13 gennaio 2012

Mobilitazione internazionale contro il pericolo di guerra

Il movimento internazionale di Lyndon LaRouche ha avviato una mobilitazione su cinque continenti nella settimana pre-natalizia, informando i cittadini del pericolo di una terza guerra mondiale e illustrando i passi necessari per evitarla (vedi EIR Strategic Alert 51-52/11). Sono stati diffusi volantini in tredici lingue e sono state mobilitate numerose istituzioni.

Gli attivisti del movimento hanno registrato grande consapevolezza del pericolo di guerra nella popolazione e non poche reazioni di gratitudine per il lavoro svolto, talvolta accompagnate da offerte di aiuto. Il senso di pericolo è maggiormente sentito in Europa, dove molte nazioni sono già avviate su una china di disintegrazione economica e sociale con i governi intenti a salvare un sistema finanziario insalvabile a spese del sistema del welfare.

L'alternativa proposta dal movimento di LaRouche comporta lo smembramento del sistema dell'Euro, una riorganizzazione del sistema bancario secondo i criteri della legge Glass-Steagall e il lancio di grandi progetti per sviluppare l'economia fisica reale. Negli Stati Uniti la priorità è destituire il Presidente Obama.

Anche se questa mobilitazione è indubbiamente servita a catalizzare la resistenza, specialmente in ambienti militari USA, i piani di guerra continuano. Anzi, il collasso economico aumenta la disperazione dell'Impero.

Come abbiamo già scritto, c'è tutta una serie di punti caldi ognuno dei quali potrebbe scatenare un conflitto che in breve tempo vedrebbe Russia e Cina schierarsi contro i paesi della NATO. Un intervento militare in Siria o un attacco su territorio iraniano, forse di Israele, sembra essere lo sviluppo più probabile ma la detonazione, ha ammonito LaRouche, potrebbe avvenire anche in una regione insospettata.

Infatti, nelle ultime settimane i cinesi e i russi hanno intrapreso iniziative forti contro la guerra e lanciato chiari avvertimenti, anche militari. La maggior concentrazione di armi nucleari al modo si trova attualmente nel Mediterraneo orientale e nell'Oceano Indiano, a bordo di vascelli britannici e americani, e dove la marina militare iraniana ha compiuto un'esercitazione.

In un'altra mossa sinistra, l'amministrazione Obama ha instaurato un comitato segreto per esplorare i modi in cui aiutare l'opposizione siriana. I funzionari dell'amministrazione, diversamente dai capi militari, hanno reiterato che non viene esclusa alcuna opzione nei confronti dell'Iran. In un messaggio di fine anno, LaRouche ha ribadito che l'uscita di scena di Obama bloccherebbe i piani di guerra, perché "significherebbe che gli USA sono fuori dai piani di guerra" e i britannici senza gli USA non potrebbero fare niente.

12 gennaio 2012

Schiavo della finanza, lo Stato non può più spendere per noi



Può sembrare un’eresia, ma non lo è: dalla crisi si può uscire in un solo modo, e cioè aumentando la spesa pubblica. Si aggraverebbe il debito? Inizialmente, sì. Ma investire in settori strategici per produrre lavororisolleverebbe l’economia, la domanda, le entrate fiscali. Servirebbe una piena sovranità statale e monetaria, che gli Stati europei hanno perduto: costretti a farsi prestare denaro dalla finanza privata, vengono dissuasi dall’indebitarsi ulteriormente, pena la crescita esplosiva dei margini speculativi. Lo Stato, unico soggetto nato per spendere a deficit per il benessere reale dei cittadini, è stato imbrigliato: il grande capitale pretende che si comporti non come uno Stato, ma come una famiglia o un’azienda. Neutralizzata la capacità finanziaria dello Stato, i cittadini sono indifesi di fronte alla crisi.

Il premio Nobel Paul Krugman, ostile alla linea di rigore dei governi europei (che considera suicida e votata all’inevitabile macelleria sociale, senza eurosbocchi possibili) ha scritto sul “New York Times” un intervento intitolato “Nessuno capisce cos’è il debito”. Intendeva: nessun economista della scuola preferita dai conservatori, quelli che dagli anni ’80 hanno progressivamente marginalizzato la finanza pubblica a unico vantaggio di quella privata. Il debito cui si riferiva Krugman, scrivono Guido Carandini e Paolo Leon in un’analisi su “Repubblica” ripresa da “Micromega”, è il debito pubblicogenerato dal disavanzo della spesa statale. Chi aborrisce il disavanzo, dice Krugman, teme che possa impoverire i cittadini, costretti a rimborsare il denaro preso a prestito: come se gli Usa fossero una famiglia, alle prese con le rate di un mutuo. Errore: il debito pubblico è istituzionalmente “dovuto” ai cittadini, e in ogni caso la spesa sociale è un investimento che alla lunga produce maggiori entrate.

«L’enorme debito contratto durante la seconda guerra mondiale – scrivono Carandini e Leon, citando Krugman – non è mai stato rimborsato ma è diventato progressivamente irrilevante man mano che l’economia Usa cresceva e con essa i redditi soggetti a tassazione». Inoltre: una famiglia oberata dai debiti deve senz’altro del denaro a qualcuno, mentre il debito pubblico degli Usa è in larga parte denaro «che è dovuto ai suoi stessi cittadini». È vero che a causa del debito contratto per vincere la seconda guerra mondiale i contribuenti sono stati colpiti da un onere eccezionale, ma quel debito «era anche posseduto dai contribuenti che avevano acquistato i titoli del Tesoro americano e quindi non rese più poveri gli americani del dopoguerra». Al contrario: proprio grazie a quel debito, i Paul Krugmancittadini «godettero del più marcato aumento dei redditi e degli standard di vita mai avvenuto nella storia degli Stati Uniti».

Secondo Krugman, quindi, la necessità di stimolare l’occupazione rende sopportabile un aumento del debito assai superiore a quello che la “saggezza convenzionale” ritiene accettabile. Oggi scontiamo tutti la «miope visione degli economisti e dei politici che avversano l’indebitamento statale». Le argomentazioni di Krugman? Per Carandini e Leon sono perfettamente convincenti, anche se non forniscono, di quella “miopia”, una ragione logica. Che invece emerge chiaramente da una diversa teoria, secondo la quale, per sua natura, il capitalismo tende a occultare la relazione tra la dimensione privata-individuale e quella pubblica-statale. Come le due facce di una moneta, l’una nasconde l’altra: il punto di vista della famiglia che si indebita oscura la visione dell’intervento statale, cioè il punto di vista delle sue conseguenze sull’insieme dei cittadini. Come se Stato e cittadini fossero all’oscuro delle conseguenze delle rispettive azioni.

Per superare questa assurda dicotomia, sostengono Carandini e Leon, occorre collocarsi in una terza dimensione, quella collettiva, la sola che «rende evidente la duplice interconnessione pubblico-privato, ignorando la quale si incorre in errori gravi». Le regole ossessive dell’austerità? «Magari buone per le famiglie, ma non per i governi». Basta dare un’occhiata alla composizione del “reddito nazionale”, cioè la somma aritmetica di profitti e salari, ottenuta senza distinguere tra l’obiettivo familiare (il salario) e quello aziendale (il profitto). E’ il cuore della partita in corso: più profitti, a scapito dei salari. Risultato: crollo dei consumi e riduzione del Pil. Nonostante la resistenza delle imprese, se invece si aumentassero i salari a scapito dei profitti si otterrebbero più consumi e quindi una crescita automatica del Paolo Leonprodotto interno lordo. Peccato che che i singoli attori – famiglie e aziende – non ne siano pienamente consapevoli.

«Ecco dunque che questo famoso Pil non dipende né dai comportamenti individuali, come sostiene la scienza economica prevalente, né da autonome azioni pubbliche, ma da comportamenti politici, sindacali e/o lobbistici che influiscono in larga misura proprio sulle politiche economiche e di distribuzione dei redditi da parte degli Stati, e quindi sul tipo di spesa pubblica che essi attuano». Per Carandini e Leon, se gli Stati «mettono in atto politiche di austerità quando la crisi è di domanda, seguendo l’istinto individuale che nellacrisi spinge per il risparmio, allora la crisi non è battuta». Se invece aumentano la spesa pubblica a favore di attività produttive, si comportano come nel dopoguerra: l’iniziale aggravio dell’indebitamento non impoverisce affatto la comunità. Al contrario, la arricchisce: più salari, più profitti, più Pil. Ad una condizione: la sovranità finanziaria pubblica, che mette lo Stato al riparo dall’affanno di dover conseguire benefici immediati.

Per investire sulla collettività nazionale spendendo a deficit, e vederne i risultati concreti in termini economici, lo Stato ha infatti bisogno di tempo: ieri ce l’aveva, oggi non più. Il problema? I mercati finanziari e il loro predominio a livello globale. Se anche, anziché ridurla come fa adesso, lo Stato decidesse di accrescere la spesa pubblica per stimolare la produzione e l’occupazione, il maggiore indebitamento che ne deriverebbe «non avrebbe come effetto immediato l’aumento del Pil, ma dovrebbe misurarsi con la speculazione finanziaria che, incapace di prevederne gli effetti positivi nel periodo più lungo, ne farebbe salire il costo (lo spread) tanto da vanificarne gli effetti positivi». Carandini e Leon non hanno dubbi: «Questa è la trappola in cui si trovano oggi tutti i Paesi, compreso il nostro, nei quali la sovranità è stata svuotata da poteri metanazionali e da una cultura economica e politica incapace di sollevare lo sguardo a livello collettivo e di dominare il rischio di una prolungata recessione, assai pericolosa per le nostre democrazie».

di Giorgio Cattaneo

11 gennaio 2012

È il crollo di un mondo. Forze immense stanno per scatenarsi



Così parla Frédéric Lordon, famoso economista francese, direttore delle ricerche del CNRS, in una lunga intervista alla Revue des Livres. A proposito delle forze che stanno per scatenarsi, ecco cosa prevede:

«Se, come si poteva prevedere dal 2010 col lancio dei piani di austerità coordinati, lo scacco annunciato conduce ad un’ondata di default sovrani, seguirà immediatemente il collasso del sistema bancario (o li precederà, per semplice effetto d’anticipazione degli investitori); e questo, contrariamente a quello del 2008, sarà irrecuperabile, perchè gli Stati (che hanno salvato le banche nel 2008, ndr) sono finanziariamente a terra. Allora non resterà altra alternativa che l’emissione monetaria massiccia, oppure l’esplosione della zona euro se la Banca Centrale Europea (e la Germania) rifiutano questa prima soluzione.

«In un week-end cambierà letteralmente il mondo e vedremo cose inaudite: re-instaurazione del controllo sui capitali, nazionalizzazioni-lampo o addirittura requisizioni di banche, riarmo delle Banche Centrali nazionali – misura che segnerà da sè la fine della moneta unica – la dipartita della Germania seguita da qualche satellite, la costituzione di un blocco euro-sud oppure il ritorno alle monete nazionali. Quando avverrà? Nessuno può dirlo con certezza (...) ma tra sei o dodici mesi, quando s’imporrà la constatazione della recessione generale, risultante dalla austerità generalizzata, e gli investitori vedranno salire irresistibilmente le ondate dei debiti pubblici che si supponeva di arrestare con le politiche restrittive, la consapevolezza dell’impasse totale che albeggerà in quel momento porterà gli operatori stessi a dichiarare una ‘capitolazione’, ossia alla loro fuga massiccia dai mercati-titoli, e per il gioco dei meccanismi di propagazione creati dalla finanza liberalizzata, una dislocazione totale dei mercati dei capitali, in tutti i settori.

«E nel frattempo si accumulano le tensioni politiche – fino al punto di rottura? Come ogni soglia critica a livello storico-sociale, non si sa in anticipo dove essa si trova nè cosa ne determina il superamento. La sola cosa certa è che la spossessione generalizzata della sovranità (per opera della finanza come dell’Europa neo-liberale) taglia in profondità i corpi sociali... i corpi sociali aggrediti dal liberalismo finiscono sempre per reagire, e a voltre brutalmente, in proporzione a quello che in precedenza hanno sopportato e accumulato (...). Non si possono lasciare i popoli durevolmente senza soluzione di sovranità – sia nazionale o d’altro tipo – senza che la recuperino a tutta forza e in forme che non saranno belle da vedere.

«... Quella che vien chiamata ‘crisi dell’euro’ non è in prima istanza una crisi monetaria. Una delle stranezze degli eventi attuali è che la moneta europea non viene rifiutata affatto, nè dai residenti della zona nè dagli investitori internazionali, e lo dimostra la paritò euro-dollaro, che a parte qualche fluttuazione, si mantiene. È un fatto: non c’è (per ora) fuga dall’euro. Se ci sarà, sarà come sviluppo terminale di una crisi la cui natura è altra. Quale? La risposta è che si tratta di una crisi istituzionale.

«È il quadro istituzionale della moneta unica, come comunità di politiche economiche, che minaccia di volare a pezzi in seguito a crisi finanziarie aventi come epicentro i debiti pubblici e le banche. Se l’euro esplode, sarà per default sovrani che trascineranno crolli bancari – a meno che questi non vengano prima, per anticipazione dei default sovrani. In ogni caso il cuore della cosa sarà ancora una volta il sistema bancario, e l’impossibilità di lasciarlo andare in rovina, perchè la rovina totale del sistema bancario ci porterebbe in cinque giorni all’equivalente ineconomia dello stato di natura. Ma ciò non deve significare ‘rimetterlo sui binari per un altro giro’, senza cambiarne le regole.

«Anzi, approfitto per dire che, dopo avermi fatto per lungo tempo paura, la prospettiva di questo collasso quasi quasi mi piace, perchè creerà infine l’occasione di nazionalizzare integralmente il sistema bancario per pura e semplice requisizione (senza indennizzo) (...). Nell’ipotesi del collasso bancario, si tratta di sapere quale sarà – in assenza degli Stati, essi stessi rovinati – l’istituzione capace di organizzare la riattivazione delle banche per far loro riprendere l’attività di fornitura del credito. In questa ipotesi, non ne resta che una: la Banca Centrale Europea. Non dovrà solo assicurare alle banche un sostegno di liquidità (lo sta già facendo) ma liberarle degli attivi svalorizzati e ricapitalizzarle. Inutile dire che, data la scala del settore bancario intero, si tratta di un’operazione di creazione monetaria massiccia a cui bisognerà consentire. La BCE è pronta a questo? Sotto l’egemonia tedesca, direi di no. Ma l’urgenza estrema di restaurare nella loro integrità gli incassi monetari e di ristabilire il funzionamento del sistema di pagamenti richiederà un’azione ‘in giornata’! Significa che le lunghe tergiversazioni per ‘parlare ai nostri amici tedeschi’ o rinegoziare un trattato, saranno sparite dalla lista delle soluzioni pertinenti. Di fronte a quelli che si devono identificare come interessi vitali del corpo sociale, uno Stato, di fronte al non-volere della BCE, prenderebbe immediatamente la decisione di riarmare la propria Banca Centrale per farle emettere moneta in quantità sufficiente e ricostituire al più presto un troncone di sistema bancario capace di operare. La Germania, osservando nella zona una o due fonti di creazione monetaria fuori controllo, ossia di euro impuri suscittibili di corrompere gli euro puri di cui la BCE ha sola il privilegio di emissione, decreterebbe immediatamente l’impossibilità di restare in una tale ‘unione’ monetaria divenuta anarchica e l’abbandonerebbe subito, per rifare un blocco con qualche seguace selezionato sul momento (Austria, Olanda, Finlandia, Lussemburgo). Quanto alle altre nazioni, dovranno allora scegliere fra ricostituire un blocco alternativo oppure tornare ciascuna al proprio destino monetario; la Francia cercherà in tutti i modi di imbarcarsi con la Germania, senza la minima sicurezza di essere accettata a bordo (...)».

Se volete leggere il resto, qui:

«Nous assistons à l’écroulement d’un monde, des forces immenses sont sur le point d’être déchaînées», entretien avec Frédéric Lordon

13 gennaio 2012

Mobilitazione internazionale contro il pericolo di guerra

Il movimento internazionale di Lyndon LaRouche ha avviato una mobilitazione su cinque continenti nella settimana pre-natalizia, informando i cittadini del pericolo di una terza guerra mondiale e illustrando i passi necessari per evitarla (vedi EIR Strategic Alert 51-52/11). Sono stati diffusi volantini in tredici lingue e sono state mobilitate numerose istituzioni.

Gli attivisti del movimento hanno registrato grande consapevolezza del pericolo di guerra nella popolazione e non poche reazioni di gratitudine per il lavoro svolto, talvolta accompagnate da offerte di aiuto. Il senso di pericolo è maggiormente sentito in Europa, dove molte nazioni sono già avviate su una china di disintegrazione economica e sociale con i governi intenti a salvare un sistema finanziario insalvabile a spese del sistema del welfare.

L'alternativa proposta dal movimento di LaRouche comporta lo smembramento del sistema dell'Euro, una riorganizzazione del sistema bancario secondo i criteri della legge Glass-Steagall e il lancio di grandi progetti per sviluppare l'economia fisica reale. Negli Stati Uniti la priorità è destituire il Presidente Obama.

Anche se questa mobilitazione è indubbiamente servita a catalizzare la resistenza, specialmente in ambienti militari USA, i piani di guerra continuano. Anzi, il collasso economico aumenta la disperazione dell'Impero.

Come abbiamo già scritto, c'è tutta una serie di punti caldi ognuno dei quali potrebbe scatenare un conflitto che in breve tempo vedrebbe Russia e Cina schierarsi contro i paesi della NATO. Un intervento militare in Siria o un attacco su territorio iraniano, forse di Israele, sembra essere lo sviluppo più probabile ma la detonazione, ha ammonito LaRouche, potrebbe avvenire anche in una regione insospettata.

Infatti, nelle ultime settimane i cinesi e i russi hanno intrapreso iniziative forti contro la guerra e lanciato chiari avvertimenti, anche militari. La maggior concentrazione di armi nucleari al modo si trova attualmente nel Mediterraneo orientale e nell'Oceano Indiano, a bordo di vascelli britannici e americani, e dove la marina militare iraniana ha compiuto un'esercitazione.

In un'altra mossa sinistra, l'amministrazione Obama ha instaurato un comitato segreto per esplorare i modi in cui aiutare l'opposizione siriana. I funzionari dell'amministrazione, diversamente dai capi militari, hanno reiterato che non viene esclusa alcuna opzione nei confronti dell'Iran. In un messaggio di fine anno, LaRouche ha ribadito che l'uscita di scena di Obama bloccherebbe i piani di guerra, perché "significherebbe che gli USA sono fuori dai piani di guerra" e i britannici senza gli USA non potrebbero fare niente.

12 gennaio 2012

Schiavo della finanza, lo Stato non può più spendere per noi



Può sembrare un’eresia, ma non lo è: dalla crisi si può uscire in un solo modo, e cioè aumentando la spesa pubblica. Si aggraverebbe il debito? Inizialmente, sì. Ma investire in settori strategici per produrre lavororisolleverebbe l’economia, la domanda, le entrate fiscali. Servirebbe una piena sovranità statale e monetaria, che gli Stati europei hanno perduto: costretti a farsi prestare denaro dalla finanza privata, vengono dissuasi dall’indebitarsi ulteriormente, pena la crescita esplosiva dei margini speculativi. Lo Stato, unico soggetto nato per spendere a deficit per il benessere reale dei cittadini, è stato imbrigliato: il grande capitale pretende che si comporti non come uno Stato, ma come una famiglia o un’azienda. Neutralizzata la capacità finanziaria dello Stato, i cittadini sono indifesi di fronte alla crisi.

Il premio Nobel Paul Krugman, ostile alla linea di rigore dei governi europei (che considera suicida e votata all’inevitabile macelleria sociale, senza eurosbocchi possibili) ha scritto sul “New York Times” un intervento intitolato “Nessuno capisce cos’è il debito”. Intendeva: nessun economista della scuola preferita dai conservatori, quelli che dagli anni ’80 hanno progressivamente marginalizzato la finanza pubblica a unico vantaggio di quella privata. Il debito cui si riferiva Krugman, scrivono Guido Carandini e Paolo Leon in un’analisi su “Repubblica” ripresa da “Micromega”, è il debito pubblicogenerato dal disavanzo della spesa statale. Chi aborrisce il disavanzo, dice Krugman, teme che possa impoverire i cittadini, costretti a rimborsare il denaro preso a prestito: come se gli Usa fossero una famiglia, alle prese con le rate di un mutuo. Errore: il debito pubblico è istituzionalmente “dovuto” ai cittadini, e in ogni caso la spesa sociale è un investimento che alla lunga produce maggiori entrate.

«L’enorme debito contratto durante la seconda guerra mondiale – scrivono Carandini e Leon, citando Krugman – non è mai stato rimborsato ma è diventato progressivamente irrilevante man mano che l’economia Usa cresceva e con essa i redditi soggetti a tassazione». Inoltre: una famiglia oberata dai debiti deve senz’altro del denaro a qualcuno, mentre il debito pubblico degli Usa è in larga parte denaro «che è dovuto ai suoi stessi cittadini». È vero che a causa del debito contratto per vincere la seconda guerra mondiale i contribuenti sono stati colpiti da un onere eccezionale, ma quel debito «era anche posseduto dai contribuenti che avevano acquistato i titoli del Tesoro americano e quindi non rese più poveri gli americani del dopoguerra». Al contrario: proprio grazie a quel debito, i Paul Krugmancittadini «godettero del più marcato aumento dei redditi e degli standard di vita mai avvenuto nella storia degli Stati Uniti».

Secondo Krugman, quindi, la necessità di stimolare l’occupazione rende sopportabile un aumento del debito assai superiore a quello che la “saggezza convenzionale” ritiene accettabile. Oggi scontiamo tutti la «miope visione degli economisti e dei politici che avversano l’indebitamento statale». Le argomentazioni di Krugman? Per Carandini e Leon sono perfettamente convincenti, anche se non forniscono, di quella “miopia”, una ragione logica. Che invece emerge chiaramente da una diversa teoria, secondo la quale, per sua natura, il capitalismo tende a occultare la relazione tra la dimensione privata-individuale e quella pubblica-statale. Come le due facce di una moneta, l’una nasconde l’altra: il punto di vista della famiglia che si indebita oscura la visione dell’intervento statale, cioè il punto di vista delle sue conseguenze sull’insieme dei cittadini. Come se Stato e cittadini fossero all’oscuro delle conseguenze delle rispettive azioni.

Per superare questa assurda dicotomia, sostengono Carandini e Leon, occorre collocarsi in una terza dimensione, quella collettiva, la sola che «rende evidente la duplice interconnessione pubblico-privato, ignorando la quale si incorre in errori gravi». Le regole ossessive dell’austerità? «Magari buone per le famiglie, ma non per i governi». Basta dare un’occhiata alla composizione del “reddito nazionale”, cioè la somma aritmetica di profitti e salari, ottenuta senza distinguere tra l’obiettivo familiare (il salario) e quello aziendale (il profitto). E’ il cuore della partita in corso: più profitti, a scapito dei salari. Risultato: crollo dei consumi e riduzione del Pil. Nonostante la resistenza delle imprese, se invece si aumentassero i salari a scapito dei profitti si otterrebbero più consumi e quindi una crescita automatica del Paolo Leonprodotto interno lordo. Peccato che che i singoli attori – famiglie e aziende – non ne siano pienamente consapevoli.

«Ecco dunque che questo famoso Pil non dipende né dai comportamenti individuali, come sostiene la scienza economica prevalente, né da autonome azioni pubbliche, ma da comportamenti politici, sindacali e/o lobbistici che influiscono in larga misura proprio sulle politiche economiche e di distribuzione dei redditi da parte degli Stati, e quindi sul tipo di spesa pubblica che essi attuano». Per Carandini e Leon, se gli Stati «mettono in atto politiche di austerità quando la crisi è di domanda, seguendo l’istinto individuale che nellacrisi spinge per il risparmio, allora la crisi non è battuta». Se invece aumentano la spesa pubblica a favore di attività produttive, si comportano come nel dopoguerra: l’iniziale aggravio dell’indebitamento non impoverisce affatto la comunità. Al contrario, la arricchisce: più salari, più profitti, più Pil. Ad una condizione: la sovranità finanziaria pubblica, che mette lo Stato al riparo dall’affanno di dover conseguire benefici immediati.

Per investire sulla collettività nazionale spendendo a deficit, e vederne i risultati concreti in termini economici, lo Stato ha infatti bisogno di tempo: ieri ce l’aveva, oggi non più. Il problema? I mercati finanziari e il loro predominio a livello globale. Se anche, anziché ridurla come fa adesso, lo Stato decidesse di accrescere la spesa pubblica per stimolare la produzione e l’occupazione, il maggiore indebitamento che ne deriverebbe «non avrebbe come effetto immediato l’aumento del Pil, ma dovrebbe misurarsi con la speculazione finanziaria che, incapace di prevederne gli effetti positivi nel periodo più lungo, ne farebbe salire il costo (lo spread) tanto da vanificarne gli effetti positivi». Carandini e Leon non hanno dubbi: «Questa è la trappola in cui si trovano oggi tutti i Paesi, compreso il nostro, nei quali la sovranità è stata svuotata da poteri metanazionali e da una cultura economica e politica incapace di sollevare lo sguardo a livello collettivo e di dominare il rischio di una prolungata recessione, assai pericolosa per le nostre democrazie».

di Giorgio Cattaneo

11 gennaio 2012

È il crollo di un mondo. Forze immense stanno per scatenarsi



Così parla Frédéric Lordon, famoso economista francese, direttore delle ricerche del CNRS, in una lunga intervista alla Revue des Livres. A proposito delle forze che stanno per scatenarsi, ecco cosa prevede:

«Se, come si poteva prevedere dal 2010 col lancio dei piani di austerità coordinati, lo scacco annunciato conduce ad un’ondata di default sovrani, seguirà immediatemente il collasso del sistema bancario (o li precederà, per semplice effetto d’anticipazione degli investitori); e questo, contrariamente a quello del 2008, sarà irrecuperabile, perchè gli Stati (che hanno salvato le banche nel 2008, ndr) sono finanziariamente a terra. Allora non resterà altra alternativa che l’emissione monetaria massiccia, oppure l’esplosione della zona euro se la Banca Centrale Europea (e la Germania) rifiutano questa prima soluzione.

«In un week-end cambierà letteralmente il mondo e vedremo cose inaudite: re-instaurazione del controllo sui capitali, nazionalizzazioni-lampo o addirittura requisizioni di banche, riarmo delle Banche Centrali nazionali – misura che segnerà da sè la fine della moneta unica – la dipartita della Germania seguita da qualche satellite, la costituzione di un blocco euro-sud oppure il ritorno alle monete nazionali. Quando avverrà? Nessuno può dirlo con certezza (...) ma tra sei o dodici mesi, quando s’imporrà la constatazione della recessione generale, risultante dalla austerità generalizzata, e gli investitori vedranno salire irresistibilmente le ondate dei debiti pubblici che si supponeva di arrestare con le politiche restrittive, la consapevolezza dell’impasse totale che albeggerà in quel momento porterà gli operatori stessi a dichiarare una ‘capitolazione’, ossia alla loro fuga massiccia dai mercati-titoli, e per il gioco dei meccanismi di propagazione creati dalla finanza liberalizzata, una dislocazione totale dei mercati dei capitali, in tutti i settori.

«E nel frattempo si accumulano le tensioni politiche – fino al punto di rottura? Come ogni soglia critica a livello storico-sociale, non si sa in anticipo dove essa si trova nè cosa ne determina il superamento. La sola cosa certa è che la spossessione generalizzata della sovranità (per opera della finanza come dell’Europa neo-liberale) taglia in profondità i corpi sociali... i corpi sociali aggrediti dal liberalismo finiscono sempre per reagire, e a voltre brutalmente, in proporzione a quello che in precedenza hanno sopportato e accumulato (...). Non si possono lasciare i popoli durevolmente senza soluzione di sovranità – sia nazionale o d’altro tipo – senza che la recuperino a tutta forza e in forme che non saranno belle da vedere.

«... Quella che vien chiamata ‘crisi dell’euro’ non è in prima istanza una crisi monetaria. Una delle stranezze degli eventi attuali è che la moneta europea non viene rifiutata affatto, nè dai residenti della zona nè dagli investitori internazionali, e lo dimostra la paritò euro-dollaro, che a parte qualche fluttuazione, si mantiene. È un fatto: non c’è (per ora) fuga dall’euro. Se ci sarà, sarà come sviluppo terminale di una crisi la cui natura è altra. Quale? La risposta è che si tratta di una crisi istituzionale.

«È il quadro istituzionale della moneta unica, come comunità di politiche economiche, che minaccia di volare a pezzi in seguito a crisi finanziarie aventi come epicentro i debiti pubblici e le banche. Se l’euro esplode, sarà per default sovrani che trascineranno crolli bancari – a meno che questi non vengano prima, per anticipazione dei default sovrani. In ogni caso il cuore della cosa sarà ancora una volta il sistema bancario, e l’impossibilità di lasciarlo andare in rovina, perchè la rovina totale del sistema bancario ci porterebbe in cinque giorni all’equivalente ineconomia dello stato di natura. Ma ciò non deve significare ‘rimetterlo sui binari per un altro giro’, senza cambiarne le regole.

«Anzi, approfitto per dire che, dopo avermi fatto per lungo tempo paura, la prospettiva di questo collasso quasi quasi mi piace, perchè creerà infine l’occasione di nazionalizzare integralmente il sistema bancario per pura e semplice requisizione (senza indennizzo) (...). Nell’ipotesi del collasso bancario, si tratta di sapere quale sarà – in assenza degli Stati, essi stessi rovinati – l’istituzione capace di organizzare la riattivazione delle banche per far loro riprendere l’attività di fornitura del credito. In questa ipotesi, non ne resta che una: la Banca Centrale Europea. Non dovrà solo assicurare alle banche un sostegno di liquidità (lo sta già facendo) ma liberarle degli attivi svalorizzati e ricapitalizzarle. Inutile dire che, data la scala del settore bancario intero, si tratta di un’operazione di creazione monetaria massiccia a cui bisognerà consentire. La BCE è pronta a questo? Sotto l’egemonia tedesca, direi di no. Ma l’urgenza estrema di restaurare nella loro integrità gli incassi monetari e di ristabilire il funzionamento del sistema di pagamenti richiederà un’azione ‘in giornata’! Significa che le lunghe tergiversazioni per ‘parlare ai nostri amici tedeschi’ o rinegoziare un trattato, saranno sparite dalla lista delle soluzioni pertinenti. Di fronte a quelli che si devono identificare come interessi vitali del corpo sociale, uno Stato, di fronte al non-volere della BCE, prenderebbe immediatamente la decisione di riarmare la propria Banca Centrale per farle emettere moneta in quantità sufficiente e ricostituire al più presto un troncone di sistema bancario capace di operare. La Germania, osservando nella zona una o due fonti di creazione monetaria fuori controllo, ossia di euro impuri suscittibili di corrompere gli euro puri di cui la BCE ha sola il privilegio di emissione, decreterebbe immediatamente l’impossibilità di restare in una tale ‘unione’ monetaria divenuta anarchica e l’abbandonerebbe subito, per rifare un blocco con qualche seguace selezionato sul momento (Austria, Olanda, Finlandia, Lussemburgo). Quanto alle altre nazioni, dovranno allora scegliere fra ricostituire un blocco alternativo oppure tornare ciascuna al proprio destino monetario; la Francia cercherà in tutti i modi di imbarcarsi con la Germania, senza la minima sicurezza di essere accettata a bordo (...)».

Se volete leggere il resto, qui:

«Nous assistons à l’écroulement d’un monde, des forces immenses sont sur le point d’être déchaînées», entretien avec Frédéric Lordon