06 giugno 2011

La stupida paura dei comunisti

Un uomo intelligente, sosteneva un grande conoscitore dell'animo umano, è quello che nei suoi rapporti con te fa il suo interesse ed anche il tuo... uno stupido, invece, è quello che riesce a perdere del suo e a far perdere anche te (in mezzo ci sono i "furbi" che guadagnano loro ma non ti fanno perdere, ed i "cialtroni" che guadagnano a spese tue).

Se volete, è una versione più internazionalizzata della divisione in "uomini, mezzi uomini, ominicchi e quacquaracquà" magistralmente rappresentata nel "Giorno della civetta".

Un elettore stupido, quindi, è quello che riesce a fare il suo danno e danneggiare anche tutti gli altri.

Purtroppo ciò avviene sempre più frequentemente (e non solo in Italia) a causa della diffusa ignoranza economica che, incoraggiata dai politici e dai loro bardi, si sta espandendo, a ritmo accelerato, dappertutto.

Non si contano i casi di "verdetti elettorali" manifestamente "contro" gli elettori stessi... e mi viene in mente il referendum contro la scala mobile, incredibilmente votato dalla maggioranza degli italiani negli anni 80, sotto il regno di Bettino Craxi.

Da li partì la continua compressione degli stipendi e salari che ci ha condotto, oggi, ad essere tra gli ultimi in Europa in quanto a retribuzioni pubbliche e private.

La cosa davvero divertente (ma è figlia di quell'ignoranza di cui sopra) è che molti dei "colpiti" dalle conseguenze di quel referendum (che magari oggi non arrivano neanche a fine mese) lo ritengano, nonostante tutto, un provvedimento positivo.

E non solo: anche quelli dei livelli superiori (classe media o borghesia), in nome del libero mercato (che non c'entra un cazzo nel caso di quel referendum) invocano stipendi "adeguati" (che, ovviamente, significa "più bassi") per i lavori "inferiori"... soprattutto quelli svolti dagli immigrati che... "tanto sono tutti morti di fame e gli facciamo già un favore a tenerli e pagarli"...

E' proprio quest'atteggiamento idiota che ci ha condotto, negli ultimi 10 anni, ad essere il paese con la più bassa crescita economica del mondo (prima solo di Haiti che, però, ha la scusante del terremoto)...

Il primo Henry Ford (fondatore dell'omonima casa automobilistica) sosteneva che pagare "bene" i suoi operai era il suo miglior investimento, e quello era, secondo la definizione data all'inizio, un uomo intelligente: faceva il suo interesse grazie ai guadagni che "consentiva" ai suoi lavoratori. Se questi avevano abbastanza denaro, potevano comprare le sua macchine, diversamente... nighese.

Perché, miei cari picciotti, il libero mercato si alimenta di piccioli... e se i tuoi clienti non ne hanno, tu ti attacchi al tram ed i tuoi prodotti non li vendi... Non so se mi ho capito...?

Noi sappiamo (in questo sito l'avrò ripetuto almeno un centinaio di volte) che una dell'equazioni fondamentali dell'Economia è:

Pil= Consumi + Investimenti + (Esportazioni - Esportazioni)

I consumi sono, di gran lunga, la componente più importante del Pil e, quindi, se l'Italia vuole crescere di più (ed abbandonare quel raccapricciante penultimo posto nella classifica mondiale), deve incentivare i consumi. E' così difficile da capire?

E come si fa ad incentivare i consumi?

Dando ai consumatori più soldi da spendere... mi pare ovvio.

Ma come si fa ad aumentare gli stipendi, se già le aziende italiane sono in crisi di competitività?

Riducendo le tasse. Se non puoi aumentare le retribuzioni, riduci il prelievo fiscale sulle stesse.

E come si fa a ridurre le tasse se lo Stato è in stato quasi fallimentare e non può permetterselo?

Riducendo le tasse ad alcuni ed aumentandole ad altri, in modo che, alla fine, il costo per lo Stato sia zero.

A chi si riducono e che si aumentano?

Vi risponderò con un esempio: supponiamo che la popolazione italiana sia costituita da 1000 dipendenti, con 10.000 euro l'anno di reddito, ed un solo ricco, con un milione di reddito. I primi arrivano a stento a fine mese, mentre il ricco spende 500.000 euro l'anno e risparmia gli altri 500.000.

Cosa hanno pensato tutti i governi di destra (ispirati dalla famosa rivoluzione fiscale Reagan-Thatcher)?

Di abbassare le tasse ai ricchi con il "preteso" presupposto che, se i ricchi hanno più soldi, spendono ed investono di più.

Ammettiamo che sia vero: se quel ricco che già spende 500.000 euro l'anno (e risparmia gli altri 500.000) ricevesse un bonus fiscale di 100.000 euro... che farebbe, se li spenderebbe tutti?

Non credo proprio... già si compra tutto ciò che vuole, cos'altro potrebbe comprare? Forse che Berlusconi si darebbe alla pazza gioia se pagasse 100.000 euro in meno di tasse l'anno?

Nella migliore delle ipotesi, continuerebbe (e mi riferisco al ricco dell'esempio) a spenderne metà e risparmiare l'altra metà.

Alla fine, dunque, se tutto andasse come da ipotesi migliore, avremmo consumi aumentati di 50.000 euro l'anno e, deficit pubblico aumentato di 100.000 (a meno che non si volesse far pagare 100 euro di tasse supplementari a testa, a quei 1000 poveracci che già arrivano a stento a fine mese. Sembrerebbe improponibile, ma l'ignoranza potrebbe anche condurre a questo).

Adesso esaminiamo l'altra ipotesi: 100 euro di bonus fiscale a testa ai 1000 dipendenti che, da 10.000 euro di reddito annuo, passerebbero a 10.100.

Cosa farebbero questi con quei 100 euro in più?

Li spenderebbero: hanno tanti e tali bisogni ancora da soddisfare, che non avrebbero alcun dubbio circa la destinazione di quei soldi.

I consumi, dunque, aumenterebbero di 100.000 euro (il doppio di prima) ed il Pil riceverebbe un sostanziale contributo alla crescita.

E chi pagherebbe quel bonus?

Il ricco da 1.000.000 di reddito l'anno: le su tasse sarebbero aumentate esattamente di quella cifra e, dunque, il suo reddito annuo calerebbe a 900.000 euro.

E se questo spendesse di meno?

Nossignore, non è nella natura umana; non si torna indietro nei consumi se non messi con le spalle al muro. Quel ricco continuerebbe a spendere 500.000 euro l'anno e ne risparmierebbe 400.000 (... e dopo un po di smadonnate, se ne farebbe una ragione e ringrazierebbe, comunque, la madonnina di Lourdes perché starebbe ancora notevolmente meglio di tutti gli altri...).

Risultato finale: lo Stato non spende un centesimo, i consumi aumentano, il Pil comincia a crescere in maniera sostenuta, ed il ricco, dopo avere bestemmiato tutti i santi, si mette l'anima in pace e, tutto sommato, resta ancora ricco.

A questo punto gli studenti di Economia dovrebbero obiettare: ma se il ricco riduce i risparmi, siccome questi devono essere uguali agli investimenti, quella riduzione provocherebbe una pari riduzione degli investimenti e, quindi, come si farebbe a produrre i "beni" richiesti dai maggiori consumi?

Ammesso (e non concesso) che il sistema fosse già al massimo della sua capacità produttiva (quello italiano, invece, è al 65%), quello sarebbe il momento di rispolverare Keynes: lo Stato dovrebbe intervenire per finanziare la parte mancante di investimenti, sicuro di recuperare (il suo investimento) nel giro di qualche anno, grazie alla maggiori entrate che assicurerebbe il Pil in crescita.

Ecco, dunque, la semplice ricetta per "dare una scossa" all'economia italiana.

Ma, se è così semplice, perché i nostri politici non la attuano?

Perché il semplice discutere di "tassare i ricchi" (tra cui, per inciso, ci sarei anch'io e, quindi, qui siamo davvero arrivati alla follia: i ricchi che riconoscono di dover pagare più tasse per il benessere collettivo, quindi anche il loro, ed i poveri che, invece, si "accaniscono" per non fargliele pagare) è da "comunisti", sicché, Berlusconi non vuole neanche sentirne parlare, e Bersani, per non passare da ex-comunista che perde il pelo ma non il vizio, evita anche alla lontana l'argomento, per evitare di perdere voti.

Cosicché, da 10 anni, cresciamo dello 0.2% l'anno di media (penultimi al mondo), le nostre retribuzioni sono tra le ultime in Europa, lo Stato ha ancora il 120% di deficit... e ci siamo avviati verso un infame declino senza ritorno.

Però, nessuno può dirci che siamo comunisti... cazzo. Tassare i ricchi mai.

Ora capite cosa intendevo quando, all'inizio, dicevo che gli elettori italiani sono stupidi (riescono a fare il loro danno e danneggiare anche tutti gli altri)?

Invece di discettare di questioni di lana caprina (...comunisti o fascisti...) che ormai sono patetiche rappresentazioni di altri tempi, perpetuano il declino del loro paese e le disgrazie dei loro stessi figli e nipoti, continuando a sostenere (con i loro voti) chi, per la stupida paura di essere considerato "comunista", non fa ciò che dovrebbe per rimettere questo paese in moto.

Poi, però, vanno al Bar e si vantano con gli amici di "avercelo duro"... forse perché abituati a ragionare solo con l'uccello.

E di quanto dovrebbero aumentare le tasse ai ricchi?

Una recente ricerca del Fondo monetario internazionale ha dimostrato che, in Europa, nel 1980 i redditi da lavoro erano il 73% del Pil e quelli da capitale il 27%, mentre nel 2004 i primi erano scesi al 63% ed i secondi erano aumentati al 37%.

Da ciò si capisce una cosa semplicissima: tutte le politiche di "destra" di questi ultimi 30 anni (dal duo Reagan-Thatcher in poi) hanno privilegiato il "capitale" (cioè i ricchi) a scapito del "lavoro" (cioè i poveri).

Questa concentrazione di ricchezza nelle mani dei più abbienti (tra cui, ripeto, il sottoscritto) ha "compresso" i consumi collettivi (che, abbiamo visto, dipendono grandemente dalla possibilità di spesa dei lavoratori dipendenti e, più in generale, dei meno ricchi... tra cui anche e soprattutto gli immigrati) e, dunque, ha provocato stagnazione nei paesi che, come l'Italia, a causa di un abnorme debito pubblico, non potevano permettersi un intervento "riequilibratore" dello Stato.

Si tratterebbe, dunque, di ristabilire le posizioni ex-ante (quelle del 1980), togliendo 10 punti di Pil (160 miliardi l'anno) ai "ricchi" per distribuirli ai "poveri". Quei 160 miliardi si trasformerebbero (quasi per intero) in consumi e, dunque, il Pil riprenderebbe a "correre" molto oltre le media europea...

Vi sembrano esagerati 160 miliardi? ... Bene, possono bastarne anche 80 per dare una scossa significativa al Pil e fare uscire il paese dalla stagnazione e dal declino...

Sembrerebbe tutto così ovvio, se non fosse che, allo stesso tempo, sembra anche avere l'impronta di Marx e, Dio ce ne scampi, di Lenin. Sicché, anche se sarebbe l'unica cosa da fare, non si fa.

Pertanto: Berlusconi può continuare ad additare i comunisti come la rovina dell'umanità, tutti i suoi collaboratori ex-comunisti (e sono una marea, tra i quali alcuni militavano addirittura in Lotta continua) possono raccontarci la storiella del pentimento e della redenzione, e gli ex-comunisti rimasti a sinistra, possono ancora aspirare al titolo di democratici progressisti e riformatori.

... Cazzu cazzu, iu iu ....

E gli italiani?

Alcuni si ritengono furbi, altri dicono di avercelo duro, ma, per la maggior parte, si lasciano pigliare per il culo da una banda di guitti di poco valore, che riescono a mantenere quei loro privilegi da "capetti", grazie alla diffusa ignoranza dei loro elettori.

E non è un'opinione, ma matematica i cui numeri sono chiaramente esposti in questa pagina. A meno che qualcuno non voglia confutarli e dimostrarmi il contrario.

di G. Migliorino

05 giugno 2011

Capitalismo. La ricetta del dottor Morte

A vederlo da vicino, il dottor Morte, nemmeno fa paura. Un uomo pacato, ben pettinato e vestito, a suo agio con fascicoli e incartamenti. Ogni tanto s’aggiusta gli occhiali sul naso, come se volesse mettere meglio a fuoco dati e cifre, verificare entrate e uscite di ogni azienda. Fa il consulente ed è famoso tra i suoi clienti. Anche se non ha mai guadagnato una copertina, un titolo in prima pagina oppure una intervista a Porta a Porta. Non fa nulla per apparire, perché gli piace vivere e operare nell’ombra. Se provi a fare mezzo accenno alle sue capacità, al suo successo professionale, lui minimizza e cerca di scaricare il merito su qualcun altro.

Eppure il dottor Morte ha inventato la ricetta più utilizzata nell’ultimo biennio, segreta come quella della Coca Cola. I risultati? Ha fatto chiudere migliaia fabbriche, ha causato la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro e ha gettato nella disperazione troppe famiglie. Dice di non voler rilasciare interviste, ma ti fa sedere al suo tavolo e ti guarda dritto negli occhi. Non sorride né si abbandona ad emozioni. Ti guarda proprio come guarda i fogli di carta messi in ordine sulla scrivania. Ti chiede cosa vuoi sapere, e ti domanda perché mai ad un giornalista dovrebbe venire in mente di chiedergli qualcosa, che lui alla fine è solo un tecnico e le cose che fa, le fa solo per il bene dei suoi clienti. Poi ti fa firmare un foglio, in cui giuri e spergiuri di non fare il suo nome e di cambiare i nomi alle aziende. Poi riprende a illustrare il suo lavoro, perché non vuole sentir parlare di ricette, mica è cuoco.

Lui applica la logica e segue le regole dei mercati globali. Per cui se una società in Italia costa troppo, deve riqualificarla riducendone i costi fissi – e tiene a precisare non è colpa sua se il personale è tra i maggiori –, cercando di portare al massimo possibile la produzione. Se la società ha sedi all’estero ancora meglio, perché lì non ci sono né articolo 18 né cassa integrazione né mobilità. Tu fai quel che devi fare e lo Stato pensa al resto. Se poi gli chiedi come fa ad operare in Italia, visto che lui stesso ti parla di lacci e lacciuoli, allora ti guarda un po’ meglio, s’aggiusta la montatura, quasi a voler capire se ci sei o ci fai. E ricomincia a parlare, dicendo che mi sono seduto lì davanti a lui con una mia idea ma è evidente che di questa ricetta – o come la voglio chiamare – non conosco nulla. Prende un fascicolo dal mucchio, è solo l’ultima delle tante aziende a cui ha offerto i suoi preziosi consigli. Si meraviglia delle coincidenze, perché il caso che mi vuol portare ad esempio riguarda una società che ha la sede vicino alla città in cui sono nato e vivo, Latina.

Dice che non è stata nemmeno la prima, in quella zona, e sostiene che è stato un lavoro più facile del previsto. Sorride e ripensa a come gli uomini in crisi possano essere ingenui. Continua a dire che noi lavoratori dipendenti, vittime della leggenda del posto fisso, ci caschiamo sempre, tutte le volte. C’è pure un proverbio che spiega questo fatto: la speranza è l’ultima a morire. Si compiace e ride, si aggiusta ancora gli occhiali e continua: per loro, i padroni per intenderci, è troppo facile proporre accordi capestro, perché siamo troppo concentrati a salvare prima 1000 posti, poi 500, poi 100 e poi 10, fino a quando non c’è più un posto da difendere e il sindacato è costretto ad alzare le braccia. Quando è troppo tardi ci accorgiamo che l’azienda è chiusa. Al massimo possiamo pensare a riqualificare l’area o a riconvertire il sito, cercando nuovi acquirenti. E mi chiede il dottor Morte, quasi divertito, se sono davvero convinto che questi altri investitori useranno criteri diversi per investire i loro soldi. “A proposito…” mi dice lasciando la frase in sospeso, poi si ricompone e mi dice di stare a sentire perché non ha più molto tempo da perdere.

LA RICETTA

Il gruppo Monolevel ha quattro società sparse in Europa: due in Germania, una in Inghilterra e una in Italia. La Palmina, una finanziaria con interessi un po’ in tutti i settori produttivi, è il gruppo acquirente e si è rivolto a lui perché vuole andare sul sicuro. Fanno tutti così, dice ancora il dottor Morte, come se fosse la cosa più normale del mondo. Qual’è il vero punto di forza della Monolevel? Oltre alle aziende, ha anche i diritti d’immagine di un noto marchio nell’industria agroalimentare.

Il brand fa il prezzo sul mercato, la produzione lo sostiene e lo penalizza. Così, appena ha iniziato a leggere gli incartamenti, aveva già in mente cosa sarebbe stato necessario fare. E’ un modus operandi semplice e lineare, che porta a risultati garantiti. Quelli della Palmina non volevano crederci. “Non può essere tutto così semplice” ripetevano e lui a convincerli che non c’era altra scelta, se volevano guadagnare bene dall’operazione, per giunta in pochi anni. Dovevano fare così come gli aveva appena illustrato, passo per passo.

Bisognava acquisire prima gli stabilimenti in Germania e Inghilterra, con l’obiettivo di risistemarli attraverso consistenti tagli al personale, accordi sulla detassazione del costo del lavoro e una maggiore flessibilità sulla rotazione nei reparti e nell’orario. Solo dopo aver acquisito questa posizione di forza, sarebbe stato possibile acquisire lo stabilimento in Italia. I sindacati avrebbero capito questa manovra – perché dice il dottor Morte che non sono fessi – e avrebbero subito iniziato a voler trattare. Per la famosa ‘rete di protezione’ dei lavoratori che in realtà si rivela troppo spesso una tonnara. Perché il dottor Morte sostiene che dipende come ci stai seduto, al tavolo delle trattative, e se la rete hai intenzione di farla valere per tutti o solo per alcuni. Le società questi particolari li notano, quasi li fiutano da chi e come si presenta, da quanto è aggressivo o sottomesso.

Parola del dottor Morte che ci sono fior fiore di studi e professionisti a studiare scientificamente ogni singolo aspetto, perché loro non sono abituati a scherzare con i soldi. E continua che proprio quando i sindacati vogliono trattare, allora bisogna far trapelare la possibilità che vi siano esuberi, tanti esuberi. Non importa che venga indicato il numero preciso dei lavoratori che non servono più, basta utilizzare la parola esuberi che il sindacato entra in agitazione. Dopo la rabbia iniziale e magari qualche sciopero, arriva la paura e si inizia a pensare a strumenti come la mobilità e la cassa integrazione, attraverso la richiesta di tavoli ministeriali. Per un po’ la società fa finta di tenere il punto, poi accetta di buon grado. Dice il dottor Morte che bisogna solo stare attenti alla tempistica e allo stato d’animo dei lavoratori.

Dopo un iniziale stato di fastidio infatti, c’è una seconda fase – quella della paura – in cui il sindacato inizia ad accettare l’idea – insieme a molti dei lavoratori – dei tagli, della riduzione degli sprechi, dei posti di troppo ed è quello il momento di calare l’asso: indicare il numero degli esuberi e coinvolgere il sindacato nella scelta dei nomi. Magicamente, arriva il momento in cui ci si siede al tavolo delle trattative. Non si discute più se mandare a casa o no dei lavoratori perché si passa dalla qualità alla quantità.

Quanti sono gli esuberi effettivi? Chi rientra in questo piano di riduzione del personale? L’azienda coinvolge le altre parti sedute al tavolo solo per verificare che non siano colpite le famiglie monoreddito o i disabili. Nobile scopo sì, ma con trappola annessa. Perché si sa, continua ancora il dottor Morte, il potere assoluto può facilmente dare alla testa, succede nove volte su dieci. E il sindacato, insieme all’ufficio del personale locale, inizia ad andare oltre i parametri stabiliti all’inizio. “Mettici quello che è un crumiro e ha pure il doppio lavoro”, “Mettici quell’altro che m’ha risposto male e non vuole fare i turni”. Il gioco è fatto: una volta macchiato, non è più credibile nessuno. Né il sindacato né l’ufficio locale delle risorse umane, che magari qualche suo interesse di bottega potrebbe pure averlo.

A quel punto non ci sono più ostacoli, parte la mobilità e la cassa integrazione che anche i politici così hanno qualcosa da promettere. La produzione diminuisce, nonostante i lavoratori siano sottoposti lo stesso a rotazione selvaggia nei reparti – e quindi al demansionamento – e a ritmi di lavoro più pesanti. Meno persone lavorano, meno si produce. Gli sprechi non esistono più da tempo, lo sappiamo tutti ma facciamo finta di ignorarlo. E così alcuni reparti, quelli più colpiti dagli esuberi, non ce la fanno a sostenere la mole di lavoro e parte della produzione viene trasferita negli altri stabilimenti esteri. Altri reparti, dove i licenziamenti non sono stati numericamente troppo invasivi, vengono sostenuti attraverso l’outsourcing, cioè i lavoratori precari o stagionali che non hanno molti diritti e all’interno dell’azienda sono sempre una mina vagante utile, utilissima.

A questo punto, scaduto l’accordo sulla prima cassa integrazione e la prima mobilità, se ne chiede un’altra, scaduta quest’altra se ne chiede un’altra ancora e così via. Tutti sono convinti di tamponare la crisi, aspettando che prima o poi passi, ma il vero problema non è la crisi. Non è mai stata la crisi. E’ la società Palmina che vuol vendere un brand e una produzione ristrutturata al miglior offerente. Questo significa smantellare lo stabilimento italiano. “Deplorevole?” chiede il dottor Morte. E come a voler giustificare il suo operato ai miei occhi, si risponde da solo: le regole del mercato non le fa lui, è soltanto uno che le conosce e che si muove rispettandole per far guadagnare i suoi clienti. Se gli investitori chiedono di licenziare 10 mila persone, lui non può esimersi dal farlo. Mors tua, vita mea. E se quel ‘tua’ significa una persona o 10 mila, poco importa.

di Graziano Lanzidei

04 giugno 2011

Dire la verità sui poteri forti







Più di un terzo dell’elettorato non ha votato: possiamo essere certi che si tratta in grande maggioranza di elettori del centro destra. L’astensione altissima alle provinciali segnala anche qualcosa di più: la protesta per la mancata abolizione delle province. Parto da questo punto per un’analisi dei motivi della sconfitta un po’ diversa da quelle prospettate fino adesso. Bisogna, infatti, che i politici berlusconiani guardino bene in faccia prima di tutto una realtà: i loro elettori non sono bambini cui offrire caramelle ma persone serissime, che conoscono in profondità i problemi dell’Italia e che hanno scelto l’occasione del voto amministrativo, proprio perché non è decisivo, per gridare a Berlusconi e a Bossi che la loro pazienza è finita e che, di conseguenza, debbono affrontare i problemi veri prima delle politiche.

Sebbene la battaglia elettorale sia stata accesissima, non è servita a rassicurare gli elettori del centro destra perché non è stata detta nessuna verità. Quali erano gli argomenti dei quali bisognava parlare e che avrebbero suscitato l’interesse critico in tutti? Prima di tutto il debito pubblico, la crisi dell’euro, il continuo richiamo della Banca centrale europea ai famosi “sacrifici”, sacrifici per i quali la cultura deve andare in malora … Crede, forse, Berlusconi, che i suoi elettori non sappiano che siamo chiusi nella prigione della mancanza di sovranità monetaria? Che è questo il motivo per il quale non si possono abbassare le tasse? Crede forse Berlusconi che gli elettori siano degli analfabeti che si occupano soltanto di calcio? Se non si discutono questi argomenti, se non se ne dimostrano le conseguenze negative in tutti i campi, si perdono i voti della propria parte e non si toglie neanche un voto alle sinistre perché l’europeismo, il mondialismo, l’internazionalismo, il mercato comune, la moneta comune sono i valori delle sinistre. I famosi “poteri forti” non se ne sono stati di certo a guardare.

E la guerra alla Libia? Di sicuro non è stata la sinistra a soffrire di un tale voltafaccia dato che i rapporti amichevoli con Gheddafi, i contratti per le aziende italiane, il freno all’emigrazione clandestina erano esclusivamente opera di Berlusconi. Perché non è stata detta una parola in proposito? Si pensa, forse, che non stiano a cuore ai Milanesi? Non parliamo, poi, dei leghisti, veri e propri esperti di questi problemi, abituati a discutere con disinvoltura della possibilità o della convenienza per l’Italia di uscire dall’euro, di sospendere il trattato di Schengen per poter fronteggiare l’immigrazione clandestina e che, viceversa, hanno assistito con stupore e con rabbia alle esitazioni, alle debolezze, ai cedimenti dei propri politici, incapaci di opporsi a poteri più che forti: fortissimi. Continuare a fingere di stare da tutte e due le parti serve soltanto a perdere.

Bisogna aggiungere a tutti questi aspetti negativi l’atmosfera grigia intellettualmente, culturalmente, artisticamente, creata dal centro destra e che è diventata con il passare del tempo tanto pesante da togliere il respiro. Manca qualsiasi sussulto critico, qualsiasi iniziativa dell’intelligenza, perfino nell’ambito religioso, dove tanti credenti, che pure votano per il centro destra, vorrebbero poter discutere il proprio disaccordo con le gerarchie, ma non trovano lo spazio adatto. Dove e come farlo, infatti? Nell’ambito politico Berlusconi e Bossi hanno accuratamente scartato qualsiasi persona che possedesse il minimo prestigio intellettuale e, per maggiore sicurezza, non hanno creato nessuno strumento dove l’intelligenza potesse fare capolino. Nel centro destra non esiste né una rivista né un programma televisivo di cultura: nulla. Sono state mortificate così le forze migliori, le uniche che potevano e forse possono ancora sconfiggere le sinistre. Berlusconi ha sempre detto che voleva salvare l’Italia dal comunismo: il mondialismo, il multiculturalismo, il primato dell’economia e del mercato sono figli di Marx, e sono “idee” prima di essere fatti. Non si possono vincere se non con altre idee e ingaggiando una durissima battaglia a viso aperto.
di Ida Magli

06 giugno 2011

La stupida paura dei comunisti

Un uomo intelligente, sosteneva un grande conoscitore dell'animo umano, è quello che nei suoi rapporti con te fa il suo interesse ed anche il tuo... uno stupido, invece, è quello che riesce a perdere del suo e a far perdere anche te (in mezzo ci sono i "furbi" che guadagnano loro ma non ti fanno perdere, ed i "cialtroni" che guadagnano a spese tue).

Se volete, è una versione più internazionalizzata della divisione in "uomini, mezzi uomini, ominicchi e quacquaracquà" magistralmente rappresentata nel "Giorno della civetta".

Un elettore stupido, quindi, è quello che riesce a fare il suo danno e danneggiare anche tutti gli altri.

Purtroppo ciò avviene sempre più frequentemente (e non solo in Italia) a causa della diffusa ignoranza economica che, incoraggiata dai politici e dai loro bardi, si sta espandendo, a ritmo accelerato, dappertutto.

Non si contano i casi di "verdetti elettorali" manifestamente "contro" gli elettori stessi... e mi viene in mente il referendum contro la scala mobile, incredibilmente votato dalla maggioranza degli italiani negli anni 80, sotto il regno di Bettino Craxi.

Da li partì la continua compressione degli stipendi e salari che ci ha condotto, oggi, ad essere tra gli ultimi in Europa in quanto a retribuzioni pubbliche e private.

La cosa davvero divertente (ma è figlia di quell'ignoranza di cui sopra) è che molti dei "colpiti" dalle conseguenze di quel referendum (che magari oggi non arrivano neanche a fine mese) lo ritengano, nonostante tutto, un provvedimento positivo.

E non solo: anche quelli dei livelli superiori (classe media o borghesia), in nome del libero mercato (che non c'entra un cazzo nel caso di quel referendum) invocano stipendi "adeguati" (che, ovviamente, significa "più bassi") per i lavori "inferiori"... soprattutto quelli svolti dagli immigrati che... "tanto sono tutti morti di fame e gli facciamo già un favore a tenerli e pagarli"...

E' proprio quest'atteggiamento idiota che ci ha condotto, negli ultimi 10 anni, ad essere il paese con la più bassa crescita economica del mondo (prima solo di Haiti che, però, ha la scusante del terremoto)...

Il primo Henry Ford (fondatore dell'omonima casa automobilistica) sosteneva che pagare "bene" i suoi operai era il suo miglior investimento, e quello era, secondo la definizione data all'inizio, un uomo intelligente: faceva il suo interesse grazie ai guadagni che "consentiva" ai suoi lavoratori. Se questi avevano abbastanza denaro, potevano comprare le sua macchine, diversamente... nighese.

Perché, miei cari picciotti, il libero mercato si alimenta di piccioli... e se i tuoi clienti non ne hanno, tu ti attacchi al tram ed i tuoi prodotti non li vendi... Non so se mi ho capito...?

Noi sappiamo (in questo sito l'avrò ripetuto almeno un centinaio di volte) che una dell'equazioni fondamentali dell'Economia è:

Pil= Consumi + Investimenti + (Esportazioni - Esportazioni)

I consumi sono, di gran lunga, la componente più importante del Pil e, quindi, se l'Italia vuole crescere di più (ed abbandonare quel raccapricciante penultimo posto nella classifica mondiale), deve incentivare i consumi. E' così difficile da capire?

E come si fa ad incentivare i consumi?

Dando ai consumatori più soldi da spendere... mi pare ovvio.

Ma come si fa ad aumentare gli stipendi, se già le aziende italiane sono in crisi di competitività?

Riducendo le tasse. Se non puoi aumentare le retribuzioni, riduci il prelievo fiscale sulle stesse.

E come si fa a ridurre le tasse se lo Stato è in stato quasi fallimentare e non può permetterselo?

Riducendo le tasse ad alcuni ed aumentandole ad altri, in modo che, alla fine, il costo per lo Stato sia zero.

A chi si riducono e che si aumentano?

Vi risponderò con un esempio: supponiamo che la popolazione italiana sia costituita da 1000 dipendenti, con 10.000 euro l'anno di reddito, ed un solo ricco, con un milione di reddito. I primi arrivano a stento a fine mese, mentre il ricco spende 500.000 euro l'anno e risparmia gli altri 500.000.

Cosa hanno pensato tutti i governi di destra (ispirati dalla famosa rivoluzione fiscale Reagan-Thatcher)?

Di abbassare le tasse ai ricchi con il "preteso" presupposto che, se i ricchi hanno più soldi, spendono ed investono di più.

Ammettiamo che sia vero: se quel ricco che già spende 500.000 euro l'anno (e risparmia gli altri 500.000) ricevesse un bonus fiscale di 100.000 euro... che farebbe, se li spenderebbe tutti?

Non credo proprio... già si compra tutto ciò che vuole, cos'altro potrebbe comprare? Forse che Berlusconi si darebbe alla pazza gioia se pagasse 100.000 euro in meno di tasse l'anno?

Nella migliore delle ipotesi, continuerebbe (e mi riferisco al ricco dell'esempio) a spenderne metà e risparmiare l'altra metà.

Alla fine, dunque, se tutto andasse come da ipotesi migliore, avremmo consumi aumentati di 50.000 euro l'anno e, deficit pubblico aumentato di 100.000 (a meno che non si volesse far pagare 100 euro di tasse supplementari a testa, a quei 1000 poveracci che già arrivano a stento a fine mese. Sembrerebbe improponibile, ma l'ignoranza potrebbe anche condurre a questo).

Adesso esaminiamo l'altra ipotesi: 100 euro di bonus fiscale a testa ai 1000 dipendenti che, da 10.000 euro di reddito annuo, passerebbero a 10.100.

Cosa farebbero questi con quei 100 euro in più?

Li spenderebbero: hanno tanti e tali bisogni ancora da soddisfare, che non avrebbero alcun dubbio circa la destinazione di quei soldi.

I consumi, dunque, aumenterebbero di 100.000 euro (il doppio di prima) ed il Pil riceverebbe un sostanziale contributo alla crescita.

E chi pagherebbe quel bonus?

Il ricco da 1.000.000 di reddito l'anno: le su tasse sarebbero aumentate esattamente di quella cifra e, dunque, il suo reddito annuo calerebbe a 900.000 euro.

E se questo spendesse di meno?

Nossignore, non è nella natura umana; non si torna indietro nei consumi se non messi con le spalle al muro. Quel ricco continuerebbe a spendere 500.000 euro l'anno e ne risparmierebbe 400.000 (... e dopo un po di smadonnate, se ne farebbe una ragione e ringrazierebbe, comunque, la madonnina di Lourdes perché starebbe ancora notevolmente meglio di tutti gli altri...).

Risultato finale: lo Stato non spende un centesimo, i consumi aumentano, il Pil comincia a crescere in maniera sostenuta, ed il ricco, dopo avere bestemmiato tutti i santi, si mette l'anima in pace e, tutto sommato, resta ancora ricco.

A questo punto gli studenti di Economia dovrebbero obiettare: ma se il ricco riduce i risparmi, siccome questi devono essere uguali agli investimenti, quella riduzione provocherebbe una pari riduzione degli investimenti e, quindi, come si farebbe a produrre i "beni" richiesti dai maggiori consumi?

Ammesso (e non concesso) che il sistema fosse già al massimo della sua capacità produttiva (quello italiano, invece, è al 65%), quello sarebbe il momento di rispolverare Keynes: lo Stato dovrebbe intervenire per finanziare la parte mancante di investimenti, sicuro di recuperare (il suo investimento) nel giro di qualche anno, grazie alla maggiori entrate che assicurerebbe il Pil in crescita.

Ecco, dunque, la semplice ricetta per "dare una scossa" all'economia italiana.

Ma, se è così semplice, perché i nostri politici non la attuano?

Perché il semplice discutere di "tassare i ricchi" (tra cui, per inciso, ci sarei anch'io e, quindi, qui siamo davvero arrivati alla follia: i ricchi che riconoscono di dover pagare più tasse per il benessere collettivo, quindi anche il loro, ed i poveri che, invece, si "accaniscono" per non fargliele pagare) è da "comunisti", sicché, Berlusconi non vuole neanche sentirne parlare, e Bersani, per non passare da ex-comunista che perde il pelo ma non il vizio, evita anche alla lontana l'argomento, per evitare di perdere voti.

Cosicché, da 10 anni, cresciamo dello 0.2% l'anno di media (penultimi al mondo), le nostre retribuzioni sono tra le ultime in Europa, lo Stato ha ancora il 120% di deficit... e ci siamo avviati verso un infame declino senza ritorno.

Però, nessuno può dirci che siamo comunisti... cazzo. Tassare i ricchi mai.

Ora capite cosa intendevo quando, all'inizio, dicevo che gli elettori italiani sono stupidi (riescono a fare il loro danno e danneggiare anche tutti gli altri)?

Invece di discettare di questioni di lana caprina (...comunisti o fascisti...) che ormai sono patetiche rappresentazioni di altri tempi, perpetuano il declino del loro paese e le disgrazie dei loro stessi figli e nipoti, continuando a sostenere (con i loro voti) chi, per la stupida paura di essere considerato "comunista", non fa ciò che dovrebbe per rimettere questo paese in moto.

Poi, però, vanno al Bar e si vantano con gli amici di "avercelo duro"... forse perché abituati a ragionare solo con l'uccello.

E di quanto dovrebbero aumentare le tasse ai ricchi?

Una recente ricerca del Fondo monetario internazionale ha dimostrato che, in Europa, nel 1980 i redditi da lavoro erano il 73% del Pil e quelli da capitale il 27%, mentre nel 2004 i primi erano scesi al 63% ed i secondi erano aumentati al 37%.

Da ciò si capisce una cosa semplicissima: tutte le politiche di "destra" di questi ultimi 30 anni (dal duo Reagan-Thatcher in poi) hanno privilegiato il "capitale" (cioè i ricchi) a scapito del "lavoro" (cioè i poveri).

Questa concentrazione di ricchezza nelle mani dei più abbienti (tra cui, ripeto, il sottoscritto) ha "compresso" i consumi collettivi (che, abbiamo visto, dipendono grandemente dalla possibilità di spesa dei lavoratori dipendenti e, più in generale, dei meno ricchi... tra cui anche e soprattutto gli immigrati) e, dunque, ha provocato stagnazione nei paesi che, come l'Italia, a causa di un abnorme debito pubblico, non potevano permettersi un intervento "riequilibratore" dello Stato.

Si tratterebbe, dunque, di ristabilire le posizioni ex-ante (quelle del 1980), togliendo 10 punti di Pil (160 miliardi l'anno) ai "ricchi" per distribuirli ai "poveri". Quei 160 miliardi si trasformerebbero (quasi per intero) in consumi e, dunque, il Pil riprenderebbe a "correre" molto oltre le media europea...

Vi sembrano esagerati 160 miliardi? ... Bene, possono bastarne anche 80 per dare una scossa significativa al Pil e fare uscire il paese dalla stagnazione e dal declino...

Sembrerebbe tutto così ovvio, se non fosse che, allo stesso tempo, sembra anche avere l'impronta di Marx e, Dio ce ne scampi, di Lenin. Sicché, anche se sarebbe l'unica cosa da fare, non si fa.

Pertanto: Berlusconi può continuare ad additare i comunisti come la rovina dell'umanità, tutti i suoi collaboratori ex-comunisti (e sono una marea, tra i quali alcuni militavano addirittura in Lotta continua) possono raccontarci la storiella del pentimento e della redenzione, e gli ex-comunisti rimasti a sinistra, possono ancora aspirare al titolo di democratici progressisti e riformatori.

... Cazzu cazzu, iu iu ....

E gli italiani?

Alcuni si ritengono furbi, altri dicono di avercelo duro, ma, per la maggior parte, si lasciano pigliare per il culo da una banda di guitti di poco valore, che riescono a mantenere quei loro privilegi da "capetti", grazie alla diffusa ignoranza dei loro elettori.

E non è un'opinione, ma matematica i cui numeri sono chiaramente esposti in questa pagina. A meno che qualcuno non voglia confutarli e dimostrarmi il contrario.

di G. Migliorino

05 giugno 2011

Capitalismo. La ricetta del dottor Morte

A vederlo da vicino, il dottor Morte, nemmeno fa paura. Un uomo pacato, ben pettinato e vestito, a suo agio con fascicoli e incartamenti. Ogni tanto s’aggiusta gli occhiali sul naso, come se volesse mettere meglio a fuoco dati e cifre, verificare entrate e uscite di ogni azienda. Fa il consulente ed è famoso tra i suoi clienti. Anche se non ha mai guadagnato una copertina, un titolo in prima pagina oppure una intervista a Porta a Porta. Non fa nulla per apparire, perché gli piace vivere e operare nell’ombra. Se provi a fare mezzo accenno alle sue capacità, al suo successo professionale, lui minimizza e cerca di scaricare il merito su qualcun altro.

Eppure il dottor Morte ha inventato la ricetta più utilizzata nell’ultimo biennio, segreta come quella della Coca Cola. I risultati? Ha fatto chiudere migliaia fabbriche, ha causato la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro e ha gettato nella disperazione troppe famiglie. Dice di non voler rilasciare interviste, ma ti fa sedere al suo tavolo e ti guarda dritto negli occhi. Non sorride né si abbandona ad emozioni. Ti guarda proprio come guarda i fogli di carta messi in ordine sulla scrivania. Ti chiede cosa vuoi sapere, e ti domanda perché mai ad un giornalista dovrebbe venire in mente di chiedergli qualcosa, che lui alla fine è solo un tecnico e le cose che fa, le fa solo per il bene dei suoi clienti. Poi ti fa firmare un foglio, in cui giuri e spergiuri di non fare il suo nome e di cambiare i nomi alle aziende. Poi riprende a illustrare il suo lavoro, perché non vuole sentir parlare di ricette, mica è cuoco.

Lui applica la logica e segue le regole dei mercati globali. Per cui se una società in Italia costa troppo, deve riqualificarla riducendone i costi fissi – e tiene a precisare non è colpa sua se il personale è tra i maggiori –, cercando di portare al massimo possibile la produzione. Se la società ha sedi all’estero ancora meglio, perché lì non ci sono né articolo 18 né cassa integrazione né mobilità. Tu fai quel che devi fare e lo Stato pensa al resto. Se poi gli chiedi come fa ad operare in Italia, visto che lui stesso ti parla di lacci e lacciuoli, allora ti guarda un po’ meglio, s’aggiusta la montatura, quasi a voler capire se ci sei o ci fai. E ricomincia a parlare, dicendo che mi sono seduto lì davanti a lui con una mia idea ma è evidente che di questa ricetta – o come la voglio chiamare – non conosco nulla. Prende un fascicolo dal mucchio, è solo l’ultima delle tante aziende a cui ha offerto i suoi preziosi consigli. Si meraviglia delle coincidenze, perché il caso che mi vuol portare ad esempio riguarda una società che ha la sede vicino alla città in cui sono nato e vivo, Latina.

Dice che non è stata nemmeno la prima, in quella zona, e sostiene che è stato un lavoro più facile del previsto. Sorride e ripensa a come gli uomini in crisi possano essere ingenui. Continua a dire che noi lavoratori dipendenti, vittime della leggenda del posto fisso, ci caschiamo sempre, tutte le volte. C’è pure un proverbio che spiega questo fatto: la speranza è l’ultima a morire. Si compiace e ride, si aggiusta ancora gli occhiali e continua: per loro, i padroni per intenderci, è troppo facile proporre accordi capestro, perché siamo troppo concentrati a salvare prima 1000 posti, poi 500, poi 100 e poi 10, fino a quando non c’è più un posto da difendere e il sindacato è costretto ad alzare le braccia. Quando è troppo tardi ci accorgiamo che l’azienda è chiusa. Al massimo possiamo pensare a riqualificare l’area o a riconvertire il sito, cercando nuovi acquirenti. E mi chiede il dottor Morte, quasi divertito, se sono davvero convinto che questi altri investitori useranno criteri diversi per investire i loro soldi. “A proposito…” mi dice lasciando la frase in sospeso, poi si ricompone e mi dice di stare a sentire perché non ha più molto tempo da perdere.

LA RICETTA

Il gruppo Monolevel ha quattro società sparse in Europa: due in Germania, una in Inghilterra e una in Italia. La Palmina, una finanziaria con interessi un po’ in tutti i settori produttivi, è il gruppo acquirente e si è rivolto a lui perché vuole andare sul sicuro. Fanno tutti così, dice ancora il dottor Morte, come se fosse la cosa più normale del mondo. Qual’è il vero punto di forza della Monolevel? Oltre alle aziende, ha anche i diritti d’immagine di un noto marchio nell’industria agroalimentare.

Il brand fa il prezzo sul mercato, la produzione lo sostiene e lo penalizza. Così, appena ha iniziato a leggere gli incartamenti, aveva già in mente cosa sarebbe stato necessario fare. E’ un modus operandi semplice e lineare, che porta a risultati garantiti. Quelli della Palmina non volevano crederci. “Non può essere tutto così semplice” ripetevano e lui a convincerli che non c’era altra scelta, se volevano guadagnare bene dall’operazione, per giunta in pochi anni. Dovevano fare così come gli aveva appena illustrato, passo per passo.

Bisognava acquisire prima gli stabilimenti in Germania e Inghilterra, con l’obiettivo di risistemarli attraverso consistenti tagli al personale, accordi sulla detassazione del costo del lavoro e una maggiore flessibilità sulla rotazione nei reparti e nell’orario. Solo dopo aver acquisito questa posizione di forza, sarebbe stato possibile acquisire lo stabilimento in Italia. I sindacati avrebbero capito questa manovra – perché dice il dottor Morte che non sono fessi – e avrebbero subito iniziato a voler trattare. Per la famosa ‘rete di protezione’ dei lavoratori che in realtà si rivela troppo spesso una tonnara. Perché il dottor Morte sostiene che dipende come ci stai seduto, al tavolo delle trattative, e se la rete hai intenzione di farla valere per tutti o solo per alcuni. Le società questi particolari li notano, quasi li fiutano da chi e come si presenta, da quanto è aggressivo o sottomesso.

Parola del dottor Morte che ci sono fior fiore di studi e professionisti a studiare scientificamente ogni singolo aspetto, perché loro non sono abituati a scherzare con i soldi. E continua che proprio quando i sindacati vogliono trattare, allora bisogna far trapelare la possibilità che vi siano esuberi, tanti esuberi. Non importa che venga indicato il numero preciso dei lavoratori che non servono più, basta utilizzare la parola esuberi che il sindacato entra in agitazione. Dopo la rabbia iniziale e magari qualche sciopero, arriva la paura e si inizia a pensare a strumenti come la mobilità e la cassa integrazione, attraverso la richiesta di tavoli ministeriali. Per un po’ la società fa finta di tenere il punto, poi accetta di buon grado. Dice il dottor Morte che bisogna solo stare attenti alla tempistica e allo stato d’animo dei lavoratori.

Dopo un iniziale stato di fastidio infatti, c’è una seconda fase – quella della paura – in cui il sindacato inizia ad accettare l’idea – insieme a molti dei lavoratori – dei tagli, della riduzione degli sprechi, dei posti di troppo ed è quello il momento di calare l’asso: indicare il numero degli esuberi e coinvolgere il sindacato nella scelta dei nomi. Magicamente, arriva il momento in cui ci si siede al tavolo delle trattative. Non si discute più se mandare a casa o no dei lavoratori perché si passa dalla qualità alla quantità.

Quanti sono gli esuberi effettivi? Chi rientra in questo piano di riduzione del personale? L’azienda coinvolge le altre parti sedute al tavolo solo per verificare che non siano colpite le famiglie monoreddito o i disabili. Nobile scopo sì, ma con trappola annessa. Perché si sa, continua ancora il dottor Morte, il potere assoluto può facilmente dare alla testa, succede nove volte su dieci. E il sindacato, insieme all’ufficio del personale locale, inizia ad andare oltre i parametri stabiliti all’inizio. “Mettici quello che è un crumiro e ha pure il doppio lavoro”, “Mettici quell’altro che m’ha risposto male e non vuole fare i turni”. Il gioco è fatto: una volta macchiato, non è più credibile nessuno. Né il sindacato né l’ufficio locale delle risorse umane, che magari qualche suo interesse di bottega potrebbe pure averlo.

A quel punto non ci sono più ostacoli, parte la mobilità e la cassa integrazione che anche i politici così hanno qualcosa da promettere. La produzione diminuisce, nonostante i lavoratori siano sottoposti lo stesso a rotazione selvaggia nei reparti – e quindi al demansionamento – e a ritmi di lavoro più pesanti. Meno persone lavorano, meno si produce. Gli sprechi non esistono più da tempo, lo sappiamo tutti ma facciamo finta di ignorarlo. E così alcuni reparti, quelli più colpiti dagli esuberi, non ce la fanno a sostenere la mole di lavoro e parte della produzione viene trasferita negli altri stabilimenti esteri. Altri reparti, dove i licenziamenti non sono stati numericamente troppo invasivi, vengono sostenuti attraverso l’outsourcing, cioè i lavoratori precari o stagionali che non hanno molti diritti e all’interno dell’azienda sono sempre una mina vagante utile, utilissima.

A questo punto, scaduto l’accordo sulla prima cassa integrazione e la prima mobilità, se ne chiede un’altra, scaduta quest’altra se ne chiede un’altra ancora e così via. Tutti sono convinti di tamponare la crisi, aspettando che prima o poi passi, ma il vero problema non è la crisi. Non è mai stata la crisi. E’ la società Palmina che vuol vendere un brand e una produzione ristrutturata al miglior offerente. Questo significa smantellare lo stabilimento italiano. “Deplorevole?” chiede il dottor Morte. E come a voler giustificare il suo operato ai miei occhi, si risponde da solo: le regole del mercato non le fa lui, è soltanto uno che le conosce e che si muove rispettandole per far guadagnare i suoi clienti. Se gli investitori chiedono di licenziare 10 mila persone, lui non può esimersi dal farlo. Mors tua, vita mea. E se quel ‘tua’ significa una persona o 10 mila, poco importa.

di Graziano Lanzidei

04 giugno 2011

Dire la verità sui poteri forti







Più di un terzo dell’elettorato non ha votato: possiamo essere certi che si tratta in grande maggioranza di elettori del centro destra. L’astensione altissima alle provinciali segnala anche qualcosa di più: la protesta per la mancata abolizione delle province. Parto da questo punto per un’analisi dei motivi della sconfitta un po’ diversa da quelle prospettate fino adesso. Bisogna, infatti, che i politici berlusconiani guardino bene in faccia prima di tutto una realtà: i loro elettori non sono bambini cui offrire caramelle ma persone serissime, che conoscono in profondità i problemi dell’Italia e che hanno scelto l’occasione del voto amministrativo, proprio perché non è decisivo, per gridare a Berlusconi e a Bossi che la loro pazienza è finita e che, di conseguenza, debbono affrontare i problemi veri prima delle politiche.

Sebbene la battaglia elettorale sia stata accesissima, non è servita a rassicurare gli elettori del centro destra perché non è stata detta nessuna verità. Quali erano gli argomenti dei quali bisognava parlare e che avrebbero suscitato l’interesse critico in tutti? Prima di tutto il debito pubblico, la crisi dell’euro, il continuo richiamo della Banca centrale europea ai famosi “sacrifici”, sacrifici per i quali la cultura deve andare in malora … Crede, forse, Berlusconi, che i suoi elettori non sappiano che siamo chiusi nella prigione della mancanza di sovranità monetaria? Che è questo il motivo per il quale non si possono abbassare le tasse? Crede forse Berlusconi che gli elettori siano degli analfabeti che si occupano soltanto di calcio? Se non si discutono questi argomenti, se non se ne dimostrano le conseguenze negative in tutti i campi, si perdono i voti della propria parte e non si toglie neanche un voto alle sinistre perché l’europeismo, il mondialismo, l’internazionalismo, il mercato comune, la moneta comune sono i valori delle sinistre. I famosi “poteri forti” non se ne sono stati di certo a guardare.

E la guerra alla Libia? Di sicuro non è stata la sinistra a soffrire di un tale voltafaccia dato che i rapporti amichevoli con Gheddafi, i contratti per le aziende italiane, il freno all’emigrazione clandestina erano esclusivamente opera di Berlusconi. Perché non è stata detta una parola in proposito? Si pensa, forse, che non stiano a cuore ai Milanesi? Non parliamo, poi, dei leghisti, veri e propri esperti di questi problemi, abituati a discutere con disinvoltura della possibilità o della convenienza per l’Italia di uscire dall’euro, di sospendere il trattato di Schengen per poter fronteggiare l’immigrazione clandestina e che, viceversa, hanno assistito con stupore e con rabbia alle esitazioni, alle debolezze, ai cedimenti dei propri politici, incapaci di opporsi a poteri più che forti: fortissimi. Continuare a fingere di stare da tutte e due le parti serve soltanto a perdere.

Bisogna aggiungere a tutti questi aspetti negativi l’atmosfera grigia intellettualmente, culturalmente, artisticamente, creata dal centro destra e che è diventata con il passare del tempo tanto pesante da togliere il respiro. Manca qualsiasi sussulto critico, qualsiasi iniziativa dell’intelligenza, perfino nell’ambito religioso, dove tanti credenti, che pure votano per il centro destra, vorrebbero poter discutere il proprio disaccordo con le gerarchie, ma non trovano lo spazio adatto. Dove e come farlo, infatti? Nell’ambito politico Berlusconi e Bossi hanno accuratamente scartato qualsiasi persona che possedesse il minimo prestigio intellettuale e, per maggiore sicurezza, non hanno creato nessuno strumento dove l’intelligenza potesse fare capolino. Nel centro destra non esiste né una rivista né un programma televisivo di cultura: nulla. Sono state mortificate così le forze migliori, le uniche che potevano e forse possono ancora sconfiggere le sinistre. Berlusconi ha sempre detto che voleva salvare l’Italia dal comunismo: il mondialismo, il multiculturalismo, il primato dell’economia e del mercato sono figli di Marx, e sono “idee” prima di essere fatti. Non si possono vincere se non con altre idee e ingaggiando una durissima battaglia a viso aperto.
di Ida Magli