01 agosto 2011

Il perché del silenzio Usa sul nucleare israeliano



http://www.rinascita.eu/mktumb640a.php?image=1311352218.jpg
“Già durante la guerra dello Yom Kippur, nel 1973, Israele era in grado di produrre una quantità limitata di ordigni nucleari, per compensare il vantaggio arabo in termini di armi convenzionali”. Questa volta non si tratta delle affermazioni di qualche fonte anonima ma delle rivelazioni contenute in alcuni file del Pentagono, recentemente desecretati, e riportati dallo stesso quotidiano israeliano Ha’aretz. Si tratta di 1300 pagine nelle quali vengono descritti accuratamente i timori del governo statunitense riguardo alla diffusione di una possibile minaccia nucleare israeliana per scoraggiare i vicini arabi forniti di maggiori armamenti.
Cosa che avrebbe portato a una reazione ostile dell’intera comunità internazionale e, molto probabilmente, alla rivelazione degli accordi segreti fra i due Paesi sul programma nucleare di Tel Aviv raggiunti alcuni anni prima. Accordi riguardo ai quali molte voci si sono rincorse, soprattutto dopo le rivelazioni di Mordechai Vanunu, ex tecnico della centrale atomica di Dimona (foto), che nel 1986 svelò al mondo l’esistenza di almeno 200 ordigni nucleari israeliani. Secondo quanto riportato nei documenti del Pentagono, il silenzio-assenso degli Usa sul programma atomico di Tel Aviv viene sancito nel 1969, a quattro anni di distanza dall’inaugurazione della centrale nucleare israeliana costruita ufficialmente per scopi civili. Tali accordi prevedevano che i dirigenti politici di Israele si sarebbero astenuti da qualsiasi dichiarazione pubblica sugli arsenali nucleari dello Stato ebraico, evitando anche qualsiasi tipo di test atomico e che in cambio gli Stati Uniti avrebbero evitato ingerenze esterne sull’argomento, comprese quelle dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica. Un’intesa che dimostra come le Nazioni Unite non siano altro che una ulteriore arma nelle mani della Casa Bianca e i cui effetti hanno caratterizzato la storia recente del Vicino Oriente.
In questi ultimi due anni, infatti, si è assistito a un attacco diretto contro l’Iran da parte della comunità internazione per un presunto programma nucleare a scopo bellico del quale neppure gli inviati dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica hanno trovato alcuna prova. Eppure, proprio come avvenuto qualche anno prima per l’Iraq di Saddam Hussein e le fantomatiche “armi di distruzioni di massa”, l’Onu ha deciso nel giugno 2009 di applicare pesanti sanzioni economiche alla Repubblica Islamica, allo scopo di convincerla a desistere da quella che era stata definita un minaccia al mondo intero. Alla luce di quanto appreso appare ancora più evidente quanto questi provvedimenti, sponsorizzati dagli Stati Uniti, siano serviti a far sì che Israele e gli alleati sauditi mantenessero la propria predominanza militare sulla regione. Una strategia che ha recentemente colpito anche la Siria accusata a sua volta, oltre che di non comprovate stragi di civili, di portare avanti un programma nucleare a scopo militare. Washington con l’aiuto della sua marionetta più potente, le Nazioni Unite, sta pian piano eliminando qualunque ostacolo alla conquista diretta e indiretta della regione, a cominciare dai quei governi che si sono rifiutati di piegarsi al volere della Casa Bianca.
di Matteo Bernabei

31 luglio 2011

Verso la guerra delle risorse?





Piccolo ma significativo esempio di come le notizie importanti non vengono date o, quando vengono date, sono nascoste in modo che non si vedano. Per esempio non mi risulta che alcun giornale italiano, per non parlare dei telegiornali, abbia dato rilievo alle cose che seguono. Recentemente il WTO, l’Organizzazione Mondiale del Commercio – uno dei tre membri della sacra autorità del Consenso Washingtoniano, insieme al Fondo Monetario Internazionale e alla Banca Mondiale – ha pubblicato un rapporto speciale il cui titolo tecnico è apparentemente anodino e concerne le restrizioni alle esportazioni. Da questo emerge che ben 30 nuove restrizioni sono sorte, in diversi paesi, che impediscono o limitano l’esportazione di determinate materie prime. E si tratta di materie prime in quasi tutti i casi cruciali: generi alimentari, carbone, minerali di ferro, terre rare.



Le cifre dicono che tra ottobre 2010 e aprile 2011 i casi sono arrivati a 30 e si va da aumenti delle tasse di esportazione, fissazioni di prezzi fuori mercato, limitazioni di quote, veri e propri divieti completi. Protagonisti in questa svolta sono la Cina, l’India, il Vietnam l’Indonesia. Ma anche gli Stati Uniti praticano questi metodi avendo imposto restrizioni su una decina di materie prime che ritengono strategiche.

Il punto è proprio questo. Che queste limitazioni non rispondono a criteri economici di corto respiro e sono invece, in molti casi, frutto di considerazioni strategiche. La Cina, ad esempio, controlla circa il 97% delle esportazioni mondiali di terre rare (che sono un elenco di materie prime tutte variamente collegate alla produzione di raffinate tecnologie della comunicazione).

Ovvio che, trovandosi in una posizione quasi monopolistica, la Cina sia in condizione di imporre i suoi prezzi. Cosa che ha fatto tranquillamente fino all’anno scorso. Ma da due anni la Cina non sembra interessata a guadagnare, anche dilapidando le sue risorse preziose. Adesso se le vuole tenere.

Il perchè è presto detto, ma nemmeno uno dei pochissimi giornali del mondo che ha commentato la notizia, l’International Herald Tribune (IHT, 21 luglio), è stato capace di spiegarlo propriamente. In un breve articolo in pagine interne si è limitato a individuare l’egoismo dei paesi del terzo mondo. Ma con spiegazioni di questo tipo non si va lontano. Perchè oggi, improvvisamente?

È cominciata l’epoca della penuria. Per generi di consumo generale, come il petrolio, il “picco” è già stato raggiunto da almeno quattro anni (cioè se ne produce sempre meno e se ne produrrà sempre meno), ma nessuno lo dice per evitare il panico e il contingentamento. Delle terre rare nessuno parla perchè quasi nessuno sa cosa sono e a che cosa servono.

Ma i governanti di Pechino, come è bene non stancarsi di dire, guardano lontano. E cominciano a preferire di risparmiare piuttosto che guadagnare vendendo, perchè quando non ce ne sarà più sarà molto più difficile crescere.

Ecco il punto: è cominciata, in sordina per ora, la guerra delle risorse.

Basta capirlo per prevedere che alle piccole onde attuali seguiranno i marosi nei prossimi anni.

Il signor Patra, capo della società indiana “Terre Rare” – citato appunto da IHT – dice: «per molto tempo l’Occidente ha preso le risorse naturali a basso prezzo dall’Est. In futuro non sarà più così». Perentorio e soprattutto vero. A quelli che, ignorando i sintomi del problema, continuano a biascicare le giaculatorie della crescita, queste notizie bisognerebbe squadernargliele davanti al naso. Ma chi investirebbe se sapesse come stanno davvero le cose?

di Giulietto Chiesa

30 luglio 2011

Default americano?




Gli americani pretendono:

a- di mantenere intatto il loro livello di consumi, anche se la disoccupazione è quasi al 10% ed i salari sono in flessione

b- di avere un volume di spese militari pari o superiore a quello di tutto il resto del Mondo, producendo un costante disavanzo pubblico peraltro alimentato dagli interessi su un debito che ormai supera abbondantemente il pil annuo

c- di avere il più alto livello di debito aggregato del Mondo ma di mantenere il livello di rating AAA e di pagare interessi sul debito sovrano quasi pari a quelli sui titoli tedeschi

d- di emettere in scioltezza quantità enormi di dollari ma di confermare il dollaro come moneta di riferimento internazionale

e- di mantenere un livello di tassazione intorno al 30% (quando quello europeo è al 40) ed anzi, possibilmente, diminuirlo.
C’è modo di ottenere tutte queste cose insieme? Credo di si: nominando segretario al Tesoro la Madonna di Lourdes.
E’ possibile che, alla fine, Obama riesca ad evitare il default temporaneo il 3 agosto prossimo, ottenendo, in qualche modo, di innalzare il livello di debito Usa di altri 2.400 miliardi di dollari (che vanno a sommarsi agli oltre 14.000 attuali), ma questo cosa significa?
In primo luogo non è detto che le agenzie di rating –per quanto spudoratamente allineate agli interessi statunitensi- non declassino i bond americani per salvare la faccia. Certo il passaggio da tre a due A non è una tragedia e sposta solo di qualche decimale gli interessi da pagare ma, quando si ha una esposizione di 16.500 miliardi di dollari, anche uno spostamento di un punto percentuale significa 150 miliardi di dollari in più all’anno. E non è neanche questo il peggio. Il problema più serio è a chi collocare questa nuova massa di bond.

Ragioniamo: l’offerta americana non è molto incoraggiante perchè il rendimento nominale dei titoli americani è al 4% per i bond ventennali ma, considerando il deprezzamento del dollaro (diretta conseguenza della politica di liquidità adottata) il rendimento reale scende ad un misero 1,33%, mentre per quelli a 7 anni si scende appena allo 0,1 e per i titoli quinquennali il rendimento è addirittura negativo (S24 24.7.11). In queste condizioni è evidente che un investitore privano non ha alcun interesse ad investire con rendimento negativo o legandosi alla moneta americana per un periodo lunghissimo nel quale non si capisce bene cosa possa accadere e ad un tasso reale cosi basso. Date queste premesse, non si capisce perchè un investitore privato non debba acquistarne titoli tedeschi che offrono un rendimento reale maggiore e con ben altre garanzie di solidità.

Ci sarebbero gli investitori “pubblici” (fondi sovrani e banche centrali) che, più che al rendimento, badano a calcoli politici come sostenere un mercato verso il quale si esporta o mantenere certi equilibri generali o, ancora, creare un rapporto preferenziale con un certo stato. Ed, infatti, negli ultimi 15 anni è stato questo il tipo di investitori che ha assorbito masse crescenti di debito sovrano americano. Ma oggi le cose come stanno?

- i cinesi hanno già circa un quarto del debito americano ed hanno manifestato segni di “inappetenza” dei titoli americani già nelle ultime aste. In più, hanno il problema di sostenere anche l’Euro, per cui è possibile che, oltre che rinnovare i titoli in scadenza, possano prendere qualcosa, ma realisticamente si tratterà di spiccioli

- i giapponesi, dopo Fukishima e la conseguente recessione, hanno le loro gatte da pelare ed è già grasso che cola se rinnoveranno i titoli in scadenza

- idem per gli europei che –fra Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna ed Italia- hanno i loro grattacapi

- gli arabi stanno smobilitando pezzi di fondi sovrani per far fronte alle rivolte acquistando massicci quantitativi di cereali e facendo qualche riforma (la sola Arabia Saudita ha impiegato 386 miliardi di dollari del suo fondo sovrano per far fronte alla situazione), quindi anche da questa parte non è probabile che venga chissà quale richiesta.

Qualche speranza può venire da Russia e Brasile che sono in una fase positiva per effetto dei ricavi sulle materie prime (soprattutto il gas russo), ma sin qui nessuno dei due ha mostrato la disponibilità a fare grandi acquisti di bond americani e non si vede che interesse politico possano avere ad investire sugli Usa in questa fase. Tanto più che nel caso –più che probabile- di una nuova recessione generalizzata, entrambi si troverebbero in difficoltà per la connessa caduta della domanda di commodities le cui esportazioni rappresentano la principale base delle rispettive economie. E in quel caso una eccessiva esposizione in titoli americani sarebbe solo un problema in più.

Lo spiraglio più promettente potrebbe venire da India e Sudafrica per ragioni diverse: il Sudafrica è in una fase molto positiva per l’impetuoso apprezzamento dell’oro e potrebbe avere qualche interesse a collocare parte della sua liquidità in quella direzione. L’India, invece, potrebbe avere interesse politico ad un riavvicinamento agli Usa, sia per le sue esportazioni sia in funzione antipakistana ed anticinese, approfittando del forte raffreddamento dei rapporti far Washington e Rawalpindi seguita alla vicenda Osama.

Ma, in entrambi i casi è da escludere che possa trattarsi di acquisti risolutivi. Dunque, tutto lascia intendere che la maggior parte di questi nuovi titoli resteranno invenduti. Per cui la soluzione sarà quella che ormai conosciamo a memoria: l’assorbimento da parte della Fed, con una nuova manovra di quantitative easing sostenuta dall’ennesima emissione di dollari. Per quanto tempo ancora potrà andare avanti questo giochetto?

Forse è arrivato il momento di dirci che gli Usa, tecnicamente sono già falliti. Qualche cifra? Calcolando il solo debito governativo, il debito pro capite degli Usa (compresi lattanti e moribondi) si aggira sui 50.000 dollari (circa 11.000 in più dell’analogo debito pro capite greco); aggiungendo i debiti dei singoli states, ed enti locali arriviamo a 70.000 dollari: considerando il totale del debito aggregato (cioè inclusivo di quello di aziende e famiglie) arriviamo a un po’ più di 160.000 dollari (S24 22.7.11/13). Il che significa che una famiglia media americana di tre persone ha un debito di circa mezzo milione di dollari. E, per di più, tutto lascia intendere che l’indebitamento sia privato che pubblico crescerà per effetto dell’alto tasso di disoccupazione, mentre è difficile immaginare a breve un miglioramento delle finanze pubbliche.

Obama parla di un taglio del disavanzo statale di circa 4.000 miliardi di dollari entro il 2014: non è una gran cifra se si considera che:

a- il disavanzo del bilancio governativo attuale è del 38%

b- che nei prossimi anni crescerà la pressione pensionistica sia per effetto ell’andata in pensione dei baby boomers, sia delle pensioni di invalidità a seguito delle missioni militari (soprattutto ma non solo Irak ed Afghanistan) e che il disavanzo previsto per la spesa pensionistica nei prossimi anni si valuta fra i 1.000 ed i 3.000 miliardi

c- che 42 dei 50 stati dell’unione già prevedono disavanzi fiscali per 103 miliardi di dollari per il 2012 e che altri 24 stati già prevedono ulteriore disavanzo per il 2013

d- che occorre pagare gli interessi sul debito precorso e che è facile prevedere possano aumentare per effetto di un possibile declassamento.

Fatti i dovuti calcoli, anche nella più favorevole delle ipotesi, resterebbe assai poco per riassorbire almeno in parte di debito precedente: calcolando molto ottimisticamente che al riassorbimento del debito possano andare 150-300 miliardi annuali, questo inciderebbe per l’1-2% sulla massa totale. Cioè, a parità di tutte le condizioni, da 50 a 100 anni per azzerare il debito. Ovviamente si tratta di calcoli puramente astratti.
Naturalmente la cosa sarebbe assai problematica se nel frattempo crescesse sensibilmente il Pil (e il relativo gettito fiscale) ma, almeno per ora, non sembra un obiettivo a portata di mano. Sembra, invece, probabile che nel prossimo futuro accada il contrario: che il Pil descresca per effetto di una nuova recessione. Nel qual caso il debito pubblico, pur restando fermo in valori assoluti, si avvierebbe rapidamente verso il 200% sul Pil.

Ma, per di più, l’intesa sul punto con i repubblicani, che controllano il Congresso, non sembra raggiunta e si parla di una “manovretta” da 1.500 miliardi, come dire che il debito, di fatto, crescerà per effetto degli interessi e degli aumenti previsti.
E non abbiamo considerato il debito privato che non si capisce come potrà essere restituito dai singoli americani.

Se si trattasse di una Grecia o di un Portogallo qualsiasi, da tempo le agenzie di rating avrebbero declassato il debito americano a CCC, cioè spazzatura. Ma gli Usa sono la più grande potenza finanziaria del mondo, ed una simile classificazione provocherebbe uno tsunami finanziario senza precedenti, altro che effetto “contagio” ateniese: la maggioranza degli Stati vedrebbero volatilizzarsi gran parte dei propri crediti, molte banche fra le maggiori del mondo fallirebbero, l’effetto domino sarebbe incontenibile e la crisi del 1929 ce la ricorderemmo come un innocuo mal di pancia. Per di più, gli Usa sono la più grande potenza militare del mondo ed un simile cataclisma avrebbe effetti incalcolabili anche sul piano degli equilibri politico-militari del Globo.
Insomma, siamo al solito too big to fail (troppo grossi per fallire). Ragion per cui abbiamo deciso tutti di far finta di niente e di prendere per oro colato le 3 A delle agenzie di rating. Va bene: sinchè l’orchestrina suona possiamo continuare a ballare, ma il bastimento su cui viaggiamo di chiama Titanic. Per quanto tempo ancora possiamo continuare con questa recita surrealista? Si badi che sul mercato già oggi i segnali dicono che la tripla A è una foglia di fico a cui bessuno crede: nel mese di luglio, il costo delle coperture assicurative sul debito americano (nel gergo i cd-swap) è arrivato a 45,7 punti mentre quello sui titoli sauditi (che hanno solo 2 A-) era decisamente inferiore ed addirittura, quello per i titoli indonesiani (BB+) valeva 39. Dunque assicurare un titolo americano oggi costa circa un sesto in più che assicurare un titolo indonesiano cpn classifica assai inferiore. Per assicurare il fallimento di 100 milioni di titoli americani, all’inizio dell’anno ci volevano circa 14.000 dollari, oggi ce ne vogliono 53.000.

D’accordo, si tratta di una impennata dovuta anche alle convulsioni della politica americana e destinata a rientrare dopo il 3 agosto, ma il segnale è troppo chiaro per non essere inteso: con andamenti di questo genere è facile prevedere che una parte degli investitori privati possano iniziare a non rinnovare i propri titoli (tripla A o non tripla A) e che la cosa potrebbe anche innescare un effetto a cascata per cui anche gli stati inizierebbero a valutare il rischio di essere quello che resta con il cerino acceso in mano.
Nessuno è mai tanto grosso da non fallire mai.
di Aldo Giannuli

01 agosto 2011

Il perché del silenzio Usa sul nucleare israeliano



http://www.rinascita.eu/mktumb640a.php?image=1311352218.jpg
“Già durante la guerra dello Yom Kippur, nel 1973, Israele era in grado di produrre una quantità limitata di ordigni nucleari, per compensare il vantaggio arabo in termini di armi convenzionali”. Questa volta non si tratta delle affermazioni di qualche fonte anonima ma delle rivelazioni contenute in alcuni file del Pentagono, recentemente desecretati, e riportati dallo stesso quotidiano israeliano Ha’aretz. Si tratta di 1300 pagine nelle quali vengono descritti accuratamente i timori del governo statunitense riguardo alla diffusione di una possibile minaccia nucleare israeliana per scoraggiare i vicini arabi forniti di maggiori armamenti.
Cosa che avrebbe portato a una reazione ostile dell’intera comunità internazionale e, molto probabilmente, alla rivelazione degli accordi segreti fra i due Paesi sul programma nucleare di Tel Aviv raggiunti alcuni anni prima. Accordi riguardo ai quali molte voci si sono rincorse, soprattutto dopo le rivelazioni di Mordechai Vanunu, ex tecnico della centrale atomica di Dimona (foto), che nel 1986 svelò al mondo l’esistenza di almeno 200 ordigni nucleari israeliani. Secondo quanto riportato nei documenti del Pentagono, il silenzio-assenso degli Usa sul programma atomico di Tel Aviv viene sancito nel 1969, a quattro anni di distanza dall’inaugurazione della centrale nucleare israeliana costruita ufficialmente per scopi civili. Tali accordi prevedevano che i dirigenti politici di Israele si sarebbero astenuti da qualsiasi dichiarazione pubblica sugli arsenali nucleari dello Stato ebraico, evitando anche qualsiasi tipo di test atomico e che in cambio gli Stati Uniti avrebbero evitato ingerenze esterne sull’argomento, comprese quelle dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica. Un’intesa che dimostra come le Nazioni Unite non siano altro che una ulteriore arma nelle mani della Casa Bianca e i cui effetti hanno caratterizzato la storia recente del Vicino Oriente.
In questi ultimi due anni, infatti, si è assistito a un attacco diretto contro l’Iran da parte della comunità internazione per un presunto programma nucleare a scopo bellico del quale neppure gli inviati dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica hanno trovato alcuna prova. Eppure, proprio come avvenuto qualche anno prima per l’Iraq di Saddam Hussein e le fantomatiche “armi di distruzioni di massa”, l’Onu ha deciso nel giugno 2009 di applicare pesanti sanzioni economiche alla Repubblica Islamica, allo scopo di convincerla a desistere da quella che era stata definita un minaccia al mondo intero. Alla luce di quanto appreso appare ancora più evidente quanto questi provvedimenti, sponsorizzati dagli Stati Uniti, siano serviti a far sì che Israele e gli alleati sauditi mantenessero la propria predominanza militare sulla regione. Una strategia che ha recentemente colpito anche la Siria accusata a sua volta, oltre che di non comprovate stragi di civili, di portare avanti un programma nucleare a scopo militare. Washington con l’aiuto della sua marionetta più potente, le Nazioni Unite, sta pian piano eliminando qualunque ostacolo alla conquista diretta e indiretta della regione, a cominciare dai quei governi che si sono rifiutati di piegarsi al volere della Casa Bianca.
di Matteo Bernabei

31 luglio 2011

Verso la guerra delle risorse?





Piccolo ma significativo esempio di come le notizie importanti non vengono date o, quando vengono date, sono nascoste in modo che non si vedano. Per esempio non mi risulta che alcun giornale italiano, per non parlare dei telegiornali, abbia dato rilievo alle cose che seguono. Recentemente il WTO, l’Organizzazione Mondiale del Commercio – uno dei tre membri della sacra autorità del Consenso Washingtoniano, insieme al Fondo Monetario Internazionale e alla Banca Mondiale – ha pubblicato un rapporto speciale il cui titolo tecnico è apparentemente anodino e concerne le restrizioni alle esportazioni. Da questo emerge che ben 30 nuove restrizioni sono sorte, in diversi paesi, che impediscono o limitano l’esportazione di determinate materie prime. E si tratta di materie prime in quasi tutti i casi cruciali: generi alimentari, carbone, minerali di ferro, terre rare.



Le cifre dicono che tra ottobre 2010 e aprile 2011 i casi sono arrivati a 30 e si va da aumenti delle tasse di esportazione, fissazioni di prezzi fuori mercato, limitazioni di quote, veri e propri divieti completi. Protagonisti in questa svolta sono la Cina, l’India, il Vietnam l’Indonesia. Ma anche gli Stati Uniti praticano questi metodi avendo imposto restrizioni su una decina di materie prime che ritengono strategiche.

Il punto è proprio questo. Che queste limitazioni non rispondono a criteri economici di corto respiro e sono invece, in molti casi, frutto di considerazioni strategiche. La Cina, ad esempio, controlla circa il 97% delle esportazioni mondiali di terre rare (che sono un elenco di materie prime tutte variamente collegate alla produzione di raffinate tecnologie della comunicazione).

Ovvio che, trovandosi in una posizione quasi monopolistica, la Cina sia in condizione di imporre i suoi prezzi. Cosa che ha fatto tranquillamente fino all’anno scorso. Ma da due anni la Cina non sembra interessata a guadagnare, anche dilapidando le sue risorse preziose. Adesso se le vuole tenere.

Il perchè è presto detto, ma nemmeno uno dei pochissimi giornali del mondo che ha commentato la notizia, l’International Herald Tribune (IHT, 21 luglio), è stato capace di spiegarlo propriamente. In un breve articolo in pagine interne si è limitato a individuare l’egoismo dei paesi del terzo mondo. Ma con spiegazioni di questo tipo non si va lontano. Perchè oggi, improvvisamente?

È cominciata l’epoca della penuria. Per generi di consumo generale, come il petrolio, il “picco” è già stato raggiunto da almeno quattro anni (cioè se ne produce sempre meno e se ne produrrà sempre meno), ma nessuno lo dice per evitare il panico e il contingentamento. Delle terre rare nessuno parla perchè quasi nessuno sa cosa sono e a che cosa servono.

Ma i governanti di Pechino, come è bene non stancarsi di dire, guardano lontano. E cominciano a preferire di risparmiare piuttosto che guadagnare vendendo, perchè quando non ce ne sarà più sarà molto più difficile crescere.

Ecco il punto: è cominciata, in sordina per ora, la guerra delle risorse.

Basta capirlo per prevedere che alle piccole onde attuali seguiranno i marosi nei prossimi anni.

Il signor Patra, capo della società indiana “Terre Rare” – citato appunto da IHT – dice: «per molto tempo l’Occidente ha preso le risorse naturali a basso prezzo dall’Est. In futuro non sarà più così». Perentorio e soprattutto vero. A quelli che, ignorando i sintomi del problema, continuano a biascicare le giaculatorie della crescita, queste notizie bisognerebbe squadernargliele davanti al naso. Ma chi investirebbe se sapesse come stanno davvero le cose?

di Giulietto Chiesa

30 luglio 2011

Default americano?




Gli americani pretendono:

a- di mantenere intatto il loro livello di consumi, anche se la disoccupazione è quasi al 10% ed i salari sono in flessione

b- di avere un volume di spese militari pari o superiore a quello di tutto il resto del Mondo, producendo un costante disavanzo pubblico peraltro alimentato dagli interessi su un debito che ormai supera abbondantemente il pil annuo

c- di avere il più alto livello di debito aggregato del Mondo ma di mantenere il livello di rating AAA e di pagare interessi sul debito sovrano quasi pari a quelli sui titoli tedeschi

d- di emettere in scioltezza quantità enormi di dollari ma di confermare il dollaro come moneta di riferimento internazionale

e- di mantenere un livello di tassazione intorno al 30% (quando quello europeo è al 40) ed anzi, possibilmente, diminuirlo.
C’è modo di ottenere tutte queste cose insieme? Credo di si: nominando segretario al Tesoro la Madonna di Lourdes.
E’ possibile che, alla fine, Obama riesca ad evitare il default temporaneo il 3 agosto prossimo, ottenendo, in qualche modo, di innalzare il livello di debito Usa di altri 2.400 miliardi di dollari (che vanno a sommarsi agli oltre 14.000 attuali), ma questo cosa significa?
In primo luogo non è detto che le agenzie di rating –per quanto spudoratamente allineate agli interessi statunitensi- non declassino i bond americani per salvare la faccia. Certo il passaggio da tre a due A non è una tragedia e sposta solo di qualche decimale gli interessi da pagare ma, quando si ha una esposizione di 16.500 miliardi di dollari, anche uno spostamento di un punto percentuale significa 150 miliardi di dollari in più all’anno. E non è neanche questo il peggio. Il problema più serio è a chi collocare questa nuova massa di bond.

Ragioniamo: l’offerta americana non è molto incoraggiante perchè il rendimento nominale dei titoli americani è al 4% per i bond ventennali ma, considerando il deprezzamento del dollaro (diretta conseguenza della politica di liquidità adottata) il rendimento reale scende ad un misero 1,33%, mentre per quelli a 7 anni si scende appena allo 0,1 e per i titoli quinquennali il rendimento è addirittura negativo (S24 24.7.11). In queste condizioni è evidente che un investitore privano non ha alcun interesse ad investire con rendimento negativo o legandosi alla moneta americana per un periodo lunghissimo nel quale non si capisce bene cosa possa accadere e ad un tasso reale cosi basso. Date queste premesse, non si capisce perchè un investitore privato non debba acquistarne titoli tedeschi che offrono un rendimento reale maggiore e con ben altre garanzie di solidità.

Ci sarebbero gli investitori “pubblici” (fondi sovrani e banche centrali) che, più che al rendimento, badano a calcoli politici come sostenere un mercato verso il quale si esporta o mantenere certi equilibri generali o, ancora, creare un rapporto preferenziale con un certo stato. Ed, infatti, negli ultimi 15 anni è stato questo il tipo di investitori che ha assorbito masse crescenti di debito sovrano americano. Ma oggi le cose come stanno?

- i cinesi hanno già circa un quarto del debito americano ed hanno manifestato segni di “inappetenza” dei titoli americani già nelle ultime aste. In più, hanno il problema di sostenere anche l’Euro, per cui è possibile che, oltre che rinnovare i titoli in scadenza, possano prendere qualcosa, ma realisticamente si tratterà di spiccioli

- i giapponesi, dopo Fukishima e la conseguente recessione, hanno le loro gatte da pelare ed è già grasso che cola se rinnoveranno i titoli in scadenza

- idem per gli europei che –fra Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna ed Italia- hanno i loro grattacapi

- gli arabi stanno smobilitando pezzi di fondi sovrani per far fronte alle rivolte acquistando massicci quantitativi di cereali e facendo qualche riforma (la sola Arabia Saudita ha impiegato 386 miliardi di dollari del suo fondo sovrano per far fronte alla situazione), quindi anche da questa parte non è probabile che venga chissà quale richiesta.

Qualche speranza può venire da Russia e Brasile che sono in una fase positiva per effetto dei ricavi sulle materie prime (soprattutto il gas russo), ma sin qui nessuno dei due ha mostrato la disponibilità a fare grandi acquisti di bond americani e non si vede che interesse politico possano avere ad investire sugli Usa in questa fase. Tanto più che nel caso –più che probabile- di una nuova recessione generalizzata, entrambi si troverebbero in difficoltà per la connessa caduta della domanda di commodities le cui esportazioni rappresentano la principale base delle rispettive economie. E in quel caso una eccessiva esposizione in titoli americani sarebbe solo un problema in più.

Lo spiraglio più promettente potrebbe venire da India e Sudafrica per ragioni diverse: il Sudafrica è in una fase molto positiva per l’impetuoso apprezzamento dell’oro e potrebbe avere qualche interesse a collocare parte della sua liquidità in quella direzione. L’India, invece, potrebbe avere interesse politico ad un riavvicinamento agli Usa, sia per le sue esportazioni sia in funzione antipakistana ed anticinese, approfittando del forte raffreddamento dei rapporti far Washington e Rawalpindi seguita alla vicenda Osama.

Ma, in entrambi i casi è da escludere che possa trattarsi di acquisti risolutivi. Dunque, tutto lascia intendere che la maggior parte di questi nuovi titoli resteranno invenduti. Per cui la soluzione sarà quella che ormai conosciamo a memoria: l’assorbimento da parte della Fed, con una nuova manovra di quantitative easing sostenuta dall’ennesima emissione di dollari. Per quanto tempo ancora potrà andare avanti questo giochetto?

Forse è arrivato il momento di dirci che gli Usa, tecnicamente sono già falliti. Qualche cifra? Calcolando il solo debito governativo, il debito pro capite degli Usa (compresi lattanti e moribondi) si aggira sui 50.000 dollari (circa 11.000 in più dell’analogo debito pro capite greco); aggiungendo i debiti dei singoli states, ed enti locali arriviamo a 70.000 dollari: considerando il totale del debito aggregato (cioè inclusivo di quello di aziende e famiglie) arriviamo a un po’ più di 160.000 dollari (S24 22.7.11/13). Il che significa che una famiglia media americana di tre persone ha un debito di circa mezzo milione di dollari. E, per di più, tutto lascia intendere che l’indebitamento sia privato che pubblico crescerà per effetto dell’alto tasso di disoccupazione, mentre è difficile immaginare a breve un miglioramento delle finanze pubbliche.

Obama parla di un taglio del disavanzo statale di circa 4.000 miliardi di dollari entro il 2014: non è una gran cifra se si considera che:

a- il disavanzo del bilancio governativo attuale è del 38%

b- che nei prossimi anni crescerà la pressione pensionistica sia per effetto ell’andata in pensione dei baby boomers, sia delle pensioni di invalidità a seguito delle missioni militari (soprattutto ma non solo Irak ed Afghanistan) e che il disavanzo previsto per la spesa pensionistica nei prossimi anni si valuta fra i 1.000 ed i 3.000 miliardi

c- che 42 dei 50 stati dell’unione già prevedono disavanzi fiscali per 103 miliardi di dollari per il 2012 e che altri 24 stati già prevedono ulteriore disavanzo per il 2013

d- che occorre pagare gli interessi sul debito precorso e che è facile prevedere possano aumentare per effetto di un possibile declassamento.

Fatti i dovuti calcoli, anche nella più favorevole delle ipotesi, resterebbe assai poco per riassorbire almeno in parte di debito precedente: calcolando molto ottimisticamente che al riassorbimento del debito possano andare 150-300 miliardi annuali, questo inciderebbe per l’1-2% sulla massa totale. Cioè, a parità di tutte le condizioni, da 50 a 100 anni per azzerare il debito. Ovviamente si tratta di calcoli puramente astratti.
Naturalmente la cosa sarebbe assai problematica se nel frattempo crescesse sensibilmente il Pil (e il relativo gettito fiscale) ma, almeno per ora, non sembra un obiettivo a portata di mano. Sembra, invece, probabile che nel prossimo futuro accada il contrario: che il Pil descresca per effetto di una nuova recessione. Nel qual caso il debito pubblico, pur restando fermo in valori assoluti, si avvierebbe rapidamente verso il 200% sul Pil.

Ma, per di più, l’intesa sul punto con i repubblicani, che controllano il Congresso, non sembra raggiunta e si parla di una “manovretta” da 1.500 miliardi, come dire che il debito, di fatto, crescerà per effetto degli interessi e degli aumenti previsti.
E non abbiamo considerato il debito privato che non si capisce come potrà essere restituito dai singoli americani.

Se si trattasse di una Grecia o di un Portogallo qualsiasi, da tempo le agenzie di rating avrebbero declassato il debito americano a CCC, cioè spazzatura. Ma gli Usa sono la più grande potenza finanziaria del mondo, ed una simile classificazione provocherebbe uno tsunami finanziario senza precedenti, altro che effetto “contagio” ateniese: la maggioranza degli Stati vedrebbero volatilizzarsi gran parte dei propri crediti, molte banche fra le maggiori del mondo fallirebbero, l’effetto domino sarebbe incontenibile e la crisi del 1929 ce la ricorderemmo come un innocuo mal di pancia. Per di più, gli Usa sono la più grande potenza militare del mondo ed un simile cataclisma avrebbe effetti incalcolabili anche sul piano degli equilibri politico-militari del Globo.
Insomma, siamo al solito too big to fail (troppo grossi per fallire). Ragion per cui abbiamo deciso tutti di far finta di niente e di prendere per oro colato le 3 A delle agenzie di rating. Va bene: sinchè l’orchestrina suona possiamo continuare a ballare, ma il bastimento su cui viaggiamo di chiama Titanic. Per quanto tempo ancora possiamo continuare con questa recita surrealista? Si badi che sul mercato già oggi i segnali dicono che la tripla A è una foglia di fico a cui bessuno crede: nel mese di luglio, il costo delle coperture assicurative sul debito americano (nel gergo i cd-swap) è arrivato a 45,7 punti mentre quello sui titoli sauditi (che hanno solo 2 A-) era decisamente inferiore ed addirittura, quello per i titoli indonesiani (BB+) valeva 39. Dunque assicurare un titolo americano oggi costa circa un sesto in più che assicurare un titolo indonesiano cpn classifica assai inferiore. Per assicurare il fallimento di 100 milioni di titoli americani, all’inizio dell’anno ci volevano circa 14.000 dollari, oggi ce ne vogliono 53.000.

D’accordo, si tratta di una impennata dovuta anche alle convulsioni della politica americana e destinata a rientrare dopo il 3 agosto, ma il segnale è troppo chiaro per non essere inteso: con andamenti di questo genere è facile prevedere che una parte degli investitori privati possano iniziare a non rinnovare i propri titoli (tripla A o non tripla A) e che la cosa potrebbe anche innescare un effetto a cascata per cui anche gli stati inizierebbero a valutare il rischio di essere quello che resta con il cerino acceso in mano.
Nessuno è mai tanto grosso da non fallire mai.
di Aldo Giannuli