22 luglio 2011

La “sovranità”, questa sconosciuta

Diciamocelo francamente: nelle differenti nazioni europee, di fronte alla “crisi”, ciascuno scrive e dice la sua sul modo più adeguato per uscirne, ma pressoché inesistenti sono le voci che si ergono per rivendicare la precondizione necessaria per poter dare una parvenza di realizzabilità a qualsiasi delle ‘ricette’ proposte…

Tra costoro vi è difatti chi auspica maggiori dosi di “società civile” e di “democrazia dal basso”, chi rivendica le ragioni del “socialismo”, variamente declinato, chi sostiene invece che dovremmo “decrescere” e “tornare alla natura”, chi addirittura ci ripete che non siamo abbastanza “liberali” e “liberisti”, quindi non sufficientemente “moderni”; chi infine, considera – certo con maggior acume – che, in fondo, questa “crisi” a tutti gli effetti planetaria è “di civiltà”, ma poi, in luogo di una dottrina e un esempio di carattere spirituale, ci sciorina la sua “ideologia religiosa” scambiando la “conversione interiore”, ovvero la metanoia[1], per una facile ricetta politica che d’incanto dovrebbe risolvere tutti i mali: “la soluzione è l’Islam!”, ripetono i fautori del cosiddetto “Islam politico” che tanto da scrivere danno ai cosiddetti “esperti d’Islam”.

Tutti, certo in varia misura, hanno una qualche ragione e colgono alcuni aspetti importanti, ma nelle loro argomentazioni, che è possibile quotidianamente leggere in svariati giornali e siti internet, vi è un grande assente, caduto nell’oblio più profondo: la sovranità.

Sovranità “nazionale” o “continentale” (la differenza non è di mero dettaglio), qui, ai fini del discorso che intendiamo svolgere, poco importa[2]. In primo luogo, manca nella maggioranza delle persone, in Europa, nel cosiddetto “Occidente”, l’anelito ad essere signori sulla propria terra; a non dover rinunciare, a beneficio di estranei, a questa prerogativa; a detenere insomma il possesso delle “chiavi di casa”!

Il nocciolo della questione del “comandare a casa propria” non sta però negli sbrigativi e roboanti termini posti da movimenti “identitari” sorti un po’ dappertutto in Europa dopo la fine del blocco sovietico. Sebbene non sia il caso di liquidare le loro rivendicazioni con la classica spocchia del “radical chic” che ostenta un monopolio della moralità, va detto che tutto il loro infuriarsi contro lo “straniero” è tutto fumo e niente arrosto, perché alla prova dei fatti, anche dove governano loro (vedasi l’Italia, con la Lega Nord) la patria vede crescere esponenzialmente la presenza di stranieri sul proprio territorio, né – ed è la cosa più grave per chi ripete di continuo “padroni casa nostra”! – dice mai mezza parola sulla presenza del suolo patrio di oltre cento basi ed installazioni Usa/Nato. Mai mezza parola, il che è strano davvero, perché non si vorrà certo credere che in Italia, ad esempio, comandino i marocchini (o gli “islamici”, termine appositamente coniato per rinfocolare l’islamofobia)!

Ma questi, come tutti gli altri, sono i politici, gente navigata per tutte le stagioni, che fiuta la rogna insita nel sollevare il problema “basi Usa/Nato in Italia”, per non parlare di tutta quell’influenza a vari livelli stabilita tramite “corporation”, finanza, media e, non ultime, le ambasciate (come dimostrato in questi giorni in Siria, dove il locale ambasciatore statunitense è stato pescato in combutta coi “manifestanti”).

Stabilito che non è né giusto né sostenibile alla prova dei fatti un afflusso di stranieri quale quello che viene sopportato dalle nazioni europee[3], e rilevato che agli occhi dell’immigrato l’Italia, la Spagna, la Francia eccetera esistono solo come “opportunità”, né provoca il lui alcuno sgomento l’attuale condizione di servilismo verso interessi antitetici rispetto a quelli della comunità nazionale che lo ospita (l’ultimo scandalo, in ordine di tempo, è la partecipazione all’aggressione alla Libia), vi è da dire che tutto il bla bla che si fa sulla “uscita dalla crisi” non porterà assolutamente a nulla se non si affronterà per prima cosa l’istanza che sta alla base di un’azione politica fattiva ed incisiva: la questione della sovranità.

Chi dovrebbe però sollevarla una volta per tutte? I politici no di certo, perché in questa situazione ci sguazzano alla perfezione, visto che, quand’anche l’attuale “crisi” si trasformasse in uno “tsunami” essi cadrebbero sempre in piedi, poiché le ricette “lacrime e sangue” sono sempre a carico del gregge da tosare e non a loro carico, rappresentando la tipica casta di “nababbi” rimpinzati a dovere dai loro padroni (la finanza apolide) affinché svolgano fedelmente il compito assegnato loro[4].

Né gli immigrati, come detto, per i quali il problema non sussiste. Vengono in Europa per trarne i maggiori benefici economici e sociali possibili, ma se poi l’Italia o altre nazioni sono delle mere entità geografiche villaneggiate da tutto e tutti ciò non li turba affatto. Anzi, buona parte di costoro s’illude di essere sbarcata nel Paese di Cuccagna della “libertà”, della “democrazia” e dei “diritti umani”, finendo per credere alla propaganda degli stessi che hanno affamato le loro patrie e creato così le premesse per la loro emigrazione!

Rimane, pertanto, l’autoctono, l’italiano, il greco, lo spagnolo, il portoghese eccetera che però è stato “educato” con dosi da cavallo di “antifascismo”, che scavando nel profondo provoca vergogna di se stessi e di quel che di buono è stato fatto, se non addirittura “odio di sé” e delle proprie origini[5]. Il prodotto di un simile certosino condizionamento induce i più a credere che la pretesa di vivere in una nazione sovrana ineluttabilmente proporrebbe una riedizione del “male assoluto” dell’era contemporanea... In questo clima malato, siamo certi che un governo che, chissà per quale miracolo, riprendesse le redini della politica monetaria e delle sue forze armate verrebbe immediatamente tacciato di “fascismo”, eppure ciò è una cosa ben strana, perché tra le prerogative della sovranità vi sono appunto il “battere moneta” e il “monopolio della forza”! Invece, nelle odierne liberal-democrazie la moneta è in mano a noti – e ripetiamo noti - privati che la prestano allo Stato ad interessi usurai, mentre le forze armate, con la scusa della “guerra al terrorismo” (“islamico”!), sono utilizzate da un capo all’altro del mondo – con costi sempre più elevati per la comunità nazionale – a difesa degli interessi della medesima genia di sfruttatori del genere umano che campa sull’usura. Attività che, è doveroso ricordarlo, è stata interdetta da tutte le tradizioni ortodosse, compresa quella islamica, ed è anche per questo che si dannano così tanto per presentare male l’Islam e il Corano…

Rebus sic stantibus, Italia, Spagna, Grecia, Portogallo eccetera sono delle mere finzioni, o convenzioni, dato che nessuno governo “italiano”, “spagnolo”, “greco”, “portoghese” eccetera è in grado – quand’anche lo volesse – di far valere la sovranità nazionale, in qualsiasi campo d’interesse pubblico. Questi “governi nazionali” convenzionali sono insediati (votati dagli allocchi e da chi ha un interesse clientelistico) solo per far sì che la massa bovina venga vessata dalla mattina alla sera, spolpata con tasse e balzelli sempre più esosi, ingabbiata con una rete capillare di leggi sempre più incomprensibili e promulgate ad un ritmo parossistico; il che, se si aggiunge allo scollamento sociale provocato anche dall’eccesso di immigrati sul suolo nazionale (ma anche dal disastro di civiltà in atto), configura una situazione in cui non è eccessivo affermare che i “governi nazionali” sono messi lì per fare sistematicamente la guerra alle popolazioni da essi “governati”.

E se anche un sussulto di dignità provenisse da un “pazzo” emerso dalla servile classe dirigente, subito il circo mediatico, questa autentica macchina da guerra in mano agli stessi potenti apolidi usurai, si metterebbe a screditarlo come “fascista”. Quel che è più tragico, è che buona parte della popolazione autoctona, come anzidetto “educata” a dovere, si accoderebbe volentieri alle lagnanze dei “media internazionali”, di cui esiste sempre una voce in loco pronta a recepirne le grida.

Eppure, a tutti costoro, “campioni di moralità”, andrebbe una buona volta ricordato come sia impossibile realizzare alcunché – anche i loro strampalati deliri utopistici – se manca il prerequisito necessario per svolgere un’azione politica fattiva: la sovranità.

S’immagini infatti un corpo umano in cui alcune parti venissero in qualche modo eterodirette: la mente dice di fare una cosa (“prendi il bicchiere”), ma la mano destra lo prende e lo getta a terra perché è governata da altri. Che cosa accadrebbe? Un uomo ridotto a questo livello impazzirebbe in poche ore. Oppure si pensi ad una persona che prima di fare qualsiasi cosa debba rispondere ad un’altra: se tra queste vi fosse anche il respirare e quella glielo impedisse, certamente soffocherebbe all’istante. Oppure, per cambiare metafora, parimenti calzante, si pensi a una casa nella quale ci appassioniamo per la scelta del mobilio, della tappezzeria e del colore delle pareti (le elezioni e le “opinioni politiche”, in pratica), ma di cui non possediamo le chiavi!

Tutte situazioni palesemente assurde, per chiunque, ma quando si tratta di passare alla politica, analoga constatazione non desta alcuno scandalo. Ciò in parte è dovuto ai condizionamenti “culturali”: decenni di “rieducazione” hanno scavato in profondo; per di più la “brutta fine” di chi ha provato ogni tanto ad alzare la testa non induce all’eroismo… Inoltre, il “clima” liberal-democratico infonde uno stato d’animo alieno rispetto a qualsiasi aspirazione alla sovranità, perché – come più volte ho rilevato – una civiltà la si misura essenzialmente nel “tipo umano” che essa forgia.

E qui ci avviciniamo al punto centrale della “questione sovranità”. Il mondo moderno, quello della liberal-democrazia (libertà, democrazia, diritti umani) è per prima cosa un sistema di vita informato secondo valori atei, che prescindono dall’esistenza di un Principio assoluto, dunque invertiti rispetto a quelli che sono i cosiddetti “valori tradizionali”. L’uomo moderno, che si compiace della sua “modernità” è un tipo umano che per prima cosa diverge da se stesso, per questo cerca costantemente il di-vertimento.

Ora, divergere da se stessi significa abdicare da quell’imprescindibile compito che il Principio, il Creatore di tutte le cose, Allâh, ha indicato all’uomo nel Libro sacro (il Corano) e nell’esempio virtuoso[6] del Suo Inviato (Muhammad) affinché egli possa fare ritorno a Lui, ed in pratica conoscere se stesso: “Chi conosce se stesso conosce il suo Signore”, recita un noto hadîth. L’uomo realizzato è essenzialmente sovrano.

Ma a chi interessa oggi essere sovrani di se stessi? Giungere a questo punto significa annullare il proprio sé egoistico, ridursi a uno zero, come concordano tutti i saggi dell’Islam, e non solo, per realizzare l’Uno. Questa “grande vittoria” è alla portata solo di pochissimi eletti, ma tutti gli altri – me compreso! - hanno quantomeno il dovere di tendere verso questo scopo, che è la signoria, la sovranità interiore. Sayyid, letteralmente “signore”, da cui Sayyidî (o Sîdî, “mio Signore”) è appunto il “santo dell’Islam”, perché egli ha conosciuto il suo Signore, pertanto solo questo “vero uomo” ha le credenziali per essere chiamato a sua volta “mio signore” dagli altri.

Intendiamoci, non si tratta di una passeggiata, perché l’ascesi è quanto di più selettivo possa esserci, il resto potendosi contraffare in tanti modi: la vera “élite” è difatti solo spirituale, mentre le altre “élite”, da quella del denaro a quella della “cultura” eccetera, sono solo contraffazioni consone all’epoca “oscura” in cui viviamo.

Certamente, un’epoca abitata da uomini che non ne vogliono sapere di conoscere il loro Signore, di ripristinare la signoria interiore, ma anzi si “ribellano” pervicacemente, non può distinguersi per un anelito alla sovranità della propria patria: l’indifferenza verso la sovranità politica è specchio di quella per la sovranità interiore…

Oggi, la maggioranza degli uomini cosiddetti “moderni” preferiscono mettersi una delle innumerevoli “maschere sociali” e recitare così una “parte” per tutta la loro vita; ma i sîdî, i mawlâ[7], hanno smesso ogni maschera scoprendo la loro vera essenza.

Perciò, un sano anelito alla sovranità (nazionale, o continentale) non può sorgere da individui in preda alle proprie passioni, immersi nel mondo della dispersione dalla mattina alla sera (e anche quando dormono!), ma solo da coloro che hanno realizzato la loro sovranità interiore per “vivere nella verità”. E certo non promana dalla verità il vivere perennemente sotto un giogo straniero, per di più se esso porta le insegne dell’usura e del traviamento degli esseri umani finalizzato a trasformare in carbone per l’Inferno le loro esistenze…

Ma quanti sono, oggi, i “signori”, i sîdî? Pochissimi, certo, né il loro compito è quello di far “politica”, così com’è inteso oggi il termine. Essi devono solo guidare gli altri uomini, indicare loro la “via”.

Tuttavia, se un numero sempre maggiore di persone, di fronte al nulla del “mondo moderno”, si renderà conto che così non è possibile andare avanti, ma è necessario affidarsi ad una “guida” per scoprire il cammino che conduce alla signoria interiore, ciò avrà senz’altro delle implicazioni anche sulla sovranità esteriore, perché la l’anelito all’autorealizzazione e l’accettazione delle convenzioni e delle falsità che sostengono l’attuale “mondo moderno” non possono andare d’accordo. Tra queste falsità vi è appunto l’idea che non si possa vivere in una nazione sovrana (preludio di uno spazio sovranazionale) senza precipitare nuovamente nel “male assoluto”.

È tempo di svegliarsi. Di uscire da quest’illusione senza speranza. È ora di smettere di aver paura e di essere finalmente uomini. Ma per far ciò bisogna affidarsi a chi è uscito dallo stato di sonno nel quale noialtri, gente comune, siamo immersi. Questa è la precondizione per far sì che anche un sano anelito alla sovranità esteriore, nei suoi aspetti fondamentali e, in fondo, “tradizionali”[8], possa riecheggiare nei nostri cuori e nelle nostre menti, facendo piazza pulita degli “idoli” del mondo interno, prima, del mondo esterno, poi (la “democrazia”, la “libertà”, i “diritti umani”, l’America, l’Occidente…)[9].

di Enrico Galoppini



[1] Conversione spirituale, ravvedimento unito a pentimento, che implica un cambiamento radicale di vita.

[2] Non è questa la sede per entrare nel dettaglio, ma basti osservare che anche una rapida osservazione di tipo storico e geopolitico degli eventi del passato c’insegna che “sovrane” possono diventarlo sono le entità sovranazionali di carattere imperiale, perché sono le sole a poter disporre dei fattori di carattere politico, demografico, economico, militare e, soprattutto, spirituale, che configurano un’autentica sovranità rispetto alle entità confinanti. Anche nell’epoca moderna, gli espansionismi di iniziali Stati-nazione moderni come l’Inghilterra, la Francia o l’Italia si sono risolti nella formazione (o nel tentativo frustrato da una sconfitta militare) di entità sovranazionali di tipo imperiale. Questo per dire che la mera “sovranità nazionale” può essere solo una base, ma non è sufficiente per risolvere la questione della sovranità stessa, altrimenti dovremmo dar ragione a tutti quegli indipendentismi sempre più diffusi nel mondo che per ogni “popolo” rivendicano un effimero “Stato indipendente e sovrano”.

[3] I soloni che pontificano sulle virtù della “società multietnica” abitano quasi tutti in zone altolocate e nient’affatto “multicolori” delle varie città europee.

[4] Dall’arabo nâ’ib (pl. nuwwâb): “rappresentante”, “colui che fa le veci”, “sostituto”, quindi “deputato”; il che ci riporta all’India dominata e rovinata dall’Inghilterra, dove a gestire gli affari locali per conto della City di Londra venivano posti compiacenti “signorotti” indiani adeguatamente pasciuti; questo, in pratica il tanto decantato “governo indiretto” britannico (indirect rule) addotto ad esempio di “efficienza”: lo stesso massimo risultato col minimo sforzo raccolto nelle nazioni europee conquistate dopo il 1945, dove i militari statunitensi e gli agenti della City non si fanno accuratamente vedere in giro per non destare sospetti.

[5] L’opera di condizionamento sistematico delle popolazioni “occidentali” è infatti di tipo psicologico: di qui il trionfo della psicanalisi e l’adozione di tecniche di condizionamento mentale in ogni campo, non ultimo quella della cosiddetta “informazione”, prodotta da squadre di esperti che conoscono bene le tecniche di manipolazione psicologica.

[6] Il termine “virtuoso” deriva dal latino vir, “uomo”: il vero “uomo”, l’uomo “virile”, è quello che, attraverso le “virtù” (che coincidono con le qualità dei 99 Nomi Bellissimi di Allâh!), ha realizzato la perfezione, giungendo alla Stazione più elevata cui possa aspirare. Gli altri possono solo seguirne l’esempio, rivivificato da quello dei Maestri viventi.

[7] Per una spiegazione del termine mawlâ, importante anche nella logica di questo discorso sulla “sovranità”, rimando al mio La via dell’Inferno è lastricata di “proteste”: http://europeanphoenix.net/it/index.php?option=com_content&view=article&id=80&catid=3.

[8] S’è mai visto un “Califfato”, un “Impero di Mezzo” o un qualsiasi altro Impero concepito come un’entità non sovrana?

[9] Il simbolismo della distruzione degli idoli contenuti nella Ka‘ba – simbolo del “cuore” - da parte del Profeta dell’Islam, una volta conquistata Mecca, è eloquente. Prima il jihâd interiore, poi quello esteriore, e la riconquista, a tutti gli effetti, della sovranità in entrambi i domini.

21 luglio 2011

Il peso delle Regioni tra stipendi d’oro e mega consulenze


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Secondo copione, il presidente della Conferenza delle Regioni, Vasco Errani, ha accusato il governo di scaricare sulle Regioni poco meno di metà dei costi della manovra. E ha minacciato (i cittadini): così ci saranno meno sanità pubblica, meno trasporti pubblici, meno aiuti alle imprese. Secondo copione, nessuno guarda in casa propria per verificare se tutto è a posto, prima di danneggiare i cittadini. E le Regioni italiane — con i dovuti distinguo — l’occhio sui propri conti avrebbero dovuto metterlo da molti anni. Magari è folklore ricordare certe spese pagate dalla collettività appena pochi anni fa: 75 mila euro, in Veneto, per uno studio sullo «sviluppo del turismo congressuale verso forme di organizzazione e gestione evolute» , 10 mila euro in Toscana per una consulenza «in materia di procedure di acquisto di beni di rappresentanza» , 192 mila euro in Campania per un «team di animatrici di pari opportunità» . È folklore ricordare — come fa il giornalista Mario Giordano — che presso la Regione Lazio, anno 2009 (era Marrazzo), furono spesi 6 mila euro di caffè per le riunioni di giunta, molte tazzine per ciascun assessore. Più sostanziale è la notizia che la Regione Sicilia ha più di 19 mila dipendenti, ognuno dei quali costa in media 43 mila euro l’anno (il 40 per cento in più dei ministeriali romani). Il governatore della Sicilia, Lombardo, ha annunciato pochi giorni fa, su Libero, che non aspetterà una legge nazionale per abolire le sue Province, ma lo farà «subito» , in virtù dello statuto speciale che regola la sua Regione. Solo che lo stesso identico annuncio lo aveva fatto alla fine della scorsa estate. A proposito di Lombardo: come presidente guadagna al netto il doppio dei 7787 euro (lordi) che prendono in media i governatori degli Stati americani. Il più pagato è il governatore dello Stato di New York che con i suoi 10.612 euro lordi guadagna meno di un deputato regionale sardo (11.417 netti) o del presidente della giunta calabrese (13.353 netti). La Regione che ha meno abitanti è il Molise (320 mila circa), governato dal 2001 da Michele Iorio (Pdl), e il Molise ha in proporzione il più alto numero di dipendenti: 2,79 ogni mille abitanti contro lo 0,39 in Lombardia, lo 0,59 del Veneto. I «regionali» molisani sono 981 e cento sono dirigenti. Nel Lazio, invece, c’è il record di commissioni consiliari: sono 20 contro otto della Lombardia, che ha il doppio degli abitanti. Le commissioni, alla Regione ora amministrata da Renata Polverini, costano 7 milioni l’anno e ogni presidente di commissione aggiunge mille euro ai 10 mila netti che percepisce ogni mese. I vicepresidenti, che sono 38, aggiungono soltanto 700 euro al mese. Nel Lazio 71 consiglieri, 20 commissioni, 17 gruppi consiliari (8 dei quali composti da un solo eletto) sono costati, secondo il bilancio dello scorso anno, 131 milioni 406 mila euro, con una crescita, rispetto all’anno precedente, di 15 milioni. Nel Lazio bastano 50 anni per cominciare a incassare il vitalizio che spetta di diritto anche a chi abbia concluso un mandato in consiglio regionale. Nel 2010 per 220 vitalizi Polverini ha visto volar via oltre 16 milioni di euro. Sempre il Lazio ha il record della spesa-clou delle Regioni, la spesa sanitaria. Per ogni cittadino la regione della capitale spende 3349 euro, seguito da Abruzzo (3239), Calabria (3.090), mentre sul fronte dei più misurati stanno la Basilicata (1616), il Veneto (1665), la Puglia (1734). Entrando nel merito delle prestazioni si può ricordare che l’Emilia Romagna ha un centro unico che fa milioni di analisi l’anno al costo medio di 50 centesimi l’una, mentre in Campania, nei 1200 centri privati convenzionati, le stesse analisi pesano per 6-7 euro l’una. Le amministrazioni locali costano allo Stato quasi 150 miliardi della Cgia di Mestre, fra il 2001 e il 2008, le Regioni avevano aumentato le spese del 47,7 per cento. «Ministeri, Parlamento, Regioni, Province Comuni, tutte le pubbliche amministrazioni — ha detto in questi giorni David Ermini, presidente del Consiglio provinciale di Firenze— dovrebbero osservare dove sono le spese improduttive e tagliarle di netto. Smettendo di rinfacciarsi pateticamente le responsabilità» .
di A. Gar.

20 luglio 2011

Una guida alla speculazione sul cibo: come discutere con un banchiere



La speculazione finanziaria nei paesi ricchi e industrializzati come il Regno Unito e gli Stati Uniti ha spinto in alto i prezzi delle fibre come il mais nelle nazioni a basso reddito.

Le banche come Goldman Sachs e Barclays hanno creato fondi che permettono agli investitori di speculare sul prezzo delle coltivazioni più importanti. Tutto ciò ha generato enormi profitti e si stima che Goldman Sachs ha ottenuto più di 1 miliardo di dollari nel solo 2009 e Barclays nello stesso anno circa 340 milioni di sterline grazie agli scambi delle commodity sul cibo.

Un report delle Nazioni Unite ha recentemente stimato che il totale investito negli strumenti relativi al settore alimentare è passato dai miliardi di dollari del 2003 a più di 55 miliardi nel 2008.

Comunque, scommettere sui prezzi degli alimenti ha un costo. Gli elevati volumi delle contrattazioni di questi fondi portano a una maggiore volatilità dei prezzi, come riferiscono gli attivisti, che va a colpire le famiglie povere dei paesi meno industrializzati, tanto da non potergli permettere il consumo di alimenti basilari e rendere così sempre più difficile la pianificazione e gli investimenti da parte degli agricoltori.

Le organizzazioni di beneficenza come Christian Aid e persino alcuni rappresentanti delle Nazioni Unite stanno chiedendo regole più rigide per tenere a freno la volatilità dei prezzi, un qualcosa a cui l’industria bancaria si oppone con decisione.

Per aiutarvi a farvi un’idea degli argomenti proposti dalle due parti, l’ex broker Brett Scott ci fornisce questa guida per capire le speculazioni sugli alimenti

Cibo vero Vs. derivati

È importante capire la distinzione tra il mercato reale degli alimenti e il mercato dei derivati sull’agricoltura che si riferisce al vero mercato del settore agricolo. Un agricoltore ucraino che esporta la farina in Nord Africa si impegna a promettere a qualcuno che entra in un contratto di futures basati sul grano. Il primo è una transazione fisica spot e il secondo consiste in una transazione basata sui derivati.

I derivati sono contratti tra due contraenti. Ci sono opzioni e futures sul settore agricolo e ci sono swap e forward over-the-counter che vengono affidati dai venditori alle banche d’investimento. Questi contratti derivati sono, più o meno, analoghi alle scommesse sul mercato reale alimentare, così come le scommesse sportive si riferiscono a un evento sportivo. Prendere una “posizione” nei futures del grano, ad esempio, vuol dire mettersi nella posizione di vincere o di perdere a causa di un cambiamento del prezzo del grano. È concettualmente simile, anche se non è proprio la stessa cosa, al comprare fisicamente il grano fisico. È proprio come se uno lo stesse davvero comprando.

Lo scopo originario dei derivati sul settore agricolo era quello di permettere ai produttori di beni materiali di usare questa scommessa per proteggersi dai cali delle quotazioni (short hedging) e agli utilizzatori di questi beni di usare una scommessa per proteggersi da un incremento di prezzo (long hedging). Se non sei un produttore o un utilizzatore di commodities reali e tutto quello che realizzi è una scommessa, in questo caso sei considerato uno speculatore. La controversia sulla “speculazione sul cibo” si riferisce alla speculazione del mercato dei derivati del settore agricolo, non tanto alle transazioni fisiche di questi beni.

La controversia può essere separata in due differenti istanze. Prima domanda: sono i players finanziari del mercato dei derivati sulle commodity che provocano la dissociazione da quello che “dovrebbe essere” il suo prezzo se esso riflettesse il bilanciamento tra la domanda e l’offerta del bene sottostante? Secondariamente, una tale dissociazione nei prezzi dei futures si può trasmettere al prezzo vero degli alimenti?

Sembrano domande semplici, ma non lo sono. Si può attribuire, ad esempio, una casualità tra un’attività speculativa sul cambio dei derivati americani e il vero cambio di valore del costo di una borsa di grano in Sud Africa? È quest’area grigia che fa sì che il dibattito si dirami in modo confusionario.

Cosa è che determina il prezzo?

La maggior parte delle teorie finanziarie ritiene che i prezzi dei futures siano determinati dalla cosa su cui scommette il future stesso, in modo molto simile al modo in cui una corsa di cavalli determina il valore delle scommesse sulla stessa corsa. In pratica, nella teoria finanziaria i prezzi dei derivati sono strutturalmente legati al valore del bene su cui sono basati e si suppone che seguano lo stesso andamento attraverso un processo chiamato arbitraggio per assicurarsi che, nel caso il prezzo del derivato si discosti troppo dal prezzo spot dell’asset sottostante, venga così riportato verso questo stesso prezzo.

Ecco un esempio del mondo reale dai mercati del petrolio: all’inizio del 2009 i prezzi dei futures sul petrolio si sono alzati “troppo in alto” rispetto al prezzo spot del petrolio che poteva essere comprato in quel momento. I traders d’arbitraggio acquistano petrolio fisico, lo immagazzinano nelle petroliere e simultaneamente vendono i futures. Lo scopo della transazione è quello di comprare petrolio al prezzo odierno e poi trattenerlo per venderlo in futuro a un prezzo più alto. Questo tipo di scambio teoricamente consente ai traders di assicurarsi un profitto privo di rischio, a patto che il costo del “trasporto” del petrolio (ad es. l’immagazzinamento, l’assicurazione e i costi finanziari) non sia superiore alla differenza tra il prezzo spot e quello dei futures. Teoricamente, con questo processo, il prezzo spot e quello dei futures dovrebbero allinearsi per rimuovere l’opportunità di un profitto privo di rischio.

Sembra complicato? È abbastanza complicato. Ad esempio, chi ha in effetti la possibilità di noleggiare navi per immagazzinare petrolio? Ha importanza la qualità del petrolio stivato? Tutto ciò comporta un abbassamento dei prezzi dei future o fa innalzare il prezzo spot del petrolio? Ho l’impressione che nessuno lo sappia con certezza, perché la cosa importante, nel mercato delle commodities, è che i processi di arbitraggio sono complicati perché accedere alle commodities fisiche per mettere in pratica le relazioni di arbitraggio è difficoltoso.

La saggezza convenzionale delle relazioni matematiche tra prezzi spot e quelli dei derivati è stata comunque messa in discussione dal fatto che questa relazione può interrompersi, fino ad invertirsi, così che i prezzi spot sottostanti cominciano a muoversi verso i prezzi dissociati dei derivati, e non all’opposto. È analogo all’idea che scommettere sui cavalli possa determinare il risultato della corsa, un classico caso di “un cane che si morde la coda”.

Perché le banche hanno iniziato a scommettere sul cibo

Il fatto che le commodity fisiche siano sporche e ingombranti ha comportato che la speculazione su questi tipo di beni è generalmente dominata da agenzie specializzate negli acquisti fisici, come Glencore e Cargill. Ci sono delle indicazioni che suggeriscono come le banche siano sempre più coinvolte nel trading fisico così come, ma solo in uno stato iniziale, l’attività speculativa degli investitori si è sempre più sviluppata nel mercato dei future sulle commodity. I classici della finanza, come “Market Wizards” pubblicato nel 1988, contengono interviste interessanti con speculatori che descrivono i loro successi negli anni ’70 nei mercati dei future della soia, del frumento e del grano, quando operavano a fianco di quelli che erano in questi mercati per scopi non speculativi. Molti di questi traders si troverebbero a loro agio nel mondo degli hedge funds o nei rami “proprietary trading” delle banche d’investimento.

Il tuo browser potrebbe non supportare la visualizzazione di questa immagine. I futures, comunque, devono essere gestiti giorno per giorno. Questo va bene per un hedge fund specializzato, ma non per gli investitori istituzionali come i fondi pensione. Se gli hedge funds sono dei predatori scaltri, i fondi pensione sono come degli immobili brontosauri, spesso all’oscuro degli andamenti al rialzo o al ribasso del day-to-day. La maggior parte dei fondi pensione che investono in azioni, obbligazioni e beni di proprietà non ha il tempo o la capacità di entrare e uscire dai futures. Vogliono comprare qualcosa che possa essere tenuto per anni, non contratti con una data di scadenza di sei mesi.

L’idea di “investire” in commodities si è potuta realizzare solo grazie all’avvento dei prodotti d’investimento collegati agli indici che sono stati progettati dalle banche d’investimento negli anni ’90. Tra questi ci sono gli exchange-traded fund (ETF) e gli equity-linked note basati sulle commodities. Questi strumenti sono molto interessanti per gli investitori: l’investitore mette semplicemente il proprio danaro nel prodotto e la banca d’investimenti che lo gestisce adotta una strategia commerciale per dare agli investitori un ritorno direttamente collegato all’indice di quella commodity, come se essi avessero davvero acquistato fisicamente il bene, ma senza la scocciatura di doverlo fare. Col tempo, questi prodotti hanno consentito un incremento sbalorditivo del numero delle persone che hanno investito in questo settore.

I prodotti basati sugli indici delle commodity, comunque, si basano essenzialmente sui futures. Qui c’è la parte tecnica: per creare prodotto finanziario basato su un indice, le persone che vendono alle banche entrano in transazioni swap con gli investitori, per mezzo delle quali passano i profitti dal mercato dei futures agli stessi investitori. Questi non ne sono necessariamente a conoscenza e la transazione swap potrebbe essere inserita tacitamente o all’interno di un prodotto d’investimento complesso, ma l’effetto pratico rimane lo stesso: il compratore sta tenendo posizioni futures per conto degli investitori e l’attività nel mercato degli swap crea così un’ombra nei mercati dei futures. Per coloro che sono interessati, questa ombra può essere osservata nei “Commitment of Traders Reports” del CFTC che illustra le posizioni del trading sui futures che sono state tenute dai partecipanti al mercato. La categoria chiamata degli swap dealers indica sempre posizioni “lunghe”, ossia significa che stanno comprando futures, probabilmente per conto degli investitori.

La speculazione va condannata?

Ma perché sono importanti tutte queste cose? Il dibattito acceso è centrato sullo stabilire se l’aumento del numero di questi investitori finanziari ha portato a sconvolgimenti nei prezzi dei futures delle commodity. La discussione si è infiammata dopo che un report stilato nel 2010 da due accademici, scritto per conto dell’OCSE, ha messo in discussione la connessione tra la finanziarizzazione del mercato delle commodities e l’enorme incremento dei prezzi di quest’ultime nel 2008.

Le sfumature di questo dibattito sono troppo per essere qui elencate, ma è bene buttare a terra qualche specchietto per le allodole. Qui non si discute se gli speculatori abbiano, in linea di principio, una funzione positiva per il mercato. I testi della finanza ci suggeriscono che gli speculatori sono utili perché forniscono liquidità, perché aumentano il numero degli ordinativi nel mercato, che a sua volta migliora l’abilità di tutti gli attori nel commerciare. Facendo questo, si pensa che rafforzino un processo razionale di “scoperta del giusto prezzo”, consentendo un bilanciamento della domanda e dell’offerta che esprima effettivamente prezzi che siano basati sui fondamentali.

Non c’è dubbio che gli speculatori possano ricoprire un ruolo importante nel funzionamento dei mercati. Io, ad esempio, ha passato due anni lavorando in alcuni dei mercati meno illiquidi nel mondo finanziario, sviluppando nuovi tipi di curiosi derivati. Desideravo con tutte le forze che gli speculatori entrassero, solo per far partire la cosa. Ma quello che determinante è il grado della presenza speculativa nel mercato.

Può darsi che un mercato che ha il 30 per cento di attività speculativa possa funzionare bene, ma cosa può succedere in un mercato che ne ha il 60 per cento? E con l’85 per cento? Queste non sono relazioni lineari; un mercato non diventa automaticamente più efficiente se vi entra un gran numero di speculatori ed è facile immaginare che c’è un punto di equilibrio in cui troppi speculatori destabilizzano i prezzi invece che aiutare a contenerli. La maggior parte della speculazione è costituita da transazioni a breve termine per profitti a breve termine e funziona se è svolta nell’ambito di un mercato che tiene di conto i fondamentali di lungo periodo. Ma cosa succede se tutto questo avviene in un mercato che è per larga parte formato da speculatori? Si tratta di speculazione sulla speculazione, ed è così si formano le bolle.

Un qualsiasi trader ve lo potrebbe confermare, ma il dibattito tecnico presente sulle riviste accademiche ripete con monotonia le solite cose, che mancano totalmente delle sfumature di colore che vengono da coloro che effettivamente operano in questi mercati. Comunque il substrato informale di questo dibattito proviene dal mondo delle speculazioni finanziarie e viene rielaborato nei termini della distinzione tra i traders fondamentali e tecnici.

Un trader che si basa su un’analisi fondamentale è uno speculatore che si occupa di speculare sulla domanda e sull’offerta di commodities. Un trader che opera seguendo un’analisi tecnica si occupa di una speculazione basata sui modelli del mercato che si forma con le attività degli altri traders. I traders fondamentali sono preoccupati del fatto che l’aumento del numero dei trader tecnici aumenta la casualità e il rumore di fondo dei mercati. Se i traders tecnici basano le loro decisioni sugli altri traders e il loro numero aumenta, il mercato diventa circolare e autoreferenziale e corre il rischio di scollegarsi dalle connessioni tra domanda e offerta.

La chiave per operare in questo ambiente diventa una variante dello schema piramidale, ossia andare avanti seguendo il trend, cercando di uscire prima che tutti riescano a capire l’andazzo. Questo non è un segreto.

Perché non tutti gli investimenti sugli alimenti sono un male

Focalizzarsi sull’argomento della speculazione a breve termine può oscurare un fattore più importante nei mercati. La pura speculazione dalla parte dei traders proprietari e degli hedge funds sembra alimentare i movimenti del mercato verso l’altro e verso il basso, creando volatilità, ma come questo si relaziona alle attività dei player a lungo termine come i fondi pensione? Non è cosa nota il fatto che gli investitori istituzionali “speculano” in modo aperto sulle commodities. Un fondo pensione non mette i soldi in un ETF sulle commodity per toglierlo una settimana dopo. Pensano alle tendenze di lungo termine, non alle oscillazioni nel breve. Stanno “investendo”.

Una differenza ulteriore è che, differentemente dagli hedge funds che possono shortare i mercati con le scommesse su un calo delle quotazioni, le organizzazioni più grandi tendono a stare solo sul lungo, dato che investono solo in cose che credono possano salire di valore. Quindi, in pratica, se un forte numero di investitori istituzionali decide di investire nei mercati delle commodities con i prodotti basati sugli indici, il risultato indiretto è quello di un calo nella domanda dei futures. Il mercato dei derivati, di conseguenza, è a somma zero, e se esiste un contratto, ci deve essere un compratore e un venditore che prendono decisioni opposte. Se gli investitori istituzionali formano solamente una domanda, ma non l’offerta relativa, sorge la domanda su chi venda questi contratti future, e se gli investitori sugli indici rappresentino una forza strutturale di pressione verso l’alto dei prezzi dei derivati.

C’è un argomento curioso trovato in un report dell’OCSE che ha causato qualche controversia. È l’idea che, siccome il mercato dei derivati è a somma zero, questi nuovi investitori devono corrispondere ad altri venditori, e quindi per definizione non possono rappresentare una fonte di eccesso di domanda nel mercato dei futures, e quindi hanno un piccolo effetto sui prezzi. È un modo strano di vedere la cosa, perché chiunque operi nel mercato dei derivati sa che i partecipanti in genere sono più interessati negli acquisti, il prezzo dei derivati si deve alzare per indurre altri a vendere.

Il grado di quell’incremento può essere una funzione della profondità di un mercato: un mercato più piccolo ha meno possibilità di assorbire grandi ordinativi. Immaginatevi l’arrivo di Sainsbury in un piccolo mercato di frutta di un villaggio in cerca di merce per i propri scaffali. Non è affatto vero che i venditori possano comparire naturalmente senza uno sconvolgimento dei prezzi, e sembra plausibile che un forte incremento nella quantità di danaro a senso unico nel mercato dei futures possa aver avuto un impatto verso l’alto.

Ci sono molti aspetti tecnici nel dibattito, tra cui le dinamiche fisiche delle commodities, parole strane come contango e backwardation, convenience yields e il rolling dei contratti future. C’è una possibile circolarità dei prodotti basati sugli indici, ossia il fatto che questi cercano di seguire il mercato delle commodities investendo in questo stesso mercato, ma quando si ingrandiscono una parte sempre maggiore del mercato delle commodities è collocato sulle loro posizioni, cosa che può portare quindi a seguirsi da soli. C’è anche la possibilità per un incremento della correlazione tra i prezzi dei derivativi sulle commodity.

Investire sugli indici spesso si basa su un paniere di beni, ossia significa che un investitore compra un prodotto che contiene una vasta gamma di commodities tutte insieme. Questo comporta un simultaneo acquisto di diversi futures sulle commodity, che può portare una gamma di futures sulle commodity a muoversi in tandem. Questo pone un problema per la diversificazione: se i soldi escono dai prodotti basati sugli indici, allora tutto il mercato dei futures sulle commodity può andare in crash, e non solo i futures su una sola commodity.

Non è mai possibile predire esattamente come i mercati rispondano a queste nuove pressioni. Le decisioni del trading non sono determinate da astratti modelli economici messi in essere dal comportamento razionale. Gli accademici possono usare la matematica per provare che i mercati sono efficienti, ma nessuno sembra darci grande importanza e certamente pochi sprecano il tempo a confermare che i mercati si affidano a teorie statiche. I mercati lavorano su strategie umane dinamiche e sulle emozioni, come testimoniano i tanti crash spettacolari che abbiamo visto negli ultimi decenni.

Come salgono i prezzi

La ragione per cui questi dibattiti sono importanti va oltre l’efficienza della determinazione del prezzo nei mercati dei derivati. Sta nel fatto che le quotazioni dei derivati possono avere un impatto sul prezzo vero degli alimenti, specialmente nei paesi meno industrializzati che dipendono dalle importazioni. Gli studi statistici hanno evidenziato un’interruzione della causalità tra prezzi spot delle derrate e prezzi dei futures, illustrando che i prezzi dei futures determinano i prezzi spot. Qual è il meccanismo che provoca tutto questo?

Intanto il benchmarking. Non c’è una risposta semplice alla domanda “qual è il prezzo mondiale del grano”. Cresce in modi differenti in paesi differenti, ma quando si un compratore e un venditore si accordano per effettuare una transazione in grano fisico, come decidono il prezzo? Possono essere aiutati se c’è un benchmark esterno e indipendente da cui possono ricavare il prezzo. Questo è il motivo per cui il prezzo dei derivati li può aiutare. I prezzi dei futures servono di fatto come prezzi benchmark, l’unica indicazione visibile da tutti di un’apparente sguardo d’insieme su domanda e offerta. Se, per esempio, i contratti d’importazione si riferiscono al prezzo dei futures CBOT, ciò provoca una diretta trasmissione dai prezzi dei futures a quelli degli alimenti beni reali.

In secondo luogo, i prezzi degli alimenti possono alzarsi a causa dell’accaparramento. Questa è una situazione del mondo reale. Se i prezzi dei futures si alzano, tutto questo può incentivare quelli che hanno la possibilità di immagazzinare gli alimenti, ad esempio, grandi venditori all’ingrosso di grano, di farlo mentre vendono i futures. Raccogliere nei magazzini le merci in anticipo per consegne future può creare una carenza dell’offerta, spingendo in alto i prezzi.

Alcuni scettici argomentano come anche le derrate alimentari che non hanno un mercato dei derivati hanno mostrato allo stesso modo un rialzo di prezzo, attribuendo così tutti gli aumenti del cibo agli aspetti fondamentali, come la domanda sempre più forte che proviene dall’Asia orientale. È un punto importante, ma è anche un argomento che sorvola sul concetto di sostituzione. Se il prezzo globale delle qualità più diffuse di grano aumenta, allora i consumatori sono incentivati a cercare delle alternative, cosa che porterà poi a una convergenza di prezzi.

Il concetto della sostituzione solleva un altro argomento dibattuto: la connessione tra i prezzi dell’energia e i prezzi degli alimenti. Il rialzo del prezzo del petrolio crea incentivi per spostarsi sui biocarburanti, che vengono ottenuti dal granturco e dallo zucchero, e questa è una delle ragioni per cui la speculazione sul petrolio ha avuto effetto sui prezzi degli alimenti. L’energia è anche il più grosso input nell’agricoltura commerciale attraverso la meccanizzazione, il trasporto e i fertilizzanti creati con processi produttivi che hanno un’alta intensità energivora.

È probabile che questi problemi non vengano risolti molto presto. Nel frattempo, i prezzi degli alimenti mostrano un rialzo record molto preoccupante. Quando si cominciano a sentire chiacchiere nei pub della City sulle commodities, accadono poi cose strane. È l’ora di prendere la cosa sul serio.

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Fonte: http://www.theecologist.org/News/news_analysis/931513/a_guide_to_food_speculation_how_to_argue_with_a_banker.html

di Brett Scott

22 luglio 2011

La “sovranità”, questa sconosciuta

Diciamocelo francamente: nelle differenti nazioni europee, di fronte alla “crisi”, ciascuno scrive e dice la sua sul modo più adeguato per uscirne, ma pressoché inesistenti sono le voci che si ergono per rivendicare la precondizione necessaria per poter dare una parvenza di realizzabilità a qualsiasi delle ‘ricette’ proposte…

Tra costoro vi è difatti chi auspica maggiori dosi di “società civile” e di “democrazia dal basso”, chi rivendica le ragioni del “socialismo”, variamente declinato, chi sostiene invece che dovremmo “decrescere” e “tornare alla natura”, chi addirittura ci ripete che non siamo abbastanza “liberali” e “liberisti”, quindi non sufficientemente “moderni”; chi infine, considera – certo con maggior acume – che, in fondo, questa “crisi” a tutti gli effetti planetaria è “di civiltà”, ma poi, in luogo di una dottrina e un esempio di carattere spirituale, ci sciorina la sua “ideologia religiosa” scambiando la “conversione interiore”, ovvero la metanoia[1], per una facile ricetta politica che d’incanto dovrebbe risolvere tutti i mali: “la soluzione è l’Islam!”, ripetono i fautori del cosiddetto “Islam politico” che tanto da scrivere danno ai cosiddetti “esperti d’Islam”.

Tutti, certo in varia misura, hanno una qualche ragione e colgono alcuni aspetti importanti, ma nelle loro argomentazioni, che è possibile quotidianamente leggere in svariati giornali e siti internet, vi è un grande assente, caduto nell’oblio più profondo: la sovranità.

Sovranità “nazionale” o “continentale” (la differenza non è di mero dettaglio), qui, ai fini del discorso che intendiamo svolgere, poco importa[2]. In primo luogo, manca nella maggioranza delle persone, in Europa, nel cosiddetto “Occidente”, l’anelito ad essere signori sulla propria terra; a non dover rinunciare, a beneficio di estranei, a questa prerogativa; a detenere insomma il possesso delle “chiavi di casa”!

Il nocciolo della questione del “comandare a casa propria” non sta però negli sbrigativi e roboanti termini posti da movimenti “identitari” sorti un po’ dappertutto in Europa dopo la fine del blocco sovietico. Sebbene non sia il caso di liquidare le loro rivendicazioni con la classica spocchia del “radical chic” che ostenta un monopolio della moralità, va detto che tutto il loro infuriarsi contro lo “straniero” è tutto fumo e niente arrosto, perché alla prova dei fatti, anche dove governano loro (vedasi l’Italia, con la Lega Nord) la patria vede crescere esponenzialmente la presenza di stranieri sul proprio territorio, né – ed è la cosa più grave per chi ripete di continuo “padroni casa nostra”! – dice mai mezza parola sulla presenza del suolo patrio di oltre cento basi ed installazioni Usa/Nato. Mai mezza parola, il che è strano davvero, perché non si vorrà certo credere che in Italia, ad esempio, comandino i marocchini (o gli “islamici”, termine appositamente coniato per rinfocolare l’islamofobia)!

Ma questi, come tutti gli altri, sono i politici, gente navigata per tutte le stagioni, che fiuta la rogna insita nel sollevare il problema “basi Usa/Nato in Italia”, per non parlare di tutta quell’influenza a vari livelli stabilita tramite “corporation”, finanza, media e, non ultime, le ambasciate (come dimostrato in questi giorni in Siria, dove il locale ambasciatore statunitense è stato pescato in combutta coi “manifestanti”).

Stabilito che non è né giusto né sostenibile alla prova dei fatti un afflusso di stranieri quale quello che viene sopportato dalle nazioni europee[3], e rilevato che agli occhi dell’immigrato l’Italia, la Spagna, la Francia eccetera esistono solo come “opportunità”, né provoca il lui alcuno sgomento l’attuale condizione di servilismo verso interessi antitetici rispetto a quelli della comunità nazionale che lo ospita (l’ultimo scandalo, in ordine di tempo, è la partecipazione all’aggressione alla Libia), vi è da dire che tutto il bla bla che si fa sulla “uscita dalla crisi” non porterà assolutamente a nulla se non si affronterà per prima cosa l’istanza che sta alla base di un’azione politica fattiva ed incisiva: la questione della sovranità.

Chi dovrebbe però sollevarla una volta per tutte? I politici no di certo, perché in questa situazione ci sguazzano alla perfezione, visto che, quand’anche l’attuale “crisi” si trasformasse in uno “tsunami” essi cadrebbero sempre in piedi, poiché le ricette “lacrime e sangue” sono sempre a carico del gregge da tosare e non a loro carico, rappresentando la tipica casta di “nababbi” rimpinzati a dovere dai loro padroni (la finanza apolide) affinché svolgano fedelmente il compito assegnato loro[4].

Né gli immigrati, come detto, per i quali il problema non sussiste. Vengono in Europa per trarne i maggiori benefici economici e sociali possibili, ma se poi l’Italia o altre nazioni sono delle mere entità geografiche villaneggiate da tutto e tutti ciò non li turba affatto. Anzi, buona parte di costoro s’illude di essere sbarcata nel Paese di Cuccagna della “libertà”, della “democrazia” e dei “diritti umani”, finendo per credere alla propaganda degli stessi che hanno affamato le loro patrie e creato così le premesse per la loro emigrazione!

Rimane, pertanto, l’autoctono, l’italiano, il greco, lo spagnolo, il portoghese eccetera che però è stato “educato” con dosi da cavallo di “antifascismo”, che scavando nel profondo provoca vergogna di se stessi e di quel che di buono è stato fatto, se non addirittura “odio di sé” e delle proprie origini[5]. Il prodotto di un simile certosino condizionamento induce i più a credere che la pretesa di vivere in una nazione sovrana ineluttabilmente proporrebbe una riedizione del “male assoluto” dell’era contemporanea... In questo clima malato, siamo certi che un governo che, chissà per quale miracolo, riprendesse le redini della politica monetaria e delle sue forze armate verrebbe immediatamente tacciato di “fascismo”, eppure ciò è una cosa ben strana, perché tra le prerogative della sovranità vi sono appunto il “battere moneta” e il “monopolio della forza”! Invece, nelle odierne liberal-democrazie la moneta è in mano a noti – e ripetiamo noti - privati che la prestano allo Stato ad interessi usurai, mentre le forze armate, con la scusa della “guerra al terrorismo” (“islamico”!), sono utilizzate da un capo all’altro del mondo – con costi sempre più elevati per la comunità nazionale – a difesa degli interessi della medesima genia di sfruttatori del genere umano che campa sull’usura. Attività che, è doveroso ricordarlo, è stata interdetta da tutte le tradizioni ortodosse, compresa quella islamica, ed è anche per questo che si dannano così tanto per presentare male l’Islam e il Corano…

Rebus sic stantibus, Italia, Spagna, Grecia, Portogallo eccetera sono delle mere finzioni, o convenzioni, dato che nessuno governo “italiano”, “spagnolo”, “greco”, “portoghese” eccetera è in grado – quand’anche lo volesse – di far valere la sovranità nazionale, in qualsiasi campo d’interesse pubblico. Questi “governi nazionali” convenzionali sono insediati (votati dagli allocchi e da chi ha un interesse clientelistico) solo per far sì che la massa bovina venga vessata dalla mattina alla sera, spolpata con tasse e balzelli sempre più esosi, ingabbiata con una rete capillare di leggi sempre più incomprensibili e promulgate ad un ritmo parossistico; il che, se si aggiunge allo scollamento sociale provocato anche dall’eccesso di immigrati sul suolo nazionale (ma anche dal disastro di civiltà in atto), configura una situazione in cui non è eccessivo affermare che i “governi nazionali” sono messi lì per fare sistematicamente la guerra alle popolazioni da essi “governati”.

E se anche un sussulto di dignità provenisse da un “pazzo” emerso dalla servile classe dirigente, subito il circo mediatico, questa autentica macchina da guerra in mano agli stessi potenti apolidi usurai, si metterebbe a screditarlo come “fascista”. Quel che è più tragico, è che buona parte della popolazione autoctona, come anzidetto “educata” a dovere, si accoderebbe volentieri alle lagnanze dei “media internazionali”, di cui esiste sempre una voce in loco pronta a recepirne le grida.

Eppure, a tutti costoro, “campioni di moralità”, andrebbe una buona volta ricordato come sia impossibile realizzare alcunché – anche i loro strampalati deliri utopistici – se manca il prerequisito necessario per svolgere un’azione politica fattiva: la sovranità.

S’immagini infatti un corpo umano in cui alcune parti venissero in qualche modo eterodirette: la mente dice di fare una cosa (“prendi il bicchiere”), ma la mano destra lo prende e lo getta a terra perché è governata da altri. Che cosa accadrebbe? Un uomo ridotto a questo livello impazzirebbe in poche ore. Oppure si pensi ad una persona che prima di fare qualsiasi cosa debba rispondere ad un’altra: se tra queste vi fosse anche il respirare e quella glielo impedisse, certamente soffocherebbe all’istante. Oppure, per cambiare metafora, parimenti calzante, si pensi a una casa nella quale ci appassioniamo per la scelta del mobilio, della tappezzeria e del colore delle pareti (le elezioni e le “opinioni politiche”, in pratica), ma di cui non possediamo le chiavi!

Tutte situazioni palesemente assurde, per chiunque, ma quando si tratta di passare alla politica, analoga constatazione non desta alcuno scandalo. Ciò in parte è dovuto ai condizionamenti “culturali”: decenni di “rieducazione” hanno scavato in profondo; per di più la “brutta fine” di chi ha provato ogni tanto ad alzare la testa non induce all’eroismo… Inoltre, il “clima” liberal-democratico infonde uno stato d’animo alieno rispetto a qualsiasi aspirazione alla sovranità, perché – come più volte ho rilevato – una civiltà la si misura essenzialmente nel “tipo umano” che essa forgia.

E qui ci avviciniamo al punto centrale della “questione sovranità”. Il mondo moderno, quello della liberal-democrazia (libertà, democrazia, diritti umani) è per prima cosa un sistema di vita informato secondo valori atei, che prescindono dall’esistenza di un Principio assoluto, dunque invertiti rispetto a quelli che sono i cosiddetti “valori tradizionali”. L’uomo moderno, che si compiace della sua “modernità” è un tipo umano che per prima cosa diverge da se stesso, per questo cerca costantemente il di-vertimento.

Ora, divergere da se stessi significa abdicare da quell’imprescindibile compito che il Principio, il Creatore di tutte le cose, Allâh, ha indicato all’uomo nel Libro sacro (il Corano) e nell’esempio virtuoso[6] del Suo Inviato (Muhammad) affinché egli possa fare ritorno a Lui, ed in pratica conoscere se stesso: “Chi conosce se stesso conosce il suo Signore”, recita un noto hadîth. L’uomo realizzato è essenzialmente sovrano.

Ma a chi interessa oggi essere sovrani di se stessi? Giungere a questo punto significa annullare il proprio sé egoistico, ridursi a uno zero, come concordano tutti i saggi dell’Islam, e non solo, per realizzare l’Uno. Questa “grande vittoria” è alla portata solo di pochissimi eletti, ma tutti gli altri – me compreso! - hanno quantomeno il dovere di tendere verso questo scopo, che è la signoria, la sovranità interiore. Sayyid, letteralmente “signore”, da cui Sayyidî (o Sîdî, “mio Signore”) è appunto il “santo dell’Islam”, perché egli ha conosciuto il suo Signore, pertanto solo questo “vero uomo” ha le credenziali per essere chiamato a sua volta “mio signore” dagli altri.

Intendiamoci, non si tratta di una passeggiata, perché l’ascesi è quanto di più selettivo possa esserci, il resto potendosi contraffare in tanti modi: la vera “élite” è difatti solo spirituale, mentre le altre “élite”, da quella del denaro a quella della “cultura” eccetera, sono solo contraffazioni consone all’epoca “oscura” in cui viviamo.

Certamente, un’epoca abitata da uomini che non ne vogliono sapere di conoscere il loro Signore, di ripristinare la signoria interiore, ma anzi si “ribellano” pervicacemente, non può distinguersi per un anelito alla sovranità della propria patria: l’indifferenza verso la sovranità politica è specchio di quella per la sovranità interiore…

Oggi, la maggioranza degli uomini cosiddetti “moderni” preferiscono mettersi una delle innumerevoli “maschere sociali” e recitare così una “parte” per tutta la loro vita; ma i sîdî, i mawlâ[7], hanno smesso ogni maschera scoprendo la loro vera essenza.

Perciò, un sano anelito alla sovranità (nazionale, o continentale) non può sorgere da individui in preda alle proprie passioni, immersi nel mondo della dispersione dalla mattina alla sera (e anche quando dormono!), ma solo da coloro che hanno realizzato la loro sovranità interiore per “vivere nella verità”. E certo non promana dalla verità il vivere perennemente sotto un giogo straniero, per di più se esso porta le insegne dell’usura e del traviamento degli esseri umani finalizzato a trasformare in carbone per l’Inferno le loro esistenze…

Ma quanti sono, oggi, i “signori”, i sîdî? Pochissimi, certo, né il loro compito è quello di far “politica”, così com’è inteso oggi il termine. Essi devono solo guidare gli altri uomini, indicare loro la “via”.

Tuttavia, se un numero sempre maggiore di persone, di fronte al nulla del “mondo moderno”, si renderà conto che così non è possibile andare avanti, ma è necessario affidarsi ad una “guida” per scoprire il cammino che conduce alla signoria interiore, ciò avrà senz’altro delle implicazioni anche sulla sovranità esteriore, perché la l’anelito all’autorealizzazione e l’accettazione delle convenzioni e delle falsità che sostengono l’attuale “mondo moderno” non possono andare d’accordo. Tra queste falsità vi è appunto l’idea che non si possa vivere in una nazione sovrana (preludio di uno spazio sovranazionale) senza precipitare nuovamente nel “male assoluto”.

È tempo di svegliarsi. Di uscire da quest’illusione senza speranza. È ora di smettere di aver paura e di essere finalmente uomini. Ma per far ciò bisogna affidarsi a chi è uscito dallo stato di sonno nel quale noialtri, gente comune, siamo immersi. Questa è la precondizione per far sì che anche un sano anelito alla sovranità esteriore, nei suoi aspetti fondamentali e, in fondo, “tradizionali”[8], possa riecheggiare nei nostri cuori e nelle nostre menti, facendo piazza pulita degli “idoli” del mondo interno, prima, del mondo esterno, poi (la “democrazia”, la “libertà”, i “diritti umani”, l’America, l’Occidente…)[9].

di Enrico Galoppini



[1] Conversione spirituale, ravvedimento unito a pentimento, che implica un cambiamento radicale di vita.

[2] Non è questa la sede per entrare nel dettaglio, ma basti osservare che anche una rapida osservazione di tipo storico e geopolitico degli eventi del passato c’insegna che “sovrane” possono diventarlo sono le entità sovranazionali di carattere imperiale, perché sono le sole a poter disporre dei fattori di carattere politico, demografico, economico, militare e, soprattutto, spirituale, che configurano un’autentica sovranità rispetto alle entità confinanti. Anche nell’epoca moderna, gli espansionismi di iniziali Stati-nazione moderni come l’Inghilterra, la Francia o l’Italia si sono risolti nella formazione (o nel tentativo frustrato da una sconfitta militare) di entità sovranazionali di tipo imperiale. Questo per dire che la mera “sovranità nazionale” può essere solo una base, ma non è sufficiente per risolvere la questione della sovranità stessa, altrimenti dovremmo dar ragione a tutti quegli indipendentismi sempre più diffusi nel mondo che per ogni “popolo” rivendicano un effimero “Stato indipendente e sovrano”.

[3] I soloni che pontificano sulle virtù della “società multietnica” abitano quasi tutti in zone altolocate e nient’affatto “multicolori” delle varie città europee.

[4] Dall’arabo nâ’ib (pl. nuwwâb): “rappresentante”, “colui che fa le veci”, “sostituto”, quindi “deputato”; il che ci riporta all’India dominata e rovinata dall’Inghilterra, dove a gestire gli affari locali per conto della City di Londra venivano posti compiacenti “signorotti” indiani adeguatamente pasciuti; questo, in pratica il tanto decantato “governo indiretto” britannico (indirect rule) addotto ad esempio di “efficienza”: lo stesso massimo risultato col minimo sforzo raccolto nelle nazioni europee conquistate dopo il 1945, dove i militari statunitensi e gli agenti della City non si fanno accuratamente vedere in giro per non destare sospetti.

[5] L’opera di condizionamento sistematico delle popolazioni “occidentali” è infatti di tipo psicologico: di qui il trionfo della psicanalisi e l’adozione di tecniche di condizionamento mentale in ogni campo, non ultimo quella della cosiddetta “informazione”, prodotta da squadre di esperti che conoscono bene le tecniche di manipolazione psicologica.

[6] Il termine “virtuoso” deriva dal latino vir, “uomo”: il vero “uomo”, l’uomo “virile”, è quello che, attraverso le “virtù” (che coincidono con le qualità dei 99 Nomi Bellissimi di Allâh!), ha realizzato la perfezione, giungendo alla Stazione più elevata cui possa aspirare. Gli altri possono solo seguirne l’esempio, rivivificato da quello dei Maestri viventi.

[7] Per una spiegazione del termine mawlâ, importante anche nella logica di questo discorso sulla “sovranità”, rimando al mio La via dell’Inferno è lastricata di “proteste”: http://europeanphoenix.net/it/index.php?option=com_content&view=article&id=80&catid=3.

[8] S’è mai visto un “Califfato”, un “Impero di Mezzo” o un qualsiasi altro Impero concepito come un’entità non sovrana?

[9] Il simbolismo della distruzione degli idoli contenuti nella Ka‘ba – simbolo del “cuore” - da parte del Profeta dell’Islam, una volta conquistata Mecca, è eloquente. Prima il jihâd interiore, poi quello esteriore, e la riconquista, a tutti gli effetti, della sovranità in entrambi i domini.

21 luglio 2011

Il peso delle Regioni tra stipendi d’oro e mega consulenze


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Secondo copione, il presidente della Conferenza delle Regioni, Vasco Errani, ha accusato il governo di scaricare sulle Regioni poco meno di metà dei costi della manovra. E ha minacciato (i cittadini): così ci saranno meno sanità pubblica, meno trasporti pubblici, meno aiuti alle imprese. Secondo copione, nessuno guarda in casa propria per verificare se tutto è a posto, prima di danneggiare i cittadini. E le Regioni italiane — con i dovuti distinguo — l’occhio sui propri conti avrebbero dovuto metterlo da molti anni. Magari è folklore ricordare certe spese pagate dalla collettività appena pochi anni fa: 75 mila euro, in Veneto, per uno studio sullo «sviluppo del turismo congressuale verso forme di organizzazione e gestione evolute» , 10 mila euro in Toscana per una consulenza «in materia di procedure di acquisto di beni di rappresentanza» , 192 mila euro in Campania per un «team di animatrici di pari opportunità» . È folklore ricordare — come fa il giornalista Mario Giordano — che presso la Regione Lazio, anno 2009 (era Marrazzo), furono spesi 6 mila euro di caffè per le riunioni di giunta, molte tazzine per ciascun assessore. Più sostanziale è la notizia che la Regione Sicilia ha più di 19 mila dipendenti, ognuno dei quali costa in media 43 mila euro l’anno (il 40 per cento in più dei ministeriali romani). Il governatore della Sicilia, Lombardo, ha annunciato pochi giorni fa, su Libero, che non aspetterà una legge nazionale per abolire le sue Province, ma lo farà «subito» , in virtù dello statuto speciale che regola la sua Regione. Solo che lo stesso identico annuncio lo aveva fatto alla fine della scorsa estate. A proposito di Lombardo: come presidente guadagna al netto il doppio dei 7787 euro (lordi) che prendono in media i governatori degli Stati americani. Il più pagato è il governatore dello Stato di New York che con i suoi 10.612 euro lordi guadagna meno di un deputato regionale sardo (11.417 netti) o del presidente della giunta calabrese (13.353 netti). La Regione che ha meno abitanti è il Molise (320 mila circa), governato dal 2001 da Michele Iorio (Pdl), e il Molise ha in proporzione il più alto numero di dipendenti: 2,79 ogni mille abitanti contro lo 0,39 in Lombardia, lo 0,59 del Veneto. I «regionali» molisani sono 981 e cento sono dirigenti. Nel Lazio, invece, c’è il record di commissioni consiliari: sono 20 contro otto della Lombardia, che ha il doppio degli abitanti. Le commissioni, alla Regione ora amministrata da Renata Polverini, costano 7 milioni l’anno e ogni presidente di commissione aggiunge mille euro ai 10 mila netti che percepisce ogni mese. I vicepresidenti, che sono 38, aggiungono soltanto 700 euro al mese. Nel Lazio 71 consiglieri, 20 commissioni, 17 gruppi consiliari (8 dei quali composti da un solo eletto) sono costati, secondo il bilancio dello scorso anno, 131 milioni 406 mila euro, con una crescita, rispetto all’anno precedente, di 15 milioni. Nel Lazio bastano 50 anni per cominciare a incassare il vitalizio che spetta di diritto anche a chi abbia concluso un mandato in consiglio regionale. Nel 2010 per 220 vitalizi Polverini ha visto volar via oltre 16 milioni di euro. Sempre il Lazio ha il record della spesa-clou delle Regioni, la spesa sanitaria. Per ogni cittadino la regione della capitale spende 3349 euro, seguito da Abruzzo (3239), Calabria (3.090), mentre sul fronte dei più misurati stanno la Basilicata (1616), il Veneto (1665), la Puglia (1734). Entrando nel merito delle prestazioni si può ricordare che l’Emilia Romagna ha un centro unico che fa milioni di analisi l’anno al costo medio di 50 centesimi l’una, mentre in Campania, nei 1200 centri privati convenzionati, le stesse analisi pesano per 6-7 euro l’una. Le amministrazioni locali costano allo Stato quasi 150 miliardi della Cgia di Mestre, fra il 2001 e il 2008, le Regioni avevano aumentato le spese del 47,7 per cento. «Ministeri, Parlamento, Regioni, Province Comuni, tutte le pubbliche amministrazioni — ha detto in questi giorni David Ermini, presidente del Consiglio provinciale di Firenze— dovrebbero osservare dove sono le spese improduttive e tagliarle di netto. Smettendo di rinfacciarsi pateticamente le responsabilità» .
di A. Gar.

20 luglio 2011

Una guida alla speculazione sul cibo: come discutere con un banchiere



La speculazione finanziaria nei paesi ricchi e industrializzati come il Regno Unito e gli Stati Uniti ha spinto in alto i prezzi delle fibre come il mais nelle nazioni a basso reddito.

Le banche come Goldman Sachs e Barclays hanno creato fondi che permettono agli investitori di speculare sul prezzo delle coltivazioni più importanti. Tutto ciò ha generato enormi profitti e si stima che Goldman Sachs ha ottenuto più di 1 miliardo di dollari nel solo 2009 e Barclays nello stesso anno circa 340 milioni di sterline grazie agli scambi delle commodity sul cibo.

Un report delle Nazioni Unite ha recentemente stimato che il totale investito negli strumenti relativi al settore alimentare è passato dai miliardi di dollari del 2003 a più di 55 miliardi nel 2008.

Comunque, scommettere sui prezzi degli alimenti ha un costo. Gli elevati volumi delle contrattazioni di questi fondi portano a una maggiore volatilità dei prezzi, come riferiscono gli attivisti, che va a colpire le famiglie povere dei paesi meno industrializzati, tanto da non potergli permettere il consumo di alimenti basilari e rendere così sempre più difficile la pianificazione e gli investimenti da parte degli agricoltori.

Le organizzazioni di beneficenza come Christian Aid e persino alcuni rappresentanti delle Nazioni Unite stanno chiedendo regole più rigide per tenere a freno la volatilità dei prezzi, un qualcosa a cui l’industria bancaria si oppone con decisione.

Per aiutarvi a farvi un’idea degli argomenti proposti dalle due parti, l’ex broker Brett Scott ci fornisce questa guida per capire le speculazioni sugli alimenti

Cibo vero Vs. derivati

È importante capire la distinzione tra il mercato reale degli alimenti e il mercato dei derivati sull’agricoltura che si riferisce al vero mercato del settore agricolo. Un agricoltore ucraino che esporta la farina in Nord Africa si impegna a promettere a qualcuno che entra in un contratto di futures basati sul grano. Il primo è una transazione fisica spot e il secondo consiste in una transazione basata sui derivati.

I derivati sono contratti tra due contraenti. Ci sono opzioni e futures sul settore agricolo e ci sono swap e forward over-the-counter che vengono affidati dai venditori alle banche d’investimento. Questi contratti derivati sono, più o meno, analoghi alle scommesse sul mercato reale alimentare, così come le scommesse sportive si riferiscono a un evento sportivo. Prendere una “posizione” nei futures del grano, ad esempio, vuol dire mettersi nella posizione di vincere o di perdere a causa di un cambiamento del prezzo del grano. È concettualmente simile, anche se non è proprio la stessa cosa, al comprare fisicamente il grano fisico. È proprio come se uno lo stesse davvero comprando.

Lo scopo originario dei derivati sul settore agricolo era quello di permettere ai produttori di beni materiali di usare questa scommessa per proteggersi dai cali delle quotazioni (short hedging) e agli utilizzatori di questi beni di usare una scommessa per proteggersi da un incremento di prezzo (long hedging). Se non sei un produttore o un utilizzatore di commodities reali e tutto quello che realizzi è una scommessa, in questo caso sei considerato uno speculatore. La controversia sulla “speculazione sul cibo” si riferisce alla speculazione del mercato dei derivati del settore agricolo, non tanto alle transazioni fisiche di questi beni.

La controversia può essere separata in due differenti istanze. Prima domanda: sono i players finanziari del mercato dei derivati sulle commodity che provocano la dissociazione da quello che “dovrebbe essere” il suo prezzo se esso riflettesse il bilanciamento tra la domanda e l’offerta del bene sottostante? Secondariamente, una tale dissociazione nei prezzi dei futures si può trasmettere al prezzo vero degli alimenti?

Sembrano domande semplici, ma non lo sono. Si può attribuire, ad esempio, una casualità tra un’attività speculativa sul cambio dei derivati americani e il vero cambio di valore del costo di una borsa di grano in Sud Africa? È quest’area grigia che fa sì che il dibattito si dirami in modo confusionario.

Cosa è che determina il prezzo?

La maggior parte delle teorie finanziarie ritiene che i prezzi dei futures siano determinati dalla cosa su cui scommette il future stesso, in modo molto simile al modo in cui una corsa di cavalli determina il valore delle scommesse sulla stessa corsa. In pratica, nella teoria finanziaria i prezzi dei derivati sono strutturalmente legati al valore del bene su cui sono basati e si suppone che seguano lo stesso andamento attraverso un processo chiamato arbitraggio per assicurarsi che, nel caso il prezzo del derivato si discosti troppo dal prezzo spot dell’asset sottostante, venga così riportato verso questo stesso prezzo.

Ecco un esempio del mondo reale dai mercati del petrolio: all’inizio del 2009 i prezzi dei futures sul petrolio si sono alzati “troppo in alto” rispetto al prezzo spot del petrolio che poteva essere comprato in quel momento. I traders d’arbitraggio acquistano petrolio fisico, lo immagazzinano nelle petroliere e simultaneamente vendono i futures. Lo scopo della transazione è quello di comprare petrolio al prezzo odierno e poi trattenerlo per venderlo in futuro a un prezzo più alto. Questo tipo di scambio teoricamente consente ai traders di assicurarsi un profitto privo di rischio, a patto che il costo del “trasporto” del petrolio (ad es. l’immagazzinamento, l’assicurazione e i costi finanziari) non sia superiore alla differenza tra il prezzo spot e quello dei futures. Teoricamente, con questo processo, il prezzo spot e quello dei futures dovrebbero allinearsi per rimuovere l’opportunità di un profitto privo di rischio.

Sembra complicato? È abbastanza complicato. Ad esempio, chi ha in effetti la possibilità di noleggiare navi per immagazzinare petrolio? Ha importanza la qualità del petrolio stivato? Tutto ciò comporta un abbassamento dei prezzi dei future o fa innalzare il prezzo spot del petrolio? Ho l’impressione che nessuno lo sappia con certezza, perché la cosa importante, nel mercato delle commodities, è che i processi di arbitraggio sono complicati perché accedere alle commodities fisiche per mettere in pratica le relazioni di arbitraggio è difficoltoso.

La saggezza convenzionale delle relazioni matematiche tra prezzi spot e quelli dei derivati è stata comunque messa in discussione dal fatto che questa relazione può interrompersi, fino ad invertirsi, così che i prezzi spot sottostanti cominciano a muoversi verso i prezzi dissociati dei derivati, e non all’opposto. È analogo all’idea che scommettere sui cavalli possa determinare il risultato della corsa, un classico caso di “un cane che si morde la coda”.

Perché le banche hanno iniziato a scommettere sul cibo

Il fatto che le commodity fisiche siano sporche e ingombranti ha comportato che la speculazione su questi tipo di beni è generalmente dominata da agenzie specializzate negli acquisti fisici, come Glencore e Cargill. Ci sono delle indicazioni che suggeriscono come le banche siano sempre più coinvolte nel trading fisico così come, ma solo in uno stato iniziale, l’attività speculativa degli investitori si è sempre più sviluppata nel mercato dei future sulle commodity. I classici della finanza, come “Market Wizards” pubblicato nel 1988, contengono interviste interessanti con speculatori che descrivono i loro successi negli anni ’70 nei mercati dei future della soia, del frumento e del grano, quando operavano a fianco di quelli che erano in questi mercati per scopi non speculativi. Molti di questi traders si troverebbero a loro agio nel mondo degli hedge funds o nei rami “proprietary trading” delle banche d’investimento.

Il tuo browser potrebbe non supportare la visualizzazione di questa immagine. I futures, comunque, devono essere gestiti giorno per giorno. Questo va bene per un hedge fund specializzato, ma non per gli investitori istituzionali come i fondi pensione. Se gli hedge funds sono dei predatori scaltri, i fondi pensione sono come degli immobili brontosauri, spesso all’oscuro degli andamenti al rialzo o al ribasso del day-to-day. La maggior parte dei fondi pensione che investono in azioni, obbligazioni e beni di proprietà non ha il tempo o la capacità di entrare e uscire dai futures. Vogliono comprare qualcosa che possa essere tenuto per anni, non contratti con una data di scadenza di sei mesi.

L’idea di “investire” in commodities si è potuta realizzare solo grazie all’avvento dei prodotti d’investimento collegati agli indici che sono stati progettati dalle banche d’investimento negli anni ’90. Tra questi ci sono gli exchange-traded fund (ETF) e gli equity-linked note basati sulle commodities. Questi strumenti sono molto interessanti per gli investitori: l’investitore mette semplicemente il proprio danaro nel prodotto e la banca d’investimenti che lo gestisce adotta una strategia commerciale per dare agli investitori un ritorno direttamente collegato all’indice di quella commodity, come se essi avessero davvero acquistato fisicamente il bene, ma senza la scocciatura di doverlo fare. Col tempo, questi prodotti hanno consentito un incremento sbalorditivo del numero delle persone che hanno investito in questo settore.

I prodotti basati sugli indici delle commodity, comunque, si basano essenzialmente sui futures. Qui c’è la parte tecnica: per creare prodotto finanziario basato su un indice, le persone che vendono alle banche entrano in transazioni swap con gli investitori, per mezzo delle quali passano i profitti dal mercato dei futures agli stessi investitori. Questi non ne sono necessariamente a conoscenza e la transazione swap potrebbe essere inserita tacitamente o all’interno di un prodotto d’investimento complesso, ma l’effetto pratico rimane lo stesso: il compratore sta tenendo posizioni futures per conto degli investitori e l’attività nel mercato degli swap crea così un’ombra nei mercati dei futures. Per coloro che sono interessati, questa ombra può essere osservata nei “Commitment of Traders Reports” del CFTC che illustra le posizioni del trading sui futures che sono state tenute dai partecipanti al mercato. La categoria chiamata degli swap dealers indica sempre posizioni “lunghe”, ossia significa che stanno comprando futures, probabilmente per conto degli investitori.

La speculazione va condannata?

Ma perché sono importanti tutte queste cose? Il dibattito acceso è centrato sullo stabilire se l’aumento del numero di questi investitori finanziari ha portato a sconvolgimenti nei prezzi dei futures delle commodity. La discussione si è infiammata dopo che un report stilato nel 2010 da due accademici, scritto per conto dell’OCSE, ha messo in discussione la connessione tra la finanziarizzazione del mercato delle commodities e l’enorme incremento dei prezzi di quest’ultime nel 2008.

Le sfumature di questo dibattito sono troppo per essere qui elencate, ma è bene buttare a terra qualche specchietto per le allodole. Qui non si discute se gli speculatori abbiano, in linea di principio, una funzione positiva per il mercato. I testi della finanza ci suggeriscono che gli speculatori sono utili perché forniscono liquidità, perché aumentano il numero degli ordinativi nel mercato, che a sua volta migliora l’abilità di tutti gli attori nel commerciare. Facendo questo, si pensa che rafforzino un processo razionale di “scoperta del giusto prezzo”, consentendo un bilanciamento della domanda e dell’offerta che esprima effettivamente prezzi che siano basati sui fondamentali.

Non c’è dubbio che gli speculatori possano ricoprire un ruolo importante nel funzionamento dei mercati. Io, ad esempio, ha passato due anni lavorando in alcuni dei mercati meno illiquidi nel mondo finanziario, sviluppando nuovi tipi di curiosi derivati. Desideravo con tutte le forze che gli speculatori entrassero, solo per far partire la cosa. Ma quello che determinante è il grado della presenza speculativa nel mercato.

Può darsi che un mercato che ha il 30 per cento di attività speculativa possa funzionare bene, ma cosa può succedere in un mercato che ne ha il 60 per cento? E con l’85 per cento? Queste non sono relazioni lineari; un mercato non diventa automaticamente più efficiente se vi entra un gran numero di speculatori ed è facile immaginare che c’è un punto di equilibrio in cui troppi speculatori destabilizzano i prezzi invece che aiutare a contenerli. La maggior parte della speculazione è costituita da transazioni a breve termine per profitti a breve termine e funziona se è svolta nell’ambito di un mercato che tiene di conto i fondamentali di lungo periodo. Ma cosa succede se tutto questo avviene in un mercato che è per larga parte formato da speculatori? Si tratta di speculazione sulla speculazione, ed è così si formano le bolle.

Un qualsiasi trader ve lo potrebbe confermare, ma il dibattito tecnico presente sulle riviste accademiche ripete con monotonia le solite cose, che mancano totalmente delle sfumature di colore che vengono da coloro che effettivamente operano in questi mercati. Comunque il substrato informale di questo dibattito proviene dal mondo delle speculazioni finanziarie e viene rielaborato nei termini della distinzione tra i traders fondamentali e tecnici.

Un trader che si basa su un’analisi fondamentale è uno speculatore che si occupa di speculare sulla domanda e sull’offerta di commodities. Un trader che opera seguendo un’analisi tecnica si occupa di una speculazione basata sui modelli del mercato che si forma con le attività degli altri traders. I traders fondamentali sono preoccupati del fatto che l’aumento del numero dei trader tecnici aumenta la casualità e il rumore di fondo dei mercati. Se i traders tecnici basano le loro decisioni sugli altri traders e il loro numero aumenta, il mercato diventa circolare e autoreferenziale e corre il rischio di scollegarsi dalle connessioni tra domanda e offerta.

La chiave per operare in questo ambiente diventa una variante dello schema piramidale, ossia andare avanti seguendo il trend, cercando di uscire prima che tutti riescano a capire l’andazzo. Questo non è un segreto.

Perché non tutti gli investimenti sugli alimenti sono un male

Focalizzarsi sull’argomento della speculazione a breve termine può oscurare un fattore più importante nei mercati. La pura speculazione dalla parte dei traders proprietari e degli hedge funds sembra alimentare i movimenti del mercato verso l’altro e verso il basso, creando volatilità, ma come questo si relaziona alle attività dei player a lungo termine come i fondi pensione? Non è cosa nota il fatto che gli investitori istituzionali “speculano” in modo aperto sulle commodities. Un fondo pensione non mette i soldi in un ETF sulle commodity per toglierlo una settimana dopo. Pensano alle tendenze di lungo termine, non alle oscillazioni nel breve. Stanno “investendo”.

Una differenza ulteriore è che, differentemente dagli hedge funds che possono shortare i mercati con le scommesse su un calo delle quotazioni, le organizzazioni più grandi tendono a stare solo sul lungo, dato che investono solo in cose che credono possano salire di valore. Quindi, in pratica, se un forte numero di investitori istituzionali decide di investire nei mercati delle commodities con i prodotti basati sugli indici, il risultato indiretto è quello di un calo nella domanda dei futures. Il mercato dei derivati, di conseguenza, è a somma zero, e se esiste un contratto, ci deve essere un compratore e un venditore che prendono decisioni opposte. Se gli investitori istituzionali formano solamente una domanda, ma non l’offerta relativa, sorge la domanda su chi venda questi contratti future, e se gli investitori sugli indici rappresentino una forza strutturale di pressione verso l’alto dei prezzi dei derivati.

C’è un argomento curioso trovato in un report dell’OCSE che ha causato qualche controversia. È l’idea che, siccome il mercato dei derivati è a somma zero, questi nuovi investitori devono corrispondere ad altri venditori, e quindi per definizione non possono rappresentare una fonte di eccesso di domanda nel mercato dei futures, e quindi hanno un piccolo effetto sui prezzi. È un modo strano di vedere la cosa, perché chiunque operi nel mercato dei derivati sa che i partecipanti in genere sono più interessati negli acquisti, il prezzo dei derivati si deve alzare per indurre altri a vendere.

Il grado di quell’incremento può essere una funzione della profondità di un mercato: un mercato più piccolo ha meno possibilità di assorbire grandi ordinativi. Immaginatevi l’arrivo di Sainsbury in un piccolo mercato di frutta di un villaggio in cerca di merce per i propri scaffali. Non è affatto vero che i venditori possano comparire naturalmente senza uno sconvolgimento dei prezzi, e sembra plausibile che un forte incremento nella quantità di danaro a senso unico nel mercato dei futures possa aver avuto un impatto verso l’alto.

Ci sono molti aspetti tecnici nel dibattito, tra cui le dinamiche fisiche delle commodities, parole strane come contango e backwardation, convenience yields e il rolling dei contratti future. C’è una possibile circolarità dei prodotti basati sugli indici, ossia il fatto che questi cercano di seguire il mercato delle commodities investendo in questo stesso mercato, ma quando si ingrandiscono una parte sempre maggiore del mercato delle commodities è collocato sulle loro posizioni, cosa che può portare quindi a seguirsi da soli. C’è anche la possibilità per un incremento della correlazione tra i prezzi dei derivativi sulle commodity.

Investire sugli indici spesso si basa su un paniere di beni, ossia significa che un investitore compra un prodotto che contiene una vasta gamma di commodities tutte insieme. Questo comporta un simultaneo acquisto di diversi futures sulle commodity, che può portare una gamma di futures sulle commodity a muoversi in tandem. Questo pone un problema per la diversificazione: se i soldi escono dai prodotti basati sugli indici, allora tutto il mercato dei futures sulle commodity può andare in crash, e non solo i futures su una sola commodity.

Non è mai possibile predire esattamente come i mercati rispondano a queste nuove pressioni. Le decisioni del trading non sono determinate da astratti modelli economici messi in essere dal comportamento razionale. Gli accademici possono usare la matematica per provare che i mercati sono efficienti, ma nessuno sembra darci grande importanza e certamente pochi sprecano il tempo a confermare che i mercati si affidano a teorie statiche. I mercati lavorano su strategie umane dinamiche e sulle emozioni, come testimoniano i tanti crash spettacolari che abbiamo visto negli ultimi decenni.

Come salgono i prezzi

La ragione per cui questi dibattiti sono importanti va oltre l’efficienza della determinazione del prezzo nei mercati dei derivati. Sta nel fatto che le quotazioni dei derivati possono avere un impatto sul prezzo vero degli alimenti, specialmente nei paesi meno industrializzati che dipendono dalle importazioni. Gli studi statistici hanno evidenziato un’interruzione della causalità tra prezzi spot delle derrate e prezzi dei futures, illustrando che i prezzi dei futures determinano i prezzi spot. Qual è il meccanismo che provoca tutto questo?

Intanto il benchmarking. Non c’è una risposta semplice alla domanda “qual è il prezzo mondiale del grano”. Cresce in modi differenti in paesi differenti, ma quando si un compratore e un venditore si accordano per effettuare una transazione in grano fisico, come decidono il prezzo? Possono essere aiutati se c’è un benchmark esterno e indipendente da cui possono ricavare il prezzo. Questo è il motivo per cui il prezzo dei derivati li può aiutare. I prezzi dei futures servono di fatto come prezzi benchmark, l’unica indicazione visibile da tutti di un’apparente sguardo d’insieme su domanda e offerta. Se, per esempio, i contratti d’importazione si riferiscono al prezzo dei futures CBOT, ciò provoca una diretta trasmissione dai prezzi dei futures a quelli degli alimenti beni reali.

In secondo luogo, i prezzi degli alimenti possono alzarsi a causa dell’accaparramento. Questa è una situazione del mondo reale. Se i prezzi dei futures si alzano, tutto questo può incentivare quelli che hanno la possibilità di immagazzinare gli alimenti, ad esempio, grandi venditori all’ingrosso di grano, di farlo mentre vendono i futures. Raccogliere nei magazzini le merci in anticipo per consegne future può creare una carenza dell’offerta, spingendo in alto i prezzi.

Alcuni scettici argomentano come anche le derrate alimentari che non hanno un mercato dei derivati hanno mostrato allo stesso modo un rialzo di prezzo, attribuendo così tutti gli aumenti del cibo agli aspetti fondamentali, come la domanda sempre più forte che proviene dall’Asia orientale. È un punto importante, ma è anche un argomento che sorvola sul concetto di sostituzione. Se il prezzo globale delle qualità più diffuse di grano aumenta, allora i consumatori sono incentivati a cercare delle alternative, cosa che porterà poi a una convergenza di prezzi.

Il concetto della sostituzione solleva un altro argomento dibattuto: la connessione tra i prezzi dell’energia e i prezzi degli alimenti. Il rialzo del prezzo del petrolio crea incentivi per spostarsi sui biocarburanti, che vengono ottenuti dal granturco e dallo zucchero, e questa è una delle ragioni per cui la speculazione sul petrolio ha avuto effetto sui prezzi degli alimenti. L’energia è anche il più grosso input nell’agricoltura commerciale attraverso la meccanizzazione, il trasporto e i fertilizzanti creati con processi produttivi che hanno un’alta intensità energivora.

È probabile che questi problemi non vengano risolti molto presto. Nel frattempo, i prezzi degli alimenti mostrano un rialzo record molto preoccupante. Quando si cominciano a sentire chiacchiere nei pub della City sulle commodities, accadono poi cose strane. È l’ora di prendere la cosa sul serio.

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Fonte: http://www.theecologist.org/News/news_analysis/931513/a_guide_to_food_speculation_how_to_argue_with_a_banker.html

di Brett Scott