edificio della CIA che ha ospitato un’esercitazione, causa della morte di una certa quantità di persone ignare. Naturalmente, tutto ciò ha la stessa credibilità dei proclami del governo che si basano su prove photoshoppate, bruciate sul terreno o affondate nel mare.
FDD e il suo doppione, Foreign Policy Initiative – essenzialmente la reincarnazione del Progetto per un Nuovo Secolo Americano (PNAC) – sono state tra le prime, poco dopo l’annuncio di Obama, a ipotizzare un’implicazione del Pakistan nell’aver ospitato Bin Laden fino alla sua morte. Ma questi annunci si sono solo ultimamente intensificati.
Un recente articolo di Roggio, "La complicità del Pakistan nell’ospitare Osama bin Laden è evidente", ci propina quello che sembra essere un argomento convincente, ossia che non solo il Pakistan sapesse della presenza di Bin Laden nella città di Abbotabad, il centro della comunità militare e d’intelligence pakistana, ma che è stato anche suo complice per avergli fornito un rifugio. Roggio si prodiga nel ricordare ai lettori le "vaste connessioni con i gruppi terroristi".
Invece di argomentare i motivi per cui era certo che il Pakistan stesse ospitando il ricercato più famoso nella storia del pianeta, Roggio suggerisce che gli Stati Uniti hanno mantenuto l’operazione completamente segreta all’intelligence pakistana fino al suo avvio, e persino allora gli Stati Uniti non avrebbero rilevato il luogo dell’operazione a causa di un’ipotetica mancanza di fiducia. Senza freni, Roggio glissa su questa carenza logica per mancanza d’immaginazione o per un totale disprezzo verso i propri lettori. Naturalmente, se Osama Bin Laden era effettivamente a Abbotabad e il Pakistan gli stava fornendo un rifugio, quel complesso non sarebbe stato costantemente sotto sorveglianza? E poi, dopo l’annuncio dell’operazione agli ufficiali pakistani, questi non ne avrebbero dovuto già conoscere l’esatta ubicazione?
La narrativa caracollante di Roggio, come tutta la stessa truffa di Bin Laden insieme all’intera esistenza dell’FDD e dell’FPI, non ha lo scopo di far progredire la nostra comprensione del mondo, ma piuttosto quella di favorire l’agenda degli interessi guidati dalla finanza che pilotano queste nefaste organizzazioni. In questo caso, il Pakistan rimane un ostacolo sul cammino di guerra che inizia nel Medio Oriente con la progettata e finanziata dagli USA "Primavera Araba" e si scaglia contro l’Europa dell’Est, l’Asia Centrale e fino a Mosca e a Pechino.
In Pakistan le tensioni si sono alzate in modo drammatico negli ultimi tempi. I think-tank sovvenzionati dalla finanza delle multinazionali hanno richiesto a alta voce che il Pakistan venisse letteralmente smembrato in una serie di stati più piccoli per mezzo di un’insurrezione sorretta dagli Stati Uniti nella provincia del Belucistan. Questa è una risposta diretta alle relazioni sempre più assidue tra Pakistan e Cina e il crescente rifiuto di questi paesi di obbedire agli ordini che servono per la tutela degli interessi americani nella regione.
Lo scriba globalista Selig Harrison, del Center for International Policy finanziato da Soros, ha pubblicato due articoli sulla cruciale importanza del Pakistan in un contesto geopolitico allargato, suggerendo la strada che potrebbe portare a un "cambio" vantaggioso. Il pezzo di Harrison del febbraio, "Belucistan Libero," che già nel titolo ci indica un altro "movimento per le libertà" studiato e finanziato in modo da fornire un esito favorevole ai patroni della finanza. In modo esplicito, egli chiede di "aiutare i sei milioni insorti beluci nel combattere per l’indipendenza dal Pakistan a causa della crescente repressione dell’ISI." Prosegue nello spiegare gli aspetti positivi di una tale intromissione, affermando che "il Pakistan ha offerto alla Cina la base di Gwadar nel cuore del territorio beluco e, per questo motivo, un Belucistan indipendente servirà agli interessi strategici degli Stati Uniti in aggiunta all’obbiettivo immediato del contenimento delle forze islamiste."
Harrison ha proseguito nel suo richiamo a un rimodellamento del Pakistan parlando delle relazioni tra Cina e Pakistan in un articolo del marzo 2011 dal titolo, "I Cinesi cercano di fare i simpatici con i pakistani." Esordisce con l’affermare che "l’influenza in espansione della Cina è una conseguenza naturale e anche accettabile della sua crescente importanza, ma deve avere dei limiti." E così reitera la sua proposta di un’intromissione extraterritoriale in Pakistan: "Considerando quello che la Cina sta facendo in Pakistan, gli Stati Uniti dovrebbero interpretare un ruolo aggressivo nel sostenere il movimento per l’indipendenza del Belucistan verso il Mare Arabico e lavorare con gli insorti beluci per far allontanare i cinesi dalla loro nascente base navale di Gwadar. Pechino vuole fare delle incursioni verso Gilgit e il Baltistan in modo da compiere il primo passo nel percorso verso uno sbocco sul Mare Arabico a Gwadar."
Considerando che i ribelli beluci sono già stati armati e finanziati per innalzare il livello dello scontro in Iran, è più che probabile che simili aiuti siano stati forniti per mettere alle strette il governo pakistano e l’ISI (ndt: sono i servizi segreti pakistani). Dopo la recente manifestazione di scontento del Pakistan che ha richiesto agli Stati Uniti di fermare tutte le operazioni dei drone all’interno dei suoi confini, la CIA ha risposto con una serie di attacchi, l’ultimo dei quali ha ucciso almeno 22 persone, tra cui donne e forse bambini, solamente per vessare e esasperare questa richiesta del rispetto della sovranità nazionale.
Ora, l’aver trovato "Osama Bin Laden" nel cuore della comunità militare e d’intelligence pakistana ha la funzione di una chiara minaccia nei confronti del Pakistan, con i cheerleader come Roggio che stanno puntando il dito contro l’ISI per poi lasciarcelo, per far comprendere a noi e agli ufficiali pakistani quale sarà il logico corso degli eventi futuri.
Il Pakistan ha davanti a sé due possibilità. Rimanere complice degli Occidentali mentre si avviano a dominare il pianeta a detrimento degli interessi dello stesso Pakistan oppure rendere noto il bluff degli Stati Uniti, un bluff che non hanno modo di tenere a lungo. Le condizioni di vita nel Pakistan passeranno momenti difficili nel futuro prossimo, indipendentemente da quale decisione verrà presa, dato che la sua posizione è proprio sul punto di convergenza dei disegni dell’Occidente su Iran, Cina e Russia.
Nel frattempo, mentre Washington si mostra alleata dell’India, l’unico proposito di questa relazione è quella di gestire la competizione crescente con la Cina e con tutta l’area centrale e meridionale dell’Asia, India inclusa. Forse, mentre all’India gli si sta ghiacciando il sangue, non volendo interpretare un ruolo che si opponga a Pakistan e Cina, sarebbe necessaria un’altra opportuna fuga di notizie da Wikileaks che etichetti il governo indiano come un covo di corrotti per poter generare un bel "movimento anti-corruzione".
Mentre l’India sembra sperare che l’annuncio della morte di Bin Laden darà finalmente l’opportunità agli Stati Uniti di uscirsene dalla regione, i guerrafondai che hanno iniziato e proseguito la guerra, tra cui l’FDD, l’FPI e i propagandisti come Bill Roggio, suggeriscono invece che tutto questo servirà solo come stimolo per rimanerci ancora più a lungo e per espandere il raggio delle operazioni. Forse sarebbe una buona iniziativa che l’India, il Pakistan e la Cina abbandonino tutte insieme questa strategia della tensione che ultimamente non è utile a nessuno dei loro interessi e espellere l’Occidente una volta per tutte dai propri confini e dalla regione. In ultima analisi, è giunta di certo per chiunque l’ora di richiedere il rispetto della propria sovranità personale e nazionale da parte di un’élite al comando che ha completamente perso la testa.
04 maggio 2011
E perchè mai dovremmo avere fiducia nella classe dirigente di questo Paese
Secondo un sondaggio se oggi venissero indette le elezioni politiche il 48,5% degli italiani non andrebbe a votare. Un dato che non solo confermerebbe quello delle ultime amministrative (il 40%, sommando al 38% dei non votanti, le schede bianche e nulle) ma lo amplierebbe di molto sia, in quantità (9% circa in più) sia in qualità perché la partecipazione alle elezioni amministrative è sempre stata di gran lunga inferiore alla politiche. Si potrebbe osservare che in fondo non faremmo che allinearci alle percentuali di altri Paesi europei, soprattutto scandinavi. Ma il parallelo non regge. In quei Paesi molti cittadini non vanno a votare perché hanno fiducia nella classe politica nel suo complesso, per cui governi l’uno o l’altro non fa gran differenza, in ogni caso cercherà di fare il bene comune. L’Italia invece è un Paese che ha una tradizione di grande passione politica. Se un italiano su due non andasse a votare, vorrebbe dire che metà del Paese ha perso fiducia nella classe dirigente nel suo complesso, sia essa di destra o di sinistra. E perché mai dovrebbe averla? Basta guardare un qualsiasi talk show e ascoltare gli estenuanti rimpalli di responsabilità che gli esponenti delle due fazioni si lanciano per capire che costoro hanno in testa una sola cosa: la conservazione o l’occupazione del potere, non il bene pubblico anche se ce l’hanno sempre in bocca. Del resto tutta la cronaca politico-giudiziaria lo conferma. L’Italia, secondo dati Onu, ha una delle classi dirigenti più corrotte del mondo. E i nostri uomini politici invece di cercare di autocorreggersi hanno come obiettivo di innocuizzare la Magistratura per i reati che sono loro propri, la concussione, il peculato, la corruzione economica e finanziaria.
Non paghi degli innumerevoli privilegi, giudiziari e non, di cui già godono, vorrebbero reintrodurre l’immunità parlamentare, un istituto che andava bene quando i reggitori della cosa pubblica avevano un’etica ottocentesca e un ministro si suicidava, per la vergogna, perché accusato di aver portato via un pò di cancelleria dal proprio ufficio. Oggi i ministri si fanno regalare, senza vergogna, la metà di una casa di lusso e, dopo qualche mese di astinenza, tornano all’onor del mondo politico come se nulla fosse, più arroganti che mai. L’immunità, oggi, corrisponderebbe semplicemente a un’autorizzazione a delinquere. In un periodo di crisi economica, in cui tutti noi abbiamo il problema degli affitti e dei mutui, i nostri uomini politici lucrano sul patrimonio immobiliare e Enti di beneficenza accapparandosi a prezzi stracciati appartamenti nel pieno centro delle grandi città. In un periodo in cui la disoccupazione giovanile è al 30% piazzano i loro rampolli in posti sicuri e ben remunerati. Se poi dal 50% di coloro che vanno a votare togliamo i famigli, i clientes, quelli che hanno ricevuto favori o sono in attesa di riceverlo, io mi chiedo quale sia la reale percentuale di italiani che è rappresentata da questi partiti che hanno occupato arbitrariamente lo Stato.
Poiché la nostra classe politica non dà nessun segno di volersi autocorreggere, al contrario, io adotterei una soluzione da mercato-calciatori. Acquisterei Angela Merkel e le farei governare per dieci anni questo Paese. Solo allora, forse, si potrebbe ritornare a parlare in Italia di qualcosa che assomiglia, sia pur vagamente, a una democrazia.
06 maggio 2011
Finanzcapitalismo: ultima chiamata
![]() Definirei il libro di Luciano Gallino Finanzcapitalismo (Einaudi, 19 euro) decisivo, per comprendere il mutamento radicale di paradigma avvenuto negli ultimi trent’anni. Siamo in un altro mondo, e conviene capirlo più in fretta possibile. Perché il tempo è davvero agli sgoccioli. Ho intervistato l’autore per l’Unità, qui pubblico l’intervista in versione integrale. Sappiamo che l’alternanza tra fasi espansive e produttive e fasi speculative sono sempre state una costante nella storia del capitalismo (ce lo ha spiegato ad esempio Giovanni Arrighi). Ma lei ci fa capire che oggi siamo in presenza di una sorta di salto quantico: ci dice con molta chiarezza che siamo in una fase del tutto nuova, non più nel classico capitalismo industriale, ma nel finanzcapitalismo. E ci dice che questo salto quantico è un salto con esiti potenzialmente tragici. Vi è stato in questi ultimi trent’anni un enorme sviluppo del sistema finanziario a paragone dello sviluppo del sistema dell’“economia reale”: se all’inizio degli anni ottanta il volume degli attivi finanziari corrispondeva al Pil mondiale, al momento della crisi ammontava a oltre quattro volte il Pil. Il mondo è stato radicalmente trasformato da un processo patologico. E’ enormemente e patologicamente cresciuta, in particolare nell’ultimo decennio, l’attività bancaria, che si continua a chiamare così anche se si tratta di attività finanziarie estremamente diversificate, non trattandosi più delle banche classiche depositi e prestiti, ma di conglomerati giganteschi che operano in ogni possibile settore. E” enormemente e patologicamente cresciuta la finanza ombra, un sistema senza nome né indirizzo né identità, formata da una grande quantità di società di scopo (i cosiddetti “veicoli”), e da centinaia di trilioni di dollari di derivati scambiati tra privati (otc) che sono stati un elemento decisivo di destabilizzazione. In questo processo i bilanci delle banche sono diventati incomprensibili e ingestibili, perché molte attività sono state trasmesse ai “veicoli”, in particolare i titoli derivanti dalla cartolarizzazione, ovvero la trasformazione in crediti di debiti derivanti da prestiti alle famiglie o alle imprese (la crisi è iniziata da lì, negli Stati Uniti, dai derivati composti da mutui che le famiglie non erano più in grado di pagare). E’ enormemente e patologicamente cresciuto il ruolo degli investitori istituzionali (compagnie di assicurazione, fondi pensione e fondi comuni di investimento): essi sono i “nuovi proprietari universali”, possedendo oltre la metà del capitale delle imprese di ogni genere. E’ infine enormemente e patologicamente cresciuto il peso che le istituzioni finanziarie hanno assunto nel governo delle imprese. Dal 1980 in avanti si è affermato il criterio che un’impresa funziona unicamente per massimizzare il valore delle azioni, e questo ha modificato il criterio di governo e di gestione quotidiana delle imprese, con conseguenze ben visibili, drammaticamente, ogni giorno. A causa di questo sviluppo abnorme, l’insieme del sistema finanziario non è controllabile da alcuna autorità, non solo per le sue dimensioni, ma anche per la sua composizione: chi parla di costruire “trasparenza del mercato finanziario” davvero non ha compreso i fondamenti della questione. Questo mercato finanziario non può essere trasparente. Siamo su un aereo senza pilota in cabina di pilotaggio. Bisogna riformare il sistema dalle fondamenta, mentre invece dopo la crisi non è stata intrapresa alcuna riforma. Guardando la copertina del suo libro, dove vi è un grattacielo visto dal basso che ricorda la torre di Babele, viene naturale pensare che siamo di fronte a una sorta di hybris degli umani, alla smisuratezza di un processo totalmente sfuggito di mano, che ha preso vita propria, fuori da qualsiasi controllo.Sì, è così. E lo vediamo ogni giorno come l’intera economia sia totalmente a rimorchio del sistema finanziario. Lo vediamo anche da un punto di vista simbolico, ché il linguaggio della finanza ha permeato ogni ambito della civiltà, del discorso quotidiano. Ma se questo sistema tende all’assolutezza, ed è radicalmente incontrollabile, ciò equivale a uno svuotamento di fatto del concetto stesso di democrazia. Peraltro questo processo, lei lo mette in chiaro molto bene nel libro, è stato determinato dalle scelte della politica, contrariamente alla vulgata proposta e introiettata dalla politica stessa che si è dipinta come passiva e impotente di fronte ad esso. Non è stato per nulla un processo naturale. E’ stato invece un grande progetto ideologico, culturale e politico avviato dagli anni cinquanta e che ha preso piede a partire dagli anni ottanta. Non è vero che la politica è stata sopraffatta dalla finanza: l’assoluta libertà di agire che ha acquisito la finanza è stata un’operazione politica, iniziata peraltro in Europa. Si parla, a questo di proposito, di un “consenso di Parigi” che ha preceduto il “consenso di Washington”. La crisi ha dimostrato l’assoluta falsità della tesi ideologica dell’autoregolazione del mercato, eppure essa continua a presentarsi come l’unica possibile. E questo lo verifichiamo anche nella continuità delle persone: il consiglio economico di Obama, ad esempio, è composto da banchieri che hanno avuto parte importante nella deregulation fatta sotto Reagan e Bush. Europa degli anni ottanta, Obama: lei sta dicendo che anche il “centrosinistra” globale è caduto nella trappola? Sì, le cosiddette “sinistre” hanno fatto proprio lo scenario secondo cui la globalizzazione è un fatto economico, laddove esso è stato un fatto eminentemente politico. E’ stato un progetto agevolato da organizzazioni internazionali che di democratico non hanno nulla, dal Fondo Monetario Internazionale alla Banca Mondiale alla Commissione Europea. Le sinistre socialdemocratiche hanno adottato il paradigma della signora Thatcher, credendo al fatto che “non ci sono alternative”: perciò le sinistre si sono distinte solo per “aiutare i più deboli”, e tamponare i disastri. Il mio timore è che ancora oggi non abbiano capito che cosa è successo: sono caduti nella scena del teatro, recitando la parte che la commedia (o meglio, la tragedia) gli ha assegnato, senza rendersi conto che stanno seguendo i dettami di in un immenso sistema industrial-finanziario, agevolato nella sua crescita dalla politica e che alla politica adesso spetterebbe incivilire. Il successo di questo sistema è appunto anche ideologico: esso si presente come il trionfo della ragione (o forse di una coincidenza perfetta di razionale e reale), dove invece esso è, nella sua essenza, pura irrazionalità. Il finanzcapitalismo ha in questo senso radicalizzato un’istanza propria del capitalismo industriale, che ha sempre pensato la crescita come una pietra filosofale. Crescita a ogni costo, a scapito del resto. Ma questa furente irrazionalità la vediamo al lavoro nei suoi esiti tragici, sia nella distruzione dell’ambiente e di qualunque tipo di ecosistema (e qui siamo giunti a un punto limite, davvero di non ritorno), sia nella quotidiana svalorizzazione delle persone. E le persone svalorizzate, infantilizzate come consumatori, non saranno mai in grado di salvare il pianeta. Lei pensa che al punto in cui siamo è possibile un “contromovimento”, un’alternativa al disastro? Un contromovimento è un’incognita grossa, nella presente situazione. Credo che una reazione ai danni globali di questo sistema che ci sta dominando possa prendere due direzioni. Una che potremmo definire socialdemocratica, una autoritaria, e in Europa quest’onda è certamente montante. E’ questo il grande dilemma è questo: e su questo il dado non è tratto. Lei ha segnalato qualche passo possibile da fare. Sì, per esempio la gestione dei fondi pensione, potrebbe essere un passo piccolo ma significativo. La gestione dei fondi pensione è affidata alle banche depositarie che fanno investimenti i quali assicurino un futuro ai fondi stessi, prescindendo del tutto da un investimento sostenibile, responsabile. I sindacati su questo dovrebbero essere più consapevoli e presenti. Ci sono poi riforme che si possono avviare solo in ambito internazionale, ma bisognerebbe cominciare a parlarne: e invece quando se ne parla lo si fa tirando fuori i documenti dell’UE, che però non fa altro che invocare trasparenza e sorveglianza, ciò che equivale a mettere telecamere intorno a un edificio pieno di buchi e con le fondamenta che crollano e buio all’interno. E’ di questo buio che invece occorre discutere. di Luciano Gallino - Marco Rovelli |
05 maggio 2011
La truffa di Bin Laden per espandere il conflitto

Lo scriba e totalmente disonesto propagandista per la “Fondazione per la Difesa della Democrazia” (FDD) Bill Roggio, che scrive sul "Long War Journal", ha dedicato la sua vita a pubblicizzare la falsissima "Guerra al Terrore”, abbandonando ogni parvenza di obbiettività persino nel nome del suo blog, affiliato all’establishment neoconservatore, che ora sappiamo ufficialmente essere sovvenzionato dal governo. Il termine "Guerra Lunga" naturalmente è un parto dell’era Bush e una rassicurazione costante del presidente che avrebbe garantito una “Guerra al Terrore" senza fine.

"La casa di Osama": sembra quasi una casa in rovina di Los Angeles, ma è più probabile che fosse un edificio della CIA che ha ospitato un’esercitazione, causa della morte di una certa quantità di persone ignare. Naturalmente, tutto ciò ha la stessa credibilità dei proclami del governo che si basano su prove photoshoppate, bruciate sul terreno o affondate nel mare.
FDD e il suo doppione, Foreign Policy Initiative – essenzialmente la reincarnazione del Progetto per un Nuovo Secolo Americano (PNAC) – sono state tra le prime, poco dopo l’annuncio di Obama, a ipotizzare un’implicazione del Pakistan nell’aver ospitato Bin Laden fino alla sua morte. Ma questi annunci si sono solo ultimamente intensificati.
Un recente articolo di Roggio, "La complicità del Pakistan nell’ospitare Osama bin Laden è evidente", ci propina quello che sembra essere un argomento convincente, ossia che non solo il Pakistan sapesse della presenza di Bin Laden nella città di Abbotabad, il centro della comunità militare e d’intelligence pakistana, ma che è stato anche suo complice per avergli fornito un rifugio. Roggio si prodiga nel ricordare ai lettori le "vaste connessioni con i gruppi terroristi".
Invece di argomentare i motivi per cui era certo che il Pakistan stesse ospitando il ricercato più famoso nella storia del pianeta, Roggio suggerisce che gli Stati Uniti hanno mantenuto l’operazione completamente segreta all’intelligence pakistana fino al suo avvio, e persino allora gli Stati Uniti non avrebbero rilevato il luogo dell’operazione a causa di un’ipotetica mancanza di fiducia. Senza freni, Roggio glissa su questa carenza logica per mancanza d’immaginazione o per un totale disprezzo verso i propri lettori. Naturalmente, se Osama Bin Laden era effettivamente a Abbotabad e il Pakistan gli stava fornendo un rifugio, quel complesso non sarebbe stato costantemente sotto sorveglianza? E poi, dopo l’annuncio dell’operazione agli ufficiali pakistani, questi non ne avrebbero dovuto già conoscere l’esatta ubicazione?
La narrativa caracollante di Roggio, come tutta la stessa truffa di Bin Laden insieme all’intera esistenza dell’FDD e dell’FPI, non ha lo scopo di far progredire la nostra comprensione del mondo, ma piuttosto quella di favorire l’agenda degli interessi guidati dalla finanza che pilotano queste nefaste organizzazioni. In questo caso, il Pakistan rimane un ostacolo sul cammino di guerra che inizia nel Medio Oriente con la progettata e finanziata dagli USA "Primavera Araba" e si scaglia contro l’Europa dell’Est, l’Asia Centrale e fino a Mosca e a Pechino.
In Pakistan le tensioni si sono alzate in modo drammatico negli ultimi tempi. I think-tank sovvenzionati dalla finanza delle multinazionali hanno richiesto a alta voce che il Pakistan venisse letteralmente smembrato in una serie di stati più piccoli per mezzo di un’insurrezione sorretta dagli Stati Uniti nella provincia del Belucistan. Questa è una risposta diretta alle relazioni sempre più assidue tra Pakistan e Cina e il crescente rifiuto di questi paesi di obbedire agli ordini che servono per la tutela degli interessi americani nella regione.
Lo scriba globalista Selig Harrison, del Center for International Policy finanziato da Soros, ha pubblicato due articoli sulla cruciale importanza del Pakistan in un contesto geopolitico allargato, suggerendo la strada che potrebbe portare a un "cambio" vantaggioso. Il pezzo di Harrison del febbraio, "Belucistan Libero," che già nel titolo ci indica un altro "movimento per le libertà" studiato e finanziato in modo da fornire un esito favorevole ai patroni della finanza. In modo esplicito, egli chiede di "aiutare i sei milioni insorti beluci nel combattere per l’indipendenza dal Pakistan a causa della crescente repressione dell’ISI." Prosegue nello spiegare gli aspetti positivi di una tale intromissione, affermando che "il Pakistan ha offerto alla Cina la base di Gwadar nel cuore del territorio beluco e, per questo motivo, un Belucistan indipendente servirà agli interessi strategici degli Stati Uniti in aggiunta all’obbiettivo immediato del contenimento delle forze islamiste."
Harrison ha proseguito nel suo richiamo a un rimodellamento del Pakistan parlando delle relazioni tra Cina e Pakistan in un articolo del marzo 2011 dal titolo, "I Cinesi cercano di fare i simpatici con i pakistani." Esordisce con l’affermare che "l’influenza in espansione della Cina è una conseguenza naturale e anche accettabile della sua crescente importanza, ma deve avere dei limiti." E così reitera la sua proposta di un’intromissione extraterritoriale in Pakistan: "Considerando quello che la Cina sta facendo in Pakistan, gli Stati Uniti dovrebbero interpretare un ruolo aggressivo nel sostenere il movimento per l’indipendenza del Belucistan verso il Mare Arabico e lavorare con gli insorti beluci per far allontanare i cinesi dalla loro nascente base navale di Gwadar. Pechino vuole fare delle incursioni verso Gilgit e il Baltistan in modo da compiere il primo passo nel percorso verso uno sbocco sul Mare Arabico a Gwadar."
Considerando che i ribelli beluci sono già stati armati e finanziati per innalzare il livello dello scontro in Iran, è più che probabile che simili aiuti siano stati forniti per mettere alle strette il governo pakistano e l’ISI (ndt: sono i servizi segreti pakistani). Dopo la recente manifestazione di scontento del Pakistan che ha richiesto agli Stati Uniti di fermare tutte le operazioni dei drone all’interno dei suoi confini, la CIA ha risposto con una serie di attacchi, l’ultimo dei quali ha ucciso almeno 22 persone, tra cui donne e forse bambini, solamente per vessare e esasperare questa richiesta del rispetto della sovranità nazionale.
Ora, l’aver trovato "Osama Bin Laden" nel cuore della comunità militare e d’intelligence pakistana ha la funzione di una chiara minaccia nei confronti del Pakistan, con i cheerleader come Roggio che stanno puntando il dito contro l’ISI per poi lasciarcelo, per far comprendere a noi e agli ufficiali pakistani quale sarà il logico corso degli eventi futuri.
Il Pakistan ha davanti a sé due possibilità. Rimanere complice degli Occidentali mentre si avviano a dominare il pianeta a detrimento degli interessi dello stesso Pakistan oppure rendere noto il bluff degli Stati Uniti, un bluff che non hanno modo di tenere a lungo. Le condizioni di vita nel Pakistan passeranno momenti difficili nel futuro prossimo, indipendentemente da quale decisione verrà presa, dato che la sua posizione è proprio sul punto di convergenza dei disegni dell’Occidente su Iran, Cina e Russia.
Nel frattempo, mentre Washington si mostra alleata dell’India, l’unico proposito di questa relazione è quella di gestire la competizione crescente con la Cina e con tutta l’area centrale e meridionale dell’Asia, India inclusa. Forse, mentre all’India gli si sta ghiacciando il sangue, non volendo interpretare un ruolo che si opponga a Pakistan e Cina, sarebbe necessaria un’altra opportuna fuga di notizie da Wikileaks che etichetti il governo indiano come un covo di corrotti per poter generare un bel "movimento anti-corruzione".
Mentre l’India sembra sperare che l’annuncio della morte di Bin Laden darà finalmente l’opportunità agli Stati Uniti di uscirsene dalla regione, i guerrafondai che hanno iniziato e proseguito la guerra, tra cui l’FDD, l’FPI e i propagandisti come Bill Roggio, suggeriscono invece che tutto questo servirà solo come stimolo per rimanerci ancora più a lungo e per espandere il raggio delle operazioni. Forse sarebbe una buona iniziativa che l’India, il Pakistan e la Cina abbandonino tutte insieme questa strategia della tensione che ultimamente non è utile a nessuno dei loro interessi e espellere l’Occidente una volta per tutte dai propri confini e dalla regione. In ultima analisi, è giunta di certo per chiunque l’ora di richiedere il rispetto della propria sovranità personale e nazionale da parte di un’élite al comando che ha completamente perso la testa.
04 maggio 2011
E perchè mai dovremmo avere fiducia nella classe dirigente di questo Paese
Secondo un sondaggio se oggi venissero indette le elezioni politiche il 48,5% degli italiani non andrebbe a votare. Un dato che non solo confermerebbe quello delle ultime amministrative (il 40%, sommando al 38% dei non votanti, le schede bianche e nulle) ma lo amplierebbe di molto sia, in quantità (9% circa in più) sia in qualità perché la partecipazione alle elezioni amministrative è sempre stata di gran lunga inferiore alla politiche. Si potrebbe osservare che in fondo non faremmo che allinearci alle percentuali di altri Paesi europei, soprattutto scandinavi. Ma il parallelo non regge. In quei Paesi molti cittadini non vanno a votare perché hanno fiducia nella classe politica nel suo complesso, per cui governi l’uno o l’altro non fa gran differenza, in ogni caso cercherà di fare il bene comune. L’Italia invece è un Paese che ha una tradizione di grande passione politica. Se un italiano su due non andasse a votare, vorrebbe dire che metà del Paese ha perso fiducia nella classe dirigente nel suo complesso, sia essa di destra o di sinistra. E perché mai dovrebbe averla? Basta guardare un qualsiasi talk show e ascoltare gli estenuanti rimpalli di responsabilità che gli esponenti delle due fazioni si lanciano per capire che costoro hanno in testa una sola cosa: la conservazione o l’occupazione del potere, non il bene pubblico anche se ce l’hanno sempre in bocca. Del resto tutta la cronaca politico-giudiziaria lo conferma. L’Italia, secondo dati Onu, ha una delle classi dirigenti più corrotte del mondo. E i nostri uomini politici invece di cercare di autocorreggersi hanno come obiettivo di innocuizzare la Magistratura per i reati che sono loro propri, la concussione, il peculato, la corruzione economica e finanziaria.
Non paghi degli innumerevoli privilegi, giudiziari e non, di cui già godono, vorrebbero reintrodurre l’immunità parlamentare, un istituto che andava bene quando i reggitori della cosa pubblica avevano un’etica ottocentesca e un ministro si suicidava, per la vergogna, perché accusato di aver portato via un pò di cancelleria dal proprio ufficio. Oggi i ministri si fanno regalare, senza vergogna, la metà di una casa di lusso e, dopo qualche mese di astinenza, tornano all’onor del mondo politico come se nulla fosse, più arroganti che mai. L’immunità, oggi, corrisponderebbe semplicemente a un’autorizzazione a delinquere. In un periodo di crisi economica, in cui tutti noi abbiamo il problema degli affitti e dei mutui, i nostri uomini politici lucrano sul patrimonio immobiliare e Enti di beneficenza accapparandosi a prezzi stracciati appartamenti nel pieno centro delle grandi città. In un periodo in cui la disoccupazione giovanile è al 30% piazzano i loro rampolli in posti sicuri e ben remunerati. Se poi dal 50% di coloro che vanno a votare togliamo i famigli, i clientes, quelli che hanno ricevuto favori o sono in attesa di riceverlo, io mi chiedo quale sia la reale percentuale di italiani che è rappresentata da questi partiti che hanno occupato arbitrariamente lo Stato.
Poiché la nostra classe politica non dà nessun segno di volersi autocorreggere, al contrario, io adotterei una soluzione da mercato-calciatori. Acquisterei Angela Merkel e le farei governare per dieci anni questo Paese. Solo allora, forse, si potrebbe ritornare a parlare in Italia di qualcosa che assomiglia, sia pur vagamente, a una democrazia.

Guardando la copertina del suo libro, dove vi è un grattacielo visto dal basso che ricorda la torre di Babele, viene naturale pensare che siamo di fronte a una sorta di hybris degli umani, alla smisuratezza di un processo totalmente sfuggito di mano, che ha preso vita propria, fuori da qualsiasi controllo.