04 agosto 2011

Debito USA: there is no way



Adesso il rischio è il downgrade del titolo di Stato. Nessuno si augura un nuovo conflitto militare, ma sappiamo che questa è una delle strade solitamente percorse dal governo per rilanciare l'economia. Obama ha dimostrato di essere una pedina sacrificabile agli interessi delle lobby.

Raggiunto negli Usa l'accordo
per l'innalzamento del tetto del debito. Un'intesa che allontana, almeno per il momento, il rischio default degli Usa, ma che non sembra placare i mercati, sui quali anche oggi si registrano importanti perdite. Per analizzare la situazione, abbiamo rivolto alcune domande all'economista Eugenio Benetazzo.



"Quello che è accaduto nella giornata di ieri per alcuni aspetti non è nulla di sorprendente in quanto nella storia degli Stati Uniti si sono già ripetuti in altri occasioni episodi similari in cui il tetto del debito rapportato al deficit è stato innalzato.
La domanda che ci dobbiamo fare è perché ancora una volta si decide di intraprendere questa strada, quella cioè di consentire un aumento dell'indebitamento per la confederazione degli Stati. La risposta è abbastanza ovvia, nel senso che non c'era altra via d'uscita, there was no way come dicono loro, nel senso che un mancato recepimento del nuovo tetto di indebitamento avrebbe prodotto una situazione di default degli Stati Uniti con conseguenze disastrose a livello planetario, al cui confronto la Lehman Brothers sarebbe stata un piccolo ricordo del passato.
Come molti di voi leggono e sanno il debito pubblico statunitense è detenuto in questo momento da vari interlocutori istituzionali che hanno un peso non irrilevante sullo scenario planetario, come la stessa Cina che è arrivata a contendersi il primato insieme al Giappone.
Pariteticamente a questo disegno si affianca anche la minaccia o il monito ricevuto dall'agenzia di rating Standard & Poor's alcuni mesi fa circa una possibile revisione dell'outlook economico per gli Stati Uniti e soprattutto di un'emissione di un downgrade del titolo di Stato e questo forse è l'aspetto più problematico che interessa direttamente il piccolo risparmiatore e investitore. Cosa significa la revisione del downgrade? Che l'obbligazione di Stato americana passerà dalla tripla A ad una doppia A, quindi perderà il primato di titolo più solido, uno tra i più solidi al mondo, sempre per chi crede in questo tipo di rendicontazione e garanzia legata alla capacità di rimettere un debito di un determinato soggetto. Quello che sta emergendo a livello planetario è che quello che 3 anni fa doveva essere sano e tutto sommato credibile nel medio e lungo termine, si sta dimostrando marcio, e sostanzialmente quasi tutto il mondo occidentale sta subendo una profonda rivisitazione della propria credibilità finanziaria e poi della stessa solidità. Paradossalmente invece in Oriente quelle che erano un tempo le aree considerate in via di sviluppo o paesi del terzo mondo hanno una qualità del credito e soprattutto un grado di indebitamento che è notevolmente inferiore rispetto alla media europea o a quella statunitense."

Cosa comporta questo accordo? Chi ne farà le spese?


"Comporta un ulteriore innalzamento della possibilità per la confederazione di aumentare il proprio livello di debito in questo momento accorpato da anni e anni di esercizio, le spese sono a carico della fiscalità diffusa, in quanto presuppongono un aumento degli oneri finanziari per l'aumento l'indebitamento dal punto di vista quantitativo e quindi si rifletteranno ahimè o con un aumento della tassazione o con una diminuzione della spesa pubblica. Purtroppo la strada che stanno percorrendo tantissimi paesi occidentali è sullo stesso binario, questo purtroppo è un problema di natura strutturale. Ad oggi forse ci dovrebbe essere un governo un po' più coraggioso che, anche a costo di minare il consenso dell'elettorato, avanzi proposte che facciano capire che per l'Occidente è arrivata la medicina amara o la pillola rossa come qualcuno l'ha definita, nel senso che non è più possibile continuare a mantenere in piedi il meccanismo di tutela e protezionismo e garantismo sociale che vige negli Stati Uniti come in Europa e andare a ridimensionare, drasticamente la spesa pubblica. Uno dei primi step operativi da mettere in piedi anche in Italia è la legge sul deficit di bilancio, non deve essere possibile per qualsiasi governo chiudere l'esercizio ogni anno fiscale con un deficit perché se noi continuiamo ad avere una macchina che drena costantemente risorse all'apparato statale è chiaro che nel medio e lungo termine non saremo mai in grado di assorbire il peso dell'indebitamento che si è andato a creare. L'unica exit strategy che in questo momento viene paventata anche da interessanti, prestigiosi contenitori mediatici internazionali e dalla stampa di settore sembra sia il ricorso all'inflazione. Oggi per chi governa in Occidente un'inflazione non dico galoppante ma comunque accentuata, quasi al 10% dal punto di vista reale potrebbe essere la soluzione per ridimensionare il peso del debito nei primi 3 o 4 anni, storicamente è quello che è accaduto soprattutto negli Stati Uniti. Quindi l'idea che circola è quella di inflazionare il mercato, aumentando ulteriormente il tetto del debito e della spesa, sapendo che da qui a 3 anni con i tassi di interesse ridotti a zero e un'inflazione che potrebbe viaggiare al 7, 8, 9% riuscirebbero a ridimensionare significativamente il peso del debito e quindi la crisi del debito sovrano che in questo momento, come abbiamo potuto vedere ha colpito tutto il mondo occidentale, facendo presagire che la strada più plausibile anche viste le politiche monetarie delle banche centrali, sia improntata a questo tipo di percorso."

Dopo l'11 Settembre gli Usa hanno incrementato i propri investimenti in armi sino a 500 miliardi di dollari all'anno, un terzo della spesa mondiale. Perché continuano a comprare armi malgrado la crisi? C'è il rischio che vogliano risollevarsi aprendo un nuovo fronte di guerra?


"L'economia statunitense ha come principale traino gli appalti alla difesa del dipartimento di Stato, quindi non è una novità il fatto che il paese per correre, per continuare a essere la locomotiva del pianeta ha bisogno di poter finanziare un conflitto in qualche parte del globo terrestre.
Adesso cominciano a emergere problematiche che sono strutturalmente ben diverse da quelle a cui erano abituati gli statunitensi, a cominciare dall'affiancamento di un player planetario, di cui avevano forse conteggiato male il potenziale, non tanto la Cina, ma proprio la "Cindonesia", questa macroarea geografica fatta da Cina e India e tutto il complesso indonesiano. Nessuno si augura l'aspettativa di un conflitto militare, ma sappiamo che questa è una delle strade solitamente percorse dal governo per non dico risanare, ma trainare, rilanciare l'economia interna. Non dimentichiamo quello che sta accadendo al Presidente sinora più osannato in assoluto, Obama, adesso probabilmente uno dei peggiori per sentiment popolare, peggiore addirittura di George Bush prima degli attentati dell'11 settembre. L'aspettativa che in questo momento sta emergendo nei confronti di Obama è che qualora si dovesse ripresentare, difficilmente sarà in grado di essere rieletto perché ha disatteso profondamente sia il programma politico che aveva presentato e soprattutto dimostrato che anche lui ahimè è una pedina sacrificabile che ha dovuto mettersi al servizio delle potenti lobby bancarie statunitensi e delle lobby militari che si occupano degli approvvigionamenti alla difesa."

Il default è stato davvero scongiurato o solo rinviato?


"Il default non se lo augura nessuno, perché un default degli Stati Uniti significherebbe azzerare, non ho idea di quanti trilioni di dollari di ricchezza sul pianeta. Certo, sarebbe un'operazione colpo di spugna che consentirebbe forse di ripartire con un'economia americana un po' più sgravata da incombenze e peso debitorio. E' plausibile aspettarsi anche per loro nei prossimi anni una ristrutturazione del debito a fronte in ogni caso di un downgrade, quindi una perdita di appeal, una perdita di solidità e credibilità finanziaria che oltretutto è già stata recentemente accennata. Quindi gli Stati Uniti hanno, per fortuna o per loro sorte, la capacità di poter intervenire per drenare le risorse finanziarie attraverso la fiscalità diffusa, molto più facilmente di come potrebbe avvenire nei paesi europei, Italia compresa. Un fallimento rappresenterebbe uno shock finanziario senza precedenti, perché metteremmo in discussione la prima economia del pianeta che a quel punto farebbe da esempio anche a altre, si potrebbe instaurare un meccanismo a catena con effetto domino di successive crisi a cascata. Non è nell'interesse di nessuno far fallire un paese, a meno che com'è capitato in passato, il paese nello specifico non riesca a dimostrare una propria capacità di reazione e non abbia soprattutto il peso, l'onere del debito pubblico che ha detenuto per la stragrande maggioranza da investitori istituzionali ed esteri, e così facendo crea il malcontento al di fuori dei confini nazionali e non quelli interni. Però prima di arrivare a una situazione di in questa portata ne dobbiamo vedere ancora di peggioramenti e di scenari, ricordiamo sempre comunque che gli Stati Uniti detengono la prima riserva aurea al mondo, oltre 12 mila tonnellate di oro che danno ancora una notevole credibilità alla confederazioni di stati, anche a fronte dello scenario che sta caratterizzando il prezzo del metallo giallo, costantemente in salita negli ultimi 5 anni."
di Eugenio Benetazzo

03 agosto 2011

Stati Uniti, come ti globalizzo il debito

http://www.rinascita.eu/mktumb640.php?image=1309538180.jpg
Non c’è niente di divertente per i cittadini nel sapere che il debito pubblico del proprio paese, gli Usa, sia giunto a dimensioni di dichiarazione di bancarotta (o “insolvenza” di cassa).
Il sinistro ticchettio di quell’orologio-contatore rivela come il debito sia già arrivato alla soglia “stellare” di 14.354 miliardi di dollari e che per di più continua a crescere imperterrito al ritmo di 3.810 milioni al giorno (più di due milioni e mezzo al minuto). Con il risultato che il comune cittadino (neonati compresi), è già caricato del cospicuo e preoccupante debito di circa $46.150 a cranio.

Ma si tratta di una farsa spettacolare. Il “tetto” dei 14 trilioni e mezzo di debito stabilito per lo scattare dello shut-down è infatti soltanto un tetto simbolico. La soglia potrebbe giungere a 15 o 16 trilioni, ma il giudizio, in termini finanziari sulle potenzialità del paese, cambierebbe poco o nulla.
Senza quell’artificioso (e pericoloso) limite le agenzie di rating valuterebbero il debito e l’economia Usa per quello che è, non per quello che dice un numero messo là a caso. E se non fosse per le “amicizie” e le “connivenze” che convivono nel sistema finanziario globale a favore degli Usa, il declassamento sarebbe già arrivato da un pezzo, perché il problema del debito pubblico non nasce certo il primo agosto 2011, ma quasi esattamente 10 anni fa, quando il nuovo presidente USA (Bush) decise di utilizzare il surplus del budget lasciato da Clinton per generosi sconti fiscali a tutti, ma in particolare alle classi più abbienti del paese (che non ne avevano certo bisogno).
Quindi tutta questa sceneggiata ha solo motivazioni politiche. Dato che però nel mondo non tutti sono disposti a “scherzare” su queste cose, potete scommettere che l’intesa su quanto alzare il tetto è scontata. Ma la paura amplificata artificialmente dai media, sarà sufficiente a far digerire all’inconsapevole cittadino la “purga” micidiale di qualche trilione di dollari di tagli alle spese sociali (ricordo che 1 trilione vale mille miliardi). E Obama firmerà senza batter ciglio la nuova legge e il nuovo tetto.
Vediamo di riassumere brevemente dove sono stati spesi grossomodo questi 14 trilioni di debito. Circa 3 trilioni sono arrivati in eredità da Clinton. Un debito normale per gli States, considerando anche il budget lasciato in surplus, cioè le entrate di cassa superavano le uscite (con quel trend il debito sarebbe stato azzerato nel giro di qualche anno). 2 o 3 trilioni si sono aggiunti per il costo degli sconti fiscali concessi da Bush (e adesso da Obama) in dieci anni. 5 o 6 trilioni (o più) sono il costo delle guerre in Iraq e Afganistan.
Da 2 a 4 sono le spese sostenute per la crisi finanziaria del 2008. Cioè soldi per sostenere la liquidità del sistema, ovvero le banche, e in minima parte il sostegno sociale alla disoccupazione e il naturale incremento dei costi legati alla sanità pubblica.
Pertanto la parte di debito per costi sociali è soltanto di due o tre trilioni, che verrebbero tranquillamente coperti recuperando gli sconti fiscali concessi da Bush ai benestanti. Gli altri sono denari che qualcuno si è messo in tasca arricchendosi smisuratamente a colpi di guerre e di spregiudicate speculazioni finanziarie, e che adesso lo sprovveduto cittadino è chiamato a rifondere per intero.
Con l’approvazione del Congresso su spartito orchestrato ad arte dai repubblicani con il beneplacito dei democratici e grazie alla firma conclusiva di Obama sull’ingegnoso misfatto.
di Roberto Marchesi

02 agosto 2011

La Germania sotto il ricatto della finanza



Alcuni affermano che la Merkel avrebbe «commissariato» l'Italia, ma non si domandano che cosa stia accadendo in Germania.
Chi comanda a Berlino? Le banche o la politica? Non è una domanda retorica. Probabilmente da questo scontro dipende il futuro dell'euro e dell'Unione europea.
È noto che i settori dell'economia reale tedesca sono forti e in notevole espansione dopo il rallentamento imposto dalla grande crisi.
Ma è altrettanto risaputo che le banche tedesche sono tra le più esposte al rischio del debito sovrano dei paesi europei in difficoltà. Per non parlare della rilevante quota dei loro titoli derivati speculativi.
Nel continente europeo le banche tedesche sono state tra le prime e tra le più aggressive a seguire l'esempio di quelle americane e inglesi sulla strada della finanza allegra, dei titoli strutturati e dei derivati. Secondo la Bafin, l'equivalente della nostra Consob, esse hanno in pancia oltre 800 miliardi di euro di titoli tossici.
Gli ultimi stress test voluti dall'European Banking Authority non danno pagelle esaltanti alle banche tedesche, soprattutto a quelle semipubbliche dei Laender, le Regioni della Germania.
La Helaba, la banca dell'Assia-Turingia, ha rifiutato, in polemica con i metodi di analisi usati, di pubblicare i risultati. Il suo «capital core» sarebbe del 3,9%, ben al di sotto del 5% minimo richiesto.
Altre due Landesbank, la Hsh di Amburgo e la Norddeutsche della Bassa Sassonia, hanno superato di poco la soglia del 5%, mentre la Deutsche Bank, la più importante banca privata tedesca, ha raggiunto il livello del 6,5%. Non straordinario.
L'analisi geoeconomica e geopolitica fatta dalla Deutsche Bank merita un'attenta riflessione. Nel suo bollettino «Global Economic Perspectives» di fine giugno la Db, di fronte alle attuali difficoltà dell'euro, ha espresso un duro «no» all'idea di un unico ministero delle finanze europeo e, quindi, alla costruzione di un'unione politica.
Si afferma che nel dopoguerra l'alleanza franco-tedesca e la stessa unità europea furono determinate dalla paura di un nuovo conflitto e dal desiderio di mantenere la pace. Però nell'asse duale franco-tedesco la Francia comandava e la Germania seguiva e pagava.
Con la caduta del Muro di Berlino queste condizione e queste ragioni vennero meno. Infatti l'ulteriore processo di unione monetaria è stato esclusivamente guidato dai vantaggi economici dei suoi membri e non dalla forte volontà politica di costruire un Europa realmente unita.
Il bollettino ci ricorda anche che, come contropartita per la riunificazione tedesca, François Mitterand richiese l'abbandono del marco in favore di una moneta unica europea. I successivi e crescenti profondi squilibri fiscali tra gli stati dell'Ue e la conseguente monetizzazione dei deficit sono diventati, secondo la Db, le cause principali del suo fallimento.
Il Trattato di Maastricht, su pressioni tedesche, impose la responsabilità degli stati membri per tutte le loro decisioni finanziarie e volle una Bce indipendente a guardia contro l'inflazione. Dopo la crisi finanziaria del 2007, sta scritto nel citato bollettino, la Bce però avrebbe violato questi principi salvando prima le banche e poi gli Stati in difficoltà.
La Db attacca quindi la Bce per aver violato l'articolo 125 dello Statuto di Maastricht che proibisce il bail-out, il salvataggio di paesi in difficoltà. Però, in stridente contraddizione, si lamenta il fatto che la Banca centrale europea non abbia iniettato sufficiente capitale nelle banche in crisi per riportarle ad uno stato di salute. Ciò avrebbe creato una rete di «banche dipendenti» dagli aiuti della Bce, che è diventata il garante di interi sistemi bancari.
Alla domanda se proseguire o tornare indietro nel processo di unione europea, la Db, contro l'unione politica, sostiene un semplice ritorno ai vecchi criteri di Maastricht. Su questo terreno essa attacca la leadership politica tedesca ed europea. Un mero ritorno a Maastricht, secondo noi, sarebbe invece l'apripista per una definitiva dissoluzione dell'Ue.
Stando all'analisi della Db, non si salverebbe nemmeno l'alleanza franco-tedesca i cui leader non sono più in sintonia come prima del 1989.
Per decenni la Deutsche Bank è stata una fucina intellettuale di innovazione economica e anche politica della Germania. Alfred Herrhausen, presidente della banca al momento della caduta del Muro, seppe leggere, in sintonia con il cancelliere Helmut Kohl, i processi della storia e anticiparne anche i cambiamenti. Venne ucciso in un attentato per mano ancora ignota.
Allora la Deutsche Bank rappresentava la finanza tedesca strettamente legata ai settori strategici dell'industria. Oggi essa è a pieno titolo un caposaldo della finanza globale, che reagisce più agli stimoli della City che agli interessi della Germania e dell'Ue. Ecco perché guida la «cordata» della finanza contro il primato della politica, che molti a Berlino per fortuna ancora vogliono.
di Mario Lettieri e Paolo Raimondi

04 agosto 2011

Debito USA: there is no way



Adesso il rischio è il downgrade del titolo di Stato. Nessuno si augura un nuovo conflitto militare, ma sappiamo che questa è una delle strade solitamente percorse dal governo per rilanciare l'economia. Obama ha dimostrato di essere una pedina sacrificabile agli interessi delle lobby.

Raggiunto negli Usa l'accordo
per l'innalzamento del tetto del debito. Un'intesa che allontana, almeno per il momento, il rischio default degli Usa, ma che non sembra placare i mercati, sui quali anche oggi si registrano importanti perdite. Per analizzare la situazione, abbiamo rivolto alcune domande all'economista Eugenio Benetazzo.



"Quello che è accaduto nella giornata di ieri per alcuni aspetti non è nulla di sorprendente in quanto nella storia degli Stati Uniti si sono già ripetuti in altri occasioni episodi similari in cui il tetto del debito rapportato al deficit è stato innalzato.
La domanda che ci dobbiamo fare è perché ancora una volta si decide di intraprendere questa strada, quella cioè di consentire un aumento dell'indebitamento per la confederazione degli Stati. La risposta è abbastanza ovvia, nel senso che non c'era altra via d'uscita, there was no way come dicono loro, nel senso che un mancato recepimento del nuovo tetto di indebitamento avrebbe prodotto una situazione di default degli Stati Uniti con conseguenze disastrose a livello planetario, al cui confronto la Lehman Brothers sarebbe stata un piccolo ricordo del passato.
Come molti di voi leggono e sanno il debito pubblico statunitense è detenuto in questo momento da vari interlocutori istituzionali che hanno un peso non irrilevante sullo scenario planetario, come la stessa Cina che è arrivata a contendersi il primato insieme al Giappone.
Pariteticamente a questo disegno si affianca anche la minaccia o il monito ricevuto dall'agenzia di rating Standard & Poor's alcuni mesi fa circa una possibile revisione dell'outlook economico per gli Stati Uniti e soprattutto di un'emissione di un downgrade del titolo di Stato e questo forse è l'aspetto più problematico che interessa direttamente il piccolo risparmiatore e investitore. Cosa significa la revisione del downgrade? Che l'obbligazione di Stato americana passerà dalla tripla A ad una doppia A, quindi perderà il primato di titolo più solido, uno tra i più solidi al mondo, sempre per chi crede in questo tipo di rendicontazione e garanzia legata alla capacità di rimettere un debito di un determinato soggetto. Quello che sta emergendo a livello planetario è che quello che 3 anni fa doveva essere sano e tutto sommato credibile nel medio e lungo termine, si sta dimostrando marcio, e sostanzialmente quasi tutto il mondo occidentale sta subendo una profonda rivisitazione della propria credibilità finanziaria e poi della stessa solidità. Paradossalmente invece in Oriente quelle che erano un tempo le aree considerate in via di sviluppo o paesi del terzo mondo hanno una qualità del credito e soprattutto un grado di indebitamento che è notevolmente inferiore rispetto alla media europea o a quella statunitense."

Cosa comporta questo accordo? Chi ne farà le spese?


"Comporta un ulteriore innalzamento della possibilità per la confederazione di aumentare il proprio livello di debito in questo momento accorpato da anni e anni di esercizio, le spese sono a carico della fiscalità diffusa, in quanto presuppongono un aumento degli oneri finanziari per l'aumento l'indebitamento dal punto di vista quantitativo e quindi si rifletteranno ahimè o con un aumento della tassazione o con una diminuzione della spesa pubblica. Purtroppo la strada che stanno percorrendo tantissimi paesi occidentali è sullo stesso binario, questo purtroppo è un problema di natura strutturale. Ad oggi forse ci dovrebbe essere un governo un po' più coraggioso che, anche a costo di minare il consenso dell'elettorato, avanzi proposte che facciano capire che per l'Occidente è arrivata la medicina amara o la pillola rossa come qualcuno l'ha definita, nel senso che non è più possibile continuare a mantenere in piedi il meccanismo di tutela e protezionismo e garantismo sociale che vige negli Stati Uniti come in Europa e andare a ridimensionare, drasticamente la spesa pubblica. Uno dei primi step operativi da mettere in piedi anche in Italia è la legge sul deficit di bilancio, non deve essere possibile per qualsiasi governo chiudere l'esercizio ogni anno fiscale con un deficit perché se noi continuiamo ad avere una macchina che drena costantemente risorse all'apparato statale è chiaro che nel medio e lungo termine non saremo mai in grado di assorbire il peso dell'indebitamento che si è andato a creare. L'unica exit strategy che in questo momento viene paventata anche da interessanti, prestigiosi contenitori mediatici internazionali e dalla stampa di settore sembra sia il ricorso all'inflazione. Oggi per chi governa in Occidente un'inflazione non dico galoppante ma comunque accentuata, quasi al 10% dal punto di vista reale potrebbe essere la soluzione per ridimensionare il peso del debito nei primi 3 o 4 anni, storicamente è quello che è accaduto soprattutto negli Stati Uniti. Quindi l'idea che circola è quella di inflazionare il mercato, aumentando ulteriormente il tetto del debito e della spesa, sapendo che da qui a 3 anni con i tassi di interesse ridotti a zero e un'inflazione che potrebbe viaggiare al 7, 8, 9% riuscirebbero a ridimensionare significativamente il peso del debito e quindi la crisi del debito sovrano che in questo momento, come abbiamo potuto vedere ha colpito tutto il mondo occidentale, facendo presagire che la strada più plausibile anche viste le politiche monetarie delle banche centrali, sia improntata a questo tipo di percorso."

Dopo l'11 Settembre gli Usa hanno incrementato i propri investimenti in armi sino a 500 miliardi di dollari all'anno, un terzo della spesa mondiale. Perché continuano a comprare armi malgrado la crisi? C'è il rischio che vogliano risollevarsi aprendo un nuovo fronte di guerra?


"L'economia statunitense ha come principale traino gli appalti alla difesa del dipartimento di Stato, quindi non è una novità il fatto che il paese per correre, per continuare a essere la locomotiva del pianeta ha bisogno di poter finanziare un conflitto in qualche parte del globo terrestre.
Adesso cominciano a emergere problematiche che sono strutturalmente ben diverse da quelle a cui erano abituati gli statunitensi, a cominciare dall'affiancamento di un player planetario, di cui avevano forse conteggiato male il potenziale, non tanto la Cina, ma proprio la "Cindonesia", questa macroarea geografica fatta da Cina e India e tutto il complesso indonesiano. Nessuno si augura l'aspettativa di un conflitto militare, ma sappiamo che questa è una delle strade solitamente percorse dal governo per non dico risanare, ma trainare, rilanciare l'economia interna. Non dimentichiamo quello che sta accadendo al Presidente sinora più osannato in assoluto, Obama, adesso probabilmente uno dei peggiori per sentiment popolare, peggiore addirittura di George Bush prima degli attentati dell'11 settembre. L'aspettativa che in questo momento sta emergendo nei confronti di Obama è che qualora si dovesse ripresentare, difficilmente sarà in grado di essere rieletto perché ha disatteso profondamente sia il programma politico che aveva presentato e soprattutto dimostrato che anche lui ahimè è una pedina sacrificabile che ha dovuto mettersi al servizio delle potenti lobby bancarie statunitensi e delle lobby militari che si occupano degli approvvigionamenti alla difesa."

Il default è stato davvero scongiurato o solo rinviato?


"Il default non se lo augura nessuno, perché un default degli Stati Uniti significherebbe azzerare, non ho idea di quanti trilioni di dollari di ricchezza sul pianeta. Certo, sarebbe un'operazione colpo di spugna che consentirebbe forse di ripartire con un'economia americana un po' più sgravata da incombenze e peso debitorio. E' plausibile aspettarsi anche per loro nei prossimi anni una ristrutturazione del debito a fronte in ogni caso di un downgrade, quindi una perdita di appeal, una perdita di solidità e credibilità finanziaria che oltretutto è già stata recentemente accennata. Quindi gli Stati Uniti hanno, per fortuna o per loro sorte, la capacità di poter intervenire per drenare le risorse finanziarie attraverso la fiscalità diffusa, molto più facilmente di come potrebbe avvenire nei paesi europei, Italia compresa. Un fallimento rappresenterebbe uno shock finanziario senza precedenti, perché metteremmo in discussione la prima economia del pianeta che a quel punto farebbe da esempio anche a altre, si potrebbe instaurare un meccanismo a catena con effetto domino di successive crisi a cascata. Non è nell'interesse di nessuno far fallire un paese, a meno che com'è capitato in passato, il paese nello specifico non riesca a dimostrare una propria capacità di reazione e non abbia soprattutto il peso, l'onere del debito pubblico che ha detenuto per la stragrande maggioranza da investitori istituzionali ed esteri, e così facendo crea il malcontento al di fuori dei confini nazionali e non quelli interni. Però prima di arrivare a una situazione di in questa portata ne dobbiamo vedere ancora di peggioramenti e di scenari, ricordiamo sempre comunque che gli Stati Uniti detengono la prima riserva aurea al mondo, oltre 12 mila tonnellate di oro che danno ancora una notevole credibilità alla confederazioni di stati, anche a fronte dello scenario che sta caratterizzando il prezzo del metallo giallo, costantemente in salita negli ultimi 5 anni."
di Eugenio Benetazzo

03 agosto 2011

Stati Uniti, come ti globalizzo il debito

http://www.rinascita.eu/mktumb640.php?image=1309538180.jpg
Non c’è niente di divertente per i cittadini nel sapere che il debito pubblico del proprio paese, gli Usa, sia giunto a dimensioni di dichiarazione di bancarotta (o “insolvenza” di cassa).
Il sinistro ticchettio di quell’orologio-contatore rivela come il debito sia già arrivato alla soglia “stellare” di 14.354 miliardi di dollari e che per di più continua a crescere imperterrito al ritmo di 3.810 milioni al giorno (più di due milioni e mezzo al minuto). Con il risultato che il comune cittadino (neonati compresi), è già caricato del cospicuo e preoccupante debito di circa $46.150 a cranio.

Ma si tratta di una farsa spettacolare. Il “tetto” dei 14 trilioni e mezzo di debito stabilito per lo scattare dello shut-down è infatti soltanto un tetto simbolico. La soglia potrebbe giungere a 15 o 16 trilioni, ma il giudizio, in termini finanziari sulle potenzialità del paese, cambierebbe poco o nulla.
Senza quell’artificioso (e pericoloso) limite le agenzie di rating valuterebbero il debito e l’economia Usa per quello che è, non per quello che dice un numero messo là a caso. E se non fosse per le “amicizie” e le “connivenze” che convivono nel sistema finanziario globale a favore degli Usa, il declassamento sarebbe già arrivato da un pezzo, perché il problema del debito pubblico non nasce certo il primo agosto 2011, ma quasi esattamente 10 anni fa, quando il nuovo presidente USA (Bush) decise di utilizzare il surplus del budget lasciato da Clinton per generosi sconti fiscali a tutti, ma in particolare alle classi più abbienti del paese (che non ne avevano certo bisogno).
Quindi tutta questa sceneggiata ha solo motivazioni politiche. Dato che però nel mondo non tutti sono disposti a “scherzare” su queste cose, potete scommettere che l’intesa su quanto alzare il tetto è scontata. Ma la paura amplificata artificialmente dai media, sarà sufficiente a far digerire all’inconsapevole cittadino la “purga” micidiale di qualche trilione di dollari di tagli alle spese sociali (ricordo che 1 trilione vale mille miliardi). E Obama firmerà senza batter ciglio la nuova legge e il nuovo tetto.
Vediamo di riassumere brevemente dove sono stati spesi grossomodo questi 14 trilioni di debito. Circa 3 trilioni sono arrivati in eredità da Clinton. Un debito normale per gli States, considerando anche il budget lasciato in surplus, cioè le entrate di cassa superavano le uscite (con quel trend il debito sarebbe stato azzerato nel giro di qualche anno). 2 o 3 trilioni si sono aggiunti per il costo degli sconti fiscali concessi da Bush (e adesso da Obama) in dieci anni. 5 o 6 trilioni (o più) sono il costo delle guerre in Iraq e Afganistan.
Da 2 a 4 sono le spese sostenute per la crisi finanziaria del 2008. Cioè soldi per sostenere la liquidità del sistema, ovvero le banche, e in minima parte il sostegno sociale alla disoccupazione e il naturale incremento dei costi legati alla sanità pubblica.
Pertanto la parte di debito per costi sociali è soltanto di due o tre trilioni, che verrebbero tranquillamente coperti recuperando gli sconti fiscali concessi da Bush ai benestanti. Gli altri sono denari che qualcuno si è messo in tasca arricchendosi smisuratamente a colpi di guerre e di spregiudicate speculazioni finanziarie, e che adesso lo sprovveduto cittadino è chiamato a rifondere per intero.
Con l’approvazione del Congresso su spartito orchestrato ad arte dai repubblicani con il beneplacito dei democratici e grazie alla firma conclusiva di Obama sull’ingegnoso misfatto.
di Roberto Marchesi

02 agosto 2011

La Germania sotto il ricatto della finanza



Alcuni affermano che la Merkel avrebbe «commissariato» l'Italia, ma non si domandano che cosa stia accadendo in Germania.
Chi comanda a Berlino? Le banche o la politica? Non è una domanda retorica. Probabilmente da questo scontro dipende il futuro dell'euro e dell'Unione europea.
È noto che i settori dell'economia reale tedesca sono forti e in notevole espansione dopo il rallentamento imposto dalla grande crisi.
Ma è altrettanto risaputo che le banche tedesche sono tra le più esposte al rischio del debito sovrano dei paesi europei in difficoltà. Per non parlare della rilevante quota dei loro titoli derivati speculativi.
Nel continente europeo le banche tedesche sono state tra le prime e tra le più aggressive a seguire l'esempio di quelle americane e inglesi sulla strada della finanza allegra, dei titoli strutturati e dei derivati. Secondo la Bafin, l'equivalente della nostra Consob, esse hanno in pancia oltre 800 miliardi di euro di titoli tossici.
Gli ultimi stress test voluti dall'European Banking Authority non danno pagelle esaltanti alle banche tedesche, soprattutto a quelle semipubbliche dei Laender, le Regioni della Germania.
La Helaba, la banca dell'Assia-Turingia, ha rifiutato, in polemica con i metodi di analisi usati, di pubblicare i risultati. Il suo «capital core» sarebbe del 3,9%, ben al di sotto del 5% minimo richiesto.
Altre due Landesbank, la Hsh di Amburgo e la Norddeutsche della Bassa Sassonia, hanno superato di poco la soglia del 5%, mentre la Deutsche Bank, la più importante banca privata tedesca, ha raggiunto il livello del 6,5%. Non straordinario.
L'analisi geoeconomica e geopolitica fatta dalla Deutsche Bank merita un'attenta riflessione. Nel suo bollettino «Global Economic Perspectives» di fine giugno la Db, di fronte alle attuali difficoltà dell'euro, ha espresso un duro «no» all'idea di un unico ministero delle finanze europeo e, quindi, alla costruzione di un'unione politica.
Si afferma che nel dopoguerra l'alleanza franco-tedesca e la stessa unità europea furono determinate dalla paura di un nuovo conflitto e dal desiderio di mantenere la pace. Però nell'asse duale franco-tedesco la Francia comandava e la Germania seguiva e pagava.
Con la caduta del Muro di Berlino queste condizione e queste ragioni vennero meno. Infatti l'ulteriore processo di unione monetaria è stato esclusivamente guidato dai vantaggi economici dei suoi membri e non dalla forte volontà politica di costruire un Europa realmente unita.
Il bollettino ci ricorda anche che, come contropartita per la riunificazione tedesca, François Mitterand richiese l'abbandono del marco in favore di una moneta unica europea. I successivi e crescenti profondi squilibri fiscali tra gli stati dell'Ue e la conseguente monetizzazione dei deficit sono diventati, secondo la Db, le cause principali del suo fallimento.
Il Trattato di Maastricht, su pressioni tedesche, impose la responsabilità degli stati membri per tutte le loro decisioni finanziarie e volle una Bce indipendente a guardia contro l'inflazione. Dopo la crisi finanziaria del 2007, sta scritto nel citato bollettino, la Bce però avrebbe violato questi principi salvando prima le banche e poi gli Stati in difficoltà.
La Db attacca quindi la Bce per aver violato l'articolo 125 dello Statuto di Maastricht che proibisce il bail-out, il salvataggio di paesi in difficoltà. Però, in stridente contraddizione, si lamenta il fatto che la Banca centrale europea non abbia iniettato sufficiente capitale nelle banche in crisi per riportarle ad uno stato di salute. Ciò avrebbe creato una rete di «banche dipendenti» dagli aiuti della Bce, che è diventata il garante di interi sistemi bancari.
Alla domanda se proseguire o tornare indietro nel processo di unione europea, la Db, contro l'unione politica, sostiene un semplice ritorno ai vecchi criteri di Maastricht. Su questo terreno essa attacca la leadership politica tedesca ed europea. Un mero ritorno a Maastricht, secondo noi, sarebbe invece l'apripista per una definitiva dissoluzione dell'Ue.
Stando all'analisi della Db, non si salverebbe nemmeno l'alleanza franco-tedesca i cui leader non sono più in sintonia come prima del 1989.
Per decenni la Deutsche Bank è stata una fucina intellettuale di innovazione economica e anche politica della Germania. Alfred Herrhausen, presidente della banca al momento della caduta del Muro, seppe leggere, in sintonia con il cancelliere Helmut Kohl, i processi della storia e anticiparne anche i cambiamenti. Venne ucciso in un attentato per mano ancora ignota.
Allora la Deutsche Bank rappresentava la finanza tedesca strettamente legata ai settori strategici dell'industria. Oggi essa è a pieno titolo un caposaldo della finanza globale, che reagisce più agli stimoli della City che agli interessi della Germania e dell'Ue. Ecco perché guida la «cordata» della finanza contro il primato della politica, che molti a Berlino per fortuna ancora vogliono.
di Mario Lettieri e Paolo Raimondi