20 dicembre 2011

Crisi: e alla fine arrivò la grande depressione


Era una bella consolazione. Pensare che comunque la si guardasse la crisi attuale nulla avesse a che fare con la "grande depressione degli anni ‘30" in qualche modo rincuorava anche i più pessimisti. L'avesse detto un anticapitalista qualunque che quello scenario era nuovamente all'orizzonte avrebbe fatto lo stesso rumore della nascita di un filo d'erba, ma il sentirlo affermare da Christine Lagarde, capo del Fondo monetario internazionale, fa saltare i timpani come un allarme tsunami mondiale. Anche perché pure Mario Draghi ha confermato la frenata della crescita mondiale, dimostrata ampiamente da quanto sta accadendo in Cina. Dopo tre anni di chiacchiere, dunque, la crisi è a doppia W e la prospettiva di risalita neppure si vede. Una crisi finanziaria che ha fatto saltare governi e tolto milioni di posti di lavoro, allargato la forbice tra ricchi e poveri, relegato l'ecologia a un di più da affrontare chissà quando e non intaccando minimamente il modello di sviluppo. Nonostante di sviluppo non se ne veda neanche l'ombra.

Per dire queste cose non servono gli economisti, perché le capiamo anche noi che non lo siamo e dunque più che sugli strumenti tecnici necessari per tentare di rimediare a questa situazione, ne facciamo una questione politica/sociologica. E diciamo che metaforicamente per curare da una depressione servirebbe uno psicologo, mentre ci si sta rivolgendo a uno psichiatra con qualche disturbo. Perché quando una strada che si è seguita è terminata contro un muro, il prendere la rincorsa per picchiare ancor più forte contro lo stesso significa avere dei problemi seri. Ma il medico, a questo punto, può far poco perché dà sempre la stessa ricetta, e qui un anti-depressivo non basta. Serve un confronto almeno con chi questa crisi la sta subendo davvero, quel 99% che pur con tutte le sue incongruenze paga una crisi di cui al massimo può essere corresponsabile dal punto di vista di non aver capito per tempo che cosa stesse capitando, oppure di aver scelto dei pessimi rappresentanti dei veri interessi comuni.

Semplificando al massimo il male, oggi - come dice Gordon Gekko in Wall Street 2, concedeteci una citazione cinefila e non altissima - è il "prestito" ("un biglietto sicuro per la bancarotta, senza ritorno. È sistemico, maligno ed è globale, come il cancro"). Che poi diventa debito. Ci hanno convinto che potevamo indebitarci e che anzi era un bene farlo per far funzionare l'economia, e la finanza ha cavalcato questa idea urbe et orbi. Replicandola su ogni cosa che si muovesse o che si sarebbe potuta muovere o che invece sarebbe crollata. Rischiando su tutto perché opera tramite banche con soldi non suoi.

«Questa crisi ha messo a nudo le crepe della nostra società - scrive l'economista premio Nobel Joseph Stiglitz nel suo "Bancarotta" - fra il mondo della finanza di Wall Street e l'economia reale di Main Street, fra l'America dei ricchi e il resto della nostra società (dove siamo anche noi da quest'altra parte dell'Oceano, non lo dice Stiglitz ma è evidente, ndr). Mentre le persone sui gradini più in alto della scala sociale hanno vissuto molto bene in questi ultimi trent'anni, il reddito della maggior parte degli americani ha ristagnato o è diminuito. Le conseguenze sono state nascoste; ai ceti bassi - e anche a quelli medi - è stato detto di continuare a consumare come se i redditi fossero in aumento; le persone sono state incoraggiate a vivere al di sopra delle loro possibilità, ricorrendo a prestiti resi possibili dalla bolla».

Il guaio, aggiungiamo noi, è che la stessa cosa hanno fatto i governi! Anche loro hanno vissuto indebitandosi e scommettendo sulla finanza come panacea di ogni male, persino i comuni, con il risultato che quando hanno stabilito che eravamo potenzialmente insolventi, gli investitori ci hanno chiuso i rubinetti come fanno le banche. Anche certamente per colpa di un governo, il precedente, totalmente non credibile, ma come si vede per la finanza - che deve sempre trovare un capro espiatorio per togliersi da ogni responsabilità - ora giudica quasi tutti i governi europei non credibili. «Il settore finanziario - come dice sempre Stiglitz - è restio a farsi carico dei propri fallimenti». Tant'è, aggiungiamo noi, che quando l'Ue al super-summit ha deciso di dare una strizzatina alla finanza, la Gran Bretagna se ne è fuggita a gambe levate...

La crisi, dunque, è sistemica. Questo - e veniamo alle questioni italiane - dovrebbe saperlo bene un uomo come Mario Monti che infatti cerca di ridare credibilità al Paese, anche questa condizione necessaria almeno per avere voce in capitolo qualora qualcuno anche da questo Paese avesse voglia di provare a cambiare le cose. Ma di fronte a tutto questo davvero non possiamo tacere su una topica che sta prendendo anche questo Governo, ovvero pensare che un contributo arrivi rendendo ancor più precario il lavoro (articolo 18) e allungando le pensioni fino a 70 anni.

L'avvitamento è andato in scena involontariamente, crediamo, sul Corriere della Sera di ieri. A domanda pertinente di Enrico Marro al ministro Fornero sul fatto che lei creda davvero che «le imprese terranno le persone fino a 70 anni» (tema da noi sollevato fin dall'inizio, vedi link) lei ha risposto così: «qui tocchiamo una anomalia del nostro sistema. La previdenza è stata troppo spesso un ammortizzatore sociale, per cui tutte le riorganizzazioni d'impresa sfociano in prepensionamenti. Accade perché se guardiamo alla curva delle retribuzioni, lo stipendio sale con l'anzianità mentre in altri Paesi cresce con la produttività e quindi fino all'età della maturità professionale ma poi scende nella fase finale, perché il lavoratore anziano è di regola meno produttivo. Da noi non è così e questo fa sì che le aziende risolvano il problema mandando i dipendenti più anziani e costosi in prepensionamento. Anche i lavoratori hanno la loro convenienza con la pensione anticipata. E lo Stato copre questo patto implicito tra aziende e lavoratori anziani a scapito dei giovani. Se vogliamo fare la riforma del ciclo di vita, è proprio per rompere questo patto: non ce lo possiamo più permettere».

C'è del vero, ma quello che fa uscire gli occhi dalla orbite è che questa manovra è stata avallata almeno a parole da Confindustria, come se appunto anche loro riconoscessero l'anomalia: peccato che accanto all'intervista ci sia proprio un pezzo su Confindustria che avrebbe delle resistenze, e su che cosa? «La riforma delle pensioni costringe le imprese a tenere i lavoratori più a lungo in servizio, in prospettiva fino a 70 anni, facendo saltare i piani di molte di esse che speravano in un alleggerimento degli organici che le avrebbe aiutate a superare la crisi». Inoltre c'è da dire anche che gli ammortizzatori "avanzati" e gli scaloni pensionistici che si propongono sono quelli europei di Paesi con servizi ai cittadini (soprattutto donne ed anziani) molto più avanzati dei nostri, ma la ricetta del mercato del lavoro è quella americana, con salari e diritti dei lavoratori più vicini a quelli cinesi che a quelli tedeschi.

Come si vede su questo tema ci avvitiamo completamente perché è il modello che è sbagliato, perché l'individuo non è più al centro di questo modello, men che meno l'ambiente e la redistribuizione delle ricchezze attraverso anche un welfare di qualità, un'idea morta e sepolta. Una cura a questo modello equivale a doparlo, qui serve un cambio radicale fondando lo sviluppo sulla sostenibilità ambientale e sociale e riducendo tutti i debiti, specialmente quelli con le risorse del pianeta; un cambio dato dal confronto e ripulito dalle distorsioni tecnologiche che ammazzano la democrazia.

di Alessandro Farulli

19 dicembre 2011

Monti, rigore senza crescita: l’Europa si suicida in Italia




L’Islanda ha dichiarato il default e ha rotto i patti. Sfortuntamente, l’Italia è un paese molto più grande: difficile rompere i patti, perché dipenderebbe da noi il futuro dell’Unione Europea. Non si vuole finire, tra un anno, peggio di oggi? Allora Monti non dovrebbe incontrarsi prima di tutto con la Merkel e con Sarkozy, ma con Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda. Dovrebbe andare a Bruxelles e dire: scusate, noi vogliamo rinegoziare tutto. Dobbiamo stracciare il Trattato di Maastricht e ricominciare un processo costituente europeo con la partecipazione dei popoli europei, e a questo punto ridiscutiamo tutto: il meccanismo di finanziamento degli Stati, questo debito sovrano, è una grande truffa. Siccome siamo decisivi, l’Europa dovrebbe ascoltarci. Se noi andiamo a finire dove ci vogliono mandare, i tedeschi dove vanno a venderli i loro prodotti? Di fatto, sono dei suicidi senza saperlo.

Questa che viene tentata da Monti è una manovra senza destino: perché non ci sarà crescita, come scopriremo tra un anno, un anno e mezzo. Quello che Giulietto Chiesastanno facendo è un rifinanziamento delle banche internazionali. Nuova immissione di debito: stanno immettendo una nuova, gigantesca valanga di denaro virtuale per tenere in piedi le banche. Non regge: è saltato nel 2007, salterà di nuovo nel 2012, 2013. Monti e Draghi stanno facendo il gioco della grandefinanza americana. Chi ha aperto questa grande crisi non è l’Europa, sono gli Stati Uniti. Tutto è cominciato con la crisi dei subprime, cioè dei mutui “facili”. Loro hanno creato questa gigantesca bolla di debito impagabile. Non mi fido di loro e delle loro 9 super-banche, perché loro sono i protagonisti di questo disastro. Monti e Draghi, i due Mario, sono i loro missi dominici: hanno preso il governo della Grecia, dell’Italia e della Banca Centrale Europea. Lo dico apertamente: di loro non mi fido.

La crisi è diventata molto grave e non è manovrata: ormai sfugge al controllo anche dei grandi potentati del mondo. E poi siamo molto ingannati, parliamoci chiaro: io non credo a una sola parola che è stata detta fino ad ora sulla crescita. In un editoriale, Eugenio Scalfari ha scritto che nella cartuccera di Monti ci sono due pallottole: il rigore e la crescita. In realtà ne ha una sola, perché la crescita non ci sarà. Il governo ci sta dicendo: adesso vi toccherà una dose da cavallo di sacrifici, dopodiché ci sarà la crescita. E qui casca l’asino, perché tutti i dati dicono che l’Europa non crescerà, e a lungo: siamo di fronte a un decennio di non-crescita. La Germania è dato allo 0,8%, cioè alla stagnazione. E se presenti agli italiani un programma che significa compressione del tenore di vita, riduzione dei salari, delle pensioni e della spesa sociale, tu avrai una situazione diEugenio Scalfarirecessione drammatica. Domanda: come fai a proporre agli italiani un programma di risanamento che prevede la recessione? C’è qualcosa che non funziona: qualcuno qui trucca le carte.

Costituitosi il 17 dicembre a Roma, il comitato No-Debito dice: noi questo debito non lo dobbiamo pagare, perché è un debito iniquo, illegale, che va totalmente rinegoziato. So bene che questa situazione deriva da diverse ragioni; non è tutta colpa della speculazione, ma anche della cattiva gestione delle finanze da parte delle classi dirigenti italiane. Ma le cifre sono chiare: 750 miliardi del nostro debito sono frutto della speculazione finanziaria internazionale. Se nel Trattato di Maastricht e in altri trattati europei, scrivi che – per finanziarsi – gli Stati devono fare ricorso obbligatoriamente al mercato finanziario internazionale, e se quel mercato è truccato, vuol dire che tu sei col cappio alla gola. E allora: se qualcuno ha truccato le cifre, per quale ragione dovrei pagare queste cifre truccate?

Quando so che Standard & Poor’s, che è quella che ci dà i voti, insieme a Moody’s e alle altre agenzie di rating è nelle mani delle grandi banche di investimento americane, come faccio a fidarmi del loro giudizio? Una delle cose che chiederei a Monti è questa: voglio sapere chi sono i nostri creditori. Vorrei un audit, cioè sedute pubbliche in cui una commissione di persone competenti ci dica esattamente nomi, cognomi e indirizzi di coloro che hanno nelle mani il nostro debito: a quel punto, potremmo decidere cosa èMario Montigiusto e cosa non è giusto pagare. Io sono assolutamente convinto che i 4/5 del nostro debito non solo legali: vanno rimessi in discussione.

In realtà siamo stati trasformati tutti in consumatori collettivi, in una situazione in cui il paradosso principale è che tutti ormai sono abituati a concepire la loro vita in termini di consumo, quando il consumo dovrà essere ridotto. Monti e la Goldman Sachs si sbagliano: l’Occidente non crescerà più. E’ finita, siamo arrivati ai limiti dello sviluppo. Mi baso sulle più importanti previsioni, come quelle elaborate molti anni fa dal Club di Roma: tutti i fattori principali che hanno costituito la crescita delle società occidentali negli ultimi due secoli stanno finendo, e finiranno la qui alla metà di questo secolo, forse anche prima. Allora, la necessità che abbiamo di fronte è questa: rieducare milioni di persone a una vita diversa da quella che hanno fatto fino ad ora. Non voglio fare allarmismo: una vita più sobria, con meno consumi, sarebbe una vita migliore: con meno inquinamento e meno malattie.

I ragazzi delle scuole sono perfettamente in grado di capire, solo che bisogna che qualcuno glielo dica. Una delle ragioni di questa “macchina dei sogni”, è che l’agenda viene fatta lontano da noi, ai piani alti della torre, tra persone che sanno come stanno le cose; i giornalisti dovrebbero essere i primi a difenderci, ma spesso non sono informati. Eppure dovrebbero essere decisivi in questa operazione. Quella che sta arrivando è una crisi multipla, quella finanziaria è solo la ciliegina sulla torta. In realtà c’è la crisi energetica, c’è la crisi dell’acqua, la crisi del clima. Stiamo arrivando molto in fretta a una fase di gravi modificazioni della nostra vita. Bisogna quindi fare in modo che molte persone, in un colpo solo, siano raggiunte da questo nuovo messaggio: ci vuole un impegno radicalmente nuovo del sistema dei media.

di Giorgio Cattaneo

(Giulietto Chiesa, dichiarazioni rilasciate nell’intervista televisiva realizzata il 12 dicembre da “Antenna Sud”).

18 dicembre 2011

Avanzando verso il precipizio





Uno dei lavori della Convenzione sul Cambiamento Climatico delle Nazioni Unite, che è in corso di svolgimento a Durban in Sud Africa (il vertice si è concluso il 9 dicembre ndr), è quello di estendere le decisioni politiche precedenti, che sono limitate e solo parzialmente applicate.

Queste decisioni risalgono alla Convenzione del 1992 dell’ONU e al protocollo di Kyoto del 1997, al quale gli Stati Uniti si rifiutarono di aderire. Il primo periodo di impegno del Protocollo di Kyoto termina nel 2012. L’aria generale che si respirava prima della conferenza è stata catturata dal New York Times col titolo “Tematiche, ma scarse aspettative”.

Mentre i delegati si riuniscono a Durban, un rapporto su alcuni recenti sondaggi realizzati dal Consiglio delle Relazioni Estere e dal Programma sull’Approccio Politico Internazionale (PIPA) rivela che “i cittadini di tutto il mondo e degli Stati Uniti chiedono che i governi diano una priorità maggiore ai problemi del riscaldamento globale e che appoggino con forza azioni multilaterali per soddisfare questa necessità”.

La maggioranza dei cittadini statunitensi è d’accordo, anche se il PIPA chiarisce che la percentuale “è calata negli ultimi anni, per il fatto che la preoccupazione degli Stati Uniti è significativamente più bassa rispetto a quella mondiale, ora il 79% contro il precedente 84%”.

Gli statunitensi non ritengono che ci sia un consenso scientifico sull’urgenza di prendere iniziative per contrastare il cambiamento climatico. […] Una grande maggioranza pensa che sarà colpita personalmente dal cambiamento climatico, ma solo una minoranza crede che già ora si stiano subendo le conseguenze di tale cambio, contrariamente all’opinione della maggioranza degli altri paesi. Gli statunitensi tendono a sottovalutare il livello di preoccupazione.”

Questi atteggiamenti non sono casuali. Nel 2009 le industrie energetiche, appoggiate dai gruppi dirigenti delle grandi aziende, hanno lanciato grandi campagne che hanno instillato dubbi sulla presenza del consenso degli scienziati riguardo la severità della minaccia del riscaldamento globale prodotto dagli esseri umani.

Il consenso è solamente “quasi unanime”, perché non include molti esperti convinti che gli allarmi sul riscaldamento globale non siano sufficientemente forti, oltre a un gruppo marginale che nega completamente la consistenza della minaccia.

“L’analisi abituale di questo problema” si basa sul mantenimento di “equilibrio”: la gran parte degli scienziati da un lato e i “negazionisti” dall’altro. Gli scienziati che manifestano gli allarmi più forti sono generalmente ignorati dalla maggioranza.

Per questi motivi solo un terzo della popolazione statunitense crede che esista un consenso scientifico sulla minaccia del riscaldamento globale, molto meno rispetto alla media mondiale, e un qualcosa di radicalmente contrastante con i fatti.

Non è un segreto che il governo statunitense stia impuntando i piedi sui temi del clima. “I cittadini di tutto il mondo hanno criticato il modo in cui gli Stati Uniti stanno trattando il problema del cambiamento climatico”, secondo il PIPA. “In generale, gli Stati Uniti sono visti da tutti come il paese che ha prodotto l’impatto più negativo sull’ambiente, seguito dalla Cina. La Germania ha ottenuto riconoscimenti superiori.”

A volte, per riuscire ad avere una visione chiara sui fatti del mondo può essere utile adottare la posizione degli osservatori extraterrestri intelligenti che contemplano gli strani avvenimenti della Terra. Osserverebbero, stupiti, che il paese più ricco e potente nella storia del pianeta adesso guida i lemming nel loro allegro avanzare verso il precipizio.

Il mese scorso l’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica (AIEA), formata nel 1974 per il volere del Segretario di Stato statunitense Henry Kissinger, ha emesso un rapporto aggiornato sull’accelerazione dell’incremento delle emissioni di carbonio provenienti dall’uso di combustibili fossili.

L’AIEA ha calcolato che, se il mondo continuerà su questa strada, il “budget di carbonio” sarà terminato nel 2017. Il budget è la quantità di emissioni che possono mantenere il riscaldamento globale entro un livello di 2 gradi Celsius, quello che viene considerato il limite di sicurezza.

L’economista a capo dell’AIEA, Fatih Birol, ha detto: “La porta si sta chiudendo. […] Se non cambiamo adesso il nostro modo di utilizzare l’energia, oltrepasseremo quello che gli scienziati hanno considerato il limite minimo (di sicurezza). La porta si chiuderà per sempre.”

Anche il mese scorso il Dipartimento di Energia statunitense ha reso pubblici i dati delle emissioni del 2010. Le “emissioni sono aumentate al livello massimo registrato finora”, ha citato la Associated Press, ciò significa che “i livelli di gas serra sono più elevati di quelli del peggiore scenario” che era stato preventivato nel 2007 dal Gruppo Internazionale sul Cambiamento Climatico.

John Reilly, codirettore del programma sul cambiamento climatico del Massachusetts Institute of Technology, ha riferito alla Associated Press che gli scienziati ritengono che le previsioni dell’IPCC sono state troppo conservatrici, a differenza del piccolo gruppo di “negazionisti” che attraggono l’opinione pubblica. Reilly ha informato che il peggiore scenario dell’IPCC era circa alla metà delle stime possibili degli scienziati del MIT sui possibili esiti.

Nel mentre venivano resi noti questi dati allarmanti, il Financial Times ha dedicato una pagina intera alle aspettative ottimistiche, che ipotizzano un’indipendenza energetica degli Stati Uniti per circa un secolo grazie alle nuove tecnologie per l’estrazione dei combustibili fossili del Nord America.

Anche se le proiezioni sono incerte, secondo il Financial Times, gli Stati Uniti “potrebbero superare l’Arabia Saudita e la Russia diventando il più grande produttore al mondo di idrocarburi liquidi, considerando sia il greggio che i gas naturali”.

In questo felice caso, gli Stati Uniti potrebbero sperare di mantenere la propria egemonia mondiale. A parte alcuni commenti sull’impatto ecologico locale, il Financial Times non ci ha detto niente sul genere di pianeta che emergerebbe da queste appetibili prospettive. L’energia va bruciata: e al diavolo l’ambiente.

Quasi tutti i governi stanno cercando di far qualcosa contro la catastrofe che si avvicina. Gli Stati Uniti sono in cima alla fila, guardandola dal fondo. La Camera dei Rappresentanti degli USA, dominata dai Repubblicani, sta ora smantellando le misure ambientali introdotte da Richard Nixon, che sotto molti aspetti fu l’ultimo presidente liberale.

Questo comportamento reazionario è uno dei tanti segnali della crisi della democrazia statunitense durante la scorsa generazione. La breccia fra l’opinione pubblica e la politica è cresciuta fino a convertirsi in un abisso sui temi centrali del dibattito politico attuale, come il deficit e il lavoro. Tuttavia, grazie all’offensiva propagandistica, la breccia è minore di quella che dovrebbe essere nel tema più serio dell’agenda internazionale odierna, e forse della storia.

Potremmo riuscire a perdonare questi ipotetici osservatori extraterrestri se dovesse concludere che sembriamo affetti da una forma di follia letale.

di Noam Chomsky

20 dicembre 2011

Crisi: e alla fine arrivò la grande depressione


Era una bella consolazione. Pensare che comunque la si guardasse la crisi attuale nulla avesse a che fare con la "grande depressione degli anni ‘30" in qualche modo rincuorava anche i più pessimisti. L'avesse detto un anticapitalista qualunque che quello scenario era nuovamente all'orizzonte avrebbe fatto lo stesso rumore della nascita di un filo d'erba, ma il sentirlo affermare da Christine Lagarde, capo del Fondo monetario internazionale, fa saltare i timpani come un allarme tsunami mondiale. Anche perché pure Mario Draghi ha confermato la frenata della crescita mondiale, dimostrata ampiamente da quanto sta accadendo in Cina. Dopo tre anni di chiacchiere, dunque, la crisi è a doppia W e la prospettiva di risalita neppure si vede. Una crisi finanziaria che ha fatto saltare governi e tolto milioni di posti di lavoro, allargato la forbice tra ricchi e poveri, relegato l'ecologia a un di più da affrontare chissà quando e non intaccando minimamente il modello di sviluppo. Nonostante di sviluppo non se ne veda neanche l'ombra.

Per dire queste cose non servono gli economisti, perché le capiamo anche noi che non lo siamo e dunque più che sugli strumenti tecnici necessari per tentare di rimediare a questa situazione, ne facciamo una questione politica/sociologica. E diciamo che metaforicamente per curare da una depressione servirebbe uno psicologo, mentre ci si sta rivolgendo a uno psichiatra con qualche disturbo. Perché quando una strada che si è seguita è terminata contro un muro, il prendere la rincorsa per picchiare ancor più forte contro lo stesso significa avere dei problemi seri. Ma il medico, a questo punto, può far poco perché dà sempre la stessa ricetta, e qui un anti-depressivo non basta. Serve un confronto almeno con chi questa crisi la sta subendo davvero, quel 99% che pur con tutte le sue incongruenze paga una crisi di cui al massimo può essere corresponsabile dal punto di vista di non aver capito per tempo che cosa stesse capitando, oppure di aver scelto dei pessimi rappresentanti dei veri interessi comuni.

Semplificando al massimo il male, oggi - come dice Gordon Gekko in Wall Street 2, concedeteci una citazione cinefila e non altissima - è il "prestito" ("un biglietto sicuro per la bancarotta, senza ritorno. È sistemico, maligno ed è globale, come il cancro"). Che poi diventa debito. Ci hanno convinto che potevamo indebitarci e che anzi era un bene farlo per far funzionare l'economia, e la finanza ha cavalcato questa idea urbe et orbi. Replicandola su ogni cosa che si muovesse o che si sarebbe potuta muovere o che invece sarebbe crollata. Rischiando su tutto perché opera tramite banche con soldi non suoi.

«Questa crisi ha messo a nudo le crepe della nostra società - scrive l'economista premio Nobel Joseph Stiglitz nel suo "Bancarotta" - fra il mondo della finanza di Wall Street e l'economia reale di Main Street, fra l'America dei ricchi e il resto della nostra società (dove siamo anche noi da quest'altra parte dell'Oceano, non lo dice Stiglitz ma è evidente, ndr). Mentre le persone sui gradini più in alto della scala sociale hanno vissuto molto bene in questi ultimi trent'anni, il reddito della maggior parte degli americani ha ristagnato o è diminuito. Le conseguenze sono state nascoste; ai ceti bassi - e anche a quelli medi - è stato detto di continuare a consumare come se i redditi fossero in aumento; le persone sono state incoraggiate a vivere al di sopra delle loro possibilità, ricorrendo a prestiti resi possibili dalla bolla».

Il guaio, aggiungiamo noi, è che la stessa cosa hanno fatto i governi! Anche loro hanno vissuto indebitandosi e scommettendo sulla finanza come panacea di ogni male, persino i comuni, con il risultato che quando hanno stabilito che eravamo potenzialmente insolventi, gli investitori ci hanno chiuso i rubinetti come fanno le banche. Anche certamente per colpa di un governo, il precedente, totalmente non credibile, ma come si vede per la finanza - che deve sempre trovare un capro espiatorio per togliersi da ogni responsabilità - ora giudica quasi tutti i governi europei non credibili. «Il settore finanziario - come dice sempre Stiglitz - è restio a farsi carico dei propri fallimenti». Tant'è, aggiungiamo noi, che quando l'Ue al super-summit ha deciso di dare una strizzatina alla finanza, la Gran Bretagna se ne è fuggita a gambe levate...

La crisi, dunque, è sistemica. Questo - e veniamo alle questioni italiane - dovrebbe saperlo bene un uomo come Mario Monti che infatti cerca di ridare credibilità al Paese, anche questa condizione necessaria almeno per avere voce in capitolo qualora qualcuno anche da questo Paese avesse voglia di provare a cambiare le cose. Ma di fronte a tutto questo davvero non possiamo tacere su una topica che sta prendendo anche questo Governo, ovvero pensare che un contributo arrivi rendendo ancor più precario il lavoro (articolo 18) e allungando le pensioni fino a 70 anni.

L'avvitamento è andato in scena involontariamente, crediamo, sul Corriere della Sera di ieri. A domanda pertinente di Enrico Marro al ministro Fornero sul fatto che lei creda davvero che «le imprese terranno le persone fino a 70 anni» (tema da noi sollevato fin dall'inizio, vedi link) lei ha risposto così: «qui tocchiamo una anomalia del nostro sistema. La previdenza è stata troppo spesso un ammortizzatore sociale, per cui tutte le riorganizzazioni d'impresa sfociano in prepensionamenti. Accade perché se guardiamo alla curva delle retribuzioni, lo stipendio sale con l'anzianità mentre in altri Paesi cresce con la produttività e quindi fino all'età della maturità professionale ma poi scende nella fase finale, perché il lavoratore anziano è di regola meno produttivo. Da noi non è così e questo fa sì che le aziende risolvano il problema mandando i dipendenti più anziani e costosi in prepensionamento. Anche i lavoratori hanno la loro convenienza con la pensione anticipata. E lo Stato copre questo patto implicito tra aziende e lavoratori anziani a scapito dei giovani. Se vogliamo fare la riforma del ciclo di vita, è proprio per rompere questo patto: non ce lo possiamo più permettere».

C'è del vero, ma quello che fa uscire gli occhi dalla orbite è che questa manovra è stata avallata almeno a parole da Confindustria, come se appunto anche loro riconoscessero l'anomalia: peccato che accanto all'intervista ci sia proprio un pezzo su Confindustria che avrebbe delle resistenze, e su che cosa? «La riforma delle pensioni costringe le imprese a tenere i lavoratori più a lungo in servizio, in prospettiva fino a 70 anni, facendo saltare i piani di molte di esse che speravano in un alleggerimento degli organici che le avrebbe aiutate a superare la crisi». Inoltre c'è da dire anche che gli ammortizzatori "avanzati" e gli scaloni pensionistici che si propongono sono quelli europei di Paesi con servizi ai cittadini (soprattutto donne ed anziani) molto più avanzati dei nostri, ma la ricetta del mercato del lavoro è quella americana, con salari e diritti dei lavoratori più vicini a quelli cinesi che a quelli tedeschi.

Come si vede su questo tema ci avvitiamo completamente perché è il modello che è sbagliato, perché l'individuo non è più al centro di questo modello, men che meno l'ambiente e la redistribuizione delle ricchezze attraverso anche un welfare di qualità, un'idea morta e sepolta. Una cura a questo modello equivale a doparlo, qui serve un cambio radicale fondando lo sviluppo sulla sostenibilità ambientale e sociale e riducendo tutti i debiti, specialmente quelli con le risorse del pianeta; un cambio dato dal confronto e ripulito dalle distorsioni tecnologiche che ammazzano la democrazia.

di Alessandro Farulli

19 dicembre 2011

Monti, rigore senza crescita: l’Europa si suicida in Italia




L’Islanda ha dichiarato il default e ha rotto i patti. Sfortuntamente, l’Italia è un paese molto più grande: difficile rompere i patti, perché dipenderebbe da noi il futuro dell’Unione Europea. Non si vuole finire, tra un anno, peggio di oggi? Allora Monti non dovrebbe incontrarsi prima di tutto con la Merkel e con Sarkozy, ma con Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda. Dovrebbe andare a Bruxelles e dire: scusate, noi vogliamo rinegoziare tutto. Dobbiamo stracciare il Trattato di Maastricht e ricominciare un processo costituente europeo con la partecipazione dei popoli europei, e a questo punto ridiscutiamo tutto: il meccanismo di finanziamento degli Stati, questo debito sovrano, è una grande truffa. Siccome siamo decisivi, l’Europa dovrebbe ascoltarci. Se noi andiamo a finire dove ci vogliono mandare, i tedeschi dove vanno a venderli i loro prodotti? Di fatto, sono dei suicidi senza saperlo.

Questa che viene tentata da Monti è una manovra senza destino: perché non ci sarà crescita, come scopriremo tra un anno, un anno e mezzo. Quello che Giulietto Chiesastanno facendo è un rifinanziamento delle banche internazionali. Nuova immissione di debito: stanno immettendo una nuova, gigantesca valanga di denaro virtuale per tenere in piedi le banche. Non regge: è saltato nel 2007, salterà di nuovo nel 2012, 2013. Monti e Draghi stanno facendo il gioco della grandefinanza americana. Chi ha aperto questa grande crisi non è l’Europa, sono gli Stati Uniti. Tutto è cominciato con la crisi dei subprime, cioè dei mutui “facili”. Loro hanno creato questa gigantesca bolla di debito impagabile. Non mi fido di loro e delle loro 9 super-banche, perché loro sono i protagonisti di questo disastro. Monti e Draghi, i due Mario, sono i loro missi dominici: hanno preso il governo della Grecia, dell’Italia e della Banca Centrale Europea. Lo dico apertamente: di loro non mi fido.

La crisi è diventata molto grave e non è manovrata: ormai sfugge al controllo anche dei grandi potentati del mondo. E poi siamo molto ingannati, parliamoci chiaro: io non credo a una sola parola che è stata detta fino ad ora sulla crescita. In un editoriale, Eugenio Scalfari ha scritto che nella cartuccera di Monti ci sono due pallottole: il rigore e la crescita. In realtà ne ha una sola, perché la crescita non ci sarà. Il governo ci sta dicendo: adesso vi toccherà una dose da cavallo di sacrifici, dopodiché ci sarà la crescita. E qui casca l’asino, perché tutti i dati dicono che l’Europa non crescerà, e a lungo: siamo di fronte a un decennio di non-crescita. La Germania è dato allo 0,8%, cioè alla stagnazione. E se presenti agli italiani un programma che significa compressione del tenore di vita, riduzione dei salari, delle pensioni e della spesa sociale, tu avrai una situazione diEugenio Scalfarirecessione drammatica. Domanda: come fai a proporre agli italiani un programma di risanamento che prevede la recessione? C’è qualcosa che non funziona: qualcuno qui trucca le carte.

Costituitosi il 17 dicembre a Roma, il comitato No-Debito dice: noi questo debito non lo dobbiamo pagare, perché è un debito iniquo, illegale, che va totalmente rinegoziato. So bene che questa situazione deriva da diverse ragioni; non è tutta colpa della speculazione, ma anche della cattiva gestione delle finanze da parte delle classi dirigenti italiane. Ma le cifre sono chiare: 750 miliardi del nostro debito sono frutto della speculazione finanziaria internazionale. Se nel Trattato di Maastricht e in altri trattati europei, scrivi che – per finanziarsi – gli Stati devono fare ricorso obbligatoriamente al mercato finanziario internazionale, e se quel mercato è truccato, vuol dire che tu sei col cappio alla gola. E allora: se qualcuno ha truccato le cifre, per quale ragione dovrei pagare queste cifre truccate?

Quando so che Standard & Poor’s, che è quella che ci dà i voti, insieme a Moody’s e alle altre agenzie di rating è nelle mani delle grandi banche di investimento americane, come faccio a fidarmi del loro giudizio? Una delle cose che chiederei a Monti è questa: voglio sapere chi sono i nostri creditori. Vorrei un audit, cioè sedute pubbliche in cui una commissione di persone competenti ci dica esattamente nomi, cognomi e indirizzi di coloro che hanno nelle mani il nostro debito: a quel punto, potremmo decidere cosa èMario Montigiusto e cosa non è giusto pagare. Io sono assolutamente convinto che i 4/5 del nostro debito non solo legali: vanno rimessi in discussione.

In realtà siamo stati trasformati tutti in consumatori collettivi, in una situazione in cui il paradosso principale è che tutti ormai sono abituati a concepire la loro vita in termini di consumo, quando il consumo dovrà essere ridotto. Monti e la Goldman Sachs si sbagliano: l’Occidente non crescerà più. E’ finita, siamo arrivati ai limiti dello sviluppo. Mi baso sulle più importanti previsioni, come quelle elaborate molti anni fa dal Club di Roma: tutti i fattori principali che hanno costituito la crescita delle società occidentali negli ultimi due secoli stanno finendo, e finiranno la qui alla metà di questo secolo, forse anche prima. Allora, la necessità che abbiamo di fronte è questa: rieducare milioni di persone a una vita diversa da quella che hanno fatto fino ad ora. Non voglio fare allarmismo: una vita più sobria, con meno consumi, sarebbe una vita migliore: con meno inquinamento e meno malattie.

I ragazzi delle scuole sono perfettamente in grado di capire, solo che bisogna che qualcuno glielo dica. Una delle ragioni di questa “macchina dei sogni”, è che l’agenda viene fatta lontano da noi, ai piani alti della torre, tra persone che sanno come stanno le cose; i giornalisti dovrebbero essere i primi a difenderci, ma spesso non sono informati. Eppure dovrebbero essere decisivi in questa operazione. Quella che sta arrivando è una crisi multipla, quella finanziaria è solo la ciliegina sulla torta. In realtà c’è la crisi energetica, c’è la crisi dell’acqua, la crisi del clima. Stiamo arrivando molto in fretta a una fase di gravi modificazioni della nostra vita. Bisogna quindi fare in modo che molte persone, in un colpo solo, siano raggiunte da questo nuovo messaggio: ci vuole un impegno radicalmente nuovo del sistema dei media.

di Giorgio Cattaneo

(Giulietto Chiesa, dichiarazioni rilasciate nell’intervista televisiva realizzata il 12 dicembre da “Antenna Sud”).

18 dicembre 2011

Avanzando verso il precipizio





Uno dei lavori della Convenzione sul Cambiamento Climatico delle Nazioni Unite, che è in corso di svolgimento a Durban in Sud Africa (il vertice si è concluso il 9 dicembre ndr), è quello di estendere le decisioni politiche precedenti, che sono limitate e solo parzialmente applicate.

Queste decisioni risalgono alla Convenzione del 1992 dell’ONU e al protocollo di Kyoto del 1997, al quale gli Stati Uniti si rifiutarono di aderire. Il primo periodo di impegno del Protocollo di Kyoto termina nel 2012. L’aria generale che si respirava prima della conferenza è stata catturata dal New York Times col titolo “Tematiche, ma scarse aspettative”.

Mentre i delegati si riuniscono a Durban, un rapporto su alcuni recenti sondaggi realizzati dal Consiglio delle Relazioni Estere e dal Programma sull’Approccio Politico Internazionale (PIPA) rivela che “i cittadini di tutto il mondo e degli Stati Uniti chiedono che i governi diano una priorità maggiore ai problemi del riscaldamento globale e che appoggino con forza azioni multilaterali per soddisfare questa necessità”.

La maggioranza dei cittadini statunitensi è d’accordo, anche se il PIPA chiarisce che la percentuale “è calata negli ultimi anni, per il fatto che la preoccupazione degli Stati Uniti è significativamente più bassa rispetto a quella mondiale, ora il 79% contro il precedente 84%”.

Gli statunitensi non ritengono che ci sia un consenso scientifico sull’urgenza di prendere iniziative per contrastare il cambiamento climatico. […] Una grande maggioranza pensa che sarà colpita personalmente dal cambiamento climatico, ma solo una minoranza crede che già ora si stiano subendo le conseguenze di tale cambio, contrariamente all’opinione della maggioranza degli altri paesi. Gli statunitensi tendono a sottovalutare il livello di preoccupazione.”

Questi atteggiamenti non sono casuali. Nel 2009 le industrie energetiche, appoggiate dai gruppi dirigenti delle grandi aziende, hanno lanciato grandi campagne che hanno instillato dubbi sulla presenza del consenso degli scienziati riguardo la severità della minaccia del riscaldamento globale prodotto dagli esseri umani.

Il consenso è solamente “quasi unanime”, perché non include molti esperti convinti che gli allarmi sul riscaldamento globale non siano sufficientemente forti, oltre a un gruppo marginale che nega completamente la consistenza della minaccia.

“L’analisi abituale di questo problema” si basa sul mantenimento di “equilibrio”: la gran parte degli scienziati da un lato e i “negazionisti” dall’altro. Gli scienziati che manifestano gli allarmi più forti sono generalmente ignorati dalla maggioranza.

Per questi motivi solo un terzo della popolazione statunitense crede che esista un consenso scientifico sulla minaccia del riscaldamento globale, molto meno rispetto alla media mondiale, e un qualcosa di radicalmente contrastante con i fatti.

Non è un segreto che il governo statunitense stia impuntando i piedi sui temi del clima. “I cittadini di tutto il mondo hanno criticato il modo in cui gli Stati Uniti stanno trattando il problema del cambiamento climatico”, secondo il PIPA. “In generale, gli Stati Uniti sono visti da tutti come il paese che ha prodotto l’impatto più negativo sull’ambiente, seguito dalla Cina. La Germania ha ottenuto riconoscimenti superiori.”

A volte, per riuscire ad avere una visione chiara sui fatti del mondo può essere utile adottare la posizione degli osservatori extraterrestri intelligenti che contemplano gli strani avvenimenti della Terra. Osserverebbero, stupiti, che il paese più ricco e potente nella storia del pianeta adesso guida i lemming nel loro allegro avanzare verso il precipizio.

Il mese scorso l’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica (AIEA), formata nel 1974 per il volere del Segretario di Stato statunitense Henry Kissinger, ha emesso un rapporto aggiornato sull’accelerazione dell’incremento delle emissioni di carbonio provenienti dall’uso di combustibili fossili.

L’AIEA ha calcolato che, se il mondo continuerà su questa strada, il “budget di carbonio” sarà terminato nel 2017. Il budget è la quantità di emissioni che possono mantenere il riscaldamento globale entro un livello di 2 gradi Celsius, quello che viene considerato il limite di sicurezza.

L’economista a capo dell’AIEA, Fatih Birol, ha detto: “La porta si sta chiudendo. […] Se non cambiamo adesso il nostro modo di utilizzare l’energia, oltrepasseremo quello che gli scienziati hanno considerato il limite minimo (di sicurezza). La porta si chiuderà per sempre.”

Anche il mese scorso il Dipartimento di Energia statunitense ha reso pubblici i dati delle emissioni del 2010. Le “emissioni sono aumentate al livello massimo registrato finora”, ha citato la Associated Press, ciò significa che “i livelli di gas serra sono più elevati di quelli del peggiore scenario” che era stato preventivato nel 2007 dal Gruppo Internazionale sul Cambiamento Climatico.

John Reilly, codirettore del programma sul cambiamento climatico del Massachusetts Institute of Technology, ha riferito alla Associated Press che gli scienziati ritengono che le previsioni dell’IPCC sono state troppo conservatrici, a differenza del piccolo gruppo di “negazionisti” che attraggono l’opinione pubblica. Reilly ha informato che il peggiore scenario dell’IPCC era circa alla metà delle stime possibili degli scienziati del MIT sui possibili esiti.

Nel mentre venivano resi noti questi dati allarmanti, il Financial Times ha dedicato una pagina intera alle aspettative ottimistiche, che ipotizzano un’indipendenza energetica degli Stati Uniti per circa un secolo grazie alle nuove tecnologie per l’estrazione dei combustibili fossili del Nord America.

Anche se le proiezioni sono incerte, secondo il Financial Times, gli Stati Uniti “potrebbero superare l’Arabia Saudita e la Russia diventando il più grande produttore al mondo di idrocarburi liquidi, considerando sia il greggio che i gas naturali”.

In questo felice caso, gli Stati Uniti potrebbero sperare di mantenere la propria egemonia mondiale. A parte alcuni commenti sull’impatto ecologico locale, il Financial Times non ci ha detto niente sul genere di pianeta che emergerebbe da queste appetibili prospettive. L’energia va bruciata: e al diavolo l’ambiente.

Quasi tutti i governi stanno cercando di far qualcosa contro la catastrofe che si avvicina. Gli Stati Uniti sono in cima alla fila, guardandola dal fondo. La Camera dei Rappresentanti degli USA, dominata dai Repubblicani, sta ora smantellando le misure ambientali introdotte da Richard Nixon, che sotto molti aspetti fu l’ultimo presidente liberale.

Questo comportamento reazionario è uno dei tanti segnali della crisi della democrazia statunitense durante la scorsa generazione. La breccia fra l’opinione pubblica e la politica è cresciuta fino a convertirsi in un abisso sui temi centrali del dibattito politico attuale, come il deficit e il lavoro. Tuttavia, grazie all’offensiva propagandistica, la breccia è minore di quella che dovrebbe essere nel tema più serio dell’agenda internazionale odierna, e forse della storia.

Potremmo riuscire a perdonare questi ipotetici osservatori extraterrestri se dovesse concludere che sembriamo affetti da una forma di follia letale.

di Noam Chomsky