29 luglio 2011

L'Europa è condannata dalla globalizzazione?

http://www.treccani.it/export/sites/default/Portale/resources/images/sito/altre_aree/scienze_umane_sociali/percorsi_xenofobia.jpg


La storiella del tale che va per suonarle e viene suonato sarebbe risibile, se non ci riguardasse. Il ritorno del boomerang fa sempre male all'incosciente che lo ha lanciato senza sapere come evitare di prenderlo sul viso. La globalizzazione si rivolta contro i suoi iniziatori occidentali. E l'ironica constatazione che ha avanzato Marcel Gauchet in un recente numero di«Le Débat»1: «L'Occidente, e principalmente gli Stati Uniti, è stato il motore della globalizzazione, ma tutti vi hanno aderito e l'Unione europea è diventata la migliore allieva della classe, la zona economica del mondo più aperta, più degli Stati Uniti, cosa che si dimentica sempre. Ora, questo capitalismo globalizzato gioca adesso contro la prosperità occidentale. Si può discutere su questo punto a proposito degli Stati Uniti. In ogni caso, è chiaro per l'Europa, che appare come la perdente del gioco». L'Europa sarà dunque la grande perdente? A partire dal momento in cui si internazionalizza, si finanziarizza e si virtualizza, come succede dagli anni Ottanta, il capitalismo è portato ad emanciparsi rispetto agli Stati, alle forze politiche e alle opinioni pubbliche. Il suo unico quadro spaziale diventa il pianeta. La sua hybris deriva dal non essere più trattenuto da niente. Agisce unicamente in base alla sua logica.
Quale ironia vedere, dopo l'inizio della crisi nel 2007, i vani sforzi di Barack Obama o di Nicolas Sarkozy per tentare di regolamentare il funzionamento dell'industria finanziaria. Dice ancora Marcel Gauchet: «Sarkozy ha fatto discorsi da simpatico gradasso sulla necessità di riportare le banche alla ragione, ha pronunciato parole vendicative assai appropriate contro i guasti di un certo capitalismo, ma tutti hanno capito piuttosto in fretta che quelle parole erano fatte per essere ascoltate e non per essere seguite da effetti». Non vi è niente di sorprendente in ciò, se si vuole pur ammettere che il presidente francese è diventato il campione della banalizzazione liberale della Francia, sostenuto da un largo consenso delle élites e degli elettori.
Con la globalizzazione, lo scollegamento e poi l'autonomizzazione del capitalismo finanziario rispetto a ogni base territoriale, non c'è più bisogno di intermediari politici interni. Per il buon funzionamento del sistema non sono più necessarie nemmeno le connivenze a livello locale tra l'élite politica e l'oligarchia finanziaria. Questa complicità è un residuo del sistema precedente, di quando il capitalismo non poteva sfuggire al quadro nazionale sulla cui base si sviluppava. Questa eredità storica è ormai superata. Il capitalismo è divenuto off-shore, flessibile e nomade. Le sue basi possono trovarsi tanto a Londra e New York quanto a Francoforte, Singapore o Hong Kong. Ci sarà sempre uno Stato abbastanza prono da accogliere e porre al riparo società che vogliono sfuggire alla volontà di regolamentazione. Questa è, d'altro canto, l'argomentazione essenziale per proscrivere ogni regolamentazione che non fosse oggetto di un consenso unanime, prorogando così lo status quo che permette alla Forma-Capitale di dispiegarsi, ancora e sempre, secondo la sua logica opportunistica.
Questa globalizzazione è iniziata sotto la spinta di Margaret Thatcher e Ronald Reagan. L'ultimo libro di Jean-Pierre Chevènement2 ne traccia, per la Francia, le varie fasi in modo dettagliato. Il suo interesse
deriva dal fatto che l'autore ne ha vissuto le tappe dall'interno, nella macchina dello Stato. L'ex ministro socialista le racconta così come le ha vissute e come si sono imposte agli attori, come un'implacabile meccanica, fin dal momento in cui Frangois Mitterrand aveva scelto di restare fedele alla costruzione europea. In una dichiarazione a «La Tribune de Genève» del 22 novembre 2007, Danielle Mitterrand, difendendo l'opera del marito, ricordava una delle sue conversazioni nelle prime ore della presidenza: «Dicevo a Frangois: poiché hai il potere, perché non te ne servi per cambiare il paese? Egli rispondeva: io non ho il potere; la Francia, come il resto del mondo, è assoggettata ad una dittatura finanziaria che gestisce tutto». Questa iper-classe sempre più ricca quando la grande maggioranza degli abitanti del vecchio continente vedono la loro situazione degradarsi, è invincibile?
L'Europa, agitata come uno scettro a sonagli, è, ci dice Jean-Pierre Chevènement, un'entelechia. Solo l'Europa europea, sul modello gollista, ossia indipendente, può essere un progetto solido. Malauguratamente, nessuno dei nostri partners continentali si mostra ambizioso. Di qui l'ancoraggio (implicito fin dall'inizio della costruzione) sempre più solido agli Stati Uniti, locomotiva ansimante la cui leadership volge tuttavia al termine. «La sinistra francese credeva, nel 1981, come Cristoforo Colombo, di scoprire le Indie (il socialismo), ma ha scoperto l'America (il neo-liberalismo). Il miraggio europeo le ha fatto perdere di vista il popolo francese. Essa non è molto attrezzata per comprendere il mondo venturo», conclude Chevènement. Resta una domanda che l'ex ministro della Difesa si guarda bene dal porre, cioè come l'economia sia riuscita ad occupare l'insieme del nostro immaginario simbolico a tal punto da renderci capaci di accettare con fatalità questo stato di cose come un oggetto "naturale".
«L'Europa», scriveva Abellio, «è fissa nello spazio, cioè nella geografia, mentre l'Occidente è mobile e sposta il suo epicentro terrestre secondo il movimento delle avanguardie civilizzate. Un giorno l'Europa sarà cancellata dalle carte, l'Occidente vivrà sempre. L'Occidente è là dove la coscienza diventa essenziale, è il luogo e il momento eterni della coscienza assoluta»3. Può darsi allora che l'Occidente prossimamente pianti le tende a Pechino, nuova Terra Promessa sufficientemente ingenua per salutare i suoi benefici avvelenati? Il candore cinese consisterebbe nel credere di poterla coniugare con l'affermazione della sua identità e della sua potenza.

di Pierre Bérard e Pascal Eysseric

NOTE
1 Face à la crise: Sarkozy et les forces politiques frarwaises, Marcel Gauchet, Jacques Julliard: un échange, in «Le Debat» n.161, settembre-ottobre 2010.
2Jean-Pierre Chevènement, La France est-elle finie?, Fayard, Paris 2011.
Raymond Abellio, La structure absolue. Essai de phénoménologie génétique, Gallimard, Paris 1965. È utile sottolineare che non interpretiamo la «coscienza assoluta» allo stesso modo dell'autore.

28 luglio 2011

La crescita economica è la via d’uscita dai problemi di debito pubblico del nostro paese?

felicedonna

L’idea che la soluzione ai nostri problemi di debito pubblico sia la crescita economica è semplicistica e irrealistica. La nostra organizzazione economica, sociale e culturale è interamente focalizzata sulla crescita economica e il suo risultato è di creare malessere. Il malessere genera spesa pubblica, soprattutto spesa sanitaria e per l’ordine pubblico. Di conseguenza una riorganizzazione della società che tenga conto della dimensione relazionale della vita e non soltanto di quella economica è destinata a contenere la spesa pubblica. Inoltre la causa della “rivolta fiscale” degli ultimi decenni è nella perdita di coesione sociale, è il prodotto di società popolate da individui soli e impauriti, che hanno perso il senso di essere membri di una società. Lo stato sociale funziona se e fino a quando un paese non è solo un insieme di individui tenuti assieme dalla forza dei soli interessi. Una riorganizzazione della società dovrebbe invece essere in grado di invertire la tendenza alla perdita di coesione sociale e quindi all’aumento della riluttanza fiscale.

L’idea che la soluzione ai nostri problemi di debito pubblico sia la crescita economica è semplicistica e irrealistica. Nel mio libro Manifesto per la Felicità, pubblicato da Donzelli nel 2010, espongo la seguente tesi: la nostra organizzazione economica e sociale crea malessere. Il cuore del problema è che lo sviluppo economico si è accompagnato a un progressivo impoverimento delle nostre relazioni affettive e sociali. Viviamo di corsa in mezzo a individui frettolosi. E a mancare è prima di tutto il tempo delle relazioni con gli altri, sacrificate sull’altare del benessere materiale, che conosce due soli imperativi: lavoro e consumo. Siamo più ricchi di beni e sempre più poveri di relazioni e di tempo. Ecco perché siamo sempre più infelici. Ecco dunque perché il nostro sistema economico e molti aspetti della nostra esperienza sia individuale che collettiva – la famiglia, il lavoro, i media, la vita urbana, la scuola, la sanità e persino la nostra democrazia – hanno bisogno di un profondo cambiamento culturale e organizzativo, che delineo più o meno dettagliatamente nel mio libro.

Quello che rileva è che il malessere genera spese sia private che pubbliche. Mi soffermo su queste ultime che sono rilevanti per la questione delle finanze pubbliche. Una gran mole di contributi in epidemiologia dimostra che la felicità influisce direttamente sulla salute e la longevità, che il pessimismo, la percezione di non controllare la propria vita, lo stress, i sentimenti di ostilità e di aggressione verso gli altri sono fattori di rischio molto rilevanti. Si è scoperto ad esempio che il rischio di malattie cardiovascolari – la prima causa di morte nei paesi ricchi – è doppio tra le persone affette da depressione o malattie mentali e una volta e mezzo per le persone generalmente infelici. Gli effetti del benessere sulla salute sono stimati come più ampi di quelli derivanti dal fumo o dall’esercizio fisico. Senza contare la spesa sanitaria direttamente connessa al malessere, come quella per la cura dei disagi mentali. Nel 2005 i medici inglesi hanno prescritto 29 milioni di ricette di antidepressivi, per un costo complessivo di 400 milioni di sterline a carico del servizio sanitario nazionale. Nel 2003 gli Stati Uniti hanno speso la cifra di 100 miliardi di dollari per curare le malattie mentali dei propri cittadini. Tanto per dare un’idea della dimensione di questa cifra sbalorditiva, si tratta di varie volte il costo del tunnel sotto la Manica, la più grande opera pubblica mai realizzata.

La scomoda conclusione che dovremmo trarre è che la sanità è lo scarico del lavandino del malessere di una società. In questa prospettiva una porzione importante della spesa sanitaria è un esempio del fatto che una organizzazione sociale che produce danni al benessere genera spese.

Dunque la principale prevenzione delle malattie dovrebbe essere fatta al di fuori dai sistemi sanitari, cioè promuovendo il benessere. Le società avanzate sono gravate da una distribuzione sbagliata delle spese per la salute, che privilegia quelle per la cura a danno di quelle per la prevenzione. In realtà la prima forma di prevenzione è intervenire sul benessere attraverso politiche sociali e culturali mirate, rispetto alle quali nel mio libro delineo una vera e propria agenda politica. La nostra attuale organizzazione sociale produce sprechi immensi. Spendiamo in un modo che crea malessere e poi spendiamo per riparare i danni prodotti dal malessere.

Un discorso del tutto analogo vale per le spese per l’ordine pubblico. Infatti i problemi di polizia sono l’altro scarico del lavandino del malessere di una società. In altre parole, tutti i problemi di malessere finiscono per divenire prima o poi o problemi sanitari o di sicurezza. Dunque, riorientare l’organizzazione sociale alla creazione di benessere genererebbe anche un contenimento delle spese per ordine l’ordine pubblico.

Questo dal lato del contenimento della spesa pubblica. Poi quanto propongo ha rilevanza anche per le fonti di finanziamento del settore pubblico. Innanzitutto propongo alcune fonti di finanziamento innovative per delineare le quali lo spazio di questo articolo è insufficiente.

In secondo luogo la realizzazione dell’agenda politica che propongo condurrebbe ad una inversione della crescente riluttanza alla pressione fiscale mostrata dalle classi medie di tutto il mondo occidentale negli ultimi decenni. Questa tendenza dell’opinione pubblica è stata in parte originata dall’idea che il privato sia più efficiente del pubblico, questione che in Italia è divenuta dirompente dopo Tangentopoli. È un argomento che in realtà sta perdendo persuasività. Un quarto di secolo di privatizzazioni in tutto l’Occidente sta cominciando a convincere l’opinione pubblica che, in alcuni settori, avere qualcuno che fa molto efficientemente le cose sbagliate può essere peggio di qualcuno che fa meno efficientemente quelle giuste. In Italia una serie di scandali del settore privato e una serie di enormi problemi nei servizi pubblici seguiti alle privatizzazioni stanno provocando una inversione nella disponibilità dell’opinione pubblica a considerare il privato come la soluzione a tutti i problemi dell’economia. L’esito del recente referendum sulla privatizzazione dell’acqua è soltanto uno dei tanti segnali di questa inversione di tendenza.

Il secondo e più profondo motivo della “rivolta fiscale” degli ultimi decenni è nella perdita di coesione sociale. Se uno ha la sensazione di vivere in un mondo in cui sempre meno gente è disponibile ad aiutarlo sarà sempre più difficile che sia disposto a pagare per aiutare qualcun altro. La riluttanza fiscale è il prodotto di società popolate da individui soli e impauriti, che hanno perso il senso di essere membri di una società. L’erosione della comunità mina le basi dello stato sociale. Esso funziona se e fino a quando un paese non è solo un insieme di individui tenuti assieme dalla forza dei soli interessi.

La riorganizzazione della società che propongo dovrebbe invece essere in grado di invertire la tendenza alla perdita di coesione sociale e quindi all’aumento della riluttanza fiscale.

Infine sono convinto che l’opinione pubblica sarebbe disposta a ridurre la sua rivolta fiscale se la spesa pubblica venisse riorientata a sollevare la gente dalle spese private generate dal degrado delle relazioni. Se gli anziani sono soli e malati la soluzione è una badante. Se i nostri bambini sono soli la soluzione è una baby-sitter e il riempirli di giocattoli. Se abbiamo ormai pochi amici e la città è divenuta pericolosa possiamo passare le nostre serate in casa dopo esserci comprati ogni sorta di divertimento casalingo (il cosiddetto home entertainment). Se il clima frenetico e invivibile delle nostre vite e delle nostre città ci angustia, una vacanza in qualche paradiso tropicale ci risolleverà. Se litighiamo con i nostri vicini, le spese per un avvocato ci proteggeranno dalla loro prepotenza. Se non ci fidiamo di qualcuno, possiamo farlo controllare. Se abbiamo paura possiamo proteggere i nostri beni con sistemi di allarme, porte blindate, guardie private ecc. Se siamo soli, o abbiamo relazioni difficili e insoddisfacenti, possiamo cercare un riscatto identitario nel consumo, nel successo, nel lavoro.

Insomma, la nostra organizzazione economica, sociale e culturale è interamente focalizzata sulla crescita economica. Non produce individui più felici semplicemente perché non è questo il suo scopo. Lo scopo è invece crescere. Se vogliamo una società di gente più soddisfatta della propria vita dobbiamo riorganizzare la società in modo da tenere nel dovuto conto la dimensione relazionale della vita. Un effetto collaterale di questo sarà la riduzione di quella porzione molto rilevante della spesa pubblica destinata a riparare i danni prodotti dal malessere ed un aumento della disponibilità della gente nei confronti della imposizione fiscale. Non è facendo lavorare e consumare di più un corpo sociale già stanco, disagiato e stressato che usciremo dai nostri problemi di debito pubblico. Una strategia del genere è destinata a produrre ulteriore disagio e crisi sociali, per contenere le quali dovremmo spendere di più.

Ovviamente infine, c’è molto da lavorare sul fronte del recupero dell’evasione, ma questo non è un argomento originale.

di Stefano Bartolini

Stefano Bartolini è docente di economia politica all'Università di Siena.

27 luglio 2011

Terrorismo: LaRouche denuncia un nuovo 9/11 come trampolino per la dittatura


L'attuale sistema finanziario ha esaurito le opzioni e perciò "si è deciso di muoversi verso una dittatura", ha dichiarato Lyndon LaRouche in una discussione con alcuni collaboratori il 23 luglio. Riferendosi in particolare al sistema di salvataggio dell'Euro (e del sistema transatlantico) deciso al vertice di Bruxelles (vedi sotto), LaRouche ha sottolineato che non c'è modo che quel sistema possa funzionare, perché il tasso di aumento del debito in rapporto agli asset che lo sostengono è tale da rendere il debito insostenibile. L'amministrazione Obama e l'oligarchia britannica ne sono ben coscienti e hanno deciso di muoversi verso una dittatura come unico modo per mantenere il sistema.

È in questo contesto che occorre considerare l'ondata di attentati e minacce terroristiche della scorsa settimana, culminata nel massacro di Oslo (vedi sotto). Questa serie di sviluppi ricorda il periodo che va dal gennaio al settembre 2001, quando diverse minacce e attentati servirono a mascherare i preparativi per ciò che divenne l'undici settembre.

Nel gennaio 2001, LaRouche aveva denunciato la possibilità di un incidente di tipo "incendio del Reichstag", sulla base di un'analisi del carattere della nuova amministrazione Bush e della sua propensione all'introduzione di metodi da stato di polizia. Successivamente, durante la primavera e l'estate di quell'anno, una serie di provocazioni tra cui la minaccia di ecoterrorismo a Washington, spinsero LaRouche a denunciare l'imminenza di un possibile attacco di guerra asimmetrica, che si verificò nella forma dell'attacco del 9/11. L'obiettivo era la dittatura negli Stati Uniti, e ci siamo arrivati molto vicino.

Ora, dal punto di vista dei controllori del Presidente Obama, la situazione è molto più disperata. I fatti della scorsa settimana evidenziano che la situazione del debito è fuori controllo sia negli USA che in Europa, e può esplodere in ogni momento. Le varie "soluzioni" approntate, tutte a difesa del sistema oligarchico, non possono riuscire, ma hanno creato condizioni di accresciuto caos e instabilità.

Da questo punto di vista va considerata la serie più recente di attentati e minacce. Oltre al terribile massacro di Oslo del 22 luglio, Mumbai è stata nuovamente bersaglio di bombe terroristiche e negli USA è stata messa in allerta la sicurezza per il pericolo di un attentato imminente alla metropolitana di New York. Il 23 luglio si sono verificate almeno quattro importanti sparatorie, in cui uomini armati di fucile hanno aperto il fuoco sulla folla. Inoltre, da fonti di intelligence oltremare è stato raccolto un dossier di informazioni e indizi anche tratti dai documenti trovati in Pakistan, che contribuisce a creare un clima simile a quello che precedette gli attacchi dell'11 settembre.

Come illustra chiaramente il caso del 9/11, la serie di "minacce credibili" attivate non solo prepara il clima, ma maschera anche le vere intenzioni strategiche. Attivando una serie di potenziali minacce da angoli diversi dalla vera fonte della minaccia, si creano le condizioni sia per l'azione che per la copertura della stessa.

Il 23 luglio, Lyndon LaRouche ha ammonito: "I fatti cruciali degli attacchi del 9/11 furono insabbiati dall'amministrazione Bush, e quell'insabbiamento è continuato con Obama. Se condoniamo questo insabbiamento, non facciamo che invitare altro terrorismo". LaRouche ha anche chiesto agli americani di vigilare per impedire un colpo di stato negli USA, perpetrato dall'ufficio del Presidente Obama.

by MoviSol

29 luglio 2011

L'Europa è condannata dalla globalizzazione?

http://www.treccani.it/export/sites/default/Portale/resources/images/sito/altre_aree/scienze_umane_sociali/percorsi_xenofobia.jpg


La storiella del tale che va per suonarle e viene suonato sarebbe risibile, se non ci riguardasse. Il ritorno del boomerang fa sempre male all'incosciente che lo ha lanciato senza sapere come evitare di prenderlo sul viso. La globalizzazione si rivolta contro i suoi iniziatori occidentali. E l'ironica constatazione che ha avanzato Marcel Gauchet in un recente numero di«Le Débat»1: «L'Occidente, e principalmente gli Stati Uniti, è stato il motore della globalizzazione, ma tutti vi hanno aderito e l'Unione europea è diventata la migliore allieva della classe, la zona economica del mondo più aperta, più degli Stati Uniti, cosa che si dimentica sempre. Ora, questo capitalismo globalizzato gioca adesso contro la prosperità occidentale. Si può discutere su questo punto a proposito degli Stati Uniti. In ogni caso, è chiaro per l'Europa, che appare come la perdente del gioco». L'Europa sarà dunque la grande perdente? A partire dal momento in cui si internazionalizza, si finanziarizza e si virtualizza, come succede dagli anni Ottanta, il capitalismo è portato ad emanciparsi rispetto agli Stati, alle forze politiche e alle opinioni pubbliche. Il suo unico quadro spaziale diventa il pianeta. La sua hybris deriva dal non essere più trattenuto da niente. Agisce unicamente in base alla sua logica.
Quale ironia vedere, dopo l'inizio della crisi nel 2007, i vani sforzi di Barack Obama o di Nicolas Sarkozy per tentare di regolamentare il funzionamento dell'industria finanziaria. Dice ancora Marcel Gauchet: «Sarkozy ha fatto discorsi da simpatico gradasso sulla necessità di riportare le banche alla ragione, ha pronunciato parole vendicative assai appropriate contro i guasti di un certo capitalismo, ma tutti hanno capito piuttosto in fretta che quelle parole erano fatte per essere ascoltate e non per essere seguite da effetti». Non vi è niente di sorprendente in ciò, se si vuole pur ammettere che il presidente francese è diventato il campione della banalizzazione liberale della Francia, sostenuto da un largo consenso delle élites e degli elettori.
Con la globalizzazione, lo scollegamento e poi l'autonomizzazione del capitalismo finanziario rispetto a ogni base territoriale, non c'è più bisogno di intermediari politici interni. Per il buon funzionamento del sistema non sono più necessarie nemmeno le connivenze a livello locale tra l'élite politica e l'oligarchia finanziaria. Questa complicità è un residuo del sistema precedente, di quando il capitalismo non poteva sfuggire al quadro nazionale sulla cui base si sviluppava. Questa eredità storica è ormai superata. Il capitalismo è divenuto off-shore, flessibile e nomade. Le sue basi possono trovarsi tanto a Londra e New York quanto a Francoforte, Singapore o Hong Kong. Ci sarà sempre uno Stato abbastanza prono da accogliere e porre al riparo società che vogliono sfuggire alla volontà di regolamentazione. Questa è, d'altro canto, l'argomentazione essenziale per proscrivere ogni regolamentazione che non fosse oggetto di un consenso unanime, prorogando così lo status quo che permette alla Forma-Capitale di dispiegarsi, ancora e sempre, secondo la sua logica opportunistica.
Questa globalizzazione è iniziata sotto la spinta di Margaret Thatcher e Ronald Reagan. L'ultimo libro di Jean-Pierre Chevènement2 ne traccia, per la Francia, le varie fasi in modo dettagliato. Il suo interesse
deriva dal fatto che l'autore ne ha vissuto le tappe dall'interno, nella macchina dello Stato. L'ex ministro socialista le racconta così come le ha vissute e come si sono imposte agli attori, come un'implacabile meccanica, fin dal momento in cui Frangois Mitterrand aveva scelto di restare fedele alla costruzione europea. In una dichiarazione a «La Tribune de Genève» del 22 novembre 2007, Danielle Mitterrand, difendendo l'opera del marito, ricordava una delle sue conversazioni nelle prime ore della presidenza: «Dicevo a Frangois: poiché hai il potere, perché non te ne servi per cambiare il paese? Egli rispondeva: io non ho il potere; la Francia, come il resto del mondo, è assoggettata ad una dittatura finanziaria che gestisce tutto». Questa iper-classe sempre più ricca quando la grande maggioranza degli abitanti del vecchio continente vedono la loro situazione degradarsi, è invincibile?
L'Europa, agitata come uno scettro a sonagli, è, ci dice Jean-Pierre Chevènement, un'entelechia. Solo l'Europa europea, sul modello gollista, ossia indipendente, può essere un progetto solido. Malauguratamente, nessuno dei nostri partners continentali si mostra ambizioso. Di qui l'ancoraggio (implicito fin dall'inizio della costruzione) sempre più solido agli Stati Uniti, locomotiva ansimante la cui leadership volge tuttavia al termine. «La sinistra francese credeva, nel 1981, come Cristoforo Colombo, di scoprire le Indie (il socialismo), ma ha scoperto l'America (il neo-liberalismo). Il miraggio europeo le ha fatto perdere di vista il popolo francese. Essa non è molto attrezzata per comprendere il mondo venturo», conclude Chevènement. Resta una domanda che l'ex ministro della Difesa si guarda bene dal porre, cioè come l'economia sia riuscita ad occupare l'insieme del nostro immaginario simbolico a tal punto da renderci capaci di accettare con fatalità questo stato di cose come un oggetto "naturale".
«L'Europa», scriveva Abellio, «è fissa nello spazio, cioè nella geografia, mentre l'Occidente è mobile e sposta il suo epicentro terrestre secondo il movimento delle avanguardie civilizzate. Un giorno l'Europa sarà cancellata dalle carte, l'Occidente vivrà sempre. L'Occidente è là dove la coscienza diventa essenziale, è il luogo e il momento eterni della coscienza assoluta»3. Può darsi allora che l'Occidente prossimamente pianti le tende a Pechino, nuova Terra Promessa sufficientemente ingenua per salutare i suoi benefici avvelenati? Il candore cinese consisterebbe nel credere di poterla coniugare con l'affermazione della sua identità e della sua potenza.

di Pierre Bérard e Pascal Eysseric

NOTE
1 Face à la crise: Sarkozy et les forces politiques frarwaises, Marcel Gauchet, Jacques Julliard: un échange, in «Le Debat» n.161, settembre-ottobre 2010.
2Jean-Pierre Chevènement, La France est-elle finie?, Fayard, Paris 2011.
Raymond Abellio, La structure absolue. Essai de phénoménologie génétique, Gallimard, Paris 1965. È utile sottolineare che non interpretiamo la «coscienza assoluta» allo stesso modo dell'autore.

28 luglio 2011

La crescita economica è la via d’uscita dai problemi di debito pubblico del nostro paese?

felicedonna

L’idea che la soluzione ai nostri problemi di debito pubblico sia la crescita economica è semplicistica e irrealistica. La nostra organizzazione economica, sociale e culturale è interamente focalizzata sulla crescita economica e il suo risultato è di creare malessere. Il malessere genera spesa pubblica, soprattutto spesa sanitaria e per l’ordine pubblico. Di conseguenza una riorganizzazione della società che tenga conto della dimensione relazionale della vita e non soltanto di quella economica è destinata a contenere la spesa pubblica. Inoltre la causa della “rivolta fiscale” degli ultimi decenni è nella perdita di coesione sociale, è il prodotto di società popolate da individui soli e impauriti, che hanno perso il senso di essere membri di una società. Lo stato sociale funziona se e fino a quando un paese non è solo un insieme di individui tenuti assieme dalla forza dei soli interessi. Una riorganizzazione della società dovrebbe invece essere in grado di invertire la tendenza alla perdita di coesione sociale e quindi all’aumento della riluttanza fiscale.

L’idea che la soluzione ai nostri problemi di debito pubblico sia la crescita economica è semplicistica e irrealistica. Nel mio libro Manifesto per la Felicità, pubblicato da Donzelli nel 2010, espongo la seguente tesi: la nostra organizzazione economica e sociale crea malessere. Il cuore del problema è che lo sviluppo economico si è accompagnato a un progressivo impoverimento delle nostre relazioni affettive e sociali. Viviamo di corsa in mezzo a individui frettolosi. E a mancare è prima di tutto il tempo delle relazioni con gli altri, sacrificate sull’altare del benessere materiale, che conosce due soli imperativi: lavoro e consumo. Siamo più ricchi di beni e sempre più poveri di relazioni e di tempo. Ecco perché siamo sempre più infelici. Ecco dunque perché il nostro sistema economico e molti aspetti della nostra esperienza sia individuale che collettiva – la famiglia, il lavoro, i media, la vita urbana, la scuola, la sanità e persino la nostra democrazia – hanno bisogno di un profondo cambiamento culturale e organizzativo, che delineo più o meno dettagliatamente nel mio libro.

Quello che rileva è che il malessere genera spese sia private che pubbliche. Mi soffermo su queste ultime che sono rilevanti per la questione delle finanze pubbliche. Una gran mole di contributi in epidemiologia dimostra che la felicità influisce direttamente sulla salute e la longevità, che il pessimismo, la percezione di non controllare la propria vita, lo stress, i sentimenti di ostilità e di aggressione verso gli altri sono fattori di rischio molto rilevanti. Si è scoperto ad esempio che il rischio di malattie cardiovascolari – la prima causa di morte nei paesi ricchi – è doppio tra le persone affette da depressione o malattie mentali e una volta e mezzo per le persone generalmente infelici. Gli effetti del benessere sulla salute sono stimati come più ampi di quelli derivanti dal fumo o dall’esercizio fisico. Senza contare la spesa sanitaria direttamente connessa al malessere, come quella per la cura dei disagi mentali. Nel 2005 i medici inglesi hanno prescritto 29 milioni di ricette di antidepressivi, per un costo complessivo di 400 milioni di sterline a carico del servizio sanitario nazionale. Nel 2003 gli Stati Uniti hanno speso la cifra di 100 miliardi di dollari per curare le malattie mentali dei propri cittadini. Tanto per dare un’idea della dimensione di questa cifra sbalorditiva, si tratta di varie volte il costo del tunnel sotto la Manica, la più grande opera pubblica mai realizzata.

La scomoda conclusione che dovremmo trarre è che la sanità è lo scarico del lavandino del malessere di una società. In questa prospettiva una porzione importante della spesa sanitaria è un esempio del fatto che una organizzazione sociale che produce danni al benessere genera spese.

Dunque la principale prevenzione delle malattie dovrebbe essere fatta al di fuori dai sistemi sanitari, cioè promuovendo il benessere. Le società avanzate sono gravate da una distribuzione sbagliata delle spese per la salute, che privilegia quelle per la cura a danno di quelle per la prevenzione. In realtà la prima forma di prevenzione è intervenire sul benessere attraverso politiche sociali e culturali mirate, rispetto alle quali nel mio libro delineo una vera e propria agenda politica. La nostra attuale organizzazione sociale produce sprechi immensi. Spendiamo in un modo che crea malessere e poi spendiamo per riparare i danni prodotti dal malessere.

Un discorso del tutto analogo vale per le spese per l’ordine pubblico. Infatti i problemi di polizia sono l’altro scarico del lavandino del malessere di una società. In altre parole, tutti i problemi di malessere finiscono per divenire prima o poi o problemi sanitari o di sicurezza. Dunque, riorientare l’organizzazione sociale alla creazione di benessere genererebbe anche un contenimento delle spese per ordine l’ordine pubblico.

Questo dal lato del contenimento della spesa pubblica. Poi quanto propongo ha rilevanza anche per le fonti di finanziamento del settore pubblico. Innanzitutto propongo alcune fonti di finanziamento innovative per delineare le quali lo spazio di questo articolo è insufficiente.

In secondo luogo la realizzazione dell’agenda politica che propongo condurrebbe ad una inversione della crescente riluttanza alla pressione fiscale mostrata dalle classi medie di tutto il mondo occidentale negli ultimi decenni. Questa tendenza dell’opinione pubblica è stata in parte originata dall’idea che il privato sia più efficiente del pubblico, questione che in Italia è divenuta dirompente dopo Tangentopoli. È un argomento che in realtà sta perdendo persuasività. Un quarto di secolo di privatizzazioni in tutto l’Occidente sta cominciando a convincere l’opinione pubblica che, in alcuni settori, avere qualcuno che fa molto efficientemente le cose sbagliate può essere peggio di qualcuno che fa meno efficientemente quelle giuste. In Italia una serie di scandali del settore privato e una serie di enormi problemi nei servizi pubblici seguiti alle privatizzazioni stanno provocando una inversione nella disponibilità dell’opinione pubblica a considerare il privato come la soluzione a tutti i problemi dell’economia. L’esito del recente referendum sulla privatizzazione dell’acqua è soltanto uno dei tanti segnali di questa inversione di tendenza.

Il secondo e più profondo motivo della “rivolta fiscale” degli ultimi decenni è nella perdita di coesione sociale. Se uno ha la sensazione di vivere in un mondo in cui sempre meno gente è disponibile ad aiutarlo sarà sempre più difficile che sia disposto a pagare per aiutare qualcun altro. La riluttanza fiscale è il prodotto di società popolate da individui soli e impauriti, che hanno perso il senso di essere membri di una società. L’erosione della comunità mina le basi dello stato sociale. Esso funziona se e fino a quando un paese non è solo un insieme di individui tenuti assieme dalla forza dei soli interessi.

La riorganizzazione della società che propongo dovrebbe invece essere in grado di invertire la tendenza alla perdita di coesione sociale e quindi all’aumento della riluttanza fiscale.

Infine sono convinto che l’opinione pubblica sarebbe disposta a ridurre la sua rivolta fiscale se la spesa pubblica venisse riorientata a sollevare la gente dalle spese private generate dal degrado delle relazioni. Se gli anziani sono soli e malati la soluzione è una badante. Se i nostri bambini sono soli la soluzione è una baby-sitter e il riempirli di giocattoli. Se abbiamo ormai pochi amici e la città è divenuta pericolosa possiamo passare le nostre serate in casa dopo esserci comprati ogni sorta di divertimento casalingo (il cosiddetto home entertainment). Se il clima frenetico e invivibile delle nostre vite e delle nostre città ci angustia, una vacanza in qualche paradiso tropicale ci risolleverà. Se litighiamo con i nostri vicini, le spese per un avvocato ci proteggeranno dalla loro prepotenza. Se non ci fidiamo di qualcuno, possiamo farlo controllare. Se abbiamo paura possiamo proteggere i nostri beni con sistemi di allarme, porte blindate, guardie private ecc. Se siamo soli, o abbiamo relazioni difficili e insoddisfacenti, possiamo cercare un riscatto identitario nel consumo, nel successo, nel lavoro.

Insomma, la nostra organizzazione economica, sociale e culturale è interamente focalizzata sulla crescita economica. Non produce individui più felici semplicemente perché non è questo il suo scopo. Lo scopo è invece crescere. Se vogliamo una società di gente più soddisfatta della propria vita dobbiamo riorganizzare la società in modo da tenere nel dovuto conto la dimensione relazionale della vita. Un effetto collaterale di questo sarà la riduzione di quella porzione molto rilevante della spesa pubblica destinata a riparare i danni prodotti dal malessere ed un aumento della disponibilità della gente nei confronti della imposizione fiscale. Non è facendo lavorare e consumare di più un corpo sociale già stanco, disagiato e stressato che usciremo dai nostri problemi di debito pubblico. Una strategia del genere è destinata a produrre ulteriore disagio e crisi sociali, per contenere le quali dovremmo spendere di più.

Ovviamente infine, c’è molto da lavorare sul fronte del recupero dell’evasione, ma questo non è un argomento originale.

di Stefano Bartolini

Stefano Bartolini è docente di economia politica all'Università di Siena.

27 luglio 2011

Terrorismo: LaRouche denuncia un nuovo 9/11 come trampolino per la dittatura


L'attuale sistema finanziario ha esaurito le opzioni e perciò "si è deciso di muoversi verso una dittatura", ha dichiarato Lyndon LaRouche in una discussione con alcuni collaboratori il 23 luglio. Riferendosi in particolare al sistema di salvataggio dell'Euro (e del sistema transatlantico) deciso al vertice di Bruxelles (vedi sotto), LaRouche ha sottolineato che non c'è modo che quel sistema possa funzionare, perché il tasso di aumento del debito in rapporto agli asset che lo sostengono è tale da rendere il debito insostenibile. L'amministrazione Obama e l'oligarchia britannica ne sono ben coscienti e hanno deciso di muoversi verso una dittatura come unico modo per mantenere il sistema.

È in questo contesto che occorre considerare l'ondata di attentati e minacce terroristiche della scorsa settimana, culminata nel massacro di Oslo (vedi sotto). Questa serie di sviluppi ricorda il periodo che va dal gennaio al settembre 2001, quando diverse minacce e attentati servirono a mascherare i preparativi per ciò che divenne l'undici settembre.

Nel gennaio 2001, LaRouche aveva denunciato la possibilità di un incidente di tipo "incendio del Reichstag", sulla base di un'analisi del carattere della nuova amministrazione Bush e della sua propensione all'introduzione di metodi da stato di polizia. Successivamente, durante la primavera e l'estate di quell'anno, una serie di provocazioni tra cui la minaccia di ecoterrorismo a Washington, spinsero LaRouche a denunciare l'imminenza di un possibile attacco di guerra asimmetrica, che si verificò nella forma dell'attacco del 9/11. L'obiettivo era la dittatura negli Stati Uniti, e ci siamo arrivati molto vicino.

Ora, dal punto di vista dei controllori del Presidente Obama, la situazione è molto più disperata. I fatti della scorsa settimana evidenziano che la situazione del debito è fuori controllo sia negli USA che in Europa, e può esplodere in ogni momento. Le varie "soluzioni" approntate, tutte a difesa del sistema oligarchico, non possono riuscire, ma hanno creato condizioni di accresciuto caos e instabilità.

Da questo punto di vista va considerata la serie più recente di attentati e minacce. Oltre al terribile massacro di Oslo del 22 luglio, Mumbai è stata nuovamente bersaglio di bombe terroristiche e negli USA è stata messa in allerta la sicurezza per il pericolo di un attentato imminente alla metropolitana di New York. Il 23 luglio si sono verificate almeno quattro importanti sparatorie, in cui uomini armati di fucile hanno aperto il fuoco sulla folla. Inoltre, da fonti di intelligence oltremare è stato raccolto un dossier di informazioni e indizi anche tratti dai documenti trovati in Pakistan, che contribuisce a creare un clima simile a quello che precedette gli attacchi dell'11 settembre.

Come illustra chiaramente il caso del 9/11, la serie di "minacce credibili" attivate non solo prepara il clima, ma maschera anche le vere intenzioni strategiche. Attivando una serie di potenziali minacce da angoli diversi dalla vera fonte della minaccia, si creano le condizioni sia per l'azione che per la copertura della stessa.

Il 23 luglio, Lyndon LaRouche ha ammonito: "I fatti cruciali degli attacchi del 9/11 furono insabbiati dall'amministrazione Bush, e quell'insabbiamento è continuato con Obama. Se condoniamo questo insabbiamento, non facciamo che invitare altro terrorismo". LaRouche ha anche chiesto agli americani di vigilare per impedire un colpo di stato negli USA, perpetrato dall'ufficio del Presidente Obama.

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