02 agosto 2011

La Germania sotto il ricatto della finanza



Alcuni affermano che la Merkel avrebbe «commissariato» l'Italia, ma non si domandano che cosa stia accadendo in Germania.
Chi comanda a Berlino? Le banche o la politica? Non è una domanda retorica. Probabilmente da questo scontro dipende il futuro dell'euro e dell'Unione europea.
È noto che i settori dell'economia reale tedesca sono forti e in notevole espansione dopo il rallentamento imposto dalla grande crisi.
Ma è altrettanto risaputo che le banche tedesche sono tra le più esposte al rischio del debito sovrano dei paesi europei in difficoltà. Per non parlare della rilevante quota dei loro titoli derivati speculativi.
Nel continente europeo le banche tedesche sono state tra le prime e tra le più aggressive a seguire l'esempio di quelle americane e inglesi sulla strada della finanza allegra, dei titoli strutturati e dei derivati. Secondo la Bafin, l'equivalente della nostra Consob, esse hanno in pancia oltre 800 miliardi di euro di titoli tossici.
Gli ultimi stress test voluti dall'European Banking Authority non danno pagelle esaltanti alle banche tedesche, soprattutto a quelle semipubbliche dei Laender, le Regioni della Germania.
La Helaba, la banca dell'Assia-Turingia, ha rifiutato, in polemica con i metodi di analisi usati, di pubblicare i risultati. Il suo «capital core» sarebbe del 3,9%, ben al di sotto del 5% minimo richiesto.
Altre due Landesbank, la Hsh di Amburgo e la Norddeutsche della Bassa Sassonia, hanno superato di poco la soglia del 5%, mentre la Deutsche Bank, la più importante banca privata tedesca, ha raggiunto il livello del 6,5%. Non straordinario.
L'analisi geoeconomica e geopolitica fatta dalla Deutsche Bank merita un'attenta riflessione. Nel suo bollettino «Global Economic Perspectives» di fine giugno la Db, di fronte alle attuali difficoltà dell'euro, ha espresso un duro «no» all'idea di un unico ministero delle finanze europeo e, quindi, alla costruzione di un'unione politica.
Si afferma che nel dopoguerra l'alleanza franco-tedesca e la stessa unità europea furono determinate dalla paura di un nuovo conflitto e dal desiderio di mantenere la pace. Però nell'asse duale franco-tedesco la Francia comandava e la Germania seguiva e pagava.
Con la caduta del Muro di Berlino queste condizione e queste ragioni vennero meno. Infatti l'ulteriore processo di unione monetaria è stato esclusivamente guidato dai vantaggi economici dei suoi membri e non dalla forte volontà politica di costruire un Europa realmente unita.
Il bollettino ci ricorda anche che, come contropartita per la riunificazione tedesca, François Mitterand richiese l'abbandono del marco in favore di una moneta unica europea. I successivi e crescenti profondi squilibri fiscali tra gli stati dell'Ue e la conseguente monetizzazione dei deficit sono diventati, secondo la Db, le cause principali del suo fallimento.
Il Trattato di Maastricht, su pressioni tedesche, impose la responsabilità degli stati membri per tutte le loro decisioni finanziarie e volle una Bce indipendente a guardia contro l'inflazione. Dopo la crisi finanziaria del 2007, sta scritto nel citato bollettino, la Bce però avrebbe violato questi principi salvando prima le banche e poi gli Stati in difficoltà.
La Db attacca quindi la Bce per aver violato l'articolo 125 dello Statuto di Maastricht che proibisce il bail-out, il salvataggio di paesi in difficoltà. Però, in stridente contraddizione, si lamenta il fatto che la Banca centrale europea non abbia iniettato sufficiente capitale nelle banche in crisi per riportarle ad uno stato di salute. Ciò avrebbe creato una rete di «banche dipendenti» dagli aiuti della Bce, che è diventata il garante di interi sistemi bancari.
Alla domanda se proseguire o tornare indietro nel processo di unione europea, la Db, contro l'unione politica, sostiene un semplice ritorno ai vecchi criteri di Maastricht. Su questo terreno essa attacca la leadership politica tedesca ed europea. Un mero ritorno a Maastricht, secondo noi, sarebbe invece l'apripista per una definitiva dissoluzione dell'Ue.
Stando all'analisi della Db, non si salverebbe nemmeno l'alleanza franco-tedesca i cui leader non sono più in sintonia come prima del 1989.
Per decenni la Deutsche Bank è stata una fucina intellettuale di innovazione economica e anche politica della Germania. Alfred Herrhausen, presidente della banca al momento della caduta del Muro, seppe leggere, in sintonia con il cancelliere Helmut Kohl, i processi della storia e anticiparne anche i cambiamenti. Venne ucciso in un attentato per mano ancora ignota.
Allora la Deutsche Bank rappresentava la finanza tedesca strettamente legata ai settori strategici dell'industria. Oggi essa è a pieno titolo un caposaldo della finanza globale, che reagisce più agli stimoli della City che agli interessi della Germania e dell'Ue. Ecco perché guida la «cordata» della finanza contro il primato della politica, che molti a Berlino per fortuna ancora vogliono.
di Mario Lettieri e Paolo Raimondi

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02 agosto 2011

La Germania sotto il ricatto della finanza



Alcuni affermano che la Merkel avrebbe «commissariato» l'Italia, ma non si domandano che cosa stia accadendo in Germania.
Chi comanda a Berlino? Le banche o la politica? Non è una domanda retorica. Probabilmente da questo scontro dipende il futuro dell'euro e dell'Unione europea.
È noto che i settori dell'economia reale tedesca sono forti e in notevole espansione dopo il rallentamento imposto dalla grande crisi.
Ma è altrettanto risaputo che le banche tedesche sono tra le più esposte al rischio del debito sovrano dei paesi europei in difficoltà. Per non parlare della rilevante quota dei loro titoli derivati speculativi.
Nel continente europeo le banche tedesche sono state tra le prime e tra le più aggressive a seguire l'esempio di quelle americane e inglesi sulla strada della finanza allegra, dei titoli strutturati e dei derivati. Secondo la Bafin, l'equivalente della nostra Consob, esse hanno in pancia oltre 800 miliardi di euro di titoli tossici.
Gli ultimi stress test voluti dall'European Banking Authority non danno pagelle esaltanti alle banche tedesche, soprattutto a quelle semipubbliche dei Laender, le Regioni della Germania.
La Helaba, la banca dell'Assia-Turingia, ha rifiutato, in polemica con i metodi di analisi usati, di pubblicare i risultati. Il suo «capital core» sarebbe del 3,9%, ben al di sotto del 5% minimo richiesto.
Altre due Landesbank, la Hsh di Amburgo e la Norddeutsche della Bassa Sassonia, hanno superato di poco la soglia del 5%, mentre la Deutsche Bank, la più importante banca privata tedesca, ha raggiunto il livello del 6,5%. Non straordinario.
L'analisi geoeconomica e geopolitica fatta dalla Deutsche Bank merita un'attenta riflessione. Nel suo bollettino «Global Economic Perspectives» di fine giugno la Db, di fronte alle attuali difficoltà dell'euro, ha espresso un duro «no» all'idea di un unico ministero delle finanze europeo e, quindi, alla costruzione di un'unione politica.
Si afferma che nel dopoguerra l'alleanza franco-tedesca e la stessa unità europea furono determinate dalla paura di un nuovo conflitto e dal desiderio di mantenere la pace. Però nell'asse duale franco-tedesco la Francia comandava e la Germania seguiva e pagava.
Con la caduta del Muro di Berlino queste condizione e queste ragioni vennero meno. Infatti l'ulteriore processo di unione monetaria è stato esclusivamente guidato dai vantaggi economici dei suoi membri e non dalla forte volontà politica di costruire un Europa realmente unita.
Il bollettino ci ricorda anche che, come contropartita per la riunificazione tedesca, François Mitterand richiese l'abbandono del marco in favore di una moneta unica europea. I successivi e crescenti profondi squilibri fiscali tra gli stati dell'Ue e la conseguente monetizzazione dei deficit sono diventati, secondo la Db, le cause principali del suo fallimento.
Il Trattato di Maastricht, su pressioni tedesche, impose la responsabilità degli stati membri per tutte le loro decisioni finanziarie e volle una Bce indipendente a guardia contro l'inflazione. Dopo la crisi finanziaria del 2007, sta scritto nel citato bollettino, la Bce però avrebbe violato questi principi salvando prima le banche e poi gli Stati in difficoltà.
La Db attacca quindi la Bce per aver violato l'articolo 125 dello Statuto di Maastricht che proibisce il bail-out, il salvataggio di paesi in difficoltà. Però, in stridente contraddizione, si lamenta il fatto che la Banca centrale europea non abbia iniettato sufficiente capitale nelle banche in crisi per riportarle ad uno stato di salute. Ciò avrebbe creato una rete di «banche dipendenti» dagli aiuti della Bce, che è diventata il garante di interi sistemi bancari.
Alla domanda se proseguire o tornare indietro nel processo di unione europea, la Db, contro l'unione politica, sostiene un semplice ritorno ai vecchi criteri di Maastricht. Su questo terreno essa attacca la leadership politica tedesca ed europea. Un mero ritorno a Maastricht, secondo noi, sarebbe invece l'apripista per una definitiva dissoluzione dell'Ue.
Stando all'analisi della Db, non si salverebbe nemmeno l'alleanza franco-tedesca i cui leader non sono più in sintonia come prima del 1989.
Per decenni la Deutsche Bank è stata una fucina intellettuale di innovazione economica e anche politica della Germania. Alfred Herrhausen, presidente della banca al momento della caduta del Muro, seppe leggere, in sintonia con il cancelliere Helmut Kohl, i processi della storia e anticiparne anche i cambiamenti. Venne ucciso in un attentato per mano ancora ignota.
Allora la Deutsche Bank rappresentava la finanza tedesca strettamente legata ai settori strategici dell'industria. Oggi essa è a pieno titolo un caposaldo della finanza globale, che reagisce più agli stimoli della City che agli interessi della Germania e dell'Ue. Ecco perché guida la «cordata» della finanza contro il primato della politica, che molti a Berlino per fortuna ancora vogliono.
di Mario Lettieri e Paolo Raimondi

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