10 febbraio 2012

Mario Draghi. Il privatizzatore, per conto di chi…





«Un vile affarista. Non si può nominare Presidente del Consiglio dei Ministri chi è stato socio della Goldman & Sachs, grande banca d’affari americana. E male, molto male io feci ad appoggiarne, quasi ad imporne la candidatura a Silvio Berlusconi». Francesco Cossiga, ex Presidente della Repubblica e profondo conoscitore degli scantinati dell’Italia repubblicana, non ha mai avuto mano delicata nei confronti di Mario Draghi, ex governatore di Bankitalia e, dal primo novembre del 2011, nuovo Presidente della Banca Centrale Europea. La dichiarazione è ovviamente datata, nata come risposta ad alcune insinuazioni sorte qualche anno fa sull’eventuale candidatura di Draghi a ricoprire il ruolo di Premier: «Ѐ il liquidatore – prosegue Cossiga – dopo la famosa crociera sul “Britannia”, dell’industria pubblica italiana. Da governatore del tesoro ha svenduto l’apparato produttivo statale, figuriamoci cosa potrebbe fare da Presidente del Consiglio dei Ministri».

Insomma, messaggio chiaro e diretto, che non ha bisogno di alcun filtro. Di filtri ne ha sempre avuti pochi, Francesco Cossiga. Non le ha mai mandate a dire, non si è mai tirato indietro, neanche quando, da Ministro degli Interni, non aveva problemi a reprimere con le cattive qualsiasi moto studentesco che si alzasse sopra le righe consentite, in quel lontano – ma non troppo – 1977.

Chissà quali parole avrebbe speso oggi, avendo la possibilità di ammirare l’italica scenografia. Chissà quante picconate sarebbero piovute sul capo di Mario Monti, Presidente del Consiglio e – a quanto pare – socio di Goldman & Sachs proprio come Draghi. La natura ambigua di Cossiga impone una certa calma nella valutazione di qualsiasi dichiarazione, tuttavia passa agli atti anche l’antipatia del politico sassarese nei confronti di Romano Prodi, definito, alla stessa stregua di Draghi, un «vile» (agosto 2005). Certo, fa specie la differenza di trattamento che Cossiga comunque ha riservato ai due: a gamba tesissima su Draghi, molto più morbido nei confronti del Professor Romano, mai nominato nelle allusioni alla famosa crociera sul Britannia.

Alle crociere, si sa, ormai siamo avvezzi. Francesco Schettino, il “Capitan Codardìa” salito alla ribalta dopo la grottesca tragedia della nave Concordia, è entrato subito nell’immaginario italian-popolare. Nei giorni immediatamente successivi al naufragio del Giglio, ecatombe a mo’ di telenovela, tanto pregna di collegamenti e fili meta-testuali da diventare icona buona per considerazioni sociali e antropologiche, spuntò qualche timido riferimento al Britannia. Riferimenti sottili e sussurrati, inglobati e sommersi dal vorticoso ciclone mediatico scatenatosi sul nuovo kolossal made in Mediterranean Sea, narrazione già pronta per sfamare antologie letterarie e cinematografiche.

Eppure, cosa si intende per “Britannia”? Cosa accadde su quella nave, durante quella crociera allusa da molti e raccontata da pochissimi? Scrive Roberto Santoro, il 7 novembre del 2011: « Il 2 giugno del 1992 il direttore del Tesoro, Mario Draghi, sale sulla passerella del Royal Yacht “Britannia”, il panfilo della Regina Elisabetta ormeggiato nel porto di Civitavecchia. Draghi ha con sé l’invito ricevuto dai British Invisibles, che non sono i protagonisti di un romanzo complottista bensì i rappresentanti di un influente gruppo di pressione della City londinese, “invisibles” nel senso che si occupano di transazioni che non riguardano merci ma servizi finanziari. I Warburg, i Barings, i Barclays, ma anche i rappresentanti di Goldman & Sachs, finanzieri e banchieri del capitalismo che funziona, o funzionava, sono venuti a spiegare a un gruppo di imprenditori e boiardi di Stato italiani come fare le privatizzazioni».

Insomma, si parla di privatizzare. Una parola salita esponenzialmente in auge nell’ultimo quindicennio italico, durante il quale molte aziende statali hanno subito una metamorfosi repentina e non troppo rumorosa. La grande IRI, gigantesco consorzio di aziende che per decenni aveva rappresentato il simbolo dell’efficienza e della produttività statale, si è gradualmente smembrata. L’effetto è quel che oggi possiamo ammirare non senza stupore: un corollario di aziende private, che ormai poco hanno a che fare con il novecentesco concetto di “motore nazionale”, avendo ormai struttura internazionale, grazie a capitali esteri: Buitoni, Invernizzi, Locatelli, Galbani, Negroni, Ferrarelle, Peroni, Moretti, Fini Perufine, Mira Lanza, e per ultima, Fiat.

Privatizzazioni furiose che hanno coinvolto qualsiasi ambito. La privatizzazione dell’Istruzione superiore, con i tagli alla scuola pubblica, la privatizzazione del mercato del lavoro, con il famigerato pacchetto Treu rincarato dalla riforma Biagi. Quel pacchetto e quella riforma intrisa di sangue aprirono il sipario sull’angosciante realtà del precariato, pesante fardello demonizzato e al contempo –chissà perché- difeso e tutelato da qualsiasi esecutivo, di destra e di sinistra, fino ad arrivare a Monti e alle sue infelici esternazioni.

Seguendo la nuova stella cometa, nacque anche Autostrade per l’Italia, nuova società costituita nell’ambito della riorganizzazione dell’originaria Società Autostrade Concessioni e Costruzioni S.p.a., completata nei primi mesi del 2003, che autorizzò, nell’ordine: le partecipazioni nelle società attive nel settore autostradale; le partecipazioni nelle altre società, avviate anche con partner, per lo sviluppo di nuove arterie autostradali in Italia; le partecipazioni nelle società che svolgono attività di progettazione e di pavimentazione di supporto alle attività caratteristiche del comparto autostradale; le partecipazioni in società ed enti operanti in attività comunque connesse alla gestione di strade e autostrade.

Andando a ritroso di tre anni, si scopre che il 7 giugno del 2000 la sorte delle autostrade era toccata alle ferrovie, dando il via ad un lento processo di privatizzazione che, pur non avendo ancora completato il suo corso, ha prodotto l’effettiva metamorfosi di un servizio diventato, col passare degli anni, sempre più vicina all’operatività di un’agenzia di viaggi che a una doverosa funzione di trasporto pubblico. Si pensi al rincaro dei biglietti, alla soppressione di molti convogli economici, o alle poco felici e recentissime sponsorizzazioni dal sapore classista.

Dunque, più che soffermarsi ad analizzare cosa avvenne e quali furono gli argomenti trattati sullo yacht Reale, è utile soffermarsi su ciò che accadde dopo quell’incontro, a cui erano presenti, come scrive Santoro, «il già citato Draghi, il presidente di Bankitalia Ciampi, Beniamino Andreatta, Mario Baldassarri, i vertici di Iri, Eni, Ina, Comit, delle grandi partecipate che di lì a poco sarebbero state “svendute”, così si dice, senza grande acume proprio da coloro che nell’ultimo scorcio della Prima Repubblica le avevano trasformate nei “gioielli di famiglia”».

Correva l’anno 1992, un anno denso di avvenimenti: il 500simo anniversario della spedizione colombiana nel Nuovo Mondo, il terremoto politico in Italia, scatenatosi sotto i colpi di Tangentopoli, che portò al disfacimento di un intero sistema politico, la cosiddetta “Prima Repubblica”. Il 1992 fu anche l’anno della svalutazione della lira, della sanguinosa lotta tra Mafia e Stato, con i cadaveri eccellenti di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, macabro preambolo della “stagione delle bombe” del 1993 e del torbido valzer di trattative tra Stato e Cosa Nostra, tornato recentemente di triste attualità. Mauro Bottarelli, oggi firma de Il Riformista, così scriveva l’8 gennaio del 2003: «Nel settembre ’92, soprattutto, l’agenzia di rating Moody’s, la stessa che ha declassato la Fiat poche settimane fa, si accanì particolarmente contro l’Italia: un suo declassamento dei Bot italiani diede infatti il via a una spaventosa speculazione sulla nostra moneta che ci portò fuori dallo Sme. Ecco cosa disse l’allora presidente del Consiglio, Bettino Craxi, al riguardo: «Esiste un intreccio di forze e circostanze diverse». Parlò di «quantità di capitali speculativi provenienti sia da operatori finanziari che da gruppi economici», di «potenti interessi che pare si siano mossi allo scopo di spezzare le maglie dello Sme», di «avversari dell’Unione Europea».

Craxi lo disse allora, ma oggi non può ripeterlo. Craxi non c’è più. Ci sono in compenso altri personaggi che entrano e che escono come caselle perfettamente inserite di un domino. C’è ad esempio Reginald Bartholomew, figlio naturale del caso del 1993 che nel mese di giugno diventerà ambasciatore americano a Roma. Un anno dopo, siamo nel giugno 1994, con la scorpacciata del Britannia bella e consumata, ecco cosa dirà Bartholomew: «Continueremo a sottolineare ai nostri interlocutori italiani la necessità di essere trasparenti nelle privatizzazioni, di proseguire in modo spedito e di rimuovere qualsiasi barriera per gli investimenti esteri».

Ciò che emerge da queste righe è l’evidente parallelismo che alcuni passaggi hanno con la situazione odierna. Oggi Moody’s è sulla bocca di tutti, tanto da attirare le uova degli indignati manifestanti. Si scopre però che i giudizi da penna rossa delle agenzie di rating non sono certo nati con la crisi. L’uscita dallo Sme provocò un terremoto totale, facendo intraprendere al Paese una faticosissima Via Crucis che riportò l’Italia in Europa nella seconda metà degli anni novanta, governata da quel Prodi che assicurò la continuità del progetto Amato: governo tecnico istituito nel 1992 e archiviato con l’uscita della cellula Berlusconi, vera e propria cellula impazzita che avrebbe maramaldeggiato sul paese per quasi vent’anni. Ventennio interrotto appunto dalla parentesi di Romano Prodi e della sua corsa all’Euro. Insomma, per parafrasare il tutto alla ferroviaria maniera, Silvio scese dal vagone Italia sicuro di poterci risalire, ma lasciando a Prodi il compito di azzeccare gli scambi (ferroviari e non solo) in direzione Bruxelles.

Scrive Sergio Romano sul Corriere della Sera, il 16 giugno 2009:

L’ uso del panfilo della Regina Elisabetta sembrò dimostrare che la crociera del Britannia era stata decisa e programmata dal governo di Sua Maestà. E il fatto che l’evento fosse stato organizzato da una società chiamata “British Invisibles” provocò una valanga di sorrisi, ammiccamenti e battute ironiche. Cominciamo dal nome degli organizzatori. “Invisibili”, nel linguaggio economico-finanziario, sono le transazioni di beni immateriali, come per l’appunto la vendita di servizi finanziari. Negli anni in cui fu governata dalla signora Thatcher, la Gran Bretagna privatizzò molte imprese, rilanciò la City, sviluppò la componente finanziaria della sua economia e acquisì in tal modo uno straordinario capitale di competenze nel settore delle acquisizioni e delle fusioni. Fu deciso che quel capitale sarebbe stato utile ad altri Paesi e che le imprese finanziarie britanniche avrebbero potuto svolgere un ruolo utile al loro Paese. “British Invisibles” nacque da un comitato della Banca Centrale del Regno Unito e divenne una sorta di Confindustria delle imprese finanziarie. Oggi si chiama International Financial Services e raggruppa circa 150 aziende del settore. Nel 1992 questa organizzazione capì che anche l’ Italia avrebbe finalmente aperto il capitolo delle privatizzazioni e decise di illustrare al nostro settore pubblico i servizi che le sue imprese erano in grado di fornire. Come luogo dell’incontro fu scelto il Britannia per tre ragioni. Sarebbe stato nel Mediterraneo in occasione di un viaggio della regina Elisabetta a Malta. Era invalsa da tempo l’abitudine di affittarlo per ridurre i costi del suo mantenimento. E, infine, la promozione degli affari britannici nel mondo è sempre stata una delle maggiori occupazioni del governo del Regno Unito.

Cameron, il giorno dopo la tragedia della Concordia, ha dichiarato che non potrà essere donato un nuovo Britannia alla Regina Elisabetta in occasione del suo Giubileo di Diamante. Niente Britannia dunque, in tempi così assonanti a quelli che furono, con Monti che fa l’Amato, Napolitano che fa lo Scalfaro (come più volte ripetuto dai giornali, in occasione della recentissima scomparsa di quest’ultimo) e Moody’s che fa Moody’s. Per il resto, ricetta al sacrificio in umido, con lacrime e sangue per questo paese che pare abbia perso ogni identità. Eppure, tanti anni fa, furono i Romani, con Claudio prima e Nerone poi, a coniare il nome Britannia nell’immaginario anglosassone. E se non è legge del contrappasso questa…

di Nicola Mente

09 febbraio 2012

L’ultimo diktat: lo Stato sarà condannato a impoverirci

Coventrizzazione: bombardamento a tappeto. Solo che ad essere rasa al suolo non sarà la cittadina inglese di Coventry, spianata nel 1940 dalle bombe della Luftwaffe, ma il Belpaese straziato dai “signori del debito”, i titolari palesi e occulti dell’esposizione italiana: gli stessi che “nominano” i dirigenti della Commissione Europea, del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Centrale Europea e, ultimamente, degli stessi governi nazionali: Mario Monti e Lucas Papademos, entrambi “allevati” dalla Goldman Sachs, ora alla guida di Italia e Grecia, mentre in Spagna il neo-premier Mariano Rajoy rivela l’esistenza di un diktat della Bce, l’Ungheria ribelle deve piegarsi alla tecnocrazia di Bruxelles e persino per la Romania in crisi si profila un altrettanto inquietante “governo tecnico”.

«Questo non è più un colpo di Stato finanziario», scrive Paolo Barnard nel suo blog: «Questa è la ‘coventry-zzazione’ dell’Italia a firma Mario Monti, e Paolo Barnardcon un esecutore materiale: il medesimo Paese che nella notte del 14 novembre 1940 rase al suolo la cittadina inglese con una violenza mai impiegata prima nella storia bellica». Se è stata la Deutsche Bank, insieme alla Goldman Sachs, a decretare la fine del governo Berlusconi per far posto a Mario Monti, incaricato di strangolare tutti tranne i suoi “padroni”, le banche e i grandi gruppi della finanza, ora il piano di annientamento della sovranità nazionale assume un carattere definitivo e istituzionale grazie al “Treaty on Stability, Coordination and Governance in the Economic and Monetary Union”, comunemente conosciuto come “Fiscal Compact”, firmato il 31 gennaio dai capi di Stato e di governo dell’Eurozona.

«Non stiamo più parlando di un golpe per controllare gli Stati sovrani d’Europa, ma proprio di un bombardamento a tappeto che non lascerà che cenere di tutto ciò che conoscevamo come democrazia, redditi e Stato di diritto in Italia», dice Barnard, autore del saggio “Il più grande crimine” sul complotto della finanza mondiale contro le nostre democrazie e promotore di un’iniziativa clamorosa: dal 24 al 26 febbraio, a Rimini, si svolgerà il primo meeting mondiale sulla “Modern Money Theory” coordinato dai prestigiosi economisti “eretici” che, dalle università statunitensi, hanno guidato la spettacolare rinascita dell’Argentina “restituendo” la moneta sovrana al popolo, trasformando cioè lo Stato in investitore sociale. Operazione praticamente impossibile in Europa, fino a quando il Vecchio Continente sarà in balia dell’attuale euro, moneta erogata da una banca privata, la Bce, che gli Stati devono prendere in prestito, a caro prezzo, a Michele Santorotutto vantaggio del “vero potere” finanziario che – privatizzando il debito pubblico – ha preso in ostaggio il destino di intere nazioni.

«E’ per me sbalorditivo che un Santoro, o un Ferruccio De Bortoli, o una Camusso possano aver letto quelle righe senza inorridire», scrive Barnard, che cita l’accademico americano Edward Herman: «Hanno reso plausibile l’inimmaginabile», e la gente lo ha accettato. Nelle 11 pagine del “Fiscal Compact” c’è la nostra condanna, aggiunge il giornalista, pioniere della tv-verità prima con Santoro e poi con la Gabanelli: se il nefasto trattato europeo entrerà in vigore il 1° gennaio 2013, l’altra notizia è che nel frattempo «non nascerà alcuna rivolta», perché «gli italiani di Gad Lerner, di Fazio, di Saviano, di Travaglio, di Grillo, di Bersani, di Vendola, della Cgil-Fiom e del Popolo Viola» non vogliono capire la gravità della situazione, anche se «sono una massa enorme che potrebbe invece agire». Ergo: «Siamo finiti, perché gli altri italiani, quelli di Sky e degli Outlet, non contano come forza civica, mai sono contati, si lamentano ma se ne fregano. Questa è la realtà».

Di che morte moriremo? Ce lo spiega in modo esplicito il “Fiscal Compact”: uno Stato che darà ai propri cittadini e alle proprie aziende più denaro di quanto gliene tolga in tasse, sarà illegale e anti-costituzionale. Niente più deficit di bilancio a favore dei cittadini: lo Stato dovrà come minimo raggiungere il pareggio di bilancio, cioè darci 100 per togliercelo subito dopo. Meglio ancora il surplus di bilancio, che poi è l’attuale situazione italiana: lo Stato pretende dai cittadini più di quanto non spenda per loro. Dal 1° gennaio 2013, questa condizione diventerà legge: entrerà nella Costituzione degli Stati firmatari. In pratica, con il nuovo trattato, lo Stato «dovrà impoverirci, matematicamente». E guai a sgarrare: «Se uno Stato non iscrive nella Costituzione o in leggi egualmente vincolanti l’obbligo di impoverire i propri cittadini e aziende attraverso il pareggio di bilancio o il Angela Merkelsurplus di bilancio, verrà giudicato dalla Corte Europea di Giustizia, che ha potere di sentenze sovranazionali, cioè vincolanti per tutti gli Stati aderenti».

Non c’è scampo, sottolinea Barnard: «Uno Stato che volesse ignorare questo scempio verrà messo sotto accusa automaticamente (“excessive deficit procedure”), e automaticamente dovrà correggersi presentando un piano dettagliato di correzioni, che sono le famigerate austerità che ben conosciamo». “Correzioni” dettate sempre dall’anonima e onnipotente Commissione Europea, dominata da tecnocrati non-eletti che, «come ampiamente dimostrato, rispondono alle lobby finanziarie di Bruxelles». E se lo Stato “ribelle” non si corregge, se cioè «si rifiuta di impoverire i propri cittadini e aziende attraverso il pareggio di bilancio o il surplus di bilancio», la Commissione Europea lo denuncerà agli altri Stati, che a loro volta lo denunceranno alla Corte Europea di Giustizia, la quale avrà il potere di multarlo: un’Italia “disubbidiente” dovrebbe accollarsi 2 miliardi di euro per ogni “infrazione”.

Il “diritto di delazione” autorizzerà anche un solo paese europeo a denunciare lo Stato “infedele” al trattato: «Diritto quindi del tutto arbitrario, che sarà esercitato senza pietà dalla Germania», che ha interesse a indebolire l’Europa del Sud per incrementare le sue esportazioni e trasformare il Mediterraneo in un’enorme bacino di manodopera a basso costo. Ma se basta la denuncia di un solo Stato a far scattare la “punizione”, alla “vittima” di turno, per tentare di difendersi, sarà necessario mettere insieme una maggioranza qualificata di Stati solidali: condizione oggi praticamente “impossibile”, dato il potere di ricatto economico-finanziario dell’area guidata da Berlino. Inoltre: una volta varato il “Fiscal Compact”, ogni Stato dell’Eurozona dovrà chiedere approvazione alla Commissione Europea e al Consiglio d’Europa prima di emettere i propri titoli di Stato: Mario Monti«Anche qui, la funzione primaria di autonomia di spesa dello Stato sovrano è cancellata».

All’unico organo europeo legittimamente eletto dai cittadini, cioè il Parlamento Europeo, è riservato questo: il suo presidente “potrebbe” essere invitato ad ascoltare le decisioni dei tecnocrati della Commissione e del Consiglio. Tutto qui. Agli organismi democratici e già sovrani, come i Parlamenti nazionali, è concesso al massimo – tramite l’assemblea di Strasburgo – di formare una “conferenza di rappresentanti” che potranno “discutere” (ma non bocciare) le decisioni prese dai tecnocrati. Inoltre, aggiunge Barnard, il “Fiscal Compact” richiede a tutti gli Stati dell’Eurozona di promettere fedeltà all’euro come moneta comune e sostegno all’attuale unione economica europea, al fine di promuovere “crescita, impiego e competitività”. «Cioè, come dire: sostenere un’alluvione per promuovere l’agricoltura».

Un dispositivo implacabile, spietato: «Se uno Stato dovesse aver bisogno di sostegno finanziario europeo attraverso un salvataggio da parte del Meccanismo Europeo di Stabilità, non avrà un singolo euro se prima non avrà firmato il “Fiscal Compact” e non lo avrà obbedito in toto». Forche caudine sotto le quali passerà la Grecia, che «morirà sotto tortura», dopodiché toccherà a noi. In ultimo, a tutti gli Stati firmatari, il “Fiscal Compact” impone il rispetto dell’“Europact”: adottato dai capi di governo dell’Eurozona il 24 marzo 2011, il patto stabilisce che la competitività sia giudicata solo in rapporto al contenimento degli stipendi e all’aumento della produttività, per preservare la quale gli stipendi pubblici dovranno essere tenuti sotto controllo. Inoltre, la sostenibilità del debito nazionale sarà giudicata a seconda della presunta generosità di spesa nel welfare (sanità, Stato sociale, ammortizzatori), mentre pensioni ed esborsi sociali dovranno Roberto Savianoessere riformati «allineando il sistema pensionistico alla situazione demografica nazionale, per esempio allineando l’età pensionistica con l’aspettativa di vita».

L’Italia, accusa Barnard, in questo modo «perde tutta la sua sovranità di spesa per i cittadini», che andava a favore di tutti i servizi essenziali, delle tutele sociali, degli sgravi e di tutta la nostra economia salariale, e perde anche la sua sovranità di spesa per le aziende, fino a ieri a favore di modernizzazione, infrastrutture, acquisti diretti. Lo Stato, nel migliore dei casi, sarà quindi costretto «a darci 100 e toglierci 100, cioè a lasciarci a zero di ricchezza netta». Di conseguenza: «Il “Fiscal Compact” impone per legge sovranazionale l’impoverimento sistematico e automatico, da parte dello Stato, dell’Italia produttiva e delle nostre famiglie». In tal modo, «lo Stato perde totalmente la sua funzione democratica primaria: il Parlamento italiano non conta più nulla, è di fatto esautorato». Altra sciabolata alla nostra sovranità: «Non controlleremo più i nostri titoli di Stato».

Precisamente per questa “Europa” si agita l’ineffabile Mario Monti, sostenuto da tutti i principali partiti italiani: «Siamo alla mercé delle punizioni inflitte da tecnocrati non eletti da noi, e del giudizio devastante della Germania, che com’è noto ed ampiamente provato, lavora da 40 anni per distruggere le economie dell’Europa del sud, dell’Italia in particolare». Quello che ci aspetta è già scritto, oltre che già cominciato: «Saremo costretti ad austerità continue imposte dalla Commissione Europea che nessun italiano elegge». Questo significa «povertà imposta su altra Susanna Camussopovertà», e solo per gli interessi “neomercantili” di Berlino e di pochi speculatori internazionali. «Infine – aggiunge Barnard – questo crimine contro un intero popolo e nazione è stato firmato da Mario Monti, che dovrebbe essere arrestato per alto tradimento».

Eppure, gli italiani stanno concedendo un’abbondante maggioranza di gradimenti al governo del “professore”: «I media difendono l’euro come sacro, e neppure quelli “liberi”, da Santoro al “Fatto” di Travaglio, permetteranno mai a questi fatti documentati, e salva-vita, di essere esposti». Problema cronico: «Tutta la componente maggioritaria dei cittadini “impegnati” crede di aver salvato l’Italia dal terribile pericolo democratico numero uno della nostra storia: Silvio Berlusconi. Il resto degli italiani non sa, non se ne cura». Dunque, è doloroso ammetterlo: «C’è una profonda giustizia nel fatto che il Vero Potere ci pisci in testa, e ci condanni alla disperazione: ce lo meritiamo».

di Giorgio Cattaneo

08 febbraio 2012

L’assalto al potere dei narcisisti disturbati


http://www.tuttasalute.net/wp-content/uploads/2011/03/narcisismo.jpg

Quando la TV annuncia che qualcuno ha rubato milioni alla collettività, la maggior parte degli spettatori pensa che è un mascalzone, e un furbo. Quando un paziente lascia capire in terapia che ha preso illegalmente del denaro, al terapeuta si apre una pista significativa per capire che egli è davvero malato, e come si configuri il suo malessere.
Se la psicologia del profondo ha ragione, l’attuale classe politica non sta dunque molto bene. Di cosa soffrono, però, i truffatori politici?
Il primo disturbo, lo sanno anche molti penalisti, è una profonda (anche se spesso inconsapevole), disistima di sé. Come mi raccontava il professor Alberto Dall’Ora, uno dei principi del Foro penale, ladri e truffatori sono molto spesso persone piuttosto intelligenti, che avrebbero risultati importanti anche comportandosi correttamente. Ma, come sa l’analista, non ci credono. Per varie ragioni biografiche e ambientali non si credono capaci di veri successi. Quindi scelgono, spiega lo psicoanalista Alfred Adler, “la menzogna…vie traverse..dolo e astuzie”.
Questa stessa frustrazione, di non ritenersi ”bravi”, come vorrebbero, li spinge a mete sempre più alte. Raggiungibili però (ma pericolosamente) solo col furto, e la truffa.
Il secondo disturbo di cui soffrono è la difficoltà ad amare e rispettare davvero gli altri. La rottura con la società, e le sue leggi, nasce da lì: una forte incapacità a rispettare gli altri come persone, e un’insopprimibile tendenza a vederli solo come strumenti per la realizzazione delle proprie personali ambizioni.
Ladri e truffatori sono (soprattutto quando non incalzati dal bisogno, ma di estrazione sociale borghese), persone disturbate nelle loro relazioni con gli altri e la società, che accumulano denaro calpestando diritti altrui per affermare la propria brama di un potere di cui non si sentono degni, o capaci.
In questa modalità c’è naturalmente un forte aspetto autodistruttivo: anche se consciamente pensano di farla franca, non sono così stupidi da non intuire che il rischio di venire prima o poi scoperti è molto elevato. Ma mentono anche a sé stessi, come agli altri. Arrivando così a una sorta di “suicidio sociale”. Così come altri, che soffrono degli stessi disturbi e sociopatie, arrivano a volte al suicidio.
Se è vero quanto l’osservazione della psicoanalisi e delle psicologie sociali sostiene, c’è da chiedersi cosa significhi la vigorosa presenza, al vertice della società italiana, di persone che rubano e violano le leggi (e non da oggi: Mani Pulite è di vent’anni fa, e uno dei suoi esponenti, Piercamillo Davigo, ritiene che il debito pubblico italiano sia nato dalle pratiche denunciate in quell’esperienza).
Come mai dunque, persone disturbate hanno potuto scalare in gran numero il potere politico dei partiti italiani (la cui credibilità è scesa nei sondaggi a meno del 10% degli intervistati)?
Il vecchio Freud, fondatore della psicoanalisi ma anche acuto osservatore del suo tempo, sosteneva che i “narcisisti che si espongono alla frustrazione del mondo esterno presentano le condizioni per fare esplodere la delinquenza” che è in loro.
La visibilità, il potere, anche i guadagni legittimi assicurati dalla vita pubblica hanno attirato in gran numero personalità fortemente narcisistiche, gratificate nella propria immagine. Ma le hanno anche frustrate nelle loro aspettative, sempre sproporzionate rispetto alla realtà. Si è creato così un gruppo molto consistente di persone dotate di notevole potere, ma prive sia di reale empatia per l’interesse collettivo, sia di equilibrio nel perseguire il proprio. Come ci mostrano le notizie.

di Claudio Risé

10 febbraio 2012

Mario Draghi. Il privatizzatore, per conto di chi…





«Un vile affarista. Non si può nominare Presidente del Consiglio dei Ministri chi è stato socio della Goldman & Sachs, grande banca d’affari americana. E male, molto male io feci ad appoggiarne, quasi ad imporne la candidatura a Silvio Berlusconi». Francesco Cossiga, ex Presidente della Repubblica e profondo conoscitore degli scantinati dell’Italia repubblicana, non ha mai avuto mano delicata nei confronti di Mario Draghi, ex governatore di Bankitalia e, dal primo novembre del 2011, nuovo Presidente della Banca Centrale Europea. La dichiarazione è ovviamente datata, nata come risposta ad alcune insinuazioni sorte qualche anno fa sull’eventuale candidatura di Draghi a ricoprire il ruolo di Premier: «Ѐ il liquidatore – prosegue Cossiga – dopo la famosa crociera sul “Britannia”, dell’industria pubblica italiana. Da governatore del tesoro ha svenduto l’apparato produttivo statale, figuriamoci cosa potrebbe fare da Presidente del Consiglio dei Ministri».

Insomma, messaggio chiaro e diretto, che non ha bisogno di alcun filtro. Di filtri ne ha sempre avuti pochi, Francesco Cossiga. Non le ha mai mandate a dire, non si è mai tirato indietro, neanche quando, da Ministro degli Interni, non aveva problemi a reprimere con le cattive qualsiasi moto studentesco che si alzasse sopra le righe consentite, in quel lontano – ma non troppo – 1977.

Chissà quali parole avrebbe speso oggi, avendo la possibilità di ammirare l’italica scenografia. Chissà quante picconate sarebbero piovute sul capo di Mario Monti, Presidente del Consiglio e – a quanto pare – socio di Goldman & Sachs proprio come Draghi. La natura ambigua di Cossiga impone una certa calma nella valutazione di qualsiasi dichiarazione, tuttavia passa agli atti anche l’antipatia del politico sassarese nei confronti di Romano Prodi, definito, alla stessa stregua di Draghi, un «vile» (agosto 2005). Certo, fa specie la differenza di trattamento che Cossiga comunque ha riservato ai due: a gamba tesissima su Draghi, molto più morbido nei confronti del Professor Romano, mai nominato nelle allusioni alla famosa crociera sul Britannia.

Alle crociere, si sa, ormai siamo avvezzi. Francesco Schettino, il “Capitan Codardìa” salito alla ribalta dopo la grottesca tragedia della nave Concordia, è entrato subito nell’immaginario italian-popolare. Nei giorni immediatamente successivi al naufragio del Giglio, ecatombe a mo’ di telenovela, tanto pregna di collegamenti e fili meta-testuali da diventare icona buona per considerazioni sociali e antropologiche, spuntò qualche timido riferimento al Britannia. Riferimenti sottili e sussurrati, inglobati e sommersi dal vorticoso ciclone mediatico scatenatosi sul nuovo kolossal made in Mediterranean Sea, narrazione già pronta per sfamare antologie letterarie e cinematografiche.

Eppure, cosa si intende per “Britannia”? Cosa accadde su quella nave, durante quella crociera allusa da molti e raccontata da pochissimi? Scrive Roberto Santoro, il 7 novembre del 2011: « Il 2 giugno del 1992 il direttore del Tesoro, Mario Draghi, sale sulla passerella del Royal Yacht “Britannia”, il panfilo della Regina Elisabetta ormeggiato nel porto di Civitavecchia. Draghi ha con sé l’invito ricevuto dai British Invisibles, che non sono i protagonisti di un romanzo complottista bensì i rappresentanti di un influente gruppo di pressione della City londinese, “invisibles” nel senso che si occupano di transazioni che non riguardano merci ma servizi finanziari. I Warburg, i Barings, i Barclays, ma anche i rappresentanti di Goldman & Sachs, finanzieri e banchieri del capitalismo che funziona, o funzionava, sono venuti a spiegare a un gruppo di imprenditori e boiardi di Stato italiani come fare le privatizzazioni».

Insomma, si parla di privatizzare. Una parola salita esponenzialmente in auge nell’ultimo quindicennio italico, durante il quale molte aziende statali hanno subito una metamorfosi repentina e non troppo rumorosa. La grande IRI, gigantesco consorzio di aziende che per decenni aveva rappresentato il simbolo dell’efficienza e della produttività statale, si è gradualmente smembrata. L’effetto è quel che oggi possiamo ammirare non senza stupore: un corollario di aziende private, che ormai poco hanno a che fare con il novecentesco concetto di “motore nazionale”, avendo ormai struttura internazionale, grazie a capitali esteri: Buitoni, Invernizzi, Locatelli, Galbani, Negroni, Ferrarelle, Peroni, Moretti, Fini Perufine, Mira Lanza, e per ultima, Fiat.

Privatizzazioni furiose che hanno coinvolto qualsiasi ambito. La privatizzazione dell’Istruzione superiore, con i tagli alla scuola pubblica, la privatizzazione del mercato del lavoro, con il famigerato pacchetto Treu rincarato dalla riforma Biagi. Quel pacchetto e quella riforma intrisa di sangue aprirono il sipario sull’angosciante realtà del precariato, pesante fardello demonizzato e al contempo –chissà perché- difeso e tutelato da qualsiasi esecutivo, di destra e di sinistra, fino ad arrivare a Monti e alle sue infelici esternazioni.

Seguendo la nuova stella cometa, nacque anche Autostrade per l’Italia, nuova società costituita nell’ambito della riorganizzazione dell’originaria Società Autostrade Concessioni e Costruzioni S.p.a., completata nei primi mesi del 2003, che autorizzò, nell’ordine: le partecipazioni nelle società attive nel settore autostradale; le partecipazioni nelle altre società, avviate anche con partner, per lo sviluppo di nuove arterie autostradali in Italia; le partecipazioni nelle società che svolgono attività di progettazione e di pavimentazione di supporto alle attività caratteristiche del comparto autostradale; le partecipazioni in società ed enti operanti in attività comunque connesse alla gestione di strade e autostrade.

Andando a ritroso di tre anni, si scopre che il 7 giugno del 2000 la sorte delle autostrade era toccata alle ferrovie, dando il via ad un lento processo di privatizzazione che, pur non avendo ancora completato il suo corso, ha prodotto l’effettiva metamorfosi di un servizio diventato, col passare degli anni, sempre più vicina all’operatività di un’agenzia di viaggi che a una doverosa funzione di trasporto pubblico. Si pensi al rincaro dei biglietti, alla soppressione di molti convogli economici, o alle poco felici e recentissime sponsorizzazioni dal sapore classista.

Dunque, più che soffermarsi ad analizzare cosa avvenne e quali furono gli argomenti trattati sullo yacht Reale, è utile soffermarsi su ciò che accadde dopo quell’incontro, a cui erano presenti, come scrive Santoro, «il già citato Draghi, il presidente di Bankitalia Ciampi, Beniamino Andreatta, Mario Baldassarri, i vertici di Iri, Eni, Ina, Comit, delle grandi partecipate che di lì a poco sarebbero state “svendute”, così si dice, senza grande acume proprio da coloro che nell’ultimo scorcio della Prima Repubblica le avevano trasformate nei “gioielli di famiglia”».

Correva l’anno 1992, un anno denso di avvenimenti: il 500simo anniversario della spedizione colombiana nel Nuovo Mondo, il terremoto politico in Italia, scatenatosi sotto i colpi di Tangentopoli, che portò al disfacimento di un intero sistema politico, la cosiddetta “Prima Repubblica”. Il 1992 fu anche l’anno della svalutazione della lira, della sanguinosa lotta tra Mafia e Stato, con i cadaveri eccellenti di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, macabro preambolo della “stagione delle bombe” del 1993 e del torbido valzer di trattative tra Stato e Cosa Nostra, tornato recentemente di triste attualità. Mauro Bottarelli, oggi firma de Il Riformista, così scriveva l’8 gennaio del 2003: «Nel settembre ’92, soprattutto, l’agenzia di rating Moody’s, la stessa che ha declassato la Fiat poche settimane fa, si accanì particolarmente contro l’Italia: un suo declassamento dei Bot italiani diede infatti il via a una spaventosa speculazione sulla nostra moneta che ci portò fuori dallo Sme. Ecco cosa disse l’allora presidente del Consiglio, Bettino Craxi, al riguardo: «Esiste un intreccio di forze e circostanze diverse». Parlò di «quantità di capitali speculativi provenienti sia da operatori finanziari che da gruppi economici», di «potenti interessi che pare si siano mossi allo scopo di spezzare le maglie dello Sme», di «avversari dell’Unione Europea».

Craxi lo disse allora, ma oggi non può ripeterlo. Craxi non c’è più. Ci sono in compenso altri personaggi che entrano e che escono come caselle perfettamente inserite di un domino. C’è ad esempio Reginald Bartholomew, figlio naturale del caso del 1993 che nel mese di giugno diventerà ambasciatore americano a Roma. Un anno dopo, siamo nel giugno 1994, con la scorpacciata del Britannia bella e consumata, ecco cosa dirà Bartholomew: «Continueremo a sottolineare ai nostri interlocutori italiani la necessità di essere trasparenti nelle privatizzazioni, di proseguire in modo spedito e di rimuovere qualsiasi barriera per gli investimenti esteri».

Ciò che emerge da queste righe è l’evidente parallelismo che alcuni passaggi hanno con la situazione odierna. Oggi Moody’s è sulla bocca di tutti, tanto da attirare le uova degli indignati manifestanti. Si scopre però che i giudizi da penna rossa delle agenzie di rating non sono certo nati con la crisi. L’uscita dallo Sme provocò un terremoto totale, facendo intraprendere al Paese una faticosissima Via Crucis che riportò l’Italia in Europa nella seconda metà degli anni novanta, governata da quel Prodi che assicurò la continuità del progetto Amato: governo tecnico istituito nel 1992 e archiviato con l’uscita della cellula Berlusconi, vera e propria cellula impazzita che avrebbe maramaldeggiato sul paese per quasi vent’anni. Ventennio interrotto appunto dalla parentesi di Romano Prodi e della sua corsa all’Euro. Insomma, per parafrasare il tutto alla ferroviaria maniera, Silvio scese dal vagone Italia sicuro di poterci risalire, ma lasciando a Prodi il compito di azzeccare gli scambi (ferroviari e non solo) in direzione Bruxelles.

Scrive Sergio Romano sul Corriere della Sera, il 16 giugno 2009:

L’ uso del panfilo della Regina Elisabetta sembrò dimostrare che la crociera del Britannia era stata decisa e programmata dal governo di Sua Maestà. E il fatto che l’evento fosse stato organizzato da una società chiamata “British Invisibles” provocò una valanga di sorrisi, ammiccamenti e battute ironiche. Cominciamo dal nome degli organizzatori. “Invisibili”, nel linguaggio economico-finanziario, sono le transazioni di beni immateriali, come per l’appunto la vendita di servizi finanziari. Negli anni in cui fu governata dalla signora Thatcher, la Gran Bretagna privatizzò molte imprese, rilanciò la City, sviluppò la componente finanziaria della sua economia e acquisì in tal modo uno straordinario capitale di competenze nel settore delle acquisizioni e delle fusioni. Fu deciso che quel capitale sarebbe stato utile ad altri Paesi e che le imprese finanziarie britanniche avrebbero potuto svolgere un ruolo utile al loro Paese. “British Invisibles” nacque da un comitato della Banca Centrale del Regno Unito e divenne una sorta di Confindustria delle imprese finanziarie. Oggi si chiama International Financial Services e raggruppa circa 150 aziende del settore. Nel 1992 questa organizzazione capì che anche l’ Italia avrebbe finalmente aperto il capitolo delle privatizzazioni e decise di illustrare al nostro settore pubblico i servizi che le sue imprese erano in grado di fornire. Come luogo dell’incontro fu scelto il Britannia per tre ragioni. Sarebbe stato nel Mediterraneo in occasione di un viaggio della regina Elisabetta a Malta. Era invalsa da tempo l’abitudine di affittarlo per ridurre i costi del suo mantenimento. E, infine, la promozione degli affari britannici nel mondo è sempre stata una delle maggiori occupazioni del governo del Regno Unito.

Cameron, il giorno dopo la tragedia della Concordia, ha dichiarato che non potrà essere donato un nuovo Britannia alla Regina Elisabetta in occasione del suo Giubileo di Diamante. Niente Britannia dunque, in tempi così assonanti a quelli che furono, con Monti che fa l’Amato, Napolitano che fa lo Scalfaro (come più volte ripetuto dai giornali, in occasione della recentissima scomparsa di quest’ultimo) e Moody’s che fa Moody’s. Per il resto, ricetta al sacrificio in umido, con lacrime e sangue per questo paese che pare abbia perso ogni identità. Eppure, tanti anni fa, furono i Romani, con Claudio prima e Nerone poi, a coniare il nome Britannia nell’immaginario anglosassone. E se non è legge del contrappasso questa…

di Nicola Mente

09 febbraio 2012

L’ultimo diktat: lo Stato sarà condannato a impoverirci

Coventrizzazione: bombardamento a tappeto. Solo che ad essere rasa al suolo non sarà la cittadina inglese di Coventry, spianata nel 1940 dalle bombe della Luftwaffe, ma il Belpaese straziato dai “signori del debito”, i titolari palesi e occulti dell’esposizione italiana: gli stessi che “nominano” i dirigenti della Commissione Europea, del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Centrale Europea e, ultimamente, degli stessi governi nazionali: Mario Monti e Lucas Papademos, entrambi “allevati” dalla Goldman Sachs, ora alla guida di Italia e Grecia, mentre in Spagna il neo-premier Mariano Rajoy rivela l’esistenza di un diktat della Bce, l’Ungheria ribelle deve piegarsi alla tecnocrazia di Bruxelles e persino per la Romania in crisi si profila un altrettanto inquietante “governo tecnico”.

«Questo non è più un colpo di Stato finanziario», scrive Paolo Barnard nel suo blog: «Questa è la ‘coventry-zzazione’ dell’Italia a firma Mario Monti, e Paolo Barnardcon un esecutore materiale: il medesimo Paese che nella notte del 14 novembre 1940 rase al suolo la cittadina inglese con una violenza mai impiegata prima nella storia bellica». Se è stata la Deutsche Bank, insieme alla Goldman Sachs, a decretare la fine del governo Berlusconi per far posto a Mario Monti, incaricato di strangolare tutti tranne i suoi “padroni”, le banche e i grandi gruppi della finanza, ora il piano di annientamento della sovranità nazionale assume un carattere definitivo e istituzionale grazie al “Treaty on Stability, Coordination and Governance in the Economic and Monetary Union”, comunemente conosciuto come “Fiscal Compact”, firmato il 31 gennaio dai capi di Stato e di governo dell’Eurozona.

«Non stiamo più parlando di un golpe per controllare gli Stati sovrani d’Europa, ma proprio di un bombardamento a tappeto che non lascerà che cenere di tutto ciò che conoscevamo come democrazia, redditi e Stato di diritto in Italia», dice Barnard, autore del saggio “Il più grande crimine” sul complotto della finanza mondiale contro le nostre democrazie e promotore di un’iniziativa clamorosa: dal 24 al 26 febbraio, a Rimini, si svolgerà il primo meeting mondiale sulla “Modern Money Theory” coordinato dai prestigiosi economisti “eretici” che, dalle università statunitensi, hanno guidato la spettacolare rinascita dell’Argentina “restituendo” la moneta sovrana al popolo, trasformando cioè lo Stato in investitore sociale. Operazione praticamente impossibile in Europa, fino a quando il Vecchio Continente sarà in balia dell’attuale euro, moneta erogata da una banca privata, la Bce, che gli Stati devono prendere in prestito, a caro prezzo, a Michele Santorotutto vantaggio del “vero potere” finanziario che – privatizzando il debito pubblico – ha preso in ostaggio il destino di intere nazioni.

«E’ per me sbalorditivo che un Santoro, o un Ferruccio De Bortoli, o una Camusso possano aver letto quelle righe senza inorridire», scrive Barnard, che cita l’accademico americano Edward Herman: «Hanno reso plausibile l’inimmaginabile», e la gente lo ha accettato. Nelle 11 pagine del “Fiscal Compact” c’è la nostra condanna, aggiunge il giornalista, pioniere della tv-verità prima con Santoro e poi con la Gabanelli: se il nefasto trattato europeo entrerà in vigore il 1° gennaio 2013, l’altra notizia è che nel frattempo «non nascerà alcuna rivolta», perché «gli italiani di Gad Lerner, di Fazio, di Saviano, di Travaglio, di Grillo, di Bersani, di Vendola, della Cgil-Fiom e del Popolo Viola» non vogliono capire la gravità della situazione, anche se «sono una massa enorme che potrebbe invece agire». Ergo: «Siamo finiti, perché gli altri italiani, quelli di Sky e degli Outlet, non contano come forza civica, mai sono contati, si lamentano ma se ne fregano. Questa è la realtà».

Di che morte moriremo? Ce lo spiega in modo esplicito il “Fiscal Compact”: uno Stato che darà ai propri cittadini e alle proprie aziende più denaro di quanto gliene tolga in tasse, sarà illegale e anti-costituzionale. Niente più deficit di bilancio a favore dei cittadini: lo Stato dovrà come minimo raggiungere il pareggio di bilancio, cioè darci 100 per togliercelo subito dopo. Meglio ancora il surplus di bilancio, che poi è l’attuale situazione italiana: lo Stato pretende dai cittadini più di quanto non spenda per loro. Dal 1° gennaio 2013, questa condizione diventerà legge: entrerà nella Costituzione degli Stati firmatari. In pratica, con il nuovo trattato, lo Stato «dovrà impoverirci, matematicamente». E guai a sgarrare: «Se uno Stato non iscrive nella Costituzione o in leggi egualmente vincolanti l’obbligo di impoverire i propri cittadini e aziende attraverso il pareggio di bilancio o il Angela Merkelsurplus di bilancio, verrà giudicato dalla Corte Europea di Giustizia, che ha potere di sentenze sovranazionali, cioè vincolanti per tutti gli Stati aderenti».

Non c’è scampo, sottolinea Barnard: «Uno Stato che volesse ignorare questo scempio verrà messo sotto accusa automaticamente (“excessive deficit procedure”), e automaticamente dovrà correggersi presentando un piano dettagliato di correzioni, che sono le famigerate austerità che ben conosciamo». “Correzioni” dettate sempre dall’anonima e onnipotente Commissione Europea, dominata da tecnocrati non-eletti che, «come ampiamente dimostrato, rispondono alle lobby finanziarie di Bruxelles». E se lo Stato “ribelle” non si corregge, se cioè «si rifiuta di impoverire i propri cittadini e aziende attraverso il pareggio di bilancio o il surplus di bilancio», la Commissione Europea lo denuncerà agli altri Stati, che a loro volta lo denunceranno alla Corte Europea di Giustizia, la quale avrà il potere di multarlo: un’Italia “disubbidiente” dovrebbe accollarsi 2 miliardi di euro per ogni “infrazione”.

Il “diritto di delazione” autorizzerà anche un solo paese europeo a denunciare lo Stato “infedele” al trattato: «Diritto quindi del tutto arbitrario, che sarà esercitato senza pietà dalla Germania», che ha interesse a indebolire l’Europa del Sud per incrementare le sue esportazioni e trasformare il Mediterraneo in un’enorme bacino di manodopera a basso costo. Ma se basta la denuncia di un solo Stato a far scattare la “punizione”, alla “vittima” di turno, per tentare di difendersi, sarà necessario mettere insieme una maggioranza qualificata di Stati solidali: condizione oggi praticamente “impossibile”, dato il potere di ricatto economico-finanziario dell’area guidata da Berlino. Inoltre: una volta varato il “Fiscal Compact”, ogni Stato dell’Eurozona dovrà chiedere approvazione alla Commissione Europea e al Consiglio d’Europa prima di emettere i propri titoli di Stato: Mario Monti«Anche qui, la funzione primaria di autonomia di spesa dello Stato sovrano è cancellata».

All’unico organo europeo legittimamente eletto dai cittadini, cioè il Parlamento Europeo, è riservato questo: il suo presidente “potrebbe” essere invitato ad ascoltare le decisioni dei tecnocrati della Commissione e del Consiglio. Tutto qui. Agli organismi democratici e già sovrani, come i Parlamenti nazionali, è concesso al massimo – tramite l’assemblea di Strasburgo – di formare una “conferenza di rappresentanti” che potranno “discutere” (ma non bocciare) le decisioni prese dai tecnocrati. Inoltre, aggiunge Barnard, il “Fiscal Compact” richiede a tutti gli Stati dell’Eurozona di promettere fedeltà all’euro come moneta comune e sostegno all’attuale unione economica europea, al fine di promuovere “crescita, impiego e competitività”. «Cioè, come dire: sostenere un’alluvione per promuovere l’agricoltura».

Un dispositivo implacabile, spietato: «Se uno Stato dovesse aver bisogno di sostegno finanziario europeo attraverso un salvataggio da parte del Meccanismo Europeo di Stabilità, non avrà un singolo euro se prima non avrà firmato il “Fiscal Compact” e non lo avrà obbedito in toto». Forche caudine sotto le quali passerà la Grecia, che «morirà sotto tortura», dopodiché toccherà a noi. In ultimo, a tutti gli Stati firmatari, il “Fiscal Compact” impone il rispetto dell’“Europact”: adottato dai capi di governo dell’Eurozona il 24 marzo 2011, il patto stabilisce che la competitività sia giudicata solo in rapporto al contenimento degli stipendi e all’aumento della produttività, per preservare la quale gli stipendi pubblici dovranno essere tenuti sotto controllo. Inoltre, la sostenibilità del debito nazionale sarà giudicata a seconda della presunta generosità di spesa nel welfare (sanità, Stato sociale, ammortizzatori), mentre pensioni ed esborsi sociali dovranno Roberto Savianoessere riformati «allineando il sistema pensionistico alla situazione demografica nazionale, per esempio allineando l’età pensionistica con l’aspettativa di vita».

L’Italia, accusa Barnard, in questo modo «perde tutta la sua sovranità di spesa per i cittadini», che andava a favore di tutti i servizi essenziali, delle tutele sociali, degli sgravi e di tutta la nostra economia salariale, e perde anche la sua sovranità di spesa per le aziende, fino a ieri a favore di modernizzazione, infrastrutture, acquisti diretti. Lo Stato, nel migliore dei casi, sarà quindi costretto «a darci 100 e toglierci 100, cioè a lasciarci a zero di ricchezza netta». Di conseguenza: «Il “Fiscal Compact” impone per legge sovranazionale l’impoverimento sistematico e automatico, da parte dello Stato, dell’Italia produttiva e delle nostre famiglie». In tal modo, «lo Stato perde totalmente la sua funzione democratica primaria: il Parlamento italiano non conta più nulla, è di fatto esautorato». Altra sciabolata alla nostra sovranità: «Non controlleremo più i nostri titoli di Stato».

Precisamente per questa “Europa” si agita l’ineffabile Mario Monti, sostenuto da tutti i principali partiti italiani: «Siamo alla mercé delle punizioni inflitte da tecnocrati non eletti da noi, e del giudizio devastante della Germania, che com’è noto ed ampiamente provato, lavora da 40 anni per distruggere le economie dell’Europa del sud, dell’Italia in particolare». Quello che ci aspetta è già scritto, oltre che già cominciato: «Saremo costretti ad austerità continue imposte dalla Commissione Europea che nessun italiano elegge». Questo significa «povertà imposta su altra Susanna Camussopovertà», e solo per gli interessi “neomercantili” di Berlino e di pochi speculatori internazionali. «Infine – aggiunge Barnard – questo crimine contro un intero popolo e nazione è stato firmato da Mario Monti, che dovrebbe essere arrestato per alto tradimento».

Eppure, gli italiani stanno concedendo un’abbondante maggioranza di gradimenti al governo del “professore”: «I media difendono l’euro come sacro, e neppure quelli “liberi”, da Santoro al “Fatto” di Travaglio, permetteranno mai a questi fatti documentati, e salva-vita, di essere esposti». Problema cronico: «Tutta la componente maggioritaria dei cittadini “impegnati” crede di aver salvato l’Italia dal terribile pericolo democratico numero uno della nostra storia: Silvio Berlusconi. Il resto degli italiani non sa, non se ne cura». Dunque, è doloroso ammetterlo: «C’è una profonda giustizia nel fatto che il Vero Potere ci pisci in testa, e ci condanni alla disperazione: ce lo meritiamo».

di Giorgio Cattaneo

08 febbraio 2012

L’assalto al potere dei narcisisti disturbati


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Quando la TV annuncia che qualcuno ha rubato milioni alla collettività, la maggior parte degli spettatori pensa che è un mascalzone, e un furbo. Quando un paziente lascia capire in terapia che ha preso illegalmente del denaro, al terapeuta si apre una pista significativa per capire che egli è davvero malato, e come si configuri il suo malessere.
Se la psicologia del profondo ha ragione, l’attuale classe politica non sta dunque molto bene. Di cosa soffrono, però, i truffatori politici?
Il primo disturbo, lo sanno anche molti penalisti, è una profonda (anche se spesso inconsapevole), disistima di sé. Come mi raccontava il professor Alberto Dall’Ora, uno dei principi del Foro penale, ladri e truffatori sono molto spesso persone piuttosto intelligenti, che avrebbero risultati importanti anche comportandosi correttamente. Ma, come sa l’analista, non ci credono. Per varie ragioni biografiche e ambientali non si credono capaci di veri successi. Quindi scelgono, spiega lo psicoanalista Alfred Adler, “la menzogna…vie traverse..dolo e astuzie”.
Questa stessa frustrazione, di non ritenersi ”bravi”, come vorrebbero, li spinge a mete sempre più alte. Raggiungibili però (ma pericolosamente) solo col furto, e la truffa.
Il secondo disturbo di cui soffrono è la difficoltà ad amare e rispettare davvero gli altri. La rottura con la società, e le sue leggi, nasce da lì: una forte incapacità a rispettare gli altri come persone, e un’insopprimibile tendenza a vederli solo come strumenti per la realizzazione delle proprie personali ambizioni.
Ladri e truffatori sono (soprattutto quando non incalzati dal bisogno, ma di estrazione sociale borghese), persone disturbate nelle loro relazioni con gli altri e la società, che accumulano denaro calpestando diritti altrui per affermare la propria brama di un potere di cui non si sentono degni, o capaci.
In questa modalità c’è naturalmente un forte aspetto autodistruttivo: anche se consciamente pensano di farla franca, non sono così stupidi da non intuire che il rischio di venire prima o poi scoperti è molto elevato. Ma mentono anche a sé stessi, come agli altri. Arrivando così a una sorta di “suicidio sociale”. Così come altri, che soffrono degli stessi disturbi e sociopatie, arrivano a volte al suicidio.
Se è vero quanto l’osservazione della psicoanalisi e delle psicologie sociali sostiene, c’è da chiedersi cosa significhi la vigorosa presenza, al vertice della società italiana, di persone che rubano e violano le leggi (e non da oggi: Mani Pulite è di vent’anni fa, e uno dei suoi esponenti, Piercamillo Davigo, ritiene che il debito pubblico italiano sia nato dalle pratiche denunciate in quell’esperienza).
Come mai dunque, persone disturbate hanno potuto scalare in gran numero il potere politico dei partiti italiani (la cui credibilità è scesa nei sondaggi a meno del 10% degli intervistati)?
Il vecchio Freud, fondatore della psicoanalisi ma anche acuto osservatore del suo tempo, sosteneva che i “narcisisti che si espongono alla frustrazione del mondo esterno presentano le condizioni per fare esplodere la delinquenza” che è in loro.
La visibilità, il potere, anche i guadagni legittimi assicurati dalla vita pubblica hanno attirato in gran numero personalità fortemente narcisistiche, gratificate nella propria immagine. Ma le hanno anche frustrate nelle loro aspettative, sempre sproporzionate rispetto alla realtà. Si è creato così un gruppo molto consistente di persone dotate di notevole potere, ma prive sia di reale empatia per l’interesse collettivo, sia di equilibrio nel perseguire il proprio. Come ci mostrano le notizie.

di Claudio Risé