30 luglio 2011

Default americano?




Gli americani pretendono:

a- di mantenere intatto il loro livello di consumi, anche se la disoccupazione è quasi al 10% ed i salari sono in flessione

b- di avere un volume di spese militari pari o superiore a quello di tutto il resto del Mondo, producendo un costante disavanzo pubblico peraltro alimentato dagli interessi su un debito che ormai supera abbondantemente il pil annuo

c- di avere il più alto livello di debito aggregato del Mondo ma di mantenere il livello di rating AAA e di pagare interessi sul debito sovrano quasi pari a quelli sui titoli tedeschi

d- di emettere in scioltezza quantità enormi di dollari ma di confermare il dollaro come moneta di riferimento internazionale

e- di mantenere un livello di tassazione intorno al 30% (quando quello europeo è al 40) ed anzi, possibilmente, diminuirlo.
C’è modo di ottenere tutte queste cose insieme? Credo di si: nominando segretario al Tesoro la Madonna di Lourdes.
E’ possibile che, alla fine, Obama riesca ad evitare il default temporaneo il 3 agosto prossimo, ottenendo, in qualche modo, di innalzare il livello di debito Usa di altri 2.400 miliardi di dollari (che vanno a sommarsi agli oltre 14.000 attuali), ma questo cosa significa?
In primo luogo non è detto che le agenzie di rating –per quanto spudoratamente allineate agli interessi statunitensi- non declassino i bond americani per salvare la faccia. Certo il passaggio da tre a due A non è una tragedia e sposta solo di qualche decimale gli interessi da pagare ma, quando si ha una esposizione di 16.500 miliardi di dollari, anche uno spostamento di un punto percentuale significa 150 miliardi di dollari in più all’anno. E non è neanche questo il peggio. Il problema più serio è a chi collocare questa nuova massa di bond.

Ragioniamo: l’offerta americana non è molto incoraggiante perchè il rendimento nominale dei titoli americani è al 4% per i bond ventennali ma, considerando il deprezzamento del dollaro (diretta conseguenza della politica di liquidità adottata) il rendimento reale scende ad un misero 1,33%, mentre per quelli a 7 anni si scende appena allo 0,1 e per i titoli quinquennali il rendimento è addirittura negativo (S24 24.7.11). In queste condizioni è evidente che un investitore privano non ha alcun interesse ad investire con rendimento negativo o legandosi alla moneta americana per un periodo lunghissimo nel quale non si capisce bene cosa possa accadere e ad un tasso reale cosi basso. Date queste premesse, non si capisce perchè un investitore privato non debba acquistarne titoli tedeschi che offrono un rendimento reale maggiore e con ben altre garanzie di solidità.

Ci sarebbero gli investitori “pubblici” (fondi sovrani e banche centrali) che, più che al rendimento, badano a calcoli politici come sostenere un mercato verso il quale si esporta o mantenere certi equilibri generali o, ancora, creare un rapporto preferenziale con un certo stato. Ed, infatti, negli ultimi 15 anni è stato questo il tipo di investitori che ha assorbito masse crescenti di debito sovrano americano. Ma oggi le cose come stanno?

- i cinesi hanno già circa un quarto del debito americano ed hanno manifestato segni di “inappetenza” dei titoli americani già nelle ultime aste. In più, hanno il problema di sostenere anche l’Euro, per cui è possibile che, oltre che rinnovare i titoli in scadenza, possano prendere qualcosa, ma realisticamente si tratterà di spiccioli

- i giapponesi, dopo Fukishima e la conseguente recessione, hanno le loro gatte da pelare ed è già grasso che cola se rinnoveranno i titoli in scadenza

- idem per gli europei che –fra Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna ed Italia- hanno i loro grattacapi

- gli arabi stanno smobilitando pezzi di fondi sovrani per far fronte alle rivolte acquistando massicci quantitativi di cereali e facendo qualche riforma (la sola Arabia Saudita ha impiegato 386 miliardi di dollari del suo fondo sovrano per far fronte alla situazione), quindi anche da questa parte non è probabile che venga chissà quale richiesta.

Qualche speranza può venire da Russia e Brasile che sono in una fase positiva per effetto dei ricavi sulle materie prime (soprattutto il gas russo), ma sin qui nessuno dei due ha mostrato la disponibilità a fare grandi acquisti di bond americani e non si vede che interesse politico possano avere ad investire sugli Usa in questa fase. Tanto più che nel caso –più che probabile- di una nuova recessione generalizzata, entrambi si troverebbero in difficoltà per la connessa caduta della domanda di commodities le cui esportazioni rappresentano la principale base delle rispettive economie. E in quel caso una eccessiva esposizione in titoli americani sarebbe solo un problema in più.

Lo spiraglio più promettente potrebbe venire da India e Sudafrica per ragioni diverse: il Sudafrica è in una fase molto positiva per l’impetuoso apprezzamento dell’oro e potrebbe avere qualche interesse a collocare parte della sua liquidità in quella direzione. L’India, invece, potrebbe avere interesse politico ad un riavvicinamento agli Usa, sia per le sue esportazioni sia in funzione antipakistana ed anticinese, approfittando del forte raffreddamento dei rapporti far Washington e Rawalpindi seguita alla vicenda Osama.

Ma, in entrambi i casi è da escludere che possa trattarsi di acquisti risolutivi. Dunque, tutto lascia intendere che la maggior parte di questi nuovi titoli resteranno invenduti. Per cui la soluzione sarà quella che ormai conosciamo a memoria: l’assorbimento da parte della Fed, con una nuova manovra di quantitative easing sostenuta dall’ennesima emissione di dollari. Per quanto tempo ancora potrà andare avanti questo giochetto?

Forse è arrivato il momento di dirci che gli Usa, tecnicamente sono già falliti. Qualche cifra? Calcolando il solo debito governativo, il debito pro capite degli Usa (compresi lattanti e moribondi) si aggira sui 50.000 dollari (circa 11.000 in più dell’analogo debito pro capite greco); aggiungendo i debiti dei singoli states, ed enti locali arriviamo a 70.000 dollari: considerando il totale del debito aggregato (cioè inclusivo di quello di aziende e famiglie) arriviamo a un po’ più di 160.000 dollari (S24 22.7.11/13). Il che significa che una famiglia media americana di tre persone ha un debito di circa mezzo milione di dollari. E, per di più, tutto lascia intendere che l’indebitamento sia privato che pubblico crescerà per effetto dell’alto tasso di disoccupazione, mentre è difficile immaginare a breve un miglioramento delle finanze pubbliche.

Obama parla di un taglio del disavanzo statale di circa 4.000 miliardi di dollari entro il 2014: non è una gran cifra se si considera che:

a- il disavanzo del bilancio governativo attuale è del 38%

b- che nei prossimi anni crescerà la pressione pensionistica sia per effetto ell’andata in pensione dei baby boomers, sia delle pensioni di invalidità a seguito delle missioni militari (soprattutto ma non solo Irak ed Afghanistan) e che il disavanzo previsto per la spesa pensionistica nei prossimi anni si valuta fra i 1.000 ed i 3.000 miliardi

c- che 42 dei 50 stati dell’unione già prevedono disavanzi fiscali per 103 miliardi di dollari per il 2012 e che altri 24 stati già prevedono ulteriore disavanzo per il 2013

d- che occorre pagare gli interessi sul debito precorso e che è facile prevedere possano aumentare per effetto di un possibile declassamento.

Fatti i dovuti calcoli, anche nella più favorevole delle ipotesi, resterebbe assai poco per riassorbire almeno in parte di debito precedente: calcolando molto ottimisticamente che al riassorbimento del debito possano andare 150-300 miliardi annuali, questo inciderebbe per l’1-2% sulla massa totale. Cioè, a parità di tutte le condizioni, da 50 a 100 anni per azzerare il debito. Ovviamente si tratta di calcoli puramente astratti.
Naturalmente la cosa sarebbe assai problematica se nel frattempo crescesse sensibilmente il Pil (e il relativo gettito fiscale) ma, almeno per ora, non sembra un obiettivo a portata di mano. Sembra, invece, probabile che nel prossimo futuro accada il contrario: che il Pil descresca per effetto di una nuova recessione. Nel qual caso il debito pubblico, pur restando fermo in valori assoluti, si avvierebbe rapidamente verso il 200% sul Pil.

Ma, per di più, l’intesa sul punto con i repubblicani, che controllano il Congresso, non sembra raggiunta e si parla di una “manovretta” da 1.500 miliardi, come dire che il debito, di fatto, crescerà per effetto degli interessi e degli aumenti previsti.
E non abbiamo considerato il debito privato che non si capisce come potrà essere restituito dai singoli americani.

Se si trattasse di una Grecia o di un Portogallo qualsiasi, da tempo le agenzie di rating avrebbero declassato il debito americano a CCC, cioè spazzatura. Ma gli Usa sono la più grande potenza finanziaria del mondo, ed una simile classificazione provocherebbe uno tsunami finanziario senza precedenti, altro che effetto “contagio” ateniese: la maggioranza degli Stati vedrebbero volatilizzarsi gran parte dei propri crediti, molte banche fra le maggiori del mondo fallirebbero, l’effetto domino sarebbe incontenibile e la crisi del 1929 ce la ricorderemmo come un innocuo mal di pancia. Per di più, gli Usa sono la più grande potenza militare del mondo ed un simile cataclisma avrebbe effetti incalcolabili anche sul piano degli equilibri politico-militari del Globo.
Insomma, siamo al solito too big to fail (troppo grossi per fallire). Ragion per cui abbiamo deciso tutti di far finta di niente e di prendere per oro colato le 3 A delle agenzie di rating. Va bene: sinchè l’orchestrina suona possiamo continuare a ballare, ma il bastimento su cui viaggiamo di chiama Titanic. Per quanto tempo ancora possiamo continuare con questa recita surrealista? Si badi che sul mercato già oggi i segnali dicono che la tripla A è una foglia di fico a cui bessuno crede: nel mese di luglio, il costo delle coperture assicurative sul debito americano (nel gergo i cd-swap) è arrivato a 45,7 punti mentre quello sui titoli sauditi (che hanno solo 2 A-) era decisamente inferiore ed addirittura, quello per i titoli indonesiani (BB+) valeva 39. Dunque assicurare un titolo americano oggi costa circa un sesto in più che assicurare un titolo indonesiano cpn classifica assai inferiore. Per assicurare il fallimento di 100 milioni di titoli americani, all’inizio dell’anno ci volevano circa 14.000 dollari, oggi ce ne vogliono 53.000.

D’accordo, si tratta di una impennata dovuta anche alle convulsioni della politica americana e destinata a rientrare dopo il 3 agosto, ma il segnale è troppo chiaro per non essere inteso: con andamenti di questo genere è facile prevedere che una parte degli investitori privati possano iniziare a non rinnovare i propri titoli (tripla A o non tripla A) e che la cosa potrebbe anche innescare un effetto a cascata per cui anche gli stati inizierebbero a valutare il rischio di essere quello che resta con il cerino acceso in mano.
Nessuno è mai tanto grosso da non fallire mai.
di Aldo Giannuli

29 luglio 2011

L'Europa è condannata dalla globalizzazione?

http://www.treccani.it/export/sites/default/Portale/resources/images/sito/altre_aree/scienze_umane_sociali/percorsi_xenofobia.jpg


La storiella del tale che va per suonarle e viene suonato sarebbe risibile, se non ci riguardasse. Il ritorno del boomerang fa sempre male all'incosciente che lo ha lanciato senza sapere come evitare di prenderlo sul viso. La globalizzazione si rivolta contro i suoi iniziatori occidentali. E l'ironica constatazione che ha avanzato Marcel Gauchet in un recente numero di«Le Débat»1: «L'Occidente, e principalmente gli Stati Uniti, è stato il motore della globalizzazione, ma tutti vi hanno aderito e l'Unione europea è diventata la migliore allieva della classe, la zona economica del mondo più aperta, più degli Stati Uniti, cosa che si dimentica sempre. Ora, questo capitalismo globalizzato gioca adesso contro la prosperità occidentale. Si può discutere su questo punto a proposito degli Stati Uniti. In ogni caso, è chiaro per l'Europa, che appare come la perdente del gioco». L'Europa sarà dunque la grande perdente? A partire dal momento in cui si internazionalizza, si finanziarizza e si virtualizza, come succede dagli anni Ottanta, il capitalismo è portato ad emanciparsi rispetto agli Stati, alle forze politiche e alle opinioni pubbliche. Il suo unico quadro spaziale diventa il pianeta. La sua hybris deriva dal non essere più trattenuto da niente. Agisce unicamente in base alla sua logica.
Quale ironia vedere, dopo l'inizio della crisi nel 2007, i vani sforzi di Barack Obama o di Nicolas Sarkozy per tentare di regolamentare il funzionamento dell'industria finanziaria. Dice ancora Marcel Gauchet: «Sarkozy ha fatto discorsi da simpatico gradasso sulla necessità di riportare le banche alla ragione, ha pronunciato parole vendicative assai appropriate contro i guasti di un certo capitalismo, ma tutti hanno capito piuttosto in fretta che quelle parole erano fatte per essere ascoltate e non per essere seguite da effetti». Non vi è niente di sorprendente in ciò, se si vuole pur ammettere che il presidente francese è diventato il campione della banalizzazione liberale della Francia, sostenuto da un largo consenso delle élites e degli elettori.
Con la globalizzazione, lo scollegamento e poi l'autonomizzazione del capitalismo finanziario rispetto a ogni base territoriale, non c'è più bisogno di intermediari politici interni. Per il buon funzionamento del sistema non sono più necessarie nemmeno le connivenze a livello locale tra l'élite politica e l'oligarchia finanziaria. Questa complicità è un residuo del sistema precedente, di quando il capitalismo non poteva sfuggire al quadro nazionale sulla cui base si sviluppava. Questa eredità storica è ormai superata. Il capitalismo è divenuto off-shore, flessibile e nomade. Le sue basi possono trovarsi tanto a Londra e New York quanto a Francoforte, Singapore o Hong Kong. Ci sarà sempre uno Stato abbastanza prono da accogliere e porre al riparo società che vogliono sfuggire alla volontà di regolamentazione. Questa è, d'altro canto, l'argomentazione essenziale per proscrivere ogni regolamentazione che non fosse oggetto di un consenso unanime, prorogando così lo status quo che permette alla Forma-Capitale di dispiegarsi, ancora e sempre, secondo la sua logica opportunistica.
Questa globalizzazione è iniziata sotto la spinta di Margaret Thatcher e Ronald Reagan. L'ultimo libro di Jean-Pierre Chevènement2 ne traccia, per la Francia, le varie fasi in modo dettagliato. Il suo interesse
deriva dal fatto che l'autore ne ha vissuto le tappe dall'interno, nella macchina dello Stato. L'ex ministro socialista le racconta così come le ha vissute e come si sono imposte agli attori, come un'implacabile meccanica, fin dal momento in cui Frangois Mitterrand aveva scelto di restare fedele alla costruzione europea. In una dichiarazione a «La Tribune de Genève» del 22 novembre 2007, Danielle Mitterrand, difendendo l'opera del marito, ricordava una delle sue conversazioni nelle prime ore della presidenza: «Dicevo a Frangois: poiché hai il potere, perché non te ne servi per cambiare il paese? Egli rispondeva: io non ho il potere; la Francia, come il resto del mondo, è assoggettata ad una dittatura finanziaria che gestisce tutto». Questa iper-classe sempre più ricca quando la grande maggioranza degli abitanti del vecchio continente vedono la loro situazione degradarsi, è invincibile?
L'Europa, agitata come uno scettro a sonagli, è, ci dice Jean-Pierre Chevènement, un'entelechia. Solo l'Europa europea, sul modello gollista, ossia indipendente, può essere un progetto solido. Malauguratamente, nessuno dei nostri partners continentali si mostra ambizioso. Di qui l'ancoraggio (implicito fin dall'inizio della costruzione) sempre più solido agli Stati Uniti, locomotiva ansimante la cui leadership volge tuttavia al termine. «La sinistra francese credeva, nel 1981, come Cristoforo Colombo, di scoprire le Indie (il socialismo), ma ha scoperto l'America (il neo-liberalismo). Il miraggio europeo le ha fatto perdere di vista il popolo francese. Essa non è molto attrezzata per comprendere il mondo venturo», conclude Chevènement. Resta una domanda che l'ex ministro della Difesa si guarda bene dal porre, cioè come l'economia sia riuscita ad occupare l'insieme del nostro immaginario simbolico a tal punto da renderci capaci di accettare con fatalità questo stato di cose come un oggetto "naturale".
«L'Europa», scriveva Abellio, «è fissa nello spazio, cioè nella geografia, mentre l'Occidente è mobile e sposta il suo epicentro terrestre secondo il movimento delle avanguardie civilizzate. Un giorno l'Europa sarà cancellata dalle carte, l'Occidente vivrà sempre. L'Occidente è là dove la coscienza diventa essenziale, è il luogo e il momento eterni della coscienza assoluta»3. Può darsi allora che l'Occidente prossimamente pianti le tende a Pechino, nuova Terra Promessa sufficientemente ingenua per salutare i suoi benefici avvelenati? Il candore cinese consisterebbe nel credere di poterla coniugare con l'affermazione della sua identità e della sua potenza.

di Pierre Bérard e Pascal Eysseric

NOTE
1 Face à la crise: Sarkozy et les forces politiques frarwaises, Marcel Gauchet, Jacques Julliard: un échange, in «Le Debat» n.161, settembre-ottobre 2010.
2Jean-Pierre Chevènement, La France est-elle finie?, Fayard, Paris 2011.
Raymond Abellio, La structure absolue. Essai de phénoménologie génétique, Gallimard, Paris 1965. È utile sottolineare che non interpretiamo la «coscienza assoluta» allo stesso modo dell'autore.

28 luglio 2011

La crescita economica è la via d’uscita dai problemi di debito pubblico del nostro paese?

felicedonna

L’idea che la soluzione ai nostri problemi di debito pubblico sia la crescita economica è semplicistica e irrealistica. La nostra organizzazione economica, sociale e culturale è interamente focalizzata sulla crescita economica e il suo risultato è di creare malessere. Il malessere genera spesa pubblica, soprattutto spesa sanitaria e per l’ordine pubblico. Di conseguenza una riorganizzazione della società che tenga conto della dimensione relazionale della vita e non soltanto di quella economica è destinata a contenere la spesa pubblica. Inoltre la causa della “rivolta fiscale” degli ultimi decenni è nella perdita di coesione sociale, è il prodotto di società popolate da individui soli e impauriti, che hanno perso il senso di essere membri di una società. Lo stato sociale funziona se e fino a quando un paese non è solo un insieme di individui tenuti assieme dalla forza dei soli interessi. Una riorganizzazione della società dovrebbe invece essere in grado di invertire la tendenza alla perdita di coesione sociale e quindi all’aumento della riluttanza fiscale.

L’idea che la soluzione ai nostri problemi di debito pubblico sia la crescita economica è semplicistica e irrealistica. Nel mio libro Manifesto per la Felicità, pubblicato da Donzelli nel 2010, espongo la seguente tesi: la nostra organizzazione economica e sociale crea malessere. Il cuore del problema è che lo sviluppo economico si è accompagnato a un progressivo impoverimento delle nostre relazioni affettive e sociali. Viviamo di corsa in mezzo a individui frettolosi. E a mancare è prima di tutto il tempo delle relazioni con gli altri, sacrificate sull’altare del benessere materiale, che conosce due soli imperativi: lavoro e consumo. Siamo più ricchi di beni e sempre più poveri di relazioni e di tempo. Ecco perché siamo sempre più infelici. Ecco dunque perché il nostro sistema economico e molti aspetti della nostra esperienza sia individuale che collettiva – la famiglia, il lavoro, i media, la vita urbana, la scuola, la sanità e persino la nostra democrazia – hanno bisogno di un profondo cambiamento culturale e organizzativo, che delineo più o meno dettagliatamente nel mio libro.

Quello che rileva è che il malessere genera spese sia private che pubbliche. Mi soffermo su queste ultime che sono rilevanti per la questione delle finanze pubbliche. Una gran mole di contributi in epidemiologia dimostra che la felicità influisce direttamente sulla salute e la longevità, che il pessimismo, la percezione di non controllare la propria vita, lo stress, i sentimenti di ostilità e di aggressione verso gli altri sono fattori di rischio molto rilevanti. Si è scoperto ad esempio che il rischio di malattie cardiovascolari – la prima causa di morte nei paesi ricchi – è doppio tra le persone affette da depressione o malattie mentali e una volta e mezzo per le persone generalmente infelici. Gli effetti del benessere sulla salute sono stimati come più ampi di quelli derivanti dal fumo o dall’esercizio fisico. Senza contare la spesa sanitaria direttamente connessa al malessere, come quella per la cura dei disagi mentali. Nel 2005 i medici inglesi hanno prescritto 29 milioni di ricette di antidepressivi, per un costo complessivo di 400 milioni di sterline a carico del servizio sanitario nazionale. Nel 2003 gli Stati Uniti hanno speso la cifra di 100 miliardi di dollari per curare le malattie mentali dei propri cittadini. Tanto per dare un’idea della dimensione di questa cifra sbalorditiva, si tratta di varie volte il costo del tunnel sotto la Manica, la più grande opera pubblica mai realizzata.

La scomoda conclusione che dovremmo trarre è che la sanità è lo scarico del lavandino del malessere di una società. In questa prospettiva una porzione importante della spesa sanitaria è un esempio del fatto che una organizzazione sociale che produce danni al benessere genera spese.

Dunque la principale prevenzione delle malattie dovrebbe essere fatta al di fuori dai sistemi sanitari, cioè promuovendo il benessere. Le società avanzate sono gravate da una distribuzione sbagliata delle spese per la salute, che privilegia quelle per la cura a danno di quelle per la prevenzione. In realtà la prima forma di prevenzione è intervenire sul benessere attraverso politiche sociali e culturali mirate, rispetto alle quali nel mio libro delineo una vera e propria agenda politica. La nostra attuale organizzazione sociale produce sprechi immensi. Spendiamo in un modo che crea malessere e poi spendiamo per riparare i danni prodotti dal malessere.

Un discorso del tutto analogo vale per le spese per l’ordine pubblico. Infatti i problemi di polizia sono l’altro scarico del lavandino del malessere di una società. In altre parole, tutti i problemi di malessere finiscono per divenire prima o poi o problemi sanitari o di sicurezza. Dunque, riorientare l’organizzazione sociale alla creazione di benessere genererebbe anche un contenimento delle spese per ordine l’ordine pubblico.

Questo dal lato del contenimento della spesa pubblica. Poi quanto propongo ha rilevanza anche per le fonti di finanziamento del settore pubblico. Innanzitutto propongo alcune fonti di finanziamento innovative per delineare le quali lo spazio di questo articolo è insufficiente.

In secondo luogo la realizzazione dell’agenda politica che propongo condurrebbe ad una inversione della crescente riluttanza alla pressione fiscale mostrata dalle classi medie di tutto il mondo occidentale negli ultimi decenni. Questa tendenza dell’opinione pubblica è stata in parte originata dall’idea che il privato sia più efficiente del pubblico, questione che in Italia è divenuta dirompente dopo Tangentopoli. È un argomento che in realtà sta perdendo persuasività. Un quarto di secolo di privatizzazioni in tutto l’Occidente sta cominciando a convincere l’opinione pubblica che, in alcuni settori, avere qualcuno che fa molto efficientemente le cose sbagliate può essere peggio di qualcuno che fa meno efficientemente quelle giuste. In Italia una serie di scandali del settore privato e una serie di enormi problemi nei servizi pubblici seguiti alle privatizzazioni stanno provocando una inversione nella disponibilità dell’opinione pubblica a considerare il privato come la soluzione a tutti i problemi dell’economia. L’esito del recente referendum sulla privatizzazione dell’acqua è soltanto uno dei tanti segnali di questa inversione di tendenza.

Il secondo e più profondo motivo della “rivolta fiscale” degli ultimi decenni è nella perdita di coesione sociale. Se uno ha la sensazione di vivere in un mondo in cui sempre meno gente è disponibile ad aiutarlo sarà sempre più difficile che sia disposto a pagare per aiutare qualcun altro. La riluttanza fiscale è il prodotto di società popolate da individui soli e impauriti, che hanno perso il senso di essere membri di una società. L’erosione della comunità mina le basi dello stato sociale. Esso funziona se e fino a quando un paese non è solo un insieme di individui tenuti assieme dalla forza dei soli interessi.

La riorganizzazione della società che propongo dovrebbe invece essere in grado di invertire la tendenza alla perdita di coesione sociale e quindi all’aumento della riluttanza fiscale.

Infine sono convinto che l’opinione pubblica sarebbe disposta a ridurre la sua rivolta fiscale se la spesa pubblica venisse riorientata a sollevare la gente dalle spese private generate dal degrado delle relazioni. Se gli anziani sono soli e malati la soluzione è una badante. Se i nostri bambini sono soli la soluzione è una baby-sitter e il riempirli di giocattoli. Se abbiamo ormai pochi amici e la città è divenuta pericolosa possiamo passare le nostre serate in casa dopo esserci comprati ogni sorta di divertimento casalingo (il cosiddetto home entertainment). Se il clima frenetico e invivibile delle nostre vite e delle nostre città ci angustia, una vacanza in qualche paradiso tropicale ci risolleverà. Se litighiamo con i nostri vicini, le spese per un avvocato ci proteggeranno dalla loro prepotenza. Se non ci fidiamo di qualcuno, possiamo farlo controllare. Se abbiamo paura possiamo proteggere i nostri beni con sistemi di allarme, porte blindate, guardie private ecc. Se siamo soli, o abbiamo relazioni difficili e insoddisfacenti, possiamo cercare un riscatto identitario nel consumo, nel successo, nel lavoro.

Insomma, la nostra organizzazione economica, sociale e culturale è interamente focalizzata sulla crescita economica. Non produce individui più felici semplicemente perché non è questo il suo scopo. Lo scopo è invece crescere. Se vogliamo una società di gente più soddisfatta della propria vita dobbiamo riorganizzare la società in modo da tenere nel dovuto conto la dimensione relazionale della vita. Un effetto collaterale di questo sarà la riduzione di quella porzione molto rilevante della spesa pubblica destinata a riparare i danni prodotti dal malessere ed un aumento della disponibilità della gente nei confronti della imposizione fiscale. Non è facendo lavorare e consumare di più un corpo sociale già stanco, disagiato e stressato che usciremo dai nostri problemi di debito pubblico. Una strategia del genere è destinata a produrre ulteriore disagio e crisi sociali, per contenere le quali dovremmo spendere di più.

Ovviamente infine, c’è molto da lavorare sul fronte del recupero dell’evasione, ma questo non è un argomento originale.

di Stefano Bartolini

Stefano Bartolini è docente di economia politica all'Università di Siena.

30 luglio 2011

Default americano?




Gli americani pretendono:

a- di mantenere intatto il loro livello di consumi, anche se la disoccupazione è quasi al 10% ed i salari sono in flessione

b- di avere un volume di spese militari pari o superiore a quello di tutto il resto del Mondo, producendo un costante disavanzo pubblico peraltro alimentato dagli interessi su un debito che ormai supera abbondantemente il pil annuo

c- di avere il più alto livello di debito aggregato del Mondo ma di mantenere il livello di rating AAA e di pagare interessi sul debito sovrano quasi pari a quelli sui titoli tedeschi

d- di emettere in scioltezza quantità enormi di dollari ma di confermare il dollaro come moneta di riferimento internazionale

e- di mantenere un livello di tassazione intorno al 30% (quando quello europeo è al 40) ed anzi, possibilmente, diminuirlo.
C’è modo di ottenere tutte queste cose insieme? Credo di si: nominando segretario al Tesoro la Madonna di Lourdes.
E’ possibile che, alla fine, Obama riesca ad evitare il default temporaneo il 3 agosto prossimo, ottenendo, in qualche modo, di innalzare il livello di debito Usa di altri 2.400 miliardi di dollari (che vanno a sommarsi agli oltre 14.000 attuali), ma questo cosa significa?
In primo luogo non è detto che le agenzie di rating –per quanto spudoratamente allineate agli interessi statunitensi- non declassino i bond americani per salvare la faccia. Certo il passaggio da tre a due A non è una tragedia e sposta solo di qualche decimale gli interessi da pagare ma, quando si ha una esposizione di 16.500 miliardi di dollari, anche uno spostamento di un punto percentuale significa 150 miliardi di dollari in più all’anno. E non è neanche questo il peggio. Il problema più serio è a chi collocare questa nuova massa di bond.

Ragioniamo: l’offerta americana non è molto incoraggiante perchè il rendimento nominale dei titoli americani è al 4% per i bond ventennali ma, considerando il deprezzamento del dollaro (diretta conseguenza della politica di liquidità adottata) il rendimento reale scende ad un misero 1,33%, mentre per quelli a 7 anni si scende appena allo 0,1 e per i titoli quinquennali il rendimento è addirittura negativo (S24 24.7.11). In queste condizioni è evidente che un investitore privano non ha alcun interesse ad investire con rendimento negativo o legandosi alla moneta americana per un periodo lunghissimo nel quale non si capisce bene cosa possa accadere e ad un tasso reale cosi basso. Date queste premesse, non si capisce perchè un investitore privato non debba acquistarne titoli tedeschi che offrono un rendimento reale maggiore e con ben altre garanzie di solidità.

Ci sarebbero gli investitori “pubblici” (fondi sovrani e banche centrali) che, più che al rendimento, badano a calcoli politici come sostenere un mercato verso il quale si esporta o mantenere certi equilibri generali o, ancora, creare un rapporto preferenziale con un certo stato. Ed, infatti, negli ultimi 15 anni è stato questo il tipo di investitori che ha assorbito masse crescenti di debito sovrano americano. Ma oggi le cose come stanno?

- i cinesi hanno già circa un quarto del debito americano ed hanno manifestato segni di “inappetenza” dei titoli americani già nelle ultime aste. In più, hanno il problema di sostenere anche l’Euro, per cui è possibile che, oltre che rinnovare i titoli in scadenza, possano prendere qualcosa, ma realisticamente si tratterà di spiccioli

- i giapponesi, dopo Fukishima e la conseguente recessione, hanno le loro gatte da pelare ed è già grasso che cola se rinnoveranno i titoli in scadenza

- idem per gli europei che –fra Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna ed Italia- hanno i loro grattacapi

- gli arabi stanno smobilitando pezzi di fondi sovrani per far fronte alle rivolte acquistando massicci quantitativi di cereali e facendo qualche riforma (la sola Arabia Saudita ha impiegato 386 miliardi di dollari del suo fondo sovrano per far fronte alla situazione), quindi anche da questa parte non è probabile che venga chissà quale richiesta.

Qualche speranza può venire da Russia e Brasile che sono in una fase positiva per effetto dei ricavi sulle materie prime (soprattutto il gas russo), ma sin qui nessuno dei due ha mostrato la disponibilità a fare grandi acquisti di bond americani e non si vede che interesse politico possano avere ad investire sugli Usa in questa fase. Tanto più che nel caso –più che probabile- di una nuova recessione generalizzata, entrambi si troverebbero in difficoltà per la connessa caduta della domanda di commodities le cui esportazioni rappresentano la principale base delle rispettive economie. E in quel caso una eccessiva esposizione in titoli americani sarebbe solo un problema in più.

Lo spiraglio più promettente potrebbe venire da India e Sudafrica per ragioni diverse: il Sudafrica è in una fase molto positiva per l’impetuoso apprezzamento dell’oro e potrebbe avere qualche interesse a collocare parte della sua liquidità in quella direzione. L’India, invece, potrebbe avere interesse politico ad un riavvicinamento agli Usa, sia per le sue esportazioni sia in funzione antipakistana ed anticinese, approfittando del forte raffreddamento dei rapporti far Washington e Rawalpindi seguita alla vicenda Osama.

Ma, in entrambi i casi è da escludere che possa trattarsi di acquisti risolutivi. Dunque, tutto lascia intendere che la maggior parte di questi nuovi titoli resteranno invenduti. Per cui la soluzione sarà quella che ormai conosciamo a memoria: l’assorbimento da parte della Fed, con una nuova manovra di quantitative easing sostenuta dall’ennesima emissione di dollari. Per quanto tempo ancora potrà andare avanti questo giochetto?

Forse è arrivato il momento di dirci che gli Usa, tecnicamente sono già falliti. Qualche cifra? Calcolando il solo debito governativo, il debito pro capite degli Usa (compresi lattanti e moribondi) si aggira sui 50.000 dollari (circa 11.000 in più dell’analogo debito pro capite greco); aggiungendo i debiti dei singoli states, ed enti locali arriviamo a 70.000 dollari: considerando il totale del debito aggregato (cioè inclusivo di quello di aziende e famiglie) arriviamo a un po’ più di 160.000 dollari (S24 22.7.11/13). Il che significa che una famiglia media americana di tre persone ha un debito di circa mezzo milione di dollari. E, per di più, tutto lascia intendere che l’indebitamento sia privato che pubblico crescerà per effetto dell’alto tasso di disoccupazione, mentre è difficile immaginare a breve un miglioramento delle finanze pubbliche.

Obama parla di un taglio del disavanzo statale di circa 4.000 miliardi di dollari entro il 2014: non è una gran cifra se si considera che:

a- il disavanzo del bilancio governativo attuale è del 38%

b- che nei prossimi anni crescerà la pressione pensionistica sia per effetto ell’andata in pensione dei baby boomers, sia delle pensioni di invalidità a seguito delle missioni militari (soprattutto ma non solo Irak ed Afghanistan) e che il disavanzo previsto per la spesa pensionistica nei prossimi anni si valuta fra i 1.000 ed i 3.000 miliardi

c- che 42 dei 50 stati dell’unione già prevedono disavanzi fiscali per 103 miliardi di dollari per il 2012 e che altri 24 stati già prevedono ulteriore disavanzo per il 2013

d- che occorre pagare gli interessi sul debito precorso e che è facile prevedere possano aumentare per effetto di un possibile declassamento.

Fatti i dovuti calcoli, anche nella più favorevole delle ipotesi, resterebbe assai poco per riassorbire almeno in parte di debito precedente: calcolando molto ottimisticamente che al riassorbimento del debito possano andare 150-300 miliardi annuali, questo inciderebbe per l’1-2% sulla massa totale. Cioè, a parità di tutte le condizioni, da 50 a 100 anni per azzerare il debito. Ovviamente si tratta di calcoli puramente astratti.
Naturalmente la cosa sarebbe assai problematica se nel frattempo crescesse sensibilmente il Pil (e il relativo gettito fiscale) ma, almeno per ora, non sembra un obiettivo a portata di mano. Sembra, invece, probabile che nel prossimo futuro accada il contrario: che il Pil descresca per effetto di una nuova recessione. Nel qual caso il debito pubblico, pur restando fermo in valori assoluti, si avvierebbe rapidamente verso il 200% sul Pil.

Ma, per di più, l’intesa sul punto con i repubblicani, che controllano il Congresso, non sembra raggiunta e si parla di una “manovretta” da 1.500 miliardi, come dire che il debito, di fatto, crescerà per effetto degli interessi e degli aumenti previsti.
E non abbiamo considerato il debito privato che non si capisce come potrà essere restituito dai singoli americani.

Se si trattasse di una Grecia o di un Portogallo qualsiasi, da tempo le agenzie di rating avrebbero declassato il debito americano a CCC, cioè spazzatura. Ma gli Usa sono la più grande potenza finanziaria del mondo, ed una simile classificazione provocherebbe uno tsunami finanziario senza precedenti, altro che effetto “contagio” ateniese: la maggioranza degli Stati vedrebbero volatilizzarsi gran parte dei propri crediti, molte banche fra le maggiori del mondo fallirebbero, l’effetto domino sarebbe incontenibile e la crisi del 1929 ce la ricorderemmo come un innocuo mal di pancia. Per di più, gli Usa sono la più grande potenza militare del mondo ed un simile cataclisma avrebbe effetti incalcolabili anche sul piano degli equilibri politico-militari del Globo.
Insomma, siamo al solito too big to fail (troppo grossi per fallire). Ragion per cui abbiamo deciso tutti di far finta di niente e di prendere per oro colato le 3 A delle agenzie di rating. Va bene: sinchè l’orchestrina suona possiamo continuare a ballare, ma il bastimento su cui viaggiamo di chiama Titanic. Per quanto tempo ancora possiamo continuare con questa recita surrealista? Si badi che sul mercato già oggi i segnali dicono che la tripla A è una foglia di fico a cui bessuno crede: nel mese di luglio, il costo delle coperture assicurative sul debito americano (nel gergo i cd-swap) è arrivato a 45,7 punti mentre quello sui titoli sauditi (che hanno solo 2 A-) era decisamente inferiore ed addirittura, quello per i titoli indonesiani (BB+) valeva 39. Dunque assicurare un titolo americano oggi costa circa un sesto in più che assicurare un titolo indonesiano cpn classifica assai inferiore. Per assicurare il fallimento di 100 milioni di titoli americani, all’inizio dell’anno ci volevano circa 14.000 dollari, oggi ce ne vogliono 53.000.

D’accordo, si tratta di una impennata dovuta anche alle convulsioni della politica americana e destinata a rientrare dopo il 3 agosto, ma il segnale è troppo chiaro per non essere inteso: con andamenti di questo genere è facile prevedere che una parte degli investitori privati possano iniziare a non rinnovare i propri titoli (tripla A o non tripla A) e che la cosa potrebbe anche innescare un effetto a cascata per cui anche gli stati inizierebbero a valutare il rischio di essere quello che resta con il cerino acceso in mano.
Nessuno è mai tanto grosso da non fallire mai.
di Aldo Giannuli

29 luglio 2011

L'Europa è condannata dalla globalizzazione?

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La storiella del tale che va per suonarle e viene suonato sarebbe risibile, se non ci riguardasse. Il ritorno del boomerang fa sempre male all'incosciente che lo ha lanciato senza sapere come evitare di prenderlo sul viso. La globalizzazione si rivolta contro i suoi iniziatori occidentali. E l'ironica constatazione che ha avanzato Marcel Gauchet in un recente numero di«Le Débat»1: «L'Occidente, e principalmente gli Stati Uniti, è stato il motore della globalizzazione, ma tutti vi hanno aderito e l'Unione europea è diventata la migliore allieva della classe, la zona economica del mondo più aperta, più degli Stati Uniti, cosa che si dimentica sempre. Ora, questo capitalismo globalizzato gioca adesso contro la prosperità occidentale. Si può discutere su questo punto a proposito degli Stati Uniti. In ogni caso, è chiaro per l'Europa, che appare come la perdente del gioco». L'Europa sarà dunque la grande perdente? A partire dal momento in cui si internazionalizza, si finanziarizza e si virtualizza, come succede dagli anni Ottanta, il capitalismo è portato ad emanciparsi rispetto agli Stati, alle forze politiche e alle opinioni pubbliche. Il suo unico quadro spaziale diventa il pianeta. La sua hybris deriva dal non essere più trattenuto da niente. Agisce unicamente in base alla sua logica.
Quale ironia vedere, dopo l'inizio della crisi nel 2007, i vani sforzi di Barack Obama o di Nicolas Sarkozy per tentare di regolamentare il funzionamento dell'industria finanziaria. Dice ancora Marcel Gauchet: «Sarkozy ha fatto discorsi da simpatico gradasso sulla necessità di riportare le banche alla ragione, ha pronunciato parole vendicative assai appropriate contro i guasti di un certo capitalismo, ma tutti hanno capito piuttosto in fretta che quelle parole erano fatte per essere ascoltate e non per essere seguite da effetti». Non vi è niente di sorprendente in ciò, se si vuole pur ammettere che il presidente francese è diventato il campione della banalizzazione liberale della Francia, sostenuto da un largo consenso delle élites e degli elettori.
Con la globalizzazione, lo scollegamento e poi l'autonomizzazione del capitalismo finanziario rispetto a ogni base territoriale, non c'è più bisogno di intermediari politici interni. Per il buon funzionamento del sistema non sono più necessarie nemmeno le connivenze a livello locale tra l'élite politica e l'oligarchia finanziaria. Questa complicità è un residuo del sistema precedente, di quando il capitalismo non poteva sfuggire al quadro nazionale sulla cui base si sviluppava. Questa eredità storica è ormai superata. Il capitalismo è divenuto off-shore, flessibile e nomade. Le sue basi possono trovarsi tanto a Londra e New York quanto a Francoforte, Singapore o Hong Kong. Ci sarà sempre uno Stato abbastanza prono da accogliere e porre al riparo società che vogliono sfuggire alla volontà di regolamentazione. Questa è, d'altro canto, l'argomentazione essenziale per proscrivere ogni regolamentazione che non fosse oggetto di un consenso unanime, prorogando così lo status quo che permette alla Forma-Capitale di dispiegarsi, ancora e sempre, secondo la sua logica opportunistica.
Questa globalizzazione è iniziata sotto la spinta di Margaret Thatcher e Ronald Reagan. L'ultimo libro di Jean-Pierre Chevènement2 ne traccia, per la Francia, le varie fasi in modo dettagliato. Il suo interesse
deriva dal fatto che l'autore ne ha vissuto le tappe dall'interno, nella macchina dello Stato. L'ex ministro socialista le racconta così come le ha vissute e come si sono imposte agli attori, come un'implacabile meccanica, fin dal momento in cui Frangois Mitterrand aveva scelto di restare fedele alla costruzione europea. In una dichiarazione a «La Tribune de Genève» del 22 novembre 2007, Danielle Mitterrand, difendendo l'opera del marito, ricordava una delle sue conversazioni nelle prime ore della presidenza: «Dicevo a Frangois: poiché hai il potere, perché non te ne servi per cambiare il paese? Egli rispondeva: io non ho il potere; la Francia, come il resto del mondo, è assoggettata ad una dittatura finanziaria che gestisce tutto». Questa iper-classe sempre più ricca quando la grande maggioranza degli abitanti del vecchio continente vedono la loro situazione degradarsi, è invincibile?
L'Europa, agitata come uno scettro a sonagli, è, ci dice Jean-Pierre Chevènement, un'entelechia. Solo l'Europa europea, sul modello gollista, ossia indipendente, può essere un progetto solido. Malauguratamente, nessuno dei nostri partners continentali si mostra ambizioso. Di qui l'ancoraggio (implicito fin dall'inizio della costruzione) sempre più solido agli Stati Uniti, locomotiva ansimante la cui leadership volge tuttavia al termine. «La sinistra francese credeva, nel 1981, come Cristoforo Colombo, di scoprire le Indie (il socialismo), ma ha scoperto l'America (il neo-liberalismo). Il miraggio europeo le ha fatto perdere di vista il popolo francese. Essa non è molto attrezzata per comprendere il mondo venturo», conclude Chevènement. Resta una domanda che l'ex ministro della Difesa si guarda bene dal porre, cioè come l'economia sia riuscita ad occupare l'insieme del nostro immaginario simbolico a tal punto da renderci capaci di accettare con fatalità questo stato di cose come un oggetto "naturale".
«L'Europa», scriveva Abellio, «è fissa nello spazio, cioè nella geografia, mentre l'Occidente è mobile e sposta il suo epicentro terrestre secondo il movimento delle avanguardie civilizzate. Un giorno l'Europa sarà cancellata dalle carte, l'Occidente vivrà sempre. L'Occidente è là dove la coscienza diventa essenziale, è il luogo e il momento eterni della coscienza assoluta»3. Può darsi allora che l'Occidente prossimamente pianti le tende a Pechino, nuova Terra Promessa sufficientemente ingenua per salutare i suoi benefici avvelenati? Il candore cinese consisterebbe nel credere di poterla coniugare con l'affermazione della sua identità e della sua potenza.

di Pierre Bérard e Pascal Eysseric

NOTE
1 Face à la crise: Sarkozy et les forces politiques frarwaises, Marcel Gauchet, Jacques Julliard: un échange, in «Le Debat» n.161, settembre-ottobre 2010.
2Jean-Pierre Chevènement, La France est-elle finie?, Fayard, Paris 2011.
Raymond Abellio, La structure absolue. Essai de phénoménologie génétique, Gallimard, Paris 1965. È utile sottolineare che non interpretiamo la «coscienza assoluta» allo stesso modo dell'autore.

28 luglio 2011

La crescita economica è la via d’uscita dai problemi di debito pubblico del nostro paese?

felicedonna

L’idea che la soluzione ai nostri problemi di debito pubblico sia la crescita economica è semplicistica e irrealistica. La nostra organizzazione economica, sociale e culturale è interamente focalizzata sulla crescita economica e il suo risultato è di creare malessere. Il malessere genera spesa pubblica, soprattutto spesa sanitaria e per l’ordine pubblico. Di conseguenza una riorganizzazione della società che tenga conto della dimensione relazionale della vita e non soltanto di quella economica è destinata a contenere la spesa pubblica. Inoltre la causa della “rivolta fiscale” degli ultimi decenni è nella perdita di coesione sociale, è il prodotto di società popolate da individui soli e impauriti, che hanno perso il senso di essere membri di una società. Lo stato sociale funziona se e fino a quando un paese non è solo un insieme di individui tenuti assieme dalla forza dei soli interessi. Una riorganizzazione della società dovrebbe invece essere in grado di invertire la tendenza alla perdita di coesione sociale e quindi all’aumento della riluttanza fiscale.

L’idea che la soluzione ai nostri problemi di debito pubblico sia la crescita economica è semplicistica e irrealistica. Nel mio libro Manifesto per la Felicità, pubblicato da Donzelli nel 2010, espongo la seguente tesi: la nostra organizzazione economica e sociale crea malessere. Il cuore del problema è che lo sviluppo economico si è accompagnato a un progressivo impoverimento delle nostre relazioni affettive e sociali. Viviamo di corsa in mezzo a individui frettolosi. E a mancare è prima di tutto il tempo delle relazioni con gli altri, sacrificate sull’altare del benessere materiale, che conosce due soli imperativi: lavoro e consumo. Siamo più ricchi di beni e sempre più poveri di relazioni e di tempo. Ecco perché siamo sempre più infelici. Ecco dunque perché il nostro sistema economico e molti aspetti della nostra esperienza sia individuale che collettiva – la famiglia, il lavoro, i media, la vita urbana, la scuola, la sanità e persino la nostra democrazia – hanno bisogno di un profondo cambiamento culturale e organizzativo, che delineo più o meno dettagliatamente nel mio libro.

Quello che rileva è che il malessere genera spese sia private che pubbliche. Mi soffermo su queste ultime che sono rilevanti per la questione delle finanze pubbliche. Una gran mole di contributi in epidemiologia dimostra che la felicità influisce direttamente sulla salute e la longevità, che il pessimismo, la percezione di non controllare la propria vita, lo stress, i sentimenti di ostilità e di aggressione verso gli altri sono fattori di rischio molto rilevanti. Si è scoperto ad esempio che il rischio di malattie cardiovascolari – la prima causa di morte nei paesi ricchi – è doppio tra le persone affette da depressione o malattie mentali e una volta e mezzo per le persone generalmente infelici. Gli effetti del benessere sulla salute sono stimati come più ampi di quelli derivanti dal fumo o dall’esercizio fisico. Senza contare la spesa sanitaria direttamente connessa al malessere, come quella per la cura dei disagi mentali. Nel 2005 i medici inglesi hanno prescritto 29 milioni di ricette di antidepressivi, per un costo complessivo di 400 milioni di sterline a carico del servizio sanitario nazionale. Nel 2003 gli Stati Uniti hanno speso la cifra di 100 miliardi di dollari per curare le malattie mentali dei propri cittadini. Tanto per dare un’idea della dimensione di questa cifra sbalorditiva, si tratta di varie volte il costo del tunnel sotto la Manica, la più grande opera pubblica mai realizzata.

La scomoda conclusione che dovremmo trarre è che la sanità è lo scarico del lavandino del malessere di una società. In questa prospettiva una porzione importante della spesa sanitaria è un esempio del fatto che una organizzazione sociale che produce danni al benessere genera spese.

Dunque la principale prevenzione delle malattie dovrebbe essere fatta al di fuori dai sistemi sanitari, cioè promuovendo il benessere. Le società avanzate sono gravate da una distribuzione sbagliata delle spese per la salute, che privilegia quelle per la cura a danno di quelle per la prevenzione. In realtà la prima forma di prevenzione è intervenire sul benessere attraverso politiche sociali e culturali mirate, rispetto alle quali nel mio libro delineo una vera e propria agenda politica. La nostra attuale organizzazione sociale produce sprechi immensi. Spendiamo in un modo che crea malessere e poi spendiamo per riparare i danni prodotti dal malessere.

Un discorso del tutto analogo vale per le spese per l’ordine pubblico. Infatti i problemi di polizia sono l’altro scarico del lavandino del malessere di una società. In altre parole, tutti i problemi di malessere finiscono per divenire prima o poi o problemi sanitari o di sicurezza. Dunque, riorientare l’organizzazione sociale alla creazione di benessere genererebbe anche un contenimento delle spese per ordine l’ordine pubblico.

Questo dal lato del contenimento della spesa pubblica. Poi quanto propongo ha rilevanza anche per le fonti di finanziamento del settore pubblico. Innanzitutto propongo alcune fonti di finanziamento innovative per delineare le quali lo spazio di questo articolo è insufficiente.

In secondo luogo la realizzazione dell’agenda politica che propongo condurrebbe ad una inversione della crescente riluttanza alla pressione fiscale mostrata dalle classi medie di tutto il mondo occidentale negli ultimi decenni. Questa tendenza dell’opinione pubblica è stata in parte originata dall’idea che il privato sia più efficiente del pubblico, questione che in Italia è divenuta dirompente dopo Tangentopoli. È un argomento che in realtà sta perdendo persuasività. Un quarto di secolo di privatizzazioni in tutto l’Occidente sta cominciando a convincere l’opinione pubblica che, in alcuni settori, avere qualcuno che fa molto efficientemente le cose sbagliate può essere peggio di qualcuno che fa meno efficientemente quelle giuste. In Italia una serie di scandali del settore privato e una serie di enormi problemi nei servizi pubblici seguiti alle privatizzazioni stanno provocando una inversione nella disponibilità dell’opinione pubblica a considerare il privato come la soluzione a tutti i problemi dell’economia. L’esito del recente referendum sulla privatizzazione dell’acqua è soltanto uno dei tanti segnali di questa inversione di tendenza.

Il secondo e più profondo motivo della “rivolta fiscale” degli ultimi decenni è nella perdita di coesione sociale. Se uno ha la sensazione di vivere in un mondo in cui sempre meno gente è disponibile ad aiutarlo sarà sempre più difficile che sia disposto a pagare per aiutare qualcun altro. La riluttanza fiscale è il prodotto di società popolate da individui soli e impauriti, che hanno perso il senso di essere membri di una società. L’erosione della comunità mina le basi dello stato sociale. Esso funziona se e fino a quando un paese non è solo un insieme di individui tenuti assieme dalla forza dei soli interessi.

La riorganizzazione della società che propongo dovrebbe invece essere in grado di invertire la tendenza alla perdita di coesione sociale e quindi all’aumento della riluttanza fiscale.

Infine sono convinto che l’opinione pubblica sarebbe disposta a ridurre la sua rivolta fiscale se la spesa pubblica venisse riorientata a sollevare la gente dalle spese private generate dal degrado delle relazioni. Se gli anziani sono soli e malati la soluzione è una badante. Se i nostri bambini sono soli la soluzione è una baby-sitter e il riempirli di giocattoli. Se abbiamo ormai pochi amici e la città è divenuta pericolosa possiamo passare le nostre serate in casa dopo esserci comprati ogni sorta di divertimento casalingo (il cosiddetto home entertainment). Se il clima frenetico e invivibile delle nostre vite e delle nostre città ci angustia, una vacanza in qualche paradiso tropicale ci risolleverà. Se litighiamo con i nostri vicini, le spese per un avvocato ci proteggeranno dalla loro prepotenza. Se non ci fidiamo di qualcuno, possiamo farlo controllare. Se abbiamo paura possiamo proteggere i nostri beni con sistemi di allarme, porte blindate, guardie private ecc. Se siamo soli, o abbiamo relazioni difficili e insoddisfacenti, possiamo cercare un riscatto identitario nel consumo, nel successo, nel lavoro.

Insomma, la nostra organizzazione economica, sociale e culturale è interamente focalizzata sulla crescita economica. Non produce individui più felici semplicemente perché non è questo il suo scopo. Lo scopo è invece crescere. Se vogliamo una società di gente più soddisfatta della propria vita dobbiamo riorganizzare la società in modo da tenere nel dovuto conto la dimensione relazionale della vita. Un effetto collaterale di questo sarà la riduzione di quella porzione molto rilevante della spesa pubblica destinata a riparare i danni prodotti dal malessere ed un aumento della disponibilità della gente nei confronti della imposizione fiscale. Non è facendo lavorare e consumare di più un corpo sociale già stanco, disagiato e stressato che usciremo dai nostri problemi di debito pubblico. Una strategia del genere è destinata a produrre ulteriore disagio e crisi sociali, per contenere le quali dovremmo spendere di più.

Ovviamente infine, c’è molto da lavorare sul fronte del recupero dell’evasione, ma questo non è un argomento originale.

di Stefano Bartolini

Stefano Bartolini è docente di economia politica all'Università di Siena.