![]() La Cancelleria suona le trombe: ecco il miracolo economico tedesco! I disoccupati sono scesi dai 5,1 milioni nel 2005 ai 2,8 oggi. Sono solo il 6,9% della popolazione attiva, un record storico e un sogno in confronto al 9,9% di disoccupati in Francia e al 9,1% negli Usa. Sembra ripetersi il miracolo del Terzo Reich, che in tre anni mise la popolazione al pieno impiego. Merito, dicono le trombe, della “moderazione salariale” dei lavoratori tedeschi, della “disciplina” accettata dai sindacati. Ma ora, uno studio francese rivela i trucchi e il prezzo sociale occulto di questo miracolo. Nel 2001, il governo Schroeder comincia ad applicare le idee di Peter Hartz, il capo del personale (pardon, “risorse umane”) di Volkswagen: convinto, non a torto, che i grassi sussidi (di disoccupazione e sociali in genere) vigenti allora in Germania tendano a creare uno strato di fannulloni cronici, concepisce un marchingegno legale che “costringe” i disoccupati a trovar lavoro. Prima della riforma Hartz, i disoccupati che durante il lavoro avevano versato i contributi, avevano il diritto ad una “allocazione” (Arbeitsengeld o AG1) che durava due, e in certi casi 3 anni. Dopo Hartz, il sussidio AG1 dura un anno soltanto. Prima, i disoccupati di lunga durata che avevano esaurito il diritto al primo sussidio AG1, prendevano un AG2, molto più modesto. Esisteva anche un “aiuto sociale” (Sozialhilfe) per le persone ancora più lontane dal mondo del lavoro. Oggi, AI2 e Sozialhilfe sono fusi in uno, e distribuiti attraverso centri di lavoro speciali: presso questi centri di lavoro ogni disoccupato deve fare “passi positivi” presentandosi bi-mensilmente e accettare un impiego qualunque, anche meno pagato del precedente, sotto pena di perdere i sussidi. Il sistema ha fatto cancellare milioni di persone dalle liste di disoccupazione…solo per farle riapparire nelle liste di “lavoratori poveri”, che hanno lavoretti di meno di 15 ore settimanali, e pagati di conseguenza: anche meno di 400 euro mensili. Il buono del sistema Hartz è che per questi “mini-jobs” e mini-salari, lo stato non esige il versamento dei contributi previdenziali e sanitari. Ciò ha incoraggiato molti datori di lavoro ad assumere mini-salariati sotto i 400 euro. Il lato sgradevole è che questi lavoratori, non contribuendo alla previdenza, non hanno pensione nè assicurazione sanitaria. Secondo lo studio francese, i fruitori del sistema (Hartz IV) sono 6,6 milioni. Di cui 1,7 sono bambini, figli di ragazze madri o famiglie marginali. Il che fa che gli altri – 4,9 milioni di adulti, sono “mini-impiegati” da meno di 15 ore settimanali o precari d’altro tipo. Ci sono anche percettori di “lavori da un euro” – pagati un euro l’ora - per lo più per lavori d’interesse pubblico (“Socialmente utili”, diciamo noi). Perchè qualcuno dovrebbe accettare “lavori” da un’euro l’ora? Perchè altrimenti perde i sussidi. I “mini-jobs” sono la forma di lavoro che è più straordinariamente cresciuta (+47% tra il 2006 e il 2009), superata solo dal lavoro interinale (+134%). I mini-job sono molto diffusi tra i pensionati: 660 mila di loro integrano la pèensione in questo modo. Dietro le cifre, c’è la tragedia sociale degli anziani licenziati: in base all’ultima riforma previdenziale tedesca, l’età pensionabile è stata alzata dai 65 ai 67 anni, il che ha aumentato il numero di quelli che non vengono più assunti, causa l’ìetà, se non in mini-jobs. Non a caso, se il numero dei beneficiari del sistema Hartz IV è ufficialmente calato del 9,5% tra il 2006 e il 2009, tra i tedeschi di più di 55 anni il numero dei beneficiari è cresciuto del 17,7%. Nel maggio 2011, gli occupati con mini-jobs erano 5 milioni: si può parlare, senza offesa, di un esercito di sotto-occupati e precari? Ci sono stati anche scandali: aziende che preferiscono assumere due o tre mini-jobs (su cui non pagano i contributi previdenziali) invece di un lavoratore a tempo pieno. La Scheckler, una catena di drogherie, è stata accusata dai verdi di fare questo genere di “dumping salariale”. Nell’agosto 2010, un rapporto dell’Istitutio del Lavoro dell’Università di Duisberg-Essen ha calcolato che più di 6,55 milioni di tedeschi ricevono meno di 10 euro lordi l’ora – sono aumentati di 2,3 milioni rispetto a dieci anni prima. Due milioni di lavoratori in oltre-Reno campano con meno di 6 euro l’ora, e molti nell’ex Germania comunista si contentano di 4 euro l’ora, ossia 720 euro mensili per un lavoro a tempo pieno. http://www.iaq.uni-due.de/iaq-report/2010/report2010-06.pdf I salariati con mini-job non sono i soli mal pagati. In Germania non esiste un salario minimo stabilito per legge (situazione unica in Europa). I “lavoratori poveri” (che restano in miseria pur lavorando) sono il 20% degli occupati germanici. Quelli che lavorano per meno di 15 ore settimanali, con paghe in proporzione, sono chiamati Aufstocker: sono un milione, ed integrano il magrissimo salario con i magrissimi sussidi sociali. Il loro numero è in continua crescita. Quanto ai sussidi sociali, rende noto lo studio francese, non sono completamente cumulabili: “Per 100 euro di salario, il lavoratore perde il 20% del susidio, per un impiego da 800 euro ne perde l’80%.” Il caso è stato portato da tre famiglie alla Corte costituzionale di Karlsruhe nel febbraio 2010: i loro sussidi non consentivano “un minimo vitale degno”, era la lagnanza. La Corte ha sancito la costituzionalità della Hartz IV, ma ha chiesto al legislatore di rivalutare l’allocazione di base. E’ stata infatti aumentata: da 359 euro a persona, a 374 euro. Adesso è “un degno minimo vitale”. Se si toglie il milione di Austocker ai 4,9 milioni di attivi beneficiari di sussidi, si hanno 3,9 milioni di disoccupati di lunga durata, che vivono eslusivamente delle suddette allocazioni: essenzialmente famiglie con un solo genitore e anziani. Un dirigente del centro-impiego (Arbeitsagentur) di Amburgo, sotto anonimato, dichiara: “Ma quale miracolo economico. Oggi, il governo ripete che siamo sotto i 3 milioni di disocupati, e se fosse vero sarebbe un fatto storico. Ma la verità è diversa, sono 6 milioni di persone beneficiarie di Hartz IV (che prendono i sussidi, ndr.), e sono tutti disoccupati o ultra-precari. La vera cifra non è 3 milioni di senza-lavoro, ma 9 milioni di precari”. Si aggiunga che la percentuale trionfale di 6,9% di senza-lavoro nasconde forti disparità regionale. I disoccupati sono il 3,4% nella ricca e prospera Baviera, ma il 12,7 a Berlino. E ogni minimo accenno di rallentamento dell’economia colpisce più duramente, com’è ovvio, i milioni di precari o mini-jobs: i primi ad essere licenziati, come si vede nella tabella seguente (le riduzioni del 2009 rispetto al 2008, riguardano soprattutto gli “atipici”).
Che dire? La competitività tedesca ha il suo segreto in quel 20 per cento di sotto-salariati; il miracolo germanico si regge su un gigantesco dumping sociale. E’ questo il modello che ci viene proposto ad esempio: la cinesizzazione della forza-lavoro a basso livello di qualificazione. Bisogna constatare che, nella nuova economia globalizzata, i popoli diventano superflui – o almeno, grandi porzioni dei popoli. Il che forse spiega la “crisi” della democrazia, ossia la devoluzione della sovranità popolare ai tecnocrati, operata dai politici di professione: maggioranze di cui non si ha bisogno per produrre o consumare, sono inutili anche politicamente. Hanno perso la dignità di cittadini. Naturalmente, la medaglia ha anche un’altra faccia: in Germania, il costo della vita è inferiore a quello di Francia e Italia (perchè esiste, come abbiamo visto, un “mercato del consumo pauperistico”, per i sottoccupati), e i salari delle classi medie qualificate sono alti. Un professore di liceo ha uno stipendio iniziale di 3 mila euro netti. Il boom esportativo produce persino una mancanza di lavoratori qualificati, tanto che attualmente si arruolano giovani diplomati spagnoli. E’, fra l’altro, un effetto della crescita-zero demografica tedesca. “La riserva di persone disponibili al lavoro sta calando”, ha avvertito la ministra del lavoro, Ursula Van der Leyen. Attualmente, il numero di entranti nel mercato del lavoro è inferiore al numero di quelli che ne escono per anzianità, ed ecco un’altra causa che fa’ calare meccanicamente la disoccupazione… di Maurizio BlondetFonte: www.rischiocalcolato.it |
11 febbraio 2012
Il "miracolo" tedesco: nascondere i senza lavoro
10 febbraio 2012
Mario Draghi. Il privatizzatore, per conto di chi…
«Un vile affarista. Non si può nominare Presidente del Consiglio dei Ministri chi è stato socio della Goldman & Sachs, grande banca d’affari americana. E male, molto male io feci ad appoggiarne, quasi ad imporne la candidatura a Silvio Berlusconi». Francesco Cossiga, ex Presidente della Repubblica e profondo conoscitore degli scantinati dell’Italia repubblicana, non ha mai avuto mano delicata nei confronti di Mario Draghi, ex governatore di Bankitalia e, dal primo novembre del 2011, nuovo Presidente della Banca Centrale Europea. La dichiarazione è ovviamente datata, nata come risposta ad alcune insinuazioni sorte qualche anno fa sull’eventuale candidatura di Draghi a ricoprire il ruolo di Premier: «Ѐ il liquidatore – prosegue Cossiga – dopo la famosa crociera sul “Britannia”, dell’industria pubblica italiana. Da governatore del tesoro ha svenduto l’apparato produttivo statale, figuriamoci cosa potrebbe fare da Presidente del Consiglio dei Ministri».
Insomma, messaggio chiaro e diretto, che non ha bisogno di alcun filtro. Di filtri ne ha sempre avuti pochi, Francesco Cossiga. Non le ha mai mandate a dire, non si è mai tirato indietro, neanche quando, da Ministro degli Interni, non aveva problemi a reprimere con le cattive qualsiasi moto studentesco che si alzasse sopra le righe consentite, in quel lontano – ma non troppo – 1977.
Chissà quali parole avrebbe speso oggi, avendo la possibilità di ammirare l’italica scenografia. Chissà quante picconate sarebbero piovute sul capo di Mario Monti, Presidente del Consiglio e – a quanto pare – socio di Goldman & Sachs proprio come Draghi. La natura ambigua di Cossiga impone una certa calma nella valutazione di qualsiasi dichiarazione, tuttavia passa agli atti anche l’antipatia del politico sassarese nei confronti di Romano Prodi, definito, alla stessa stregua di Draghi, un «vile» (agosto 2005). Certo, fa specie la differenza di trattamento che Cossiga comunque ha riservato ai due: a gamba tesissima su Draghi, molto più morbido nei confronti del Professor Romano, mai nominato nelle allusioni alla famosa crociera sul Britannia.
Alle crociere, si sa, ormai siamo avvezzi. Francesco Schettino, il “Capitan Codardìa” salito alla ribalta dopo la grottesca tragedia della nave Concordia, è entrato subito nell’immaginario italian-popolare. Nei giorni immediatamente successivi al naufragio del Giglio, ecatombe a mo’ di telenovela, tanto pregna di collegamenti e fili meta-testuali da diventare icona buona per considerazioni sociali e antropologiche, spuntò qualche timido riferimento al Britannia. Riferimenti sottili e sussurrati, inglobati e sommersi dal vorticoso ciclone mediatico scatenatosi sul nuovo kolossal made in Mediterranean Sea, narrazione già pronta per sfamare antologie letterarie e cinematografiche.
Eppure, cosa si intende per “Britannia”? Cosa accadde su quella nave, durante quella crociera allusa da molti e raccontata da pochissimi? Scrive Roberto Santoro, il 7 novembre del 2011: « Il 2 giugno del 1992 il direttore del Tesoro, Mario Draghi, sale sulla passerella del Royal Yacht “Britannia”, il panfilo della Regina Elisabetta ormeggiato nel porto di Civitavecchia. Draghi ha con sé l’invito ricevuto dai British Invisibles, che non sono i protagonisti di un romanzo complottista bensì i rappresentanti di un influente gruppo di pressione della City londinese, “invisibles” nel senso che si occupano di transazioni che non riguardano merci ma servizi finanziari. I Warburg, i Barings, i Barclays, ma anche i rappresentanti di Goldman & Sachs, finanzieri e banchieri del capitalismo che funziona, o funzionava, sono venuti a spiegare a un gruppo di imprenditori e boiardi di Stato italiani come fare le privatizzazioni».
Insomma, si parla di privatizzare. Una parola salita esponenzialmente in auge nell’ultimo quindicennio italico, durante il quale molte aziende statali hanno subito una metamorfosi repentina e non troppo rumorosa. La grande IRI, gigantesco consorzio di aziende che per decenni aveva rappresentato il simbolo dell’efficienza e della produttività statale, si è gradualmente smembrata. L’effetto è quel che oggi possiamo ammirare non senza stupore: un corollario di aziende private, che ormai poco hanno a che fare con il novecentesco concetto di “motore nazionale”, avendo ormai struttura internazionale, grazie a capitali esteri: Buitoni, Invernizzi, Locatelli, Galbani, Negroni, Ferrarelle, Peroni, Moretti, Fini Perufine, Mira Lanza, e per ultima, Fiat.
Privatizzazioni furiose che hanno coinvolto qualsiasi ambito. La privatizzazione dell’Istruzione superiore, con i tagli alla scuola pubblica, la privatizzazione del mercato del lavoro, con il famigerato pacchetto Treu rincarato dalla riforma Biagi. Quel pacchetto e quella riforma intrisa di sangue aprirono il sipario sull’angosciante realtà del precariato, pesante fardello demonizzato e al contempo –chissà perché- difeso e tutelato da qualsiasi esecutivo, di destra e di sinistra, fino ad arrivare a Monti e alle sue infelici esternazioni.
Seguendo la nuova stella cometa, nacque anche Autostrade per l’Italia, nuova società costituita nell’ambito della riorganizzazione dell’originaria Società Autostrade Concessioni e Costruzioni S.p.a., completata nei primi mesi del 2003, che autorizzò, nell’ordine: le partecipazioni nelle società attive nel settore autostradale; le partecipazioni nelle altre società, avviate anche con partner, per lo sviluppo di nuove arterie autostradali in Italia; le partecipazioni nelle società che svolgono attività di progettazione e di pavimentazione di supporto alle attività caratteristiche del comparto autostradale; le partecipazioni in società ed enti operanti in attività comunque connesse alla gestione di strade e autostrade.
Andando a ritroso di tre anni, si scopre che il 7 giugno del 2000 la sorte delle autostrade era toccata alle ferrovie, dando il via ad un lento processo di privatizzazione che, pur non avendo ancora completato il suo corso, ha prodotto l’effettiva metamorfosi di un servizio diventato, col passare degli anni, sempre più vicina all’operatività di un’agenzia di viaggi che a una doverosa funzione di trasporto pubblico. Si pensi al rincaro dei biglietti, alla soppressione di molti convogli economici, o alle poco felici e recentissime sponsorizzazioni dal sapore classista.
Dunque, più che soffermarsi ad analizzare cosa avvenne e quali furono gli argomenti trattati sullo yacht Reale, è utile soffermarsi su ciò che accadde dopo quell’incontro, a cui erano presenti, come scrive Santoro, «il già citato Draghi, il presidente di Bankitalia Ciampi, Beniamino Andreatta, Mario Baldassarri, i vertici di Iri, Eni, Ina, Comit, delle grandi partecipate che di lì a poco sarebbero state “svendute”, così si dice, senza grande acume proprio da coloro che nell’ultimo scorcio della Prima Repubblica le avevano trasformate nei “gioielli di famiglia”».
Correva l’anno 1992, un anno denso di avvenimenti: il 500simo anniversario della spedizione colombiana nel Nuovo Mondo, il terremoto politico in Italia, scatenatosi sotto i colpi di Tangentopoli, che portò al disfacimento di un intero sistema politico, la cosiddetta “Prima Repubblica”. Il 1992 fu anche l’anno della svalutazione della lira, della sanguinosa lotta tra Mafia e Stato, con i cadaveri eccellenti di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, macabro preambolo della “stagione delle bombe” del 1993 e del torbido valzer di trattative tra Stato e Cosa Nostra, tornato recentemente di triste attualità. Mauro Bottarelli, oggi firma de Il Riformista, così scriveva l’8 gennaio del 2003: «Nel settembre ’92, soprattutto, l’agenzia di rating Moody’s, la stessa che ha declassato la Fiat poche settimane fa, si accanì particolarmente contro l’Italia: un suo declassamento dei Bot italiani diede infatti il via a una spaventosa speculazione sulla nostra moneta che ci portò fuori dallo Sme. Ecco cosa disse l’allora presidente del Consiglio, Bettino Craxi, al riguardo: «Esiste un intreccio di forze e circostanze diverse». Parlò di «quantità di capitali speculativi provenienti sia da operatori finanziari che da gruppi economici», di «potenti interessi che pare si siano mossi allo scopo di spezzare le maglie dello Sme», di «avversari dell’Unione Europea».
Craxi lo disse allora, ma oggi non può ripeterlo. Craxi non c’è più. Ci sono in compenso altri personaggi che entrano e che escono come caselle perfettamente inserite di un domino. C’è ad esempio Reginald Bartholomew, figlio naturale del caso del 1993 che nel mese di giugno diventerà ambasciatore americano a Roma. Un anno dopo, siamo nel giugno 1994, con la scorpacciata del Britannia bella e consumata, ecco cosa dirà Bartholomew: «Continueremo a sottolineare ai nostri interlocutori italiani la necessità di essere trasparenti nelle privatizzazioni, di proseguire in modo spedito e di rimuovere qualsiasi barriera per gli investimenti esteri».
Ciò che emerge da queste righe è l’evidente parallelismo che alcuni passaggi hanno con la situazione odierna. Oggi Moody’s è sulla bocca di tutti, tanto da attirare le uova degli indignati manifestanti. Si scopre però che i giudizi da penna rossa delle agenzie di rating non sono certo nati con la crisi. L’uscita dallo Sme provocò un terremoto totale, facendo intraprendere al Paese una faticosissima Via Crucis che riportò l’Italia in Europa nella seconda metà degli anni novanta, governata da quel Prodi che assicurò la continuità del progetto Amato: governo tecnico istituito nel 1992 e archiviato con l’uscita della cellula Berlusconi, vera e propria cellula impazzita che avrebbe maramaldeggiato sul paese per quasi vent’anni. Ventennio interrotto appunto dalla parentesi di Romano Prodi e della sua corsa all’Euro. Insomma, per parafrasare il tutto alla ferroviaria maniera, Silvio scese dal vagone Italia sicuro di poterci risalire, ma lasciando a Prodi il compito di azzeccare gli scambi (ferroviari e non solo) in direzione Bruxelles.
Scrive Sergio Romano sul Corriere della Sera, il 16 giugno 2009:
L’ uso del panfilo della Regina Elisabetta sembrò dimostrare che la crociera del Britannia era stata decisa e programmata dal governo di Sua Maestà. E il fatto che l’evento fosse stato organizzato da una società chiamata “British Invisibles” provocò una valanga di sorrisi, ammiccamenti e battute ironiche. Cominciamo dal nome degli organizzatori. “Invisibili”, nel linguaggio economico-finanziario, sono le transazioni di beni immateriali, come per l’appunto la vendita di servizi finanziari. Negli anni in cui fu governata dalla signora Thatcher, la Gran Bretagna privatizzò molte imprese, rilanciò la City, sviluppò la componente finanziaria della sua economia e acquisì in tal modo uno straordinario capitale di competenze nel settore delle acquisizioni e delle fusioni. Fu deciso che quel capitale sarebbe stato utile ad altri Paesi e che le imprese finanziarie britanniche avrebbero potuto svolgere un ruolo utile al loro Paese. “British Invisibles” nacque da un comitato della Banca Centrale del Regno Unito e divenne una sorta di Confindustria delle imprese finanziarie. Oggi si chiama International Financial Services e raggruppa circa 150 aziende del settore. Nel 1992 questa organizzazione capì che anche l’ Italia avrebbe finalmente aperto il capitolo delle privatizzazioni e decise di illustrare al nostro settore pubblico i servizi che le sue imprese erano in grado di fornire. Come luogo dell’incontro fu scelto il Britannia per tre ragioni. Sarebbe stato nel Mediterraneo in occasione di un viaggio della regina Elisabetta a Malta. Era invalsa da tempo l’abitudine di affittarlo per ridurre i costi del suo mantenimento. E, infine, la promozione degli affari britannici nel mondo è sempre stata una delle maggiori occupazioni del governo del Regno Unito.
Cameron, il giorno dopo la tragedia della Concordia, ha dichiarato che non potrà essere donato un nuovo Britannia alla Regina Elisabetta in occasione del suo Giubileo di Diamante. Niente Britannia dunque, in tempi così assonanti a quelli che furono, con Monti che fa l’Amato, Napolitano che fa lo Scalfaro (come più volte ripetuto dai giornali, in occasione della recentissima scomparsa di quest’ultimo) e Moody’s che fa Moody’s. Per il resto, ricetta al sacrificio in umido, con lacrime e sangue per questo paese che pare abbia perso ogni identità. Eppure, tanti anni fa, furono i Romani, con Claudio prima e Nerone poi, a coniare il nome Britannia nell’immaginario anglosassone. E se non è legge del contrappasso questa…
di Nicola Mente
09 febbraio 2012
L’ultimo diktat: lo Stato sarà condannato a impoverirci
«Questo non è più un colpo di Stato finanziario», scrive Paolo Barnard nel suo blog: «Questa è la ‘coventry-zzazione’ dell’Italia a firma Mario Monti, e con un esecutore materiale: il medesimo Paese che nella notte del 14 novembre 1940 rase al suolo la cittadina inglese con una violenza mai impiegata prima nella storia bellica». Se è stata la Deutsche Bank, insieme alla Goldman Sachs, a decretare la fine del governo Berlusconi per far posto a Mario Monti, incaricato di strangolare tutti tranne i suoi “padroni”, le banche e i grandi gruppi della finanza, ora il piano di annientamento della sovranità nazionale assume un carattere definitivo e istituzionale grazie al “Treaty on Stability, Coordination and Governance in the Economic and Monetary Union”, comunemente conosciuto come “Fiscal Compact”, firmato il 31 gennaio dai capi di Stato e di governo dell’Eurozona.
«Non stiamo più parlando di un golpe per controllare gli Stati sovrani d’Europa, ma proprio di un bombardamento a tappeto che non lascerà che cenere di tutto ciò che conoscevamo come democrazia, redditi e Stato di diritto in Italia», dice Barnard, autore del saggio “Il più grande crimine” sul complotto della finanza mondiale contro le nostre democrazie e promotore di un’iniziativa clamorosa: dal 24 al 26 febbraio, a Rimini, si svolgerà il primo meeting mondiale sulla “Modern Money Theory” coordinato dai prestigiosi economisti “eretici” che, dalle università statunitensi, hanno guidato la spettacolare rinascita dell’Argentina “restituendo” la moneta sovrana al popolo, trasformando cioè lo Stato in investitore sociale. Operazione praticamente impossibile in Europa, fino a quando il Vecchio Continente sarà in balia dell’attuale euro, moneta erogata da una banca privata, la Bce, che gli Stati devono prendere in prestito, a caro prezzo, a tutto vantaggio del “vero potere” finanziario che – privatizzando il debito pubblico – ha preso in ostaggio il destino di intere nazioni.
«E’ per me sbalorditivo che un Santoro, o un Ferruccio De Bortoli, o una Camusso possano aver letto quelle righe senza inorridire», scrive Barnard, che cita l’accademico americano Edward Herman: «Hanno reso plausibile l’inimmaginabile», e la gente lo ha accettato. Nelle 11 pagine del “Fiscal Compact” c’è la nostra condanna, aggiunge il giornalista, pioniere della tv-verità prima con Santoro e poi con la Gabanelli: se il nefasto trattato europeo entrerà in vigore il 1° gennaio 2013, l’altra notizia è che nel frattempo «non nascerà alcuna rivolta», perché «gli italiani di Gad Lerner, di Fazio, di Saviano, di Travaglio, di Grillo, di Bersani, di Vendola, della Cgil-Fiom e del Popolo Viola» non vogliono capire la gravità della situazione, anche se «sono una massa enorme che potrebbe invece agire». Ergo: «Siamo finiti, perché gli altri italiani, quelli di Sky e degli Outlet, non contano come forza civica, mai sono contati, si lamentano ma se ne fregano. Questa è la realtà».
Di che morte moriremo? Ce lo spiega in modo esplicito il “Fiscal Compact”: uno Stato che darà ai propri cittadini e alle proprie aziende più denaro di quanto gliene tolga in tasse, sarà illegale e anti-costituzionale. Niente più deficit di bilancio a favore dei cittadini: lo Stato dovrà come minimo raggiungere il pareggio di bilancio, cioè darci 100 per togliercelo subito dopo. Meglio ancora il surplus di bilancio, che poi è l’attuale situazione italiana: lo Stato pretende dai cittadini più di quanto non spenda per loro. Dal 1° gennaio 2013, questa condizione diventerà legge: entrerà nella Costituzione degli Stati firmatari. In pratica, con il nuovo trattato, lo Stato «dovrà impoverirci, matematicamente». E guai a sgarrare: «Se uno Stato non iscrive nella Costituzione o in leggi egualmente vincolanti l’obbligo di impoverire i propri cittadini e aziende attraverso il pareggio di bilancio o il surplus di bilancio, verrà giudicato dalla Corte Europea di Giustizia, che ha potere di sentenze sovranazionali, cioè vincolanti per tutti gli Stati aderenti».
Non c’è scampo, sottolinea Barnard: «Uno Stato che volesse ignorare questo scempio verrà messo sotto accusa automaticamente (“excessive deficit procedure”), e automaticamente dovrà correggersi presentando un piano dettagliato di correzioni, che sono le famigerate austerità che ben conosciamo». “Correzioni” dettate sempre dall’anonima e onnipotente Commissione Europea, dominata da tecnocrati non-eletti che, «come ampiamente dimostrato, rispondono alle lobby finanziarie di Bruxelles». E se lo Stato “ribelle” non si corregge, se cioè «si rifiuta di impoverire i propri cittadini e aziende attraverso il pareggio di bilancio o il surplus di bilancio», la Commissione Europea lo denuncerà agli altri Stati, che a loro volta lo denunceranno alla Corte Europea di Giustizia, la quale avrà il potere di multarlo: un’Italia “disubbidiente” dovrebbe accollarsi 2 miliardi di euro per ogni “infrazione”.
Il “diritto di delazione” autorizzerà anche un solo paese europeo a denunciare lo Stato “infedele” al trattato: «Diritto quindi del tutto arbitrario, che sarà esercitato senza pietà dalla Germania», che ha interesse a indebolire l’Europa del Sud per incrementare le sue esportazioni e trasformare il Mediterraneo in un’enorme bacino di manodopera a basso costo. Ma se basta la denuncia di un solo Stato a far scattare la “punizione”, alla “vittima” di turno, per tentare di difendersi, sarà necessario mettere insieme una maggioranza qualificata di Stati solidali: condizione oggi praticamente “impossibile”, dato il potere di ricatto economico-finanziario dell’area guidata da Berlino. Inoltre: una volta varato il “Fiscal Compact”, ogni Stato dell’Eurozona dovrà chiedere approvazione alla Commissione Europea e al Consiglio d’Europa prima di emettere i propri titoli di Stato: «Anche qui, la funzione primaria di autonomia di spesa dello Stato sovrano è cancellata».
All’unico organo europeo legittimamente eletto dai cittadini, cioè il Parlamento Europeo, è riservato questo: il suo presidente “potrebbe” essere invitato ad ascoltare le decisioni dei tecnocrati della Commissione e del Consiglio. Tutto qui. Agli organismi democratici e già sovrani, come i Parlamenti nazionali, è concesso al massimo – tramite l’assemblea di Strasburgo – di formare una “conferenza di rappresentanti” che potranno “discutere” (ma non bocciare) le decisioni prese dai tecnocrati. Inoltre, aggiunge Barnard, il “Fiscal Compact” richiede a tutti gli Stati dell’Eurozona di promettere fedeltà all’euro come moneta comune e sostegno all’attuale unione economica europea, al fine di promuovere “crescita, impiego e competitività”. «Cioè, come dire: sostenere un’alluvione per promuovere l’agricoltura».
Un dispositivo implacabile, spietato: «Se uno Stato dovesse aver bisogno di sostegno finanziario europeo attraverso un salvataggio da parte del Meccanismo Europeo di Stabilità, non avrà un singolo euro se prima non avrà firmato il “Fiscal Compact” e non lo avrà obbedito in toto». Forche caudine sotto le quali passerà la Grecia, che «morirà sotto tortura», dopodiché toccherà a noi. In ultimo, a tutti gli Stati firmatari, il “Fiscal Compact” impone il rispetto dell’“Europact”: adottato dai capi di governo dell’Eurozona il 24 marzo 2011, il patto stabilisce che la competitività sia giudicata solo in rapporto al contenimento degli stipendi e all’aumento della produttività, per preservare la quale gli stipendi pubblici dovranno essere tenuti sotto controllo. Inoltre, la sostenibilità del debito nazionale sarà giudicata a seconda della presunta generosità di spesa nel welfare (sanità, Stato sociale, ammortizzatori), mentre pensioni ed esborsi sociali dovranno essere riformati «allineando il sistema pensionistico alla situazione demografica nazionale, per esempio allineando l’età pensionistica con l’aspettativa di vita».
L’Italia, accusa Barnard, in questo modo «perde tutta la sua sovranità di spesa per i cittadini», che andava a favore di tutti i servizi essenziali, delle tutele sociali, degli sgravi e di tutta la nostra economia salariale, e perde anche la sua sovranità di spesa per le aziende, fino a ieri a favore di modernizzazione, infrastrutture, acquisti diretti. Lo Stato, nel migliore dei casi, sarà quindi costretto «a darci 100 e toglierci 100, cioè a lasciarci a zero di ricchezza netta». Di conseguenza: «Il “Fiscal Compact” impone per legge sovranazionale l’impoverimento sistematico e automatico, da parte dello Stato, dell’Italia produttiva e delle nostre famiglie». In tal modo, «lo Stato perde totalmente la sua funzione democratica primaria: il Parlamento italiano non conta più nulla, è di fatto esautorato». Altra sciabolata alla nostra sovranità: «Non controlleremo più i nostri titoli di Stato».
Precisamente per questa “Europa” si agita l’ineffabile Mario Monti, sostenuto da tutti i principali partiti italiani: «Siamo alla mercé delle punizioni inflitte da tecnocrati non eletti da noi, e del giudizio devastante della Germania, che com’è noto ed ampiamente provato, lavora da 40 anni per distruggere le economie dell’Europa del sud, dell’Italia in particolare». Quello che ci aspetta è già scritto, oltre che già cominciato: «Saremo costretti ad austerità continue imposte dalla Commissione Europea che nessun italiano elegge». Questo significa «povertà imposta su altra povertà», e solo per gli interessi “neomercantili” di Berlino e di pochi speculatori internazionali. «Infine – aggiunge Barnard – questo crimine contro un intero popolo e nazione è stato firmato da Mario Monti, che dovrebbe essere arrestato per alto tradimento».
Eppure, gli italiani stanno concedendo un’abbondante maggioranza di gradimenti al governo del “professore”: «I media difendono l’euro come sacro, e neppure quelli “liberi”, da Santoro al “Fatto” di Travaglio, permetteranno mai a questi fatti documentati, e salva-vita, di essere esposti». Problema cronico: «Tutta la componente maggioritaria dei cittadini “impegnati” crede di aver salvato l’Italia dal terribile pericolo democratico numero uno della nostra storia: Silvio Berlusconi. Il resto degli italiani non sa, non se ne cura». Dunque, è doloroso ammetterlo: «C’è una profonda giustizia nel fatto che il Vero Potere ci pisci in testa, e ci condanni alla disperazione: ce lo meritiamo».
di Giorgio Cattaneo
11 febbraio 2012
Il "miracolo" tedesco: nascondere i senza lavoro
![]() La Cancelleria suona le trombe: ecco il miracolo economico tedesco! I disoccupati sono scesi dai 5,1 milioni nel 2005 ai 2,8 oggi. Sono solo il 6,9% della popolazione attiva, un record storico e un sogno in confronto al 9,9% di disoccupati in Francia e al 9,1% negli Usa. Sembra ripetersi il miracolo del Terzo Reich, che in tre anni mise la popolazione al pieno impiego. Merito, dicono le trombe, della “moderazione salariale” dei lavoratori tedeschi, della “disciplina” accettata dai sindacati. Ma ora, uno studio francese rivela i trucchi e il prezzo sociale occulto di questo miracolo. Nel 2001, il governo Schroeder comincia ad applicare le idee di Peter Hartz, il capo del personale (pardon, “risorse umane”) di Volkswagen: convinto, non a torto, che i grassi sussidi (di disoccupazione e sociali in genere) vigenti allora in Germania tendano a creare uno strato di fannulloni cronici, concepisce un marchingegno legale che “costringe” i disoccupati a trovar lavoro. Prima della riforma Hartz, i disoccupati che durante il lavoro avevano versato i contributi, avevano il diritto ad una “allocazione” (Arbeitsengeld o AG1) che durava due, e in certi casi 3 anni. Dopo Hartz, il sussidio AG1 dura un anno soltanto. Prima, i disoccupati di lunga durata che avevano esaurito il diritto al primo sussidio AG1, prendevano un AG2, molto più modesto. Esisteva anche un “aiuto sociale” (Sozialhilfe) per le persone ancora più lontane dal mondo del lavoro. Oggi, AI2 e Sozialhilfe sono fusi in uno, e distribuiti attraverso centri di lavoro speciali: presso questi centri di lavoro ogni disoccupato deve fare “passi positivi” presentandosi bi-mensilmente e accettare un impiego qualunque, anche meno pagato del precedente, sotto pena di perdere i sussidi. Il sistema ha fatto cancellare milioni di persone dalle liste di disoccupazione…solo per farle riapparire nelle liste di “lavoratori poveri”, che hanno lavoretti di meno di 15 ore settimanali, e pagati di conseguenza: anche meno di 400 euro mensili. Il buono del sistema Hartz è che per questi “mini-jobs” e mini-salari, lo stato non esige il versamento dei contributi previdenziali e sanitari. Ciò ha incoraggiato molti datori di lavoro ad assumere mini-salariati sotto i 400 euro. Il lato sgradevole è che questi lavoratori, non contribuendo alla previdenza, non hanno pensione nè assicurazione sanitaria. Secondo lo studio francese, i fruitori del sistema (Hartz IV) sono 6,6 milioni. Di cui 1,7 sono bambini, figli di ragazze madri o famiglie marginali. Il che fa che gli altri – 4,9 milioni di adulti, sono “mini-impiegati” da meno di 15 ore settimanali o precari d’altro tipo. Ci sono anche percettori di “lavori da un euro” – pagati un euro l’ora - per lo più per lavori d’interesse pubblico (“Socialmente utili”, diciamo noi). Perchè qualcuno dovrebbe accettare “lavori” da un’euro l’ora? Perchè altrimenti perde i sussidi. I “mini-jobs” sono la forma di lavoro che è più straordinariamente cresciuta (+47% tra il 2006 e il 2009), superata solo dal lavoro interinale (+134%). I mini-job sono molto diffusi tra i pensionati: 660 mila di loro integrano la pèensione in questo modo. Dietro le cifre, c’è la tragedia sociale degli anziani licenziati: in base all’ultima riforma previdenziale tedesca, l’età pensionabile è stata alzata dai 65 ai 67 anni, il che ha aumentato il numero di quelli che non vengono più assunti, causa l’ìetà, se non in mini-jobs. Non a caso, se il numero dei beneficiari del sistema Hartz IV è ufficialmente calato del 9,5% tra il 2006 e il 2009, tra i tedeschi di più di 55 anni il numero dei beneficiari è cresciuto del 17,7%. Nel maggio 2011, gli occupati con mini-jobs erano 5 milioni: si può parlare, senza offesa, di un esercito di sotto-occupati e precari? Ci sono stati anche scandali: aziende che preferiscono assumere due o tre mini-jobs (su cui non pagano i contributi previdenziali) invece di un lavoratore a tempo pieno. La Scheckler, una catena di drogherie, è stata accusata dai verdi di fare questo genere di “dumping salariale”. Nell’agosto 2010, un rapporto dell’Istitutio del Lavoro dell’Università di Duisberg-Essen ha calcolato che più di 6,55 milioni di tedeschi ricevono meno di 10 euro lordi l’ora – sono aumentati di 2,3 milioni rispetto a dieci anni prima. Due milioni di lavoratori in oltre-Reno campano con meno di 6 euro l’ora, e molti nell’ex Germania comunista si contentano di 4 euro l’ora, ossia 720 euro mensili per un lavoro a tempo pieno. http://www.iaq.uni-due.de/iaq-report/2010/report2010-06.pdf I salariati con mini-job non sono i soli mal pagati. In Germania non esiste un salario minimo stabilito per legge (situazione unica in Europa). I “lavoratori poveri” (che restano in miseria pur lavorando) sono il 20% degli occupati germanici. Quelli che lavorano per meno di 15 ore settimanali, con paghe in proporzione, sono chiamati Aufstocker: sono un milione, ed integrano il magrissimo salario con i magrissimi sussidi sociali. Il loro numero è in continua crescita. Quanto ai sussidi sociali, rende noto lo studio francese, non sono completamente cumulabili: “Per 100 euro di salario, il lavoratore perde il 20% del susidio, per un impiego da 800 euro ne perde l’80%.” Il caso è stato portato da tre famiglie alla Corte costituzionale di Karlsruhe nel febbraio 2010: i loro sussidi non consentivano “un minimo vitale degno”, era la lagnanza. La Corte ha sancito la costituzionalità della Hartz IV, ma ha chiesto al legislatore di rivalutare l’allocazione di base. E’ stata infatti aumentata: da 359 euro a persona, a 374 euro. Adesso è “un degno minimo vitale”. Se si toglie il milione di Austocker ai 4,9 milioni di attivi beneficiari di sussidi, si hanno 3,9 milioni di disoccupati di lunga durata, che vivono eslusivamente delle suddette allocazioni: essenzialmente famiglie con un solo genitore e anziani. Un dirigente del centro-impiego (Arbeitsagentur) di Amburgo, sotto anonimato, dichiara: “Ma quale miracolo economico. Oggi, il governo ripete che siamo sotto i 3 milioni di disocupati, e se fosse vero sarebbe un fatto storico. Ma la verità è diversa, sono 6 milioni di persone beneficiarie di Hartz IV (che prendono i sussidi, ndr.), e sono tutti disoccupati o ultra-precari. La vera cifra non è 3 milioni di senza-lavoro, ma 9 milioni di precari”. Si aggiunga che la percentuale trionfale di 6,9% di senza-lavoro nasconde forti disparità regionale. I disoccupati sono il 3,4% nella ricca e prospera Baviera, ma il 12,7 a Berlino. E ogni minimo accenno di rallentamento dell’economia colpisce più duramente, com’è ovvio, i milioni di precari o mini-jobs: i primi ad essere licenziati, come si vede nella tabella seguente (le riduzioni del 2009 rispetto al 2008, riguardano soprattutto gli “atipici”).
Che dire? La competitività tedesca ha il suo segreto in quel 20 per cento di sotto-salariati; il miracolo germanico si regge su un gigantesco dumping sociale. E’ questo il modello che ci viene proposto ad esempio: la cinesizzazione della forza-lavoro a basso livello di qualificazione. Bisogna constatare che, nella nuova economia globalizzata, i popoli diventano superflui – o almeno, grandi porzioni dei popoli. Il che forse spiega la “crisi” della democrazia, ossia la devoluzione della sovranità popolare ai tecnocrati, operata dai politici di professione: maggioranze di cui non si ha bisogno per produrre o consumare, sono inutili anche politicamente. Hanno perso la dignità di cittadini. Naturalmente, la medaglia ha anche un’altra faccia: in Germania, il costo della vita è inferiore a quello di Francia e Italia (perchè esiste, come abbiamo visto, un “mercato del consumo pauperistico”, per i sottoccupati), e i salari delle classi medie qualificate sono alti. Un professore di liceo ha uno stipendio iniziale di 3 mila euro netti. Il boom esportativo produce persino una mancanza di lavoratori qualificati, tanto che attualmente si arruolano giovani diplomati spagnoli. E’, fra l’altro, un effetto della crescita-zero demografica tedesca. “La riserva di persone disponibili al lavoro sta calando”, ha avvertito la ministra del lavoro, Ursula Van der Leyen. Attualmente, il numero di entranti nel mercato del lavoro è inferiore al numero di quelli che ne escono per anzianità, ed ecco un’altra causa che fa’ calare meccanicamente la disoccupazione… di Maurizio BlondetFonte: www.rischiocalcolato.it |
10 febbraio 2012
Mario Draghi. Il privatizzatore, per conto di chi…
«Un vile affarista. Non si può nominare Presidente del Consiglio dei Ministri chi è stato socio della Goldman & Sachs, grande banca d’affari americana. E male, molto male io feci ad appoggiarne, quasi ad imporne la candidatura a Silvio Berlusconi». Francesco Cossiga, ex Presidente della Repubblica e profondo conoscitore degli scantinati dell’Italia repubblicana, non ha mai avuto mano delicata nei confronti di Mario Draghi, ex governatore di Bankitalia e, dal primo novembre del 2011, nuovo Presidente della Banca Centrale Europea. La dichiarazione è ovviamente datata, nata come risposta ad alcune insinuazioni sorte qualche anno fa sull’eventuale candidatura di Draghi a ricoprire il ruolo di Premier: «Ѐ il liquidatore – prosegue Cossiga – dopo la famosa crociera sul “Britannia”, dell’industria pubblica italiana. Da governatore del tesoro ha svenduto l’apparato produttivo statale, figuriamoci cosa potrebbe fare da Presidente del Consiglio dei Ministri».
Insomma, messaggio chiaro e diretto, che non ha bisogno di alcun filtro. Di filtri ne ha sempre avuti pochi, Francesco Cossiga. Non le ha mai mandate a dire, non si è mai tirato indietro, neanche quando, da Ministro degli Interni, non aveva problemi a reprimere con le cattive qualsiasi moto studentesco che si alzasse sopra le righe consentite, in quel lontano – ma non troppo – 1977.
Chissà quali parole avrebbe speso oggi, avendo la possibilità di ammirare l’italica scenografia. Chissà quante picconate sarebbero piovute sul capo di Mario Monti, Presidente del Consiglio e – a quanto pare – socio di Goldman & Sachs proprio come Draghi. La natura ambigua di Cossiga impone una certa calma nella valutazione di qualsiasi dichiarazione, tuttavia passa agli atti anche l’antipatia del politico sassarese nei confronti di Romano Prodi, definito, alla stessa stregua di Draghi, un «vile» (agosto 2005). Certo, fa specie la differenza di trattamento che Cossiga comunque ha riservato ai due: a gamba tesissima su Draghi, molto più morbido nei confronti del Professor Romano, mai nominato nelle allusioni alla famosa crociera sul Britannia.
Alle crociere, si sa, ormai siamo avvezzi. Francesco Schettino, il “Capitan Codardìa” salito alla ribalta dopo la grottesca tragedia della nave Concordia, è entrato subito nell’immaginario italian-popolare. Nei giorni immediatamente successivi al naufragio del Giglio, ecatombe a mo’ di telenovela, tanto pregna di collegamenti e fili meta-testuali da diventare icona buona per considerazioni sociali e antropologiche, spuntò qualche timido riferimento al Britannia. Riferimenti sottili e sussurrati, inglobati e sommersi dal vorticoso ciclone mediatico scatenatosi sul nuovo kolossal made in Mediterranean Sea, narrazione già pronta per sfamare antologie letterarie e cinematografiche.
Eppure, cosa si intende per “Britannia”? Cosa accadde su quella nave, durante quella crociera allusa da molti e raccontata da pochissimi? Scrive Roberto Santoro, il 7 novembre del 2011: « Il 2 giugno del 1992 il direttore del Tesoro, Mario Draghi, sale sulla passerella del Royal Yacht “Britannia”, il panfilo della Regina Elisabetta ormeggiato nel porto di Civitavecchia. Draghi ha con sé l’invito ricevuto dai British Invisibles, che non sono i protagonisti di un romanzo complottista bensì i rappresentanti di un influente gruppo di pressione della City londinese, “invisibles” nel senso che si occupano di transazioni che non riguardano merci ma servizi finanziari. I Warburg, i Barings, i Barclays, ma anche i rappresentanti di Goldman & Sachs, finanzieri e banchieri del capitalismo che funziona, o funzionava, sono venuti a spiegare a un gruppo di imprenditori e boiardi di Stato italiani come fare le privatizzazioni».
Insomma, si parla di privatizzare. Una parola salita esponenzialmente in auge nell’ultimo quindicennio italico, durante il quale molte aziende statali hanno subito una metamorfosi repentina e non troppo rumorosa. La grande IRI, gigantesco consorzio di aziende che per decenni aveva rappresentato il simbolo dell’efficienza e della produttività statale, si è gradualmente smembrata. L’effetto è quel che oggi possiamo ammirare non senza stupore: un corollario di aziende private, che ormai poco hanno a che fare con il novecentesco concetto di “motore nazionale”, avendo ormai struttura internazionale, grazie a capitali esteri: Buitoni, Invernizzi, Locatelli, Galbani, Negroni, Ferrarelle, Peroni, Moretti, Fini Perufine, Mira Lanza, e per ultima, Fiat.
Privatizzazioni furiose che hanno coinvolto qualsiasi ambito. La privatizzazione dell’Istruzione superiore, con i tagli alla scuola pubblica, la privatizzazione del mercato del lavoro, con il famigerato pacchetto Treu rincarato dalla riforma Biagi. Quel pacchetto e quella riforma intrisa di sangue aprirono il sipario sull’angosciante realtà del precariato, pesante fardello demonizzato e al contempo –chissà perché- difeso e tutelato da qualsiasi esecutivo, di destra e di sinistra, fino ad arrivare a Monti e alle sue infelici esternazioni.
Seguendo la nuova stella cometa, nacque anche Autostrade per l’Italia, nuova società costituita nell’ambito della riorganizzazione dell’originaria Società Autostrade Concessioni e Costruzioni S.p.a., completata nei primi mesi del 2003, che autorizzò, nell’ordine: le partecipazioni nelle società attive nel settore autostradale; le partecipazioni nelle altre società, avviate anche con partner, per lo sviluppo di nuove arterie autostradali in Italia; le partecipazioni nelle società che svolgono attività di progettazione e di pavimentazione di supporto alle attività caratteristiche del comparto autostradale; le partecipazioni in società ed enti operanti in attività comunque connesse alla gestione di strade e autostrade.
Andando a ritroso di tre anni, si scopre che il 7 giugno del 2000 la sorte delle autostrade era toccata alle ferrovie, dando il via ad un lento processo di privatizzazione che, pur non avendo ancora completato il suo corso, ha prodotto l’effettiva metamorfosi di un servizio diventato, col passare degli anni, sempre più vicina all’operatività di un’agenzia di viaggi che a una doverosa funzione di trasporto pubblico. Si pensi al rincaro dei biglietti, alla soppressione di molti convogli economici, o alle poco felici e recentissime sponsorizzazioni dal sapore classista.
Dunque, più che soffermarsi ad analizzare cosa avvenne e quali furono gli argomenti trattati sullo yacht Reale, è utile soffermarsi su ciò che accadde dopo quell’incontro, a cui erano presenti, come scrive Santoro, «il già citato Draghi, il presidente di Bankitalia Ciampi, Beniamino Andreatta, Mario Baldassarri, i vertici di Iri, Eni, Ina, Comit, delle grandi partecipate che di lì a poco sarebbero state “svendute”, così si dice, senza grande acume proprio da coloro che nell’ultimo scorcio della Prima Repubblica le avevano trasformate nei “gioielli di famiglia”».
Correva l’anno 1992, un anno denso di avvenimenti: il 500simo anniversario della spedizione colombiana nel Nuovo Mondo, il terremoto politico in Italia, scatenatosi sotto i colpi di Tangentopoli, che portò al disfacimento di un intero sistema politico, la cosiddetta “Prima Repubblica”. Il 1992 fu anche l’anno della svalutazione della lira, della sanguinosa lotta tra Mafia e Stato, con i cadaveri eccellenti di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, macabro preambolo della “stagione delle bombe” del 1993 e del torbido valzer di trattative tra Stato e Cosa Nostra, tornato recentemente di triste attualità. Mauro Bottarelli, oggi firma de Il Riformista, così scriveva l’8 gennaio del 2003: «Nel settembre ’92, soprattutto, l’agenzia di rating Moody’s, la stessa che ha declassato la Fiat poche settimane fa, si accanì particolarmente contro l’Italia: un suo declassamento dei Bot italiani diede infatti il via a una spaventosa speculazione sulla nostra moneta che ci portò fuori dallo Sme. Ecco cosa disse l’allora presidente del Consiglio, Bettino Craxi, al riguardo: «Esiste un intreccio di forze e circostanze diverse». Parlò di «quantità di capitali speculativi provenienti sia da operatori finanziari che da gruppi economici», di «potenti interessi che pare si siano mossi allo scopo di spezzare le maglie dello Sme», di «avversari dell’Unione Europea».
Craxi lo disse allora, ma oggi non può ripeterlo. Craxi non c’è più. Ci sono in compenso altri personaggi che entrano e che escono come caselle perfettamente inserite di un domino. C’è ad esempio Reginald Bartholomew, figlio naturale del caso del 1993 che nel mese di giugno diventerà ambasciatore americano a Roma. Un anno dopo, siamo nel giugno 1994, con la scorpacciata del Britannia bella e consumata, ecco cosa dirà Bartholomew: «Continueremo a sottolineare ai nostri interlocutori italiani la necessità di essere trasparenti nelle privatizzazioni, di proseguire in modo spedito e di rimuovere qualsiasi barriera per gli investimenti esteri».
Ciò che emerge da queste righe è l’evidente parallelismo che alcuni passaggi hanno con la situazione odierna. Oggi Moody’s è sulla bocca di tutti, tanto da attirare le uova degli indignati manifestanti. Si scopre però che i giudizi da penna rossa delle agenzie di rating non sono certo nati con la crisi. L’uscita dallo Sme provocò un terremoto totale, facendo intraprendere al Paese una faticosissima Via Crucis che riportò l’Italia in Europa nella seconda metà degli anni novanta, governata da quel Prodi che assicurò la continuità del progetto Amato: governo tecnico istituito nel 1992 e archiviato con l’uscita della cellula Berlusconi, vera e propria cellula impazzita che avrebbe maramaldeggiato sul paese per quasi vent’anni. Ventennio interrotto appunto dalla parentesi di Romano Prodi e della sua corsa all’Euro. Insomma, per parafrasare il tutto alla ferroviaria maniera, Silvio scese dal vagone Italia sicuro di poterci risalire, ma lasciando a Prodi il compito di azzeccare gli scambi (ferroviari e non solo) in direzione Bruxelles.
Scrive Sergio Romano sul Corriere della Sera, il 16 giugno 2009:
L’ uso del panfilo della Regina Elisabetta sembrò dimostrare che la crociera del Britannia era stata decisa e programmata dal governo di Sua Maestà. E il fatto che l’evento fosse stato organizzato da una società chiamata “British Invisibles” provocò una valanga di sorrisi, ammiccamenti e battute ironiche. Cominciamo dal nome degli organizzatori. “Invisibili”, nel linguaggio economico-finanziario, sono le transazioni di beni immateriali, come per l’appunto la vendita di servizi finanziari. Negli anni in cui fu governata dalla signora Thatcher, la Gran Bretagna privatizzò molte imprese, rilanciò la City, sviluppò la componente finanziaria della sua economia e acquisì in tal modo uno straordinario capitale di competenze nel settore delle acquisizioni e delle fusioni. Fu deciso che quel capitale sarebbe stato utile ad altri Paesi e che le imprese finanziarie britanniche avrebbero potuto svolgere un ruolo utile al loro Paese. “British Invisibles” nacque da un comitato della Banca Centrale del Regno Unito e divenne una sorta di Confindustria delle imprese finanziarie. Oggi si chiama International Financial Services e raggruppa circa 150 aziende del settore. Nel 1992 questa organizzazione capì che anche l’ Italia avrebbe finalmente aperto il capitolo delle privatizzazioni e decise di illustrare al nostro settore pubblico i servizi che le sue imprese erano in grado di fornire. Come luogo dell’incontro fu scelto il Britannia per tre ragioni. Sarebbe stato nel Mediterraneo in occasione di un viaggio della regina Elisabetta a Malta. Era invalsa da tempo l’abitudine di affittarlo per ridurre i costi del suo mantenimento. E, infine, la promozione degli affari britannici nel mondo è sempre stata una delle maggiori occupazioni del governo del Regno Unito.
Cameron, il giorno dopo la tragedia della Concordia, ha dichiarato che non potrà essere donato un nuovo Britannia alla Regina Elisabetta in occasione del suo Giubileo di Diamante. Niente Britannia dunque, in tempi così assonanti a quelli che furono, con Monti che fa l’Amato, Napolitano che fa lo Scalfaro (come più volte ripetuto dai giornali, in occasione della recentissima scomparsa di quest’ultimo) e Moody’s che fa Moody’s. Per il resto, ricetta al sacrificio in umido, con lacrime e sangue per questo paese che pare abbia perso ogni identità. Eppure, tanti anni fa, furono i Romani, con Claudio prima e Nerone poi, a coniare il nome Britannia nell’immaginario anglosassone. E se non è legge del contrappasso questa…
di Nicola Mente
09 febbraio 2012
L’ultimo diktat: lo Stato sarà condannato a impoverirci
«Questo non è più un colpo di Stato finanziario», scrive Paolo Barnard nel suo blog: «Questa è la ‘coventry-zzazione’ dell’Italia a firma Mario Monti, e con un esecutore materiale: il medesimo Paese che nella notte del 14 novembre 1940 rase al suolo la cittadina inglese con una violenza mai impiegata prima nella storia bellica». Se è stata la Deutsche Bank, insieme alla Goldman Sachs, a decretare la fine del governo Berlusconi per far posto a Mario Monti, incaricato di strangolare tutti tranne i suoi “padroni”, le banche e i grandi gruppi della finanza, ora il piano di annientamento della sovranità nazionale assume un carattere definitivo e istituzionale grazie al “Treaty on Stability, Coordination and Governance in the Economic and Monetary Union”, comunemente conosciuto come “Fiscal Compact”, firmato il 31 gennaio dai capi di Stato e di governo dell’Eurozona.
«Non stiamo più parlando di un golpe per controllare gli Stati sovrani d’Europa, ma proprio di un bombardamento a tappeto che non lascerà che cenere di tutto ciò che conoscevamo come democrazia, redditi e Stato di diritto in Italia», dice Barnard, autore del saggio “Il più grande crimine” sul complotto della finanza mondiale contro le nostre democrazie e promotore di un’iniziativa clamorosa: dal 24 al 26 febbraio, a Rimini, si svolgerà il primo meeting mondiale sulla “Modern Money Theory” coordinato dai prestigiosi economisti “eretici” che, dalle università statunitensi, hanno guidato la spettacolare rinascita dell’Argentina “restituendo” la moneta sovrana al popolo, trasformando cioè lo Stato in investitore sociale. Operazione praticamente impossibile in Europa, fino a quando il Vecchio Continente sarà in balia dell’attuale euro, moneta erogata da una banca privata, la Bce, che gli Stati devono prendere in prestito, a caro prezzo, a tutto vantaggio del “vero potere” finanziario che – privatizzando il debito pubblico – ha preso in ostaggio il destino di intere nazioni.
«E’ per me sbalorditivo che un Santoro, o un Ferruccio De Bortoli, o una Camusso possano aver letto quelle righe senza inorridire», scrive Barnard, che cita l’accademico americano Edward Herman: «Hanno reso plausibile l’inimmaginabile», e la gente lo ha accettato. Nelle 11 pagine del “Fiscal Compact” c’è la nostra condanna, aggiunge il giornalista, pioniere della tv-verità prima con Santoro e poi con la Gabanelli: se il nefasto trattato europeo entrerà in vigore il 1° gennaio 2013, l’altra notizia è che nel frattempo «non nascerà alcuna rivolta», perché «gli italiani di Gad Lerner, di Fazio, di Saviano, di Travaglio, di Grillo, di Bersani, di Vendola, della Cgil-Fiom e del Popolo Viola» non vogliono capire la gravità della situazione, anche se «sono una massa enorme che potrebbe invece agire». Ergo: «Siamo finiti, perché gli altri italiani, quelli di Sky e degli Outlet, non contano come forza civica, mai sono contati, si lamentano ma se ne fregano. Questa è la realtà».
Di che morte moriremo? Ce lo spiega in modo esplicito il “Fiscal Compact”: uno Stato che darà ai propri cittadini e alle proprie aziende più denaro di quanto gliene tolga in tasse, sarà illegale e anti-costituzionale. Niente più deficit di bilancio a favore dei cittadini: lo Stato dovrà come minimo raggiungere il pareggio di bilancio, cioè darci 100 per togliercelo subito dopo. Meglio ancora il surplus di bilancio, che poi è l’attuale situazione italiana: lo Stato pretende dai cittadini più di quanto non spenda per loro. Dal 1° gennaio 2013, questa condizione diventerà legge: entrerà nella Costituzione degli Stati firmatari. In pratica, con il nuovo trattato, lo Stato «dovrà impoverirci, matematicamente». E guai a sgarrare: «Se uno Stato non iscrive nella Costituzione o in leggi egualmente vincolanti l’obbligo di impoverire i propri cittadini e aziende attraverso il pareggio di bilancio o il surplus di bilancio, verrà giudicato dalla Corte Europea di Giustizia, che ha potere di sentenze sovranazionali, cioè vincolanti per tutti gli Stati aderenti».
Non c’è scampo, sottolinea Barnard: «Uno Stato che volesse ignorare questo scempio verrà messo sotto accusa automaticamente (“excessive deficit procedure”), e automaticamente dovrà correggersi presentando un piano dettagliato di correzioni, che sono le famigerate austerità che ben conosciamo». “Correzioni” dettate sempre dall’anonima e onnipotente Commissione Europea, dominata da tecnocrati non-eletti che, «come ampiamente dimostrato, rispondono alle lobby finanziarie di Bruxelles». E se lo Stato “ribelle” non si corregge, se cioè «si rifiuta di impoverire i propri cittadini e aziende attraverso il pareggio di bilancio o il surplus di bilancio», la Commissione Europea lo denuncerà agli altri Stati, che a loro volta lo denunceranno alla Corte Europea di Giustizia, la quale avrà il potere di multarlo: un’Italia “disubbidiente” dovrebbe accollarsi 2 miliardi di euro per ogni “infrazione”.
Il “diritto di delazione” autorizzerà anche un solo paese europeo a denunciare lo Stato “infedele” al trattato: «Diritto quindi del tutto arbitrario, che sarà esercitato senza pietà dalla Germania», che ha interesse a indebolire l’Europa del Sud per incrementare le sue esportazioni e trasformare il Mediterraneo in un’enorme bacino di manodopera a basso costo. Ma se basta la denuncia di un solo Stato a far scattare la “punizione”, alla “vittima” di turno, per tentare di difendersi, sarà necessario mettere insieme una maggioranza qualificata di Stati solidali: condizione oggi praticamente “impossibile”, dato il potere di ricatto economico-finanziario dell’area guidata da Berlino. Inoltre: una volta varato il “Fiscal Compact”, ogni Stato dell’Eurozona dovrà chiedere approvazione alla Commissione Europea e al Consiglio d’Europa prima di emettere i propri titoli di Stato: «Anche qui, la funzione primaria di autonomia di spesa dello Stato sovrano è cancellata».
All’unico organo europeo legittimamente eletto dai cittadini, cioè il Parlamento Europeo, è riservato questo: il suo presidente “potrebbe” essere invitato ad ascoltare le decisioni dei tecnocrati della Commissione e del Consiglio. Tutto qui. Agli organismi democratici e già sovrani, come i Parlamenti nazionali, è concesso al massimo – tramite l’assemblea di Strasburgo – di formare una “conferenza di rappresentanti” che potranno “discutere” (ma non bocciare) le decisioni prese dai tecnocrati. Inoltre, aggiunge Barnard, il “Fiscal Compact” richiede a tutti gli Stati dell’Eurozona di promettere fedeltà all’euro come moneta comune e sostegno all’attuale unione economica europea, al fine di promuovere “crescita, impiego e competitività”. «Cioè, come dire: sostenere un’alluvione per promuovere l’agricoltura».
Un dispositivo implacabile, spietato: «Se uno Stato dovesse aver bisogno di sostegno finanziario europeo attraverso un salvataggio da parte del Meccanismo Europeo di Stabilità, non avrà un singolo euro se prima non avrà firmato il “Fiscal Compact” e non lo avrà obbedito in toto». Forche caudine sotto le quali passerà la Grecia, che «morirà sotto tortura», dopodiché toccherà a noi. In ultimo, a tutti gli Stati firmatari, il “Fiscal Compact” impone il rispetto dell’“Europact”: adottato dai capi di governo dell’Eurozona il 24 marzo 2011, il patto stabilisce che la competitività sia giudicata solo in rapporto al contenimento degli stipendi e all’aumento della produttività, per preservare la quale gli stipendi pubblici dovranno essere tenuti sotto controllo. Inoltre, la sostenibilità del debito nazionale sarà giudicata a seconda della presunta generosità di spesa nel welfare (sanità, Stato sociale, ammortizzatori), mentre pensioni ed esborsi sociali dovranno essere riformati «allineando il sistema pensionistico alla situazione demografica nazionale, per esempio allineando l’età pensionistica con l’aspettativa di vita».
L’Italia, accusa Barnard, in questo modo «perde tutta la sua sovranità di spesa per i cittadini», che andava a favore di tutti i servizi essenziali, delle tutele sociali, degli sgravi e di tutta la nostra economia salariale, e perde anche la sua sovranità di spesa per le aziende, fino a ieri a favore di modernizzazione, infrastrutture, acquisti diretti. Lo Stato, nel migliore dei casi, sarà quindi costretto «a darci 100 e toglierci 100, cioè a lasciarci a zero di ricchezza netta». Di conseguenza: «Il “Fiscal Compact” impone per legge sovranazionale l’impoverimento sistematico e automatico, da parte dello Stato, dell’Italia produttiva e delle nostre famiglie». In tal modo, «lo Stato perde totalmente la sua funzione democratica primaria: il Parlamento italiano non conta più nulla, è di fatto esautorato». Altra sciabolata alla nostra sovranità: «Non controlleremo più i nostri titoli di Stato».
Precisamente per questa “Europa” si agita l’ineffabile Mario Monti, sostenuto da tutti i principali partiti italiani: «Siamo alla mercé delle punizioni inflitte da tecnocrati non eletti da noi, e del giudizio devastante della Germania, che com’è noto ed ampiamente provato, lavora da 40 anni per distruggere le economie dell’Europa del sud, dell’Italia in particolare». Quello che ci aspetta è già scritto, oltre che già cominciato: «Saremo costretti ad austerità continue imposte dalla Commissione Europea che nessun italiano elegge». Questo significa «povertà imposta su altra povertà», e solo per gli interessi “neomercantili” di Berlino e di pochi speculatori internazionali. «Infine – aggiunge Barnard – questo crimine contro un intero popolo e nazione è stato firmato da Mario Monti, che dovrebbe essere arrestato per alto tradimento».
Eppure, gli italiani stanno concedendo un’abbondante maggioranza di gradimenti al governo del “professore”: «I media difendono l’euro come sacro, e neppure quelli “liberi”, da Santoro al “Fatto” di Travaglio, permetteranno mai a questi fatti documentati, e salva-vita, di essere esposti». Problema cronico: «Tutta la componente maggioritaria dei cittadini “impegnati” crede di aver salvato l’Italia dal terribile pericolo democratico numero uno della nostra storia: Silvio Berlusconi. Il resto degli italiani non sa, non se ne cura». Dunque, è doloroso ammetterlo: «C’è una profonda giustizia nel fatto che il Vero Potere ci pisci in testa, e ci condanni alla disperazione: ce lo meritiamo».
di Giorgio Cattaneo