![]() Uno dei lavori della Convenzione sul Cambiamento Climatico delle Nazioni Unite, che è in corso di svolgimento a Durban in Sud Africa (il vertice si è concluso il 9 dicembre ndr), è quello di estendere le decisioni politiche precedenti, che sono limitate e solo parzialmente applicate. Queste decisioni risalgono alla Convenzione del 1992 dell’ONU e al protocollo di Kyoto del 1997, al quale gli Stati Uniti si rifiutarono di aderire. Il primo periodo di impegno del Protocollo di Kyoto termina nel 2012. L’aria generale che si respirava prima della conferenza è stata catturata dal New York Times col titolo “Tematiche, ma scarse aspettative”. La maggioranza dei cittadini statunitensi è d’accordo, anche se il PIPA chiarisce che la percentuale “è calata negli ultimi anni, per il fatto che la preoccupazione degli Stati Uniti è significativamente più bassa rispetto a quella mondiale, ora il 79% contro il precedente 84%”. “Gli statunitensi non ritengono che ci sia un consenso scientifico sull’urgenza di prendere iniziative per contrastare il cambiamento climatico. […] Una grande maggioranza pensa che sarà colpita personalmente dal cambiamento climatico, ma solo una minoranza crede che già ora si stiano subendo le conseguenze di tale cambio, contrariamente all’opinione della maggioranza degli altri paesi. Gli statunitensi tendono a sottovalutare il livello di preoccupazione.” Questi atteggiamenti non sono casuali. Nel 2009 le industrie energetiche, appoggiate dai gruppi dirigenti delle grandi aziende, hanno lanciato grandi campagne che hanno instillato dubbi sulla presenza del consenso degli scienziati riguardo la severità della minaccia del riscaldamento globale prodotto dagli esseri umani. Il consenso è solamente “quasi unanime”, perché non include molti esperti convinti che gli allarmi sul riscaldamento globale non siano sufficientemente forti, oltre a un gruppo marginale che nega completamente la consistenza della minaccia. “L’analisi abituale di questo problema” si basa sul mantenimento di “equilibrio”: la gran parte degli scienziati da un lato e i “negazionisti” dall’altro. Gli scienziati che manifestano gli allarmi più forti sono generalmente ignorati dalla maggioranza. Per questi motivi solo un terzo della popolazione statunitense crede che esista un consenso scientifico sulla minaccia del riscaldamento globale, molto meno rispetto alla media mondiale, e un qualcosa di radicalmente contrastante con i fatti. Non è un segreto che il governo statunitense stia impuntando i piedi sui temi del clima. “I cittadini di tutto il mondo hanno criticato il modo in cui gli Stati Uniti stanno trattando il problema del cambiamento climatico”, secondo il PIPA. “In generale, gli Stati Uniti sono visti da tutti come il paese che ha prodotto l’impatto più negativo sull’ambiente, seguito dalla Cina. La Germania ha ottenuto riconoscimenti superiori.” A volte, per riuscire ad avere una visione chiara sui fatti del mondo può essere utile adottare la posizione degli osservatori extraterrestri intelligenti che contemplano gli strani avvenimenti della Terra. Osserverebbero, stupiti, che il paese più ricco e potente nella storia del pianeta adesso guida i lemming nel loro allegro avanzare verso il precipizio. Il mese scorso l’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica (AIEA), formata nel 1974 per il volere del Segretario di Stato statunitense Henry Kissinger, ha emesso un rapporto aggiornato sull’accelerazione dell’incremento delle emissioni di carbonio provenienti dall’uso di combustibili fossili. L’AIEA ha calcolato che, se il mondo continuerà su questa strada, il “budget di carbonio” sarà terminato nel 2017. Il budget è la quantità di emissioni che possono mantenere il riscaldamento globale entro un livello di 2 gradi Celsius, quello che viene considerato il limite di sicurezza. L’economista a capo dell’AIEA, Fatih Birol, ha detto: “La porta si sta chiudendo. […] Se non cambiamo adesso il nostro modo di utilizzare l’energia, oltrepasseremo quello che gli scienziati hanno considerato il limite minimo (di sicurezza). La porta si chiuderà per sempre.” Anche il mese scorso il Dipartimento di Energia statunitense ha reso pubblici i dati delle emissioni del 2010. Le “emissioni sono aumentate al livello massimo registrato finora”, ha citato la Associated Press, ciò significa che “i livelli di gas serra sono più elevati di quelli del peggiore scenario” che era stato preventivato nel 2007 dal Gruppo Internazionale sul Cambiamento Climatico. John Reilly, codirettore del programma sul cambiamento climatico del Massachusetts Institute of Technology, ha riferito alla Associated Press che gli scienziati ritengono che le previsioni dell’IPCC sono state troppo conservatrici, a differenza del piccolo gruppo di “negazionisti” che attraggono l’opinione pubblica. Reilly ha informato che il peggiore scenario dell’IPCC era circa alla metà delle stime possibili degli scienziati del MIT sui possibili esiti. Nel mentre venivano resi noti questi dati allarmanti, il Financial Times ha dedicato una pagina intera alle aspettative ottimistiche, che ipotizzano un’indipendenza energetica degli Stati Uniti per circa un secolo grazie alle nuove tecnologie per l’estrazione dei combustibili fossili del Nord America. Anche se le proiezioni sono incerte, secondo il Financial Times, gli Stati Uniti “potrebbero superare l’Arabia Saudita e la Russia diventando il più grande produttore al mondo di idrocarburi liquidi, considerando sia il greggio che i gas naturali”. In questo felice caso, gli Stati Uniti potrebbero sperare di mantenere la propria egemonia mondiale. A parte alcuni commenti sull’impatto ecologico locale, il Financial Times non ci ha detto niente sul genere di pianeta che emergerebbe da queste appetibili prospettive. L’energia va bruciata: e al diavolo l’ambiente. Quasi tutti i governi stanno cercando di far qualcosa contro la catastrofe che si avvicina. Gli Stati Uniti sono in cima alla fila, guardandola dal fondo. La Camera dei Rappresentanti degli USA, dominata dai Repubblicani, sta ora smantellando le misure ambientali introdotte da Richard Nixon, che sotto molti aspetti fu l’ultimo presidente liberale. Questo comportamento reazionario è uno dei tanti segnali della crisi della democrazia statunitense durante la scorsa generazione. La breccia fra l’opinione pubblica e la politica è cresciuta fino a convertirsi in un abisso sui temi centrali del dibattito politico attuale, come il deficit e il lavoro. Tuttavia, grazie all’offensiva propagandistica, la breccia è minore di quella che dovrebbe essere nel tema più serio dell’agenda internazionale odierna, e forse della storia. Potremmo riuscire a perdonare questi ipotetici osservatori extraterrestri se dovesse concludere che sembriamo affetti da una forma di follia letale. di Noam Chomsky |
18 dicembre 2011
Avanzando verso il precipizio
17 dicembre 2011
Democrazia e debito
![]() Il Libro V della Politica di Aristotele descrive il ciclo eterno della transizione che vede le oligarchie trasformarsi in aristocrazie ereditarie, che finiscono per essere rovesciate da tiranni o sviluppare rivalità interne quando alcune famiglie decidono di "far entrare il popolo nell’arena politica" per poter arrivare a una democrazia, da cui riemerge una nuova oligarchia, seguita da una aristocrazia, e poi da una democrazia, e così via nel corso della storia. Il debito è stato il principale motore di questi cambiamenti, sempre con nuovi colpi di scena e trasformazioni. Si polarizza ricchezza per creare una classe creditrice, la cui guida oligarchica finisce quando nuovi dirigenti (i "tiranni" di Aristotele) ottengono l'appoggio popolare, cancellando i debiti e ridistribuendo la proprietà o l’usufrutto dei terreni a favore dello Stato. Offrendo ai contribuenti questo legame col governo, le democrazie olandesi e britanniche fornirono ai creditori una modalità di pagamento molto più sicura rispetto a quando i debiti dei re e dei prìncipi si estinguevano assieme a loro. Ma le recenti proteste sul debito avutesi in vari paesi - dall'Islanda alla Grecia e alla Spagna - suggeriscono che i creditori stanno avendo sempre meno sicurezza dalle democrazie. Chiedono austerità fiscale e anche svendite finalizzate alla privatizzazione. Questo significa trasformare la finanza internazionale in una nuova modalità di attacco militare. Il suo obiettivo è lo stesso perseguito dalle campagne militari del passato: l’appropriazione di terre e risorse minerarie, infrastrutture comuni e anche tributi supplementari. Nel frattempo, le democrazie hanno chiesto agli elettori di esprimersi attraverso un referendum sulla possibilità di pagare i creditori con la vendita di beni pubblici e aumentare le tasse per imporre la disoccupazione, la diminuzione dei salari e la depressione economica. L'alternativa è quella di negoziare i debiti o addirittura annullarli, e di riaffermare il controllo regolamentare sul settore finanziario. Nel vicino Oriente i governanti annullavano i debiti per preservare l’equilibrio economico Gli interessi di mora sulle anticipazioni di beni o di denaro non sono stati creati per polarizzare le economie. Vennero introdotti all'inizio del terzo millennio a. C. nell’ambito di un accordo contrattuale tra sacerdoti e burocrati sumeri con i mercanti e gli imprenditori che lavoravano con l’amministrazione reale, e l'interesse al 20 per cento (che raddoppia il capitale in cinque anni) sarebbe dovuto corrispondere in modo congruo ai rendimenti per i viaggi commerciali a lunga distanza o per gli affitti di terreni e altri beni pubblici quali laboratori, barche e fabbriche di birra. Quando questa pratica fu privatizzata dai percettori di tariffe e affitti, la "divina regalità" protesse i debitori agrari. Le leggi di Hammurabi (1750 a.C. circa) cancellavano i debiti nei periodi di inondazione o siccità. Tutti i governanti della dinastia babilonese festeggiavano il loro primo anno al trono cancellando i debiti agrari e facendone tabula rasa. La restituzione dei diritti sui terreni o sulle colture e l’affrancamento dalla schiavitù erano tesi a "ristabilire l'ordine" in uno stato ideale "originale" di equilibrio. Questa pratica sopravviveva nell'anno giubilare della legge mosaica descritta nel Levitico 25. La logica era abbastanza chiara. Le società antiche avevano bisogno di eserciti per difendere la propria terra e ciò richiedeva la liberazione dei cittadini dalla schiavitù. Le leggi di Hammurabi protessero gli aurighi e gli altri combattenti dall’essere ridotti in servitù per i debiti e impedirono ai creditori di prendere i raccolti dei fittavoli dei terreni reali, di altri terreni pubblici e delle terre comuni a coloro che dovevano fornire forza lavoro o militare al palazzo. In Egitto il faraone Bakenranef (720-715 a.C. circa, "Bocchoris" in greco) proclamò un'amnistia del debito e abolì la schiavitù dai debiti di fronte a una minaccia militare proveniente dall'Etiopia. Secondo Diodoro di Sicilia (I, 79, scritto tra il 40 e il 30 a. C.), egli stabilì che, se un debitore avesse contestato il credito, il debito si sarebbe annullato se il creditore non avesse potuto sostenere le proprie affermazioni mostrando un contratto scritto. (Sembra che i creditori sono sempre stati inclini a esagerare i saldi dovuti.) Il faraone ritenne che "i corpi dei cittadini dovrebbero appartenere allo Stato, di modo che possa avvalersi dei servizi che i cittadini gli devono, sia in tempo di guerra che di pace. Per questo motivo sarebbe assurdo per un soldato […] essere trascinato in prigione dal suo creditore per un prestito non pagato, e che l'avidità dei privati cittadini possa in questo modo mettere a repentaglio la sicurezza di tutti". Il fatto che i principali creditori del Vicino Oriente erano il palazzo e i templi rendeva politicamente semplice cancellare i debiti. È sempre facile annullare i debiti nei confronti di sé stessi. Anche gli imperatori romani bruciavano i registri fiscali per evitare una crisi. Ma era molto più difficile cancellare i debiti dovuti a creditori privati quando la pratica degli interessi di mora si diffuse verso ovest tra le comunità del Mediterraneo intorno al 750 a. C. Invece di consentire alle famiglie di colmare il divario tra entrate ed uscite, il debito diventava la leva principale per espropriare la terra, polarizzando le comunità tra oligarchie creditrici e clienti indebitati. In Giuda, il profeta Isaia criticava i creditori che "aggiungono casa a casa e uniscono un campo all'altro finché non resta più alcun spazio e si vive da soli sulla terra". Il potere dei creditori e una crescita stabile raramente hanno proceduto di pari passo. La maggior parte dei debiti personali nel periodo classico era formata da piccole somme di denaro prestato a individui che vivevano a un livello di sussistenza e che non riuscivano a sbarcare il lunario. La confisca dei terreni e dei beni, nonché della libertà personale dei debitori costretti in schiavitù, erano divenute un male irreversibile. Dal VII secolo a. C. i "tiranni" emersero per rovesciare le aristocrazie di Corinto e delle altre ricche città greche, ottenendo il consenso popolare grazie alla cancellazione dei debiti. In modo meno tirannico, Solone fondò la democrazia ateniese nel 594 a. C., abolendo la servitù per debiti. Ma le oligarchie riemersero e fecero appello a Roma quando i re di Sparta Agide, Cleomene e il loro successore Nabis cercarono di cancellare i debiti verso la fine del III secolo a. C. Essi furono uccisi e i loro sostenitori cacciati. È una costante politica della storia, fin dall'antichità, che gli interessi dei creditori siano contrapposti sia alla democrazia popolare, che al potere reale incaricato di limitare la conquista finanziaria della società, una conquista volta a sfruttare il pagamento dei crediti fruttiferi sul debito per assorbire la maggior parte possibile dei guadagni dei cittadini. Quando i fratelli Gracchi e i loro seguaci tentarono di riformare le leggi sul credito nel 133 a. C., la classe dominante senatoria reagì con violenza, uccidendoli e inaugurando un secolo di Guerra Sociale, terminata con la nomina di Augusto come imperatore nel 29 a. C. L’oligarchia creditrice romana vince la guerra sociale, schiavizza la popolazione e porta il Medioevo. Le cose si fecero più sanguinose all’estero. Aristotele non parlò della formazione degli imperi nel suo schema politico, ma la conquista straniera ha da sempre costituito un fattore importante nell’imposizione di debiti e i debiti di guerra sono sempre stati una delle principali cause di debito nei tempi moderni. Roma fu una delle più feroci impositrici di debito, i cui creditori si espansero sino ad asfissiare l’Asia Minore, la sua più prospera provincia. Lo stato di diritto scompariva all’arrivo dei "cavalieri" pubblicani. Mitridate del Ponto capeggiò tre rivolte popolari e le popolazioni di Efeso e di altre città si ribellarono e uccisero circa 80.000 romani nell’88 a. C. L'esercito romano reagì e Silla impose un tributo di guerra di 20.000 talenti nell’84 a. C. Gli oneri connessi agli interessi fecero sì che questa somma risultasse moltiplicata di sei volte nel 70 a. C. I maggiori storici latini, Livio, Plutarco e Diodoro, attribuirono la colpa della caduta della Repubblica all’intransigenza dei creditori, che poi portò a un secolo di guerra sociale segnata da numerosi omicidi politici nel periodo compreso tra il 133 ed il 29 a. C. I dirigenti populisti che cercarono di ottenere un seguito sostenendo le cancellazioni del debito (ad esempio, la congiura di Catilina nel 63-62 a. C.) furono uccisi. Nel II secolo d. C. circa un quarto della popolazione era ridotta in schiavitù. Nel V secolo l'economia di Roma era crollata, spoglia di denaro. La necessità di vivere di sussistenza riportò la popolazione in campagna. I creditori trovano una ragione legalistica per sostenere la democrazia parlamentare Quando i banchieri si risollevarono dopo le Crociate e il saccheggio di Bisanzio, e l'argento e l'oro fusi riiniziarono a circolare nei commerci dell’Europa occidentale, l'opposizione cristiana alla pratica bancaria degli interessi di mora fu sopraffatta dall’alleanza tra i prestigiosi istituti di credito (i Cavalieri Templari e gli Ospitalieri che avevano fornito credito durante le Crociate) e i clienti più importanti, i re: in primo luogo per pagare la Chiesa e sempre di più per finanziare le guerre. Ma i debiti reali rimanevano non pagati, quando i re morivano. I Bardi e i Peruzzi andarono in bancarotta nel 1345 quando Edoardo III ripudiò i suoi debiti di guerra. Le famiglie dei banchieri persero molto del denaro dato in prestito ai re Asburgo e Borbone che sedevano sui troni di Spagna, Austria e Francia. Le cose cambiarono con la democrazia olandese, quando cercò di assicurarsi la libertà dagli Asburgo di Spagna. Il fatto che il loro parlamento potesse contrarre debito pubblico a tempo indeterminato per conto dello Stato abilitò i Paesi Bassi ad accendere prestiti per impiegare mercenari in un'epoca in cui la moneta e il credito erano il nerbo della guerra. L'accesso al credito "è stato di conseguenza la loro arma più potente nella lotta per la libertà", ha scritto Richard Ehrenberg nel suo libro “Capitale e Finanza nell'età del Rinascimento” (1928): "Chi dava credito a un principe sapeva che il rimborso del debito dipendeva solo dalla capacità del suo debitore e dalla sua volontà di pagare. Ciò risultava molto diverso per le città, che avevano potere quanto i nobili, ma anche per le aziende, per le associazioni di individui unite da interessi comuni. Secondo una legge generalmente accettata, ogni singolo cittadino era responsabile per i debiti della città, sia con la sua persona che con la sua proprietà." [2] L’obbiettivo finanziario del governo parlamentare era dunque quello di stabilire debiti che non fossero soltanto obblighi personali dei principi, ma che fossero veramente pubblici e vincolanti indipendentemente da chi occupasse il trono. È per questo che le prime due nazioni democratiche, i Paesi Bassi e la Gran Bretagna dopo la sua rivoluzione del 1688, svilupparono i più attivi mercati di capitali e cominciarono a diventare leader tra le potenze militari. È ironico che sia stata la necessità di finanziare la guerra a promuovere la democrazia, formando una trinità simbiotica tra fare guerra, credito e democrazia parlamentare che è durata fino ad oggi. In questo momento "la posizione giuridica del Re in quanto debitore era oscura, ed era incerto se i creditori avessero qualche possibilità per riottenere i soldi in caso di default." [3] Più la Spagna, l’Austria e la Francia divenivano dispotiche, maggiori difficoltà trovavano nel finanziare le loro avventure militari. Entro la fine del XVIII secolo l’Austria era stata lasciata "senza credito, e quindi senza molto debito", era il paese meno degno di credito e perciò peggio armato d’Europa, totalmente dipendente dai sussidi inglesi e dalle garanzie di prestito durante le guerre Napoleoniche. La finanza si adegua alla democrazia, ma poi spinge per l’oligarchiaMentre le riforme democratiche del XIX secolo riducevano il potere delle aristocrazie al controllo da parte dei parlamenti, i banchieri si muovevano flessibilmente per raggiungere un rapporto simbiotico con quasi ogni forma di governo. In Francia i seguaci di Saint-Simon promuovevano l'idea di banche che agissero come fondi comuni di investimento, concedendo credito in cambio di titoli azionari. Lo Stato tedesco fece un'alleanza con le grandi banche e l'industria pesante. Marx descrisse ottimisticamente un socialismo che avrebbe condotto a una finanza produttiva piuttosto che parassitaria. Negli Stati Uniti la regolamentazione dei servizi pubblici è andata di pari passo con la garanzia di profitti. In Cina Sun-Yat-Sen ha scritto nel 1922: "Ho intenzione di far confluire tutte le industrie nazionali della Cina in un grande fondo di proprietà del popolo cinese, finanziato con capitali internazionali per il reciproco vantaggio". [4] La Prima Guerra mondiale vide gli Stati Uniti sostituire la Gran Bretagna tra i principali Paesi creditori ed entro la fine della Seconda Guerra mondiale avevano accantonato circa l’80 per cento dell’oro monetario del mondo. I suoi diplomatici determinarono l’agenda del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, concedendo crediti che portassero alla dipendenza commerciale, principalmente nei confronti degli Stati Uniti. I prestiti per finanziare il commercio e il pagamento del deficit sono stati oggetto di "condizioni" che hanno spostato la pianificazione economica nelle mani di oligarchie clientelari e dittature militari. La risposta democratica ai piani di austerità per pagare gli interessi sul debito non è stata, però, in grado di andare al di là delle proteste contro il FMI, almeno fino a quando l’Argentina non ha ripudiato il debito straniero. Un simile austerità voluta dai creditori viene ora imposta in Europa dalla Banca Centrale Europea (BCE) e dall’apparato burocratico dell'UE. I governi apparentemente socialdemocratici hanno compiuto azioni orientate al salvataggio delle banche piuttosto che al rilancio della crescita economica e dell'occupazione. Le perdite dovute agli errori nei prestiti e alle speculazioni delle banche sono state caricate sul bilancio statale, mentre nel contempo si ridimensionava la spesa pubblica, giungendo persino a vendere le infrastrutture. La risposta dei contribuenti bloccati dal debito è stata quella di montare proteste popolari che hanno avuto inizio in Islanda e in Lettonia nel gennaio 2009, e si sono diffuse quest’autunno in Grecia e in Spagna per manifestare contro il rifiuto dei governi di tenere un referendum su questi mortiferi salvataggi degli obbligazionisti stranieri. Spostare la pianificazione dai rappresentanti eletti ai banchieri Tutte le economie sono pianificate. Tradizionalmente questa è sempre stata una funzione del governo. Tralasciare questo ruolo con gli slogan del "libero mercato" significa metterlo nelle mani delle banche. Ma il privilegio della pianificazione del credito e dell'assegnazione delle risorse è ora ancora più centralizzato rispetto a quando questo privilegio era di competenza dei rappresentanti eletti. E a peggiorare le cose c’è anche la modalità finanziaria “mordi e fuggi”, che finisce per praticare della spicciola chirurgia finanziaria. Cercando il proprio tornaconto, le banche tendono a distruggere l'economia. Il surplus finisce per essere divorato dagli interessi e da altri oneri finanziari, senza lasciare entrate per nuovi investimenti di capitale o per la spesa sociale di base. Questo è il motivo per cui la rinuncia ad attuare un controllo politico sulla classe creditrice raramente ha comportato una crescita economica e della qualità della vita. La tendenza per cui i debiti crescono più rapidamente della capacità della popolazione di ripagarli è stata una costante di tutta la storia documentata. I debiti crescono esponenzialmente, assorbendo tutti i guadagni e riducendo la gran parte della popolazione a una condizione di schiavitù. Per ristabilire l'equilibrio economico, si chiede quello che durante l'Età del Bronzo nel Medio Oriente si otteneva grazie al fiat reale: l’annullamento della crescita eccessiva di debiti. Più di recente, le democrazie hanno introdotto uno stato forte per poter tassare redditi e capitali e, quando richiesto, per depennare i debiti. Questo si può fare più facilmente quando è lo Stato stesso a creare moneta e credito. Si può fare meno facilmente quando le banche trasformano i loro profitti in potere politico. Quando le banche hanno il diritto di auto-regolarsi, nonché di porre il diritto di veto sull’azione del governo, l'economia viene distorta per consentire ai creditori di indulgere nelle scommesse speculative e nelle vere e proprie frodi che hanno segnato l'ultimo decennio. La caduta dell'impero romano mostra ciò che accade quando le richieste del creditore non ricevono risposta. In queste condizioni la rinuncia alla pianificazione e alla regolamentazione da parte del governo in favore dei settori finanziari spiana la strada alla schiavitù da debito. Finanza contro governo; oligarchia contro democraziaLa democrazia comporta che le dinamiche finanziarie siano subordinate al perseguimento dell’equilibrio economico e della crescita, così come la tassazione dei redditi da rendita o il mantenimento di monopoli di base pubblici. Il non tassare o il privatizzare le rendite di proprietà le rende “libere” di fluire nelle banche, per concedere poi prestiti ancora più consistenti. Finanziata dallo sfruttamento del debito, la chirurgia finanziaria aumenta la ricchezza di coloro che godono di posizioni di rendita mentre indebita l'economia in generale. L'economia si contrae, chiudendo in negativo il bilancio. Il settore finanziario ha ormai un’influenza tale da poter utilizzare queste circostanze per convincere i governi che l'economia crolla se non “si salvano le banche". In pratica questo significa consolidare il controllo delle banche sulla politica, che usano questo controllo in modo da polarizzare ulteriormente le economie. Il modello di riferimento è quanto successe nell’antica Roma, nel passaggio dalla democrazia all’oligarchia. In realtà, dando priorità ai banchieri e lasciando che la pianificazione economica sia dettata dall’UE, dalla BCE e dal FMI si concreta la minaccia di privare lo stato-nazione del potere di stampare moneta o denaro e di riscuotere le tasse. Il conflitto che ne risulta fa scontrare gli interessi finanziari contro l’autodeterminazione nazionale. L'idea di una banca centrale indipendente che sia "il segno distintivo della democrazia" è un eufemismo per destinare le decisioni politiche più importante - la capacità di creare moneta e credito – al settore finanziario. Invece di lasciar decidere politicamente a un referendum popolare, il salvataggio delle banche organizzato dall'UE e dalla BCE rappresenta oggi la principale causa dell’aumento del debito nazionale. I debiti bancari privati caricati sul bilancio del governo in Irlanda e Grecia sono stati trasformati in obblighi per il contribuente. Lo stesso vale per i 13 trilioni di dollari aggiunti nel settembre 2008 (compresi i 5,3 trilioni dei pessimi prestiti di Fannie Mae e Freddie Mac portati nel bilancio del governo, e 2 trilioni di dollari di swap tossici della Federal Reserve). Tutto ciò è stato dettato dai delegati della finanza, definiti eufemisticamente tecnocrati. Designati dai lobbisti creditori, il loro ruolo è quello di calcolare quanta disoccupazione e depressione sia necessaria per racimolare un attivo sufficiente per ripagare i debiti che sono sui libri contabili. Ciò che rende questo calcolo autolesionista è il fatto che la contrazione economica - deflazione - rende il peso del debito ancora più insostenibile. Né le banche né le autorità pubbliche (o i principali accademici, se è per questo) hanno preso in considerazione l’effettiva capacità dell'economia di ripagare i debiti, ossia di pagare senza avere una contrazione dell'economia. Attraverso i loro media e i think tank, hanno convinto le popolazioni che il modo per arricchirsi più rapidamente fosse quello di prendere in prestito denaro per acquistare immobili, azioni e obbligazioni quando aumentano di prezzo – essendo stati gonfiati dal credito bancario - e di porre fine alla tassazione progressiva della ricchezza imposta nel secolo scorso. Per dire le cose senza usare mezzi termini, il risultato è stato la creazione di una economia spazzatura. Il suo scopo è quello di disabilitare i pesi e i contrappesi pubblici, postando il potere di pianificazione nelle mani dell'alta finanza con la convinzione che questo sia il più efficiente metodo di regolamentazione pubblica. Il governo e la pianificazione fiscale vengono accusati di tracciare "la strada per la servitù", quando invece al "libero mercato" controllato dai banchieri viene dato modo di tutelare interessi particolare in modo oligarchico e non democratico. I governi devono pagare debiti assunti non per difendere i propri paesi in guerra come nel passato, ma a beneficio degli strati più ricchi della popolazione che spostano così le proprie perdite sui contribuenti. Il non prendere in considerazione i voleri degli elettori pone i debiti nazionali su un terreno instabile, politicamente e anche legalmente. I debiti imposti da leggi, da governi stranieri o agenzie finanziarie a fronte di una forte opposizione popolare possono essere non riconosciuti, come fecero gli Asburgo e altri regnanti in epoche passate. In mancanza di una convalida popolare, essi possono morire insieme al regime che li ha contratti. Nuovi governi potrebbero agire democraticamente per subordinare il settore bancario e finanziario a servizio dell'economia, non il contrario. Intanto, potrebbero chiedere la reintroduzione della tassazione progressiva dei capitali e dei redditi, spostare il carico fiscale sui percettori di rendite. La ri-regolamentazione del settore e una via pubblica per il credito e i servizi bancari potrebbero rinnovare il programma socialdemocratico che sembrava ben avviato un secolo fa. L’Islanda e l’Argentina sono gli esempi più recenti, ma si può guardare indietro alla moratoria sui debiti di guerra della Prima Guerra Mondiale degli stati europei nei confronti degli Stati Uniti (tali debiti furono rinegoziati) oppure alla moratoria sui debiti tedeschi di riparazione per la Prima Guerra Mondiale nel 1931. Sussiste un principio tanto matematico, quanto politico: i debiti che non possono essere ripagati, non lo saranno. **********************************************Fonte: Democracy and Debt di Michael Hudson Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di ALESSIA |
16 dicembre 2011
Europa sentinella del debito
Una crisi economica, soprattutto come quella che negli ultimi tre anni ha investito l’intero pianeta, non è mai solo una crisi monetaria. Nel migliore dei casi, vanno in crisi i governi politici degli stati, nel peggiore si scatenano le guerre mondiali, nella media tragicità, a crollare sono le strutture inter e sovra-nazionali. È quello che sta accedendo in Europa. Investita dal crack del sistema finanziario americano del 2008, sono cominciati a saltare i governi delle nazioni più esposte (Spagna, Grecia, Italia in primis). Se per le guerre mondiali forse ci vorrà del tempo (ma gli spifferi iraniani stanno già soffiando forte) quello scaduto sembra essere il tempo dell’euro-moneta come collante e propulsione degli assetti politici del Vecchio Continente. Già la settimana scorsa la Gran Bretagna, che pure all’euro aveva rinunciato in partenza, tenendosi la sterlina, ha rifiutato di entrare nella Ue dei cosiddetti 27 (ora, 26) e adesso non appare del tutto campata in aria l’ipotesi che la stessa Germania possa tornare al marco. Accadesse questo, tutta l’architettura europea fin qui concepita, e più o meno bene (anzi: male) realizzata, crollerebbe lasciando spazio a scenari ben poco prevedibili.
In questo contesto di assoluta incertezza, tutto ciò che rimane fermo e indiscutibile sono le misure che si ritengono imprescindibili per far fronte ai debiti degli stati in crisi (economica ma non solo) e che vanno sotto il nome generico di quei cosiddetti “sacrifici” che sono la ricerca di nuove entrate fiscali e di tagli alla spesa pubblica. Ora, perfino se il quadro europeo, compreso quello che riguarda strettamente la sorte della moneta unica, fosse chiaro e solido sarebbe da dubitare dell’efficacia della formula dei “sacrifici”, ma siccome così non è, il sospetto che il “taglia e prendi” proposto e imposto per l’ennesima volta come soluzione unica per evitare il default, sia un viatico alla salvezza dal fallimento è doveroso. Soprattutto, quando il sistema che regge in piedi lo stato liberista è fondato sul principio del produrre consumo per aumentare la produzione e incrementare nuovamente il consumo. Non ci vuole un genio per capire che congelando i contratti salariali e le pensioni, introducendo nuove tasse, aumentando l’Iva e le accise su generi di prima necessità come la benzina, la liquidità da destinare al consumo non può che flettere in basso (deflazione) con conseguente recessione della produzione.
È un percorso talmente noto e matematico che a stupire è solo il fatto che venga puntualmente riproposto. O meglio: stupirebbe se ci attardassimo ancora a considerare chi adotta e impone queste misure interessato alla sorte degli stati sociali e non, come ormai dovrebbe essere palese, a mantenerne in vita un altro: quello del sistema finanziario che impera. Perché, se si leggono in questa ottica, le misure di “austerità” (il “taglia e prendi” di cui si dice sopra) hanno un senso logico e coerente: quello di cristallizzare stato ed individui nella condizione di debitori. Lo ha spiegato benissimo il prof. Christian Marrazzi, in un’intervista del 3 dicembre a Ida Dominijanni del Manifesto: «Il neo-liberalismo si invera nella sua essenza di fabbrica dell’uomo indebitato. L’imprenditore di se stesso produce il suo debito che ora lo disciplina attraverso un dispositivo di colpevolizzazione. Del resto, qui c’è anche un inveramento, o uno svelamento, dell’essenza del denaro: il denaro è debito, la finanziarizzazione del capitale ci ha trasformati tutti in soggetti debitori, e il valore viene prodotto in negativo, da una macchina depressiva».
La “macchina depressiva” della finanziarizzazione del debito è potente e i segnali di un suo possibile arresto tardano ad arrivare. A meno che non si vogliano leggere come segni di sua debolezza la discesa in campo in prima persona dei banchieri alla guida degli stati e la sospensione della politica, se non proprio della democrazia, come avvenuto in Grecia e Italia negli ultimi mesi. Ovvero: vi è da chiedersi se la esposizione politica di uomini già legati alla Goldman Sachs (Mario Monti) e alla Bce (Lucas Papademos), istituti con grossissime responsabilità nella crisi in corso, non sia il tentativo di mettere pezze a un tessuto che tende a lacerarsi. Lo stesso Marrazzi sostiene che «La de-finanziarizzazione la sta approntando il capitalismo stesso nella forma recessiva della riduzione del debito» a causa della riduzione forzosa della liquidità del consumatore. È, in fondo, ancora un atto di fede nell’antica profezia marxiana del capitalismo che perirà per via delle sue contraddizioni.
Nel frattempo, però, persino alcune correzioni come la socializzazione dei debiti pubblici degli stati, l’introduzione della tobin-tax planetaria, l’istituzione del reddito minimo garantito di cittadinanza sembrano più un’aspirazione utopica che la ragionevole proposta di mediazione fra agenti della crisi e vittime della stessa. Se è così, figuriamoci quale accoglienza potrebbe avere una proposta che sostenesse di uscire da questo sistema dichiarando la moratoria del debito, pubblico e privato, la nazionalizzazione delle banche e l’integrazione del lavoratore nella gestione delle imprese produttive, in un quadro politico generale di democrazia diretta e partecipata.
di Miro Renzaglia
18 dicembre 2011
Avanzando verso il precipizio
![]() Uno dei lavori della Convenzione sul Cambiamento Climatico delle Nazioni Unite, che è in corso di svolgimento a Durban in Sud Africa (il vertice si è concluso il 9 dicembre ndr), è quello di estendere le decisioni politiche precedenti, che sono limitate e solo parzialmente applicate. Queste decisioni risalgono alla Convenzione del 1992 dell’ONU e al protocollo di Kyoto del 1997, al quale gli Stati Uniti si rifiutarono di aderire. Il primo periodo di impegno del Protocollo di Kyoto termina nel 2012. L’aria generale che si respirava prima della conferenza è stata catturata dal New York Times col titolo “Tematiche, ma scarse aspettative”. La maggioranza dei cittadini statunitensi è d’accordo, anche se il PIPA chiarisce che la percentuale “è calata negli ultimi anni, per il fatto che la preoccupazione degli Stati Uniti è significativamente più bassa rispetto a quella mondiale, ora il 79% contro il precedente 84%”. “Gli statunitensi non ritengono che ci sia un consenso scientifico sull’urgenza di prendere iniziative per contrastare il cambiamento climatico. […] Una grande maggioranza pensa che sarà colpita personalmente dal cambiamento climatico, ma solo una minoranza crede che già ora si stiano subendo le conseguenze di tale cambio, contrariamente all’opinione della maggioranza degli altri paesi. Gli statunitensi tendono a sottovalutare il livello di preoccupazione.” Questi atteggiamenti non sono casuali. Nel 2009 le industrie energetiche, appoggiate dai gruppi dirigenti delle grandi aziende, hanno lanciato grandi campagne che hanno instillato dubbi sulla presenza del consenso degli scienziati riguardo la severità della minaccia del riscaldamento globale prodotto dagli esseri umani. Il consenso è solamente “quasi unanime”, perché non include molti esperti convinti che gli allarmi sul riscaldamento globale non siano sufficientemente forti, oltre a un gruppo marginale che nega completamente la consistenza della minaccia. “L’analisi abituale di questo problema” si basa sul mantenimento di “equilibrio”: la gran parte degli scienziati da un lato e i “negazionisti” dall’altro. Gli scienziati che manifestano gli allarmi più forti sono generalmente ignorati dalla maggioranza. Per questi motivi solo un terzo della popolazione statunitense crede che esista un consenso scientifico sulla minaccia del riscaldamento globale, molto meno rispetto alla media mondiale, e un qualcosa di radicalmente contrastante con i fatti. Non è un segreto che il governo statunitense stia impuntando i piedi sui temi del clima. “I cittadini di tutto il mondo hanno criticato il modo in cui gli Stati Uniti stanno trattando il problema del cambiamento climatico”, secondo il PIPA. “In generale, gli Stati Uniti sono visti da tutti come il paese che ha prodotto l’impatto più negativo sull’ambiente, seguito dalla Cina. La Germania ha ottenuto riconoscimenti superiori.” A volte, per riuscire ad avere una visione chiara sui fatti del mondo può essere utile adottare la posizione degli osservatori extraterrestri intelligenti che contemplano gli strani avvenimenti della Terra. Osserverebbero, stupiti, che il paese più ricco e potente nella storia del pianeta adesso guida i lemming nel loro allegro avanzare verso il precipizio. Il mese scorso l’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica (AIEA), formata nel 1974 per il volere del Segretario di Stato statunitense Henry Kissinger, ha emesso un rapporto aggiornato sull’accelerazione dell’incremento delle emissioni di carbonio provenienti dall’uso di combustibili fossili. L’AIEA ha calcolato che, se il mondo continuerà su questa strada, il “budget di carbonio” sarà terminato nel 2017. Il budget è la quantità di emissioni che possono mantenere il riscaldamento globale entro un livello di 2 gradi Celsius, quello che viene considerato il limite di sicurezza. L’economista a capo dell’AIEA, Fatih Birol, ha detto: “La porta si sta chiudendo. […] Se non cambiamo adesso il nostro modo di utilizzare l’energia, oltrepasseremo quello che gli scienziati hanno considerato il limite minimo (di sicurezza). La porta si chiuderà per sempre.” Anche il mese scorso il Dipartimento di Energia statunitense ha reso pubblici i dati delle emissioni del 2010. Le “emissioni sono aumentate al livello massimo registrato finora”, ha citato la Associated Press, ciò significa che “i livelli di gas serra sono più elevati di quelli del peggiore scenario” che era stato preventivato nel 2007 dal Gruppo Internazionale sul Cambiamento Climatico. John Reilly, codirettore del programma sul cambiamento climatico del Massachusetts Institute of Technology, ha riferito alla Associated Press che gli scienziati ritengono che le previsioni dell’IPCC sono state troppo conservatrici, a differenza del piccolo gruppo di “negazionisti” che attraggono l’opinione pubblica. Reilly ha informato che il peggiore scenario dell’IPCC era circa alla metà delle stime possibili degli scienziati del MIT sui possibili esiti. Nel mentre venivano resi noti questi dati allarmanti, il Financial Times ha dedicato una pagina intera alle aspettative ottimistiche, che ipotizzano un’indipendenza energetica degli Stati Uniti per circa un secolo grazie alle nuove tecnologie per l’estrazione dei combustibili fossili del Nord America. Anche se le proiezioni sono incerte, secondo il Financial Times, gli Stati Uniti “potrebbero superare l’Arabia Saudita e la Russia diventando il più grande produttore al mondo di idrocarburi liquidi, considerando sia il greggio che i gas naturali”. In questo felice caso, gli Stati Uniti potrebbero sperare di mantenere la propria egemonia mondiale. A parte alcuni commenti sull’impatto ecologico locale, il Financial Times non ci ha detto niente sul genere di pianeta che emergerebbe da queste appetibili prospettive. L’energia va bruciata: e al diavolo l’ambiente. Quasi tutti i governi stanno cercando di far qualcosa contro la catastrofe che si avvicina. Gli Stati Uniti sono in cima alla fila, guardandola dal fondo. La Camera dei Rappresentanti degli USA, dominata dai Repubblicani, sta ora smantellando le misure ambientali introdotte da Richard Nixon, che sotto molti aspetti fu l’ultimo presidente liberale. Questo comportamento reazionario è uno dei tanti segnali della crisi della democrazia statunitense durante la scorsa generazione. La breccia fra l’opinione pubblica e la politica è cresciuta fino a convertirsi in un abisso sui temi centrali del dibattito politico attuale, come il deficit e il lavoro. Tuttavia, grazie all’offensiva propagandistica, la breccia è minore di quella che dovrebbe essere nel tema più serio dell’agenda internazionale odierna, e forse della storia. Potremmo riuscire a perdonare questi ipotetici osservatori extraterrestri se dovesse concludere che sembriamo affetti da una forma di follia letale. di Noam Chomsky |
17 dicembre 2011
Democrazia e debito
![]() Il Libro V della Politica di Aristotele descrive il ciclo eterno della transizione che vede le oligarchie trasformarsi in aristocrazie ereditarie, che finiscono per essere rovesciate da tiranni o sviluppare rivalità interne quando alcune famiglie decidono di "far entrare il popolo nell’arena politica" per poter arrivare a una democrazia, da cui riemerge una nuova oligarchia, seguita da una aristocrazia, e poi da una democrazia, e così via nel corso della storia. Il debito è stato il principale motore di questi cambiamenti, sempre con nuovi colpi di scena e trasformazioni. Si polarizza ricchezza per creare una classe creditrice, la cui guida oligarchica finisce quando nuovi dirigenti (i "tiranni" di Aristotele) ottengono l'appoggio popolare, cancellando i debiti e ridistribuendo la proprietà o l’usufrutto dei terreni a favore dello Stato. Offrendo ai contribuenti questo legame col governo, le democrazie olandesi e britanniche fornirono ai creditori una modalità di pagamento molto più sicura rispetto a quando i debiti dei re e dei prìncipi si estinguevano assieme a loro. Ma le recenti proteste sul debito avutesi in vari paesi - dall'Islanda alla Grecia e alla Spagna - suggeriscono che i creditori stanno avendo sempre meno sicurezza dalle democrazie. Chiedono austerità fiscale e anche svendite finalizzate alla privatizzazione. Questo significa trasformare la finanza internazionale in una nuova modalità di attacco militare. Il suo obiettivo è lo stesso perseguito dalle campagne militari del passato: l’appropriazione di terre e risorse minerarie, infrastrutture comuni e anche tributi supplementari. Nel frattempo, le democrazie hanno chiesto agli elettori di esprimersi attraverso un referendum sulla possibilità di pagare i creditori con la vendita di beni pubblici e aumentare le tasse per imporre la disoccupazione, la diminuzione dei salari e la depressione economica. L'alternativa è quella di negoziare i debiti o addirittura annullarli, e di riaffermare il controllo regolamentare sul settore finanziario. Nel vicino Oriente i governanti annullavano i debiti per preservare l’equilibrio economico Gli interessi di mora sulle anticipazioni di beni o di denaro non sono stati creati per polarizzare le economie. Vennero introdotti all'inizio del terzo millennio a. C. nell’ambito di un accordo contrattuale tra sacerdoti e burocrati sumeri con i mercanti e gli imprenditori che lavoravano con l’amministrazione reale, e l'interesse al 20 per cento (che raddoppia il capitale in cinque anni) sarebbe dovuto corrispondere in modo congruo ai rendimenti per i viaggi commerciali a lunga distanza o per gli affitti di terreni e altri beni pubblici quali laboratori, barche e fabbriche di birra. Quando questa pratica fu privatizzata dai percettori di tariffe e affitti, la "divina regalità" protesse i debitori agrari. Le leggi di Hammurabi (1750 a.C. circa) cancellavano i debiti nei periodi di inondazione o siccità. Tutti i governanti della dinastia babilonese festeggiavano il loro primo anno al trono cancellando i debiti agrari e facendone tabula rasa. La restituzione dei diritti sui terreni o sulle colture e l’affrancamento dalla schiavitù erano tesi a "ristabilire l'ordine" in uno stato ideale "originale" di equilibrio. Questa pratica sopravviveva nell'anno giubilare della legge mosaica descritta nel Levitico 25. La logica era abbastanza chiara. Le società antiche avevano bisogno di eserciti per difendere la propria terra e ciò richiedeva la liberazione dei cittadini dalla schiavitù. Le leggi di Hammurabi protessero gli aurighi e gli altri combattenti dall’essere ridotti in servitù per i debiti e impedirono ai creditori di prendere i raccolti dei fittavoli dei terreni reali, di altri terreni pubblici e delle terre comuni a coloro che dovevano fornire forza lavoro o militare al palazzo. In Egitto il faraone Bakenranef (720-715 a.C. circa, "Bocchoris" in greco) proclamò un'amnistia del debito e abolì la schiavitù dai debiti di fronte a una minaccia militare proveniente dall'Etiopia. Secondo Diodoro di Sicilia (I, 79, scritto tra il 40 e il 30 a. C.), egli stabilì che, se un debitore avesse contestato il credito, il debito si sarebbe annullato se il creditore non avesse potuto sostenere le proprie affermazioni mostrando un contratto scritto. (Sembra che i creditori sono sempre stati inclini a esagerare i saldi dovuti.) Il faraone ritenne che "i corpi dei cittadini dovrebbero appartenere allo Stato, di modo che possa avvalersi dei servizi che i cittadini gli devono, sia in tempo di guerra che di pace. Per questo motivo sarebbe assurdo per un soldato […] essere trascinato in prigione dal suo creditore per un prestito non pagato, e che l'avidità dei privati cittadini possa in questo modo mettere a repentaglio la sicurezza di tutti". Il fatto che i principali creditori del Vicino Oriente erano il palazzo e i templi rendeva politicamente semplice cancellare i debiti. È sempre facile annullare i debiti nei confronti di sé stessi. Anche gli imperatori romani bruciavano i registri fiscali per evitare una crisi. Ma era molto più difficile cancellare i debiti dovuti a creditori privati quando la pratica degli interessi di mora si diffuse verso ovest tra le comunità del Mediterraneo intorno al 750 a. C. Invece di consentire alle famiglie di colmare il divario tra entrate ed uscite, il debito diventava la leva principale per espropriare la terra, polarizzando le comunità tra oligarchie creditrici e clienti indebitati. In Giuda, il profeta Isaia criticava i creditori che "aggiungono casa a casa e uniscono un campo all'altro finché non resta più alcun spazio e si vive da soli sulla terra". Il potere dei creditori e una crescita stabile raramente hanno proceduto di pari passo. La maggior parte dei debiti personali nel periodo classico era formata da piccole somme di denaro prestato a individui che vivevano a un livello di sussistenza e che non riuscivano a sbarcare il lunario. La confisca dei terreni e dei beni, nonché della libertà personale dei debitori costretti in schiavitù, erano divenute un male irreversibile. Dal VII secolo a. C. i "tiranni" emersero per rovesciare le aristocrazie di Corinto e delle altre ricche città greche, ottenendo il consenso popolare grazie alla cancellazione dei debiti. In modo meno tirannico, Solone fondò la democrazia ateniese nel 594 a. C., abolendo la servitù per debiti. Ma le oligarchie riemersero e fecero appello a Roma quando i re di Sparta Agide, Cleomene e il loro successore Nabis cercarono di cancellare i debiti verso la fine del III secolo a. C. Essi furono uccisi e i loro sostenitori cacciati. È una costante politica della storia, fin dall'antichità, che gli interessi dei creditori siano contrapposti sia alla democrazia popolare, che al potere reale incaricato di limitare la conquista finanziaria della società, una conquista volta a sfruttare il pagamento dei crediti fruttiferi sul debito per assorbire la maggior parte possibile dei guadagni dei cittadini. Quando i fratelli Gracchi e i loro seguaci tentarono di riformare le leggi sul credito nel 133 a. C., la classe dominante senatoria reagì con violenza, uccidendoli e inaugurando un secolo di Guerra Sociale, terminata con la nomina di Augusto come imperatore nel 29 a. C. L’oligarchia creditrice romana vince la guerra sociale, schiavizza la popolazione e porta il Medioevo. Le cose si fecero più sanguinose all’estero. Aristotele non parlò della formazione degli imperi nel suo schema politico, ma la conquista straniera ha da sempre costituito un fattore importante nell’imposizione di debiti e i debiti di guerra sono sempre stati una delle principali cause di debito nei tempi moderni. Roma fu una delle più feroci impositrici di debito, i cui creditori si espansero sino ad asfissiare l’Asia Minore, la sua più prospera provincia. Lo stato di diritto scompariva all’arrivo dei "cavalieri" pubblicani. Mitridate del Ponto capeggiò tre rivolte popolari e le popolazioni di Efeso e di altre città si ribellarono e uccisero circa 80.000 romani nell’88 a. C. L'esercito romano reagì e Silla impose un tributo di guerra di 20.000 talenti nell’84 a. C. Gli oneri connessi agli interessi fecero sì che questa somma risultasse moltiplicata di sei volte nel 70 a. C. I maggiori storici latini, Livio, Plutarco e Diodoro, attribuirono la colpa della caduta della Repubblica all’intransigenza dei creditori, che poi portò a un secolo di guerra sociale segnata da numerosi omicidi politici nel periodo compreso tra il 133 ed il 29 a. C. I dirigenti populisti che cercarono di ottenere un seguito sostenendo le cancellazioni del debito (ad esempio, la congiura di Catilina nel 63-62 a. C.) furono uccisi. Nel II secolo d. C. circa un quarto della popolazione era ridotta in schiavitù. Nel V secolo l'economia di Roma era crollata, spoglia di denaro. La necessità di vivere di sussistenza riportò la popolazione in campagna. I creditori trovano una ragione legalistica per sostenere la democrazia parlamentare Quando i banchieri si risollevarono dopo le Crociate e il saccheggio di Bisanzio, e l'argento e l'oro fusi riiniziarono a circolare nei commerci dell’Europa occidentale, l'opposizione cristiana alla pratica bancaria degli interessi di mora fu sopraffatta dall’alleanza tra i prestigiosi istituti di credito (i Cavalieri Templari e gli Ospitalieri che avevano fornito credito durante le Crociate) e i clienti più importanti, i re: in primo luogo per pagare la Chiesa e sempre di più per finanziare le guerre. Ma i debiti reali rimanevano non pagati, quando i re morivano. I Bardi e i Peruzzi andarono in bancarotta nel 1345 quando Edoardo III ripudiò i suoi debiti di guerra. Le famiglie dei banchieri persero molto del denaro dato in prestito ai re Asburgo e Borbone che sedevano sui troni di Spagna, Austria e Francia. Le cose cambiarono con la democrazia olandese, quando cercò di assicurarsi la libertà dagli Asburgo di Spagna. Il fatto che il loro parlamento potesse contrarre debito pubblico a tempo indeterminato per conto dello Stato abilitò i Paesi Bassi ad accendere prestiti per impiegare mercenari in un'epoca in cui la moneta e il credito erano il nerbo della guerra. L'accesso al credito "è stato di conseguenza la loro arma più potente nella lotta per la libertà", ha scritto Richard Ehrenberg nel suo libro “Capitale e Finanza nell'età del Rinascimento” (1928): "Chi dava credito a un principe sapeva che il rimborso del debito dipendeva solo dalla capacità del suo debitore e dalla sua volontà di pagare. Ciò risultava molto diverso per le città, che avevano potere quanto i nobili, ma anche per le aziende, per le associazioni di individui unite da interessi comuni. Secondo una legge generalmente accettata, ogni singolo cittadino era responsabile per i debiti della città, sia con la sua persona che con la sua proprietà." [2] L’obbiettivo finanziario del governo parlamentare era dunque quello di stabilire debiti che non fossero soltanto obblighi personali dei principi, ma che fossero veramente pubblici e vincolanti indipendentemente da chi occupasse il trono. È per questo che le prime due nazioni democratiche, i Paesi Bassi e la Gran Bretagna dopo la sua rivoluzione del 1688, svilupparono i più attivi mercati di capitali e cominciarono a diventare leader tra le potenze militari. È ironico che sia stata la necessità di finanziare la guerra a promuovere la democrazia, formando una trinità simbiotica tra fare guerra, credito e democrazia parlamentare che è durata fino ad oggi. In questo momento "la posizione giuridica del Re in quanto debitore era oscura, ed era incerto se i creditori avessero qualche possibilità per riottenere i soldi in caso di default." [3] Più la Spagna, l’Austria e la Francia divenivano dispotiche, maggiori difficoltà trovavano nel finanziare le loro avventure militari. Entro la fine del XVIII secolo l’Austria era stata lasciata "senza credito, e quindi senza molto debito", era il paese meno degno di credito e perciò peggio armato d’Europa, totalmente dipendente dai sussidi inglesi e dalle garanzie di prestito durante le guerre Napoleoniche. La finanza si adegua alla democrazia, ma poi spinge per l’oligarchiaMentre le riforme democratiche del XIX secolo riducevano il potere delle aristocrazie al controllo da parte dei parlamenti, i banchieri si muovevano flessibilmente per raggiungere un rapporto simbiotico con quasi ogni forma di governo. In Francia i seguaci di Saint-Simon promuovevano l'idea di banche che agissero come fondi comuni di investimento, concedendo credito in cambio di titoli azionari. Lo Stato tedesco fece un'alleanza con le grandi banche e l'industria pesante. Marx descrisse ottimisticamente un socialismo che avrebbe condotto a una finanza produttiva piuttosto che parassitaria. Negli Stati Uniti la regolamentazione dei servizi pubblici è andata di pari passo con la garanzia di profitti. In Cina Sun-Yat-Sen ha scritto nel 1922: "Ho intenzione di far confluire tutte le industrie nazionali della Cina in un grande fondo di proprietà del popolo cinese, finanziato con capitali internazionali per il reciproco vantaggio". [4] La Prima Guerra mondiale vide gli Stati Uniti sostituire la Gran Bretagna tra i principali Paesi creditori ed entro la fine della Seconda Guerra mondiale avevano accantonato circa l’80 per cento dell’oro monetario del mondo. I suoi diplomatici determinarono l’agenda del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, concedendo crediti che portassero alla dipendenza commerciale, principalmente nei confronti degli Stati Uniti. I prestiti per finanziare il commercio e il pagamento del deficit sono stati oggetto di "condizioni" che hanno spostato la pianificazione economica nelle mani di oligarchie clientelari e dittature militari. La risposta democratica ai piani di austerità per pagare gli interessi sul debito non è stata, però, in grado di andare al di là delle proteste contro il FMI, almeno fino a quando l’Argentina non ha ripudiato il debito straniero. Un simile austerità voluta dai creditori viene ora imposta in Europa dalla Banca Centrale Europea (BCE) e dall’apparato burocratico dell'UE. I governi apparentemente socialdemocratici hanno compiuto azioni orientate al salvataggio delle banche piuttosto che al rilancio della crescita economica e dell'occupazione. Le perdite dovute agli errori nei prestiti e alle speculazioni delle banche sono state caricate sul bilancio statale, mentre nel contempo si ridimensionava la spesa pubblica, giungendo persino a vendere le infrastrutture. La risposta dei contribuenti bloccati dal debito è stata quella di montare proteste popolari che hanno avuto inizio in Islanda e in Lettonia nel gennaio 2009, e si sono diffuse quest’autunno in Grecia e in Spagna per manifestare contro il rifiuto dei governi di tenere un referendum su questi mortiferi salvataggi degli obbligazionisti stranieri. Spostare la pianificazione dai rappresentanti eletti ai banchieri Tutte le economie sono pianificate. Tradizionalmente questa è sempre stata una funzione del governo. Tralasciare questo ruolo con gli slogan del "libero mercato" significa metterlo nelle mani delle banche. Ma il privilegio della pianificazione del credito e dell'assegnazione delle risorse è ora ancora più centralizzato rispetto a quando questo privilegio era di competenza dei rappresentanti eletti. E a peggiorare le cose c’è anche la modalità finanziaria “mordi e fuggi”, che finisce per praticare della spicciola chirurgia finanziaria. Cercando il proprio tornaconto, le banche tendono a distruggere l'economia. Il surplus finisce per essere divorato dagli interessi e da altri oneri finanziari, senza lasciare entrate per nuovi investimenti di capitale o per la spesa sociale di base. Questo è il motivo per cui la rinuncia ad attuare un controllo politico sulla classe creditrice raramente ha comportato una crescita economica e della qualità della vita. La tendenza per cui i debiti crescono più rapidamente della capacità della popolazione di ripagarli è stata una costante di tutta la storia documentata. I debiti crescono esponenzialmente, assorbendo tutti i guadagni e riducendo la gran parte della popolazione a una condizione di schiavitù. Per ristabilire l'equilibrio economico, si chiede quello che durante l'Età del Bronzo nel Medio Oriente si otteneva grazie al fiat reale: l’annullamento della crescita eccessiva di debiti. Più di recente, le democrazie hanno introdotto uno stato forte per poter tassare redditi e capitali e, quando richiesto, per depennare i debiti. Questo si può fare più facilmente quando è lo Stato stesso a creare moneta e credito. Si può fare meno facilmente quando le banche trasformano i loro profitti in potere politico. Quando le banche hanno il diritto di auto-regolarsi, nonché di porre il diritto di veto sull’azione del governo, l'economia viene distorta per consentire ai creditori di indulgere nelle scommesse speculative e nelle vere e proprie frodi che hanno segnato l'ultimo decennio. La caduta dell'impero romano mostra ciò che accade quando le richieste del creditore non ricevono risposta. In queste condizioni la rinuncia alla pianificazione e alla regolamentazione da parte del governo in favore dei settori finanziari spiana la strada alla schiavitù da debito. Finanza contro governo; oligarchia contro democraziaLa democrazia comporta che le dinamiche finanziarie siano subordinate al perseguimento dell’equilibrio economico e della crescita, così come la tassazione dei redditi da rendita o il mantenimento di monopoli di base pubblici. Il non tassare o il privatizzare le rendite di proprietà le rende “libere” di fluire nelle banche, per concedere poi prestiti ancora più consistenti. Finanziata dallo sfruttamento del debito, la chirurgia finanziaria aumenta la ricchezza di coloro che godono di posizioni di rendita mentre indebita l'economia in generale. L'economia si contrae, chiudendo in negativo il bilancio. Il settore finanziario ha ormai un’influenza tale da poter utilizzare queste circostanze per convincere i governi che l'economia crolla se non “si salvano le banche". In pratica questo significa consolidare il controllo delle banche sulla politica, che usano questo controllo in modo da polarizzare ulteriormente le economie. Il modello di riferimento è quanto successe nell’antica Roma, nel passaggio dalla democrazia all’oligarchia. In realtà, dando priorità ai banchieri e lasciando che la pianificazione economica sia dettata dall’UE, dalla BCE e dal FMI si concreta la minaccia di privare lo stato-nazione del potere di stampare moneta o denaro e di riscuotere le tasse. Il conflitto che ne risulta fa scontrare gli interessi finanziari contro l’autodeterminazione nazionale. L'idea di una banca centrale indipendente che sia "il segno distintivo della democrazia" è un eufemismo per destinare le decisioni politiche più importante - la capacità di creare moneta e credito – al settore finanziario. Invece di lasciar decidere politicamente a un referendum popolare, il salvataggio delle banche organizzato dall'UE e dalla BCE rappresenta oggi la principale causa dell’aumento del debito nazionale. I debiti bancari privati caricati sul bilancio del governo in Irlanda e Grecia sono stati trasformati in obblighi per il contribuente. Lo stesso vale per i 13 trilioni di dollari aggiunti nel settembre 2008 (compresi i 5,3 trilioni dei pessimi prestiti di Fannie Mae e Freddie Mac portati nel bilancio del governo, e 2 trilioni di dollari di swap tossici della Federal Reserve). Tutto ciò è stato dettato dai delegati della finanza, definiti eufemisticamente tecnocrati. Designati dai lobbisti creditori, il loro ruolo è quello di calcolare quanta disoccupazione e depressione sia necessaria per racimolare un attivo sufficiente per ripagare i debiti che sono sui libri contabili. Ciò che rende questo calcolo autolesionista è il fatto che la contrazione economica - deflazione - rende il peso del debito ancora più insostenibile. Né le banche né le autorità pubbliche (o i principali accademici, se è per questo) hanno preso in considerazione l’effettiva capacità dell'economia di ripagare i debiti, ossia di pagare senza avere una contrazione dell'economia. Attraverso i loro media e i think tank, hanno convinto le popolazioni che il modo per arricchirsi più rapidamente fosse quello di prendere in prestito denaro per acquistare immobili, azioni e obbligazioni quando aumentano di prezzo – essendo stati gonfiati dal credito bancario - e di porre fine alla tassazione progressiva della ricchezza imposta nel secolo scorso. Per dire le cose senza usare mezzi termini, il risultato è stato la creazione di una economia spazzatura. Il suo scopo è quello di disabilitare i pesi e i contrappesi pubblici, postando il potere di pianificazione nelle mani dell'alta finanza con la convinzione che questo sia il più efficiente metodo di regolamentazione pubblica. Il governo e la pianificazione fiscale vengono accusati di tracciare "la strada per la servitù", quando invece al "libero mercato" controllato dai banchieri viene dato modo di tutelare interessi particolare in modo oligarchico e non democratico. I governi devono pagare debiti assunti non per difendere i propri paesi in guerra come nel passato, ma a beneficio degli strati più ricchi della popolazione che spostano così le proprie perdite sui contribuenti. Il non prendere in considerazione i voleri degli elettori pone i debiti nazionali su un terreno instabile, politicamente e anche legalmente. I debiti imposti da leggi, da governi stranieri o agenzie finanziarie a fronte di una forte opposizione popolare possono essere non riconosciuti, come fecero gli Asburgo e altri regnanti in epoche passate. In mancanza di una convalida popolare, essi possono morire insieme al regime che li ha contratti. Nuovi governi potrebbero agire democraticamente per subordinare il settore bancario e finanziario a servizio dell'economia, non il contrario. Intanto, potrebbero chiedere la reintroduzione della tassazione progressiva dei capitali e dei redditi, spostare il carico fiscale sui percettori di rendite. La ri-regolamentazione del settore e una via pubblica per il credito e i servizi bancari potrebbero rinnovare il programma socialdemocratico che sembrava ben avviato un secolo fa. L’Islanda e l’Argentina sono gli esempi più recenti, ma si può guardare indietro alla moratoria sui debiti di guerra della Prima Guerra Mondiale degli stati europei nei confronti degli Stati Uniti (tali debiti furono rinegoziati) oppure alla moratoria sui debiti tedeschi di riparazione per la Prima Guerra Mondiale nel 1931. Sussiste un principio tanto matematico, quanto politico: i debiti che non possono essere ripagati, non lo saranno. **********************************************Fonte: Democracy and Debt di Michael Hudson Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di ALESSIA |
16 dicembre 2011
Europa sentinella del debito
Una crisi economica, soprattutto come quella che negli ultimi tre anni ha investito l’intero pianeta, non è mai solo una crisi monetaria. Nel migliore dei casi, vanno in crisi i governi politici degli stati, nel peggiore si scatenano le guerre mondiali, nella media tragicità, a crollare sono le strutture inter e sovra-nazionali. È quello che sta accedendo in Europa. Investita dal crack del sistema finanziario americano del 2008, sono cominciati a saltare i governi delle nazioni più esposte (Spagna, Grecia, Italia in primis). Se per le guerre mondiali forse ci vorrà del tempo (ma gli spifferi iraniani stanno già soffiando forte) quello scaduto sembra essere il tempo dell’euro-moneta come collante e propulsione degli assetti politici del Vecchio Continente. Già la settimana scorsa la Gran Bretagna, che pure all’euro aveva rinunciato in partenza, tenendosi la sterlina, ha rifiutato di entrare nella Ue dei cosiddetti 27 (ora, 26) e adesso non appare del tutto campata in aria l’ipotesi che la stessa Germania possa tornare al marco. Accadesse questo, tutta l’architettura europea fin qui concepita, e più o meno bene (anzi: male) realizzata, crollerebbe lasciando spazio a scenari ben poco prevedibili.
In questo contesto di assoluta incertezza, tutto ciò che rimane fermo e indiscutibile sono le misure che si ritengono imprescindibili per far fronte ai debiti degli stati in crisi (economica ma non solo) e che vanno sotto il nome generico di quei cosiddetti “sacrifici” che sono la ricerca di nuove entrate fiscali e di tagli alla spesa pubblica. Ora, perfino se il quadro europeo, compreso quello che riguarda strettamente la sorte della moneta unica, fosse chiaro e solido sarebbe da dubitare dell’efficacia della formula dei “sacrifici”, ma siccome così non è, il sospetto che il “taglia e prendi” proposto e imposto per l’ennesima volta come soluzione unica per evitare il default, sia un viatico alla salvezza dal fallimento è doveroso. Soprattutto, quando il sistema che regge in piedi lo stato liberista è fondato sul principio del produrre consumo per aumentare la produzione e incrementare nuovamente il consumo. Non ci vuole un genio per capire che congelando i contratti salariali e le pensioni, introducendo nuove tasse, aumentando l’Iva e le accise su generi di prima necessità come la benzina, la liquidità da destinare al consumo non può che flettere in basso (deflazione) con conseguente recessione della produzione.
È un percorso talmente noto e matematico che a stupire è solo il fatto che venga puntualmente riproposto. O meglio: stupirebbe se ci attardassimo ancora a considerare chi adotta e impone queste misure interessato alla sorte degli stati sociali e non, come ormai dovrebbe essere palese, a mantenerne in vita un altro: quello del sistema finanziario che impera. Perché, se si leggono in questa ottica, le misure di “austerità” (il “taglia e prendi” di cui si dice sopra) hanno un senso logico e coerente: quello di cristallizzare stato ed individui nella condizione di debitori. Lo ha spiegato benissimo il prof. Christian Marrazzi, in un’intervista del 3 dicembre a Ida Dominijanni del Manifesto: «Il neo-liberalismo si invera nella sua essenza di fabbrica dell’uomo indebitato. L’imprenditore di se stesso produce il suo debito che ora lo disciplina attraverso un dispositivo di colpevolizzazione. Del resto, qui c’è anche un inveramento, o uno svelamento, dell’essenza del denaro: il denaro è debito, la finanziarizzazione del capitale ci ha trasformati tutti in soggetti debitori, e il valore viene prodotto in negativo, da una macchina depressiva».
La “macchina depressiva” della finanziarizzazione del debito è potente e i segnali di un suo possibile arresto tardano ad arrivare. A meno che non si vogliano leggere come segni di sua debolezza la discesa in campo in prima persona dei banchieri alla guida degli stati e la sospensione della politica, se non proprio della democrazia, come avvenuto in Grecia e Italia negli ultimi mesi. Ovvero: vi è da chiedersi se la esposizione politica di uomini già legati alla Goldman Sachs (Mario Monti) e alla Bce (Lucas Papademos), istituti con grossissime responsabilità nella crisi in corso, non sia il tentativo di mettere pezze a un tessuto che tende a lacerarsi. Lo stesso Marrazzi sostiene che «La de-finanziarizzazione la sta approntando il capitalismo stesso nella forma recessiva della riduzione del debito» a causa della riduzione forzosa della liquidità del consumatore. È, in fondo, ancora un atto di fede nell’antica profezia marxiana del capitalismo che perirà per via delle sue contraddizioni.
Nel frattempo, però, persino alcune correzioni come la socializzazione dei debiti pubblici degli stati, l’introduzione della tobin-tax planetaria, l’istituzione del reddito minimo garantito di cittadinanza sembrano più un’aspirazione utopica che la ragionevole proposta di mediazione fra agenti della crisi e vittime della stessa. Se è così, figuriamoci quale accoglienza potrebbe avere una proposta che sostenesse di uscire da questo sistema dichiarando la moratoria del debito, pubblico e privato, la nazionalizzazione delle banche e l’integrazione del lavoratore nella gestione delle imprese produttive, in un quadro politico generale di democrazia diretta e partecipata.
di Miro Renzaglia