10 febbraio 2012

Mario Draghi. Il privatizzatore, per conto di chi…





«Un vile affarista. Non si può nominare Presidente del Consiglio dei Ministri chi è stato socio della Goldman & Sachs, grande banca d’affari americana. E male, molto male io feci ad appoggiarne, quasi ad imporne la candidatura a Silvio Berlusconi». Francesco Cossiga, ex Presidente della Repubblica e profondo conoscitore degli scantinati dell’Italia repubblicana, non ha mai avuto mano delicata nei confronti di Mario Draghi, ex governatore di Bankitalia e, dal primo novembre del 2011, nuovo Presidente della Banca Centrale Europea. La dichiarazione è ovviamente datata, nata come risposta ad alcune insinuazioni sorte qualche anno fa sull’eventuale candidatura di Draghi a ricoprire il ruolo di Premier: «Ѐ il liquidatore – prosegue Cossiga – dopo la famosa crociera sul “Britannia”, dell’industria pubblica italiana. Da governatore del tesoro ha svenduto l’apparato produttivo statale, figuriamoci cosa potrebbe fare da Presidente del Consiglio dei Ministri».

Insomma, messaggio chiaro e diretto, che non ha bisogno di alcun filtro. Di filtri ne ha sempre avuti pochi, Francesco Cossiga. Non le ha mai mandate a dire, non si è mai tirato indietro, neanche quando, da Ministro degli Interni, non aveva problemi a reprimere con le cattive qualsiasi moto studentesco che si alzasse sopra le righe consentite, in quel lontano – ma non troppo – 1977.

Chissà quali parole avrebbe speso oggi, avendo la possibilità di ammirare l’italica scenografia. Chissà quante picconate sarebbero piovute sul capo di Mario Monti, Presidente del Consiglio e – a quanto pare – socio di Goldman & Sachs proprio come Draghi. La natura ambigua di Cossiga impone una certa calma nella valutazione di qualsiasi dichiarazione, tuttavia passa agli atti anche l’antipatia del politico sassarese nei confronti di Romano Prodi, definito, alla stessa stregua di Draghi, un «vile» (agosto 2005). Certo, fa specie la differenza di trattamento che Cossiga comunque ha riservato ai due: a gamba tesissima su Draghi, molto più morbido nei confronti del Professor Romano, mai nominato nelle allusioni alla famosa crociera sul Britannia.

Alle crociere, si sa, ormai siamo avvezzi. Francesco Schettino, il “Capitan Codardìa” salito alla ribalta dopo la grottesca tragedia della nave Concordia, è entrato subito nell’immaginario italian-popolare. Nei giorni immediatamente successivi al naufragio del Giglio, ecatombe a mo’ di telenovela, tanto pregna di collegamenti e fili meta-testuali da diventare icona buona per considerazioni sociali e antropologiche, spuntò qualche timido riferimento al Britannia. Riferimenti sottili e sussurrati, inglobati e sommersi dal vorticoso ciclone mediatico scatenatosi sul nuovo kolossal made in Mediterranean Sea, narrazione già pronta per sfamare antologie letterarie e cinematografiche.

Eppure, cosa si intende per “Britannia”? Cosa accadde su quella nave, durante quella crociera allusa da molti e raccontata da pochissimi? Scrive Roberto Santoro, il 7 novembre del 2011: « Il 2 giugno del 1992 il direttore del Tesoro, Mario Draghi, sale sulla passerella del Royal Yacht “Britannia”, il panfilo della Regina Elisabetta ormeggiato nel porto di Civitavecchia. Draghi ha con sé l’invito ricevuto dai British Invisibles, che non sono i protagonisti di un romanzo complottista bensì i rappresentanti di un influente gruppo di pressione della City londinese, “invisibles” nel senso che si occupano di transazioni che non riguardano merci ma servizi finanziari. I Warburg, i Barings, i Barclays, ma anche i rappresentanti di Goldman & Sachs, finanzieri e banchieri del capitalismo che funziona, o funzionava, sono venuti a spiegare a un gruppo di imprenditori e boiardi di Stato italiani come fare le privatizzazioni».

Insomma, si parla di privatizzare. Una parola salita esponenzialmente in auge nell’ultimo quindicennio italico, durante il quale molte aziende statali hanno subito una metamorfosi repentina e non troppo rumorosa. La grande IRI, gigantesco consorzio di aziende che per decenni aveva rappresentato il simbolo dell’efficienza e della produttività statale, si è gradualmente smembrata. L’effetto è quel che oggi possiamo ammirare non senza stupore: un corollario di aziende private, che ormai poco hanno a che fare con il novecentesco concetto di “motore nazionale”, avendo ormai struttura internazionale, grazie a capitali esteri: Buitoni, Invernizzi, Locatelli, Galbani, Negroni, Ferrarelle, Peroni, Moretti, Fini Perufine, Mira Lanza, e per ultima, Fiat.

Privatizzazioni furiose che hanno coinvolto qualsiasi ambito. La privatizzazione dell’Istruzione superiore, con i tagli alla scuola pubblica, la privatizzazione del mercato del lavoro, con il famigerato pacchetto Treu rincarato dalla riforma Biagi. Quel pacchetto e quella riforma intrisa di sangue aprirono il sipario sull’angosciante realtà del precariato, pesante fardello demonizzato e al contempo –chissà perché- difeso e tutelato da qualsiasi esecutivo, di destra e di sinistra, fino ad arrivare a Monti e alle sue infelici esternazioni.

Seguendo la nuova stella cometa, nacque anche Autostrade per l’Italia, nuova società costituita nell’ambito della riorganizzazione dell’originaria Società Autostrade Concessioni e Costruzioni S.p.a., completata nei primi mesi del 2003, che autorizzò, nell’ordine: le partecipazioni nelle società attive nel settore autostradale; le partecipazioni nelle altre società, avviate anche con partner, per lo sviluppo di nuove arterie autostradali in Italia; le partecipazioni nelle società che svolgono attività di progettazione e di pavimentazione di supporto alle attività caratteristiche del comparto autostradale; le partecipazioni in società ed enti operanti in attività comunque connesse alla gestione di strade e autostrade.

Andando a ritroso di tre anni, si scopre che il 7 giugno del 2000 la sorte delle autostrade era toccata alle ferrovie, dando il via ad un lento processo di privatizzazione che, pur non avendo ancora completato il suo corso, ha prodotto l’effettiva metamorfosi di un servizio diventato, col passare degli anni, sempre più vicina all’operatività di un’agenzia di viaggi che a una doverosa funzione di trasporto pubblico. Si pensi al rincaro dei biglietti, alla soppressione di molti convogli economici, o alle poco felici e recentissime sponsorizzazioni dal sapore classista.

Dunque, più che soffermarsi ad analizzare cosa avvenne e quali furono gli argomenti trattati sullo yacht Reale, è utile soffermarsi su ciò che accadde dopo quell’incontro, a cui erano presenti, come scrive Santoro, «il già citato Draghi, il presidente di Bankitalia Ciampi, Beniamino Andreatta, Mario Baldassarri, i vertici di Iri, Eni, Ina, Comit, delle grandi partecipate che di lì a poco sarebbero state “svendute”, così si dice, senza grande acume proprio da coloro che nell’ultimo scorcio della Prima Repubblica le avevano trasformate nei “gioielli di famiglia”».

Correva l’anno 1992, un anno denso di avvenimenti: il 500simo anniversario della spedizione colombiana nel Nuovo Mondo, il terremoto politico in Italia, scatenatosi sotto i colpi di Tangentopoli, che portò al disfacimento di un intero sistema politico, la cosiddetta “Prima Repubblica”. Il 1992 fu anche l’anno della svalutazione della lira, della sanguinosa lotta tra Mafia e Stato, con i cadaveri eccellenti di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, macabro preambolo della “stagione delle bombe” del 1993 e del torbido valzer di trattative tra Stato e Cosa Nostra, tornato recentemente di triste attualità. Mauro Bottarelli, oggi firma de Il Riformista, così scriveva l’8 gennaio del 2003: «Nel settembre ’92, soprattutto, l’agenzia di rating Moody’s, la stessa che ha declassato la Fiat poche settimane fa, si accanì particolarmente contro l’Italia: un suo declassamento dei Bot italiani diede infatti il via a una spaventosa speculazione sulla nostra moneta che ci portò fuori dallo Sme. Ecco cosa disse l’allora presidente del Consiglio, Bettino Craxi, al riguardo: «Esiste un intreccio di forze e circostanze diverse». Parlò di «quantità di capitali speculativi provenienti sia da operatori finanziari che da gruppi economici», di «potenti interessi che pare si siano mossi allo scopo di spezzare le maglie dello Sme», di «avversari dell’Unione Europea».

Craxi lo disse allora, ma oggi non può ripeterlo. Craxi non c’è più. Ci sono in compenso altri personaggi che entrano e che escono come caselle perfettamente inserite di un domino. C’è ad esempio Reginald Bartholomew, figlio naturale del caso del 1993 che nel mese di giugno diventerà ambasciatore americano a Roma. Un anno dopo, siamo nel giugno 1994, con la scorpacciata del Britannia bella e consumata, ecco cosa dirà Bartholomew: «Continueremo a sottolineare ai nostri interlocutori italiani la necessità di essere trasparenti nelle privatizzazioni, di proseguire in modo spedito e di rimuovere qualsiasi barriera per gli investimenti esteri».

Ciò che emerge da queste righe è l’evidente parallelismo che alcuni passaggi hanno con la situazione odierna. Oggi Moody’s è sulla bocca di tutti, tanto da attirare le uova degli indignati manifestanti. Si scopre però che i giudizi da penna rossa delle agenzie di rating non sono certo nati con la crisi. L’uscita dallo Sme provocò un terremoto totale, facendo intraprendere al Paese una faticosissima Via Crucis che riportò l’Italia in Europa nella seconda metà degli anni novanta, governata da quel Prodi che assicurò la continuità del progetto Amato: governo tecnico istituito nel 1992 e archiviato con l’uscita della cellula Berlusconi, vera e propria cellula impazzita che avrebbe maramaldeggiato sul paese per quasi vent’anni. Ventennio interrotto appunto dalla parentesi di Romano Prodi e della sua corsa all’Euro. Insomma, per parafrasare il tutto alla ferroviaria maniera, Silvio scese dal vagone Italia sicuro di poterci risalire, ma lasciando a Prodi il compito di azzeccare gli scambi (ferroviari e non solo) in direzione Bruxelles.

Scrive Sergio Romano sul Corriere della Sera, il 16 giugno 2009:

L’ uso del panfilo della Regina Elisabetta sembrò dimostrare che la crociera del Britannia era stata decisa e programmata dal governo di Sua Maestà. E il fatto che l’evento fosse stato organizzato da una società chiamata “British Invisibles” provocò una valanga di sorrisi, ammiccamenti e battute ironiche. Cominciamo dal nome degli organizzatori. “Invisibili”, nel linguaggio economico-finanziario, sono le transazioni di beni immateriali, come per l’appunto la vendita di servizi finanziari. Negli anni in cui fu governata dalla signora Thatcher, la Gran Bretagna privatizzò molte imprese, rilanciò la City, sviluppò la componente finanziaria della sua economia e acquisì in tal modo uno straordinario capitale di competenze nel settore delle acquisizioni e delle fusioni. Fu deciso che quel capitale sarebbe stato utile ad altri Paesi e che le imprese finanziarie britanniche avrebbero potuto svolgere un ruolo utile al loro Paese. “British Invisibles” nacque da un comitato della Banca Centrale del Regno Unito e divenne una sorta di Confindustria delle imprese finanziarie. Oggi si chiama International Financial Services e raggruppa circa 150 aziende del settore. Nel 1992 questa organizzazione capì che anche l’ Italia avrebbe finalmente aperto il capitolo delle privatizzazioni e decise di illustrare al nostro settore pubblico i servizi che le sue imprese erano in grado di fornire. Come luogo dell’incontro fu scelto il Britannia per tre ragioni. Sarebbe stato nel Mediterraneo in occasione di un viaggio della regina Elisabetta a Malta. Era invalsa da tempo l’abitudine di affittarlo per ridurre i costi del suo mantenimento. E, infine, la promozione degli affari britannici nel mondo è sempre stata una delle maggiori occupazioni del governo del Regno Unito.

Cameron, il giorno dopo la tragedia della Concordia, ha dichiarato che non potrà essere donato un nuovo Britannia alla Regina Elisabetta in occasione del suo Giubileo di Diamante. Niente Britannia dunque, in tempi così assonanti a quelli che furono, con Monti che fa l’Amato, Napolitano che fa lo Scalfaro (come più volte ripetuto dai giornali, in occasione della recentissima scomparsa di quest’ultimo) e Moody’s che fa Moody’s. Per il resto, ricetta al sacrificio in umido, con lacrime e sangue per questo paese che pare abbia perso ogni identità. Eppure, tanti anni fa, furono i Romani, con Claudio prima e Nerone poi, a coniare il nome Britannia nell’immaginario anglosassone. E se non è legge del contrappasso questa…

di Nicola Mente

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10 febbraio 2012

Mario Draghi. Il privatizzatore, per conto di chi…





«Un vile affarista. Non si può nominare Presidente del Consiglio dei Ministri chi è stato socio della Goldman & Sachs, grande banca d’affari americana. E male, molto male io feci ad appoggiarne, quasi ad imporne la candidatura a Silvio Berlusconi». Francesco Cossiga, ex Presidente della Repubblica e profondo conoscitore degli scantinati dell’Italia repubblicana, non ha mai avuto mano delicata nei confronti di Mario Draghi, ex governatore di Bankitalia e, dal primo novembre del 2011, nuovo Presidente della Banca Centrale Europea. La dichiarazione è ovviamente datata, nata come risposta ad alcune insinuazioni sorte qualche anno fa sull’eventuale candidatura di Draghi a ricoprire il ruolo di Premier: «Ѐ il liquidatore – prosegue Cossiga – dopo la famosa crociera sul “Britannia”, dell’industria pubblica italiana. Da governatore del tesoro ha svenduto l’apparato produttivo statale, figuriamoci cosa potrebbe fare da Presidente del Consiglio dei Ministri».

Insomma, messaggio chiaro e diretto, che non ha bisogno di alcun filtro. Di filtri ne ha sempre avuti pochi, Francesco Cossiga. Non le ha mai mandate a dire, non si è mai tirato indietro, neanche quando, da Ministro degli Interni, non aveva problemi a reprimere con le cattive qualsiasi moto studentesco che si alzasse sopra le righe consentite, in quel lontano – ma non troppo – 1977.

Chissà quali parole avrebbe speso oggi, avendo la possibilità di ammirare l’italica scenografia. Chissà quante picconate sarebbero piovute sul capo di Mario Monti, Presidente del Consiglio e – a quanto pare – socio di Goldman & Sachs proprio come Draghi. La natura ambigua di Cossiga impone una certa calma nella valutazione di qualsiasi dichiarazione, tuttavia passa agli atti anche l’antipatia del politico sassarese nei confronti di Romano Prodi, definito, alla stessa stregua di Draghi, un «vile» (agosto 2005). Certo, fa specie la differenza di trattamento che Cossiga comunque ha riservato ai due: a gamba tesissima su Draghi, molto più morbido nei confronti del Professor Romano, mai nominato nelle allusioni alla famosa crociera sul Britannia.

Alle crociere, si sa, ormai siamo avvezzi. Francesco Schettino, il “Capitan Codardìa” salito alla ribalta dopo la grottesca tragedia della nave Concordia, è entrato subito nell’immaginario italian-popolare. Nei giorni immediatamente successivi al naufragio del Giglio, ecatombe a mo’ di telenovela, tanto pregna di collegamenti e fili meta-testuali da diventare icona buona per considerazioni sociali e antropologiche, spuntò qualche timido riferimento al Britannia. Riferimenti sottili e sussurrati, inglobati e sommersi dal vorticoso ciclone mediatico scatenatosi sul nuovo kolossal made in Mediterranean Sea, narrazione già pronta per sfamare antologie letterarie e cinematografiche.

Eppure, cosa si intende per “Britannia”? Cosa accadde su quella nave, durante quella crociera allusa da molti e raccontata da pochissimi? Scrive Roberto Santoro, il 7 novembre del 2011: « Il 2 giugno del 1992 il direttore del Tesoro, Mario Draghi, sale sulla passerella del Royal Yacht “Britannia”, il panfilo della Regina Elisabetta ormeggiato nel porto di Civitavecchia. Draghi ha con sé l’invito ricevuto dai British Invisibles, che non sono i protagonisti di un romanzo complottista bensì i rappresentanti di un influente gruppo di pressione della City londinese, “invisibles” nel senso che si occupano di transazioni che non riguardano merci ma servizi finanziari. I Warburg, i Barings, i Barclays, ma anche i rappresentanti di Goldman & Sachs, finanzieri e banchieri del capitalismo che funziona, o funzionava, sono venuti a spiegare a un gruppo di imprenditori e boiardi di Stato italiani come fare le privatizzazioni».

Insomma, si parla di privatizzare. Una parola salita esponenzialmente in auge nell’ultimo quindicennio italico, durante il quale molte aziende statali hanno subito una metamorfosi repentina e non troppo rumorosa. La grande IRI, gigantesco consorzio di aziende che per decenni aveva rappresentato il simbolo dell’efficienza e della produttività statale, si è gradualmente smembrata. L’effetto è quel che oggi possiamo ammirare non senza stupore: un corollario di aziende private, che ormai poco hanno a che fare con il novecentesco concetto di “motore nazionale”, avendo ormai struttura internazionale, grazie a capitali esteri: Buitoni, Invernizzi, Locatelli, Galbani, Negroni, Ferrarelle, Peroni, Moretti, Fini Perufine, Mira Lanza, e per ultima, Fiat.

Privatizzazioni furiose che hanno coinvolto qualsiasi ambito. La privatizzazione dell’Istruzione superiore, con i tagli alla scuola pubblica, la privatizzazione del mercato del lavoro, con il famigerato pacchetto Treu rincarato dalla riforma Biagi. Quel pacchetto e quella riforma intrisa di sangue aprirono il sipario sull’angosciante realtà del precariato, pesante fardello demonizzato e al contempo –chissà perché- difeso e tutelato da qualsiasi esecutivo, di destra e di sinistra, fino ad arrivare a Monti e alle sue infelici esternazioni.

Seguendo la nuova stella cometa, nacque anche Autostrade per l’Italia, nuova società costituita nell’ambito della riorganizzazione dell’originaria Società Autostrade Concessioni e Costruzioni S.p.a., completata nei primi mesi del 2003, che autorizzò, nell’ordine: le partecipazioni nelle società attive nel settore autostradale; le partecipazioni nelle altre società, avviate anche con partner, per lo sviluppo di nuove arterie autostradali in Italia; le partecipazioni nelle società che svolgono attività di progettazione e di pavimentazione di supporto alle attività caratteristiche del comparto autostradale; le partecipazioni in società ed enti operanti in attività comunque connesse alla gestione di strade e autostrade.

Andando a ritroso di tre anni, si scopre che il 7 giugno del 2000 la sorte delle autostrade era toccata alle ferrovie, dando il via ad un lento processo di privatizzazione che, pur non avendo ancora completato il suo corso, ha prodotto l’effettiva metamorfosi di un servizio diventato, col passare degli anni, sempre più vicina all’operatività di un’agenzia di viaggi che a una doverosa funzione di trasporto pubblico. Si pensi al rincaro dei biglietti, alla soppressione di molti convogli economici, o alle poco felici e recentissime sponsorizzazioni dal sapore classista.

Dunque, più che soffermarsi ad analizzare cosa avvenne e quali furono gli argomenti trattati sullo yacht Reale, è utile soffermarsi su ciò che accadde dopo quell’incontro, a cui erano presenti, come scrive Santoro, «il già citato Draghi, il presidente di Bankitalia Ciampi, Beniamino Andreatta, Mario Baldassarri, i vertici di Iri, Eni, Ina, Comit, delle grandi partecipate che di lì a poco sarebbero state “svendute”, così si dice, senza grande acume proprio da coloro che nell’ultimo scorcio della Prima Repubblica le avevano trasformate nei “gioielli di famiglia”».

Correva l’anno 1992, un anno denso di avvenimenti: il 500simo anniversario della spedizione colombiana nel Nuovo Mondo, il terremoto politico in Italia, scatenatosi sotto i colpi di Tangentopoli, che portò al disfacimento di un intero sistema politico, la cosiddetta “Prima Repubblica”. Il 1992 fu anche l’anno della svalutazione della lira, della sanguinosa lotta tra Mafia e Stato, con i cadaveri eccellenti di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, macabro preambolo della “stagione delle bombe” del 1993 e del torbido valzer di trattative tra Stato e Cosa Nostra, tornato recentemente di triste attualità. Mauro Bottarelli, oggi firma de Il Riformista, così scriveva l’8 gennaio del 2003: «Nel settembre ’92, soprattutto, l’agenzia di rating Moody’s, la stessa che ha declassato la Fiat poche settimane fa, si accanì particolarmente contro l’Italia: un suo declassamento dei Bot italiani diede infatti il via a una spaventosa speculazione sulla nostra moneta che ci portò fuori dallo Sme. Ecco cosa disse l’allora presidente del Consiglio, Bettino Craxi, al riguardo: «Esiste un intreccio di forze e circostanze diverse». Parlò di «quantità di capitali speculativi provenienti sia da operatori finanziari che da gruppi economici», di «potenti interessi che pare si siano mossi allo scopo di spezzare le maglie dello Sme», di «avversari dell’Unione Europea».

Craxi lo disse allora, ma oggi non può ripeterlo. Craxi non c’è più. Ci sono in compenso altri personaggi che entrano e che escono come caselle perfettamente inserite di un domino. C’è ad esempio Reginald Bartholomew, figlio naturale del caso del 1993 che nel mese di giugno diventerà ambasciatore americano a Roma. Un anno dopo, siamo nel giugno 1994, con la scorpacciata del Britannia bella e consumata, ecco cosa dirà Bartholomew: «Continueremo a sottolineare ai nostri interlocutori italiani la necessità di essere trasparenti nelle privatizzazioni, di proseguire in modo spedito e di rimuovere qualsiasi barriera per gli investimenti esteri».

Ciò che emerge da queste righe è l’evidente parallelismo che alcuni passaggi hanno con la situazione odierna. Oggi Moody’s è sulla bocca di tutti, tanto da attirare le uova degli indignati manifestanti. Si scopre però che i giudizi da penna rossa delle agenzie di rating non sono certo nati con la crisi. L’uscita dallo Sme provocò un terremoto totale, facendo intraprendere al Paese una faticosissima Via Crucis che riportò l’Italia in Europa nella seconda metà degli anni novanta, governata da quel Prodi che assicurò la continuità del progetto Amato: governo tecnico istituito nel 1992 e archiviato con l’uscita della cellula Berlusconi, vera e propria cellula impazzita che avrebbe maramaldeggiato sul paese per quasi vent’anni. Ventennio interrotto appunto dalla parentesi di Romano Prodi e della sua corsa all’Euro. Insomma, per parafrasare il tutto alla ferroviaria maniera, Silvio scese dal vagone Italia sicuro di poterci risalire, ma lasciando a Prodi il compito di azzeccare gli scambi (ferroviari e non solo) in direzione Bruxelles.

Scrive Sergio Romano sul Corriere della Sera, il 16 giugno 2009:

L’ uso del panfilo della Regina Elisabetta sembrò dimostrare che la crociera del Britannia era stata decisa e programmata dal governo di Sua Maestà. E il fatto che l’evento fosse stato organizzato da una società chiamata “British Invisibles” provocò una valanga di sorrisi, ammiccamenti e battute ironiche. Cominciamo dal nome degli organizzatori. “Invisibili”, nel linguaggio economico-finanziario, sono le transazioni di beni immateriali, come per l’appunto la vendita di servizi finanziari. Negli anni in cui fu governata dalla signora Thatcher, la Gran Bretagna privatizzò molte imprese, rilanciò la City, sviluppò la componente finanziaria della sua economia e acquisì in tal modo uno straordinario capitale di competenze nel settore delle acquisizioni e delle fusioni. Fu deciso che quel capitale sarebbe stato utile ad altri Paesi e che le imprese finanziarie britanniche avrebbero potuto svolgere un ruolo utile al loro Paese. “British Invisibles” nacque da un comitato della Banca Centrale del Regno Unito e divenne una sorta di Confindustria delle imprese finanziarie. Oggi si chiama International Financial Services e raggruppa circa 150 aziende del settore. Nel 1992 questa organizzazione capì che anche l’ Italia avrebbe finalmente aperto il capitolo delle privatizzazioni e decise di illustrare al nostro settore pubblico i servizi che le sue imprese erano in grado di fornire. Come luogo dell’incontro fu scelto il Britannia per tre ragioni. Sarebbe stato nel Mediterraneo in occasione di un viaggio della regina Elisabetta a Malta. Era invalsa da tempo l’abitudine di affittarlo per ridurre i costi del suo mantenimento. E, infine, la promozione degli affari britannici nel mondo è sempre stata una delle maggiori occupazioni del governo del Regno Unito.

Cameron, il giorno dopo la tragedia della Concordia, ha dichiarato che non potrà essere donato un nuovo Britannia alla Regina Elisabetta in occasione del suo Giubileo di Diamante. Niente Britannia dunque, in tempi così assonanti a quelli che furono, con Monti che fa l’Amato, Napolitano che fa lo Scalfaro (come più volte ripetuto dai giornali, in occasione della recentissima scomparsa di quest’ultimo) e Moody’s che fa Moody’s. Per il resto, ricetta al sacrificio in umido, con lacrime e sangue per questo paese che pare abbia perso ogni identità. Eppure, tanti anni fa, furono i Romani, con Claudio prima e Nerone poi, a coniare il nome Britannia nell’immaginario anglosassone. E se non è legge del contrappasso questa…

di Nicola Mente

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