12 febbraio 2012

La miccia per la guerra mondiale è stata accesa


Il "timore principale" del ministro della Difesa statunitense Leon Panetta è che Israele attaccherà l'Iran tra l'aprile e il giugno di quest'anno, secondo quanto ha scritto David Ignatius sul Washington Post del 2 febbraio. Il giorno seguente, al vertice NATO di Bruxelles, Panetta è stato bombardato di domande su quella frase, ma si è rifiutato di commentare.

Poco prima, il Capo degli Stati Maggiori Riuniti degli Stati Uniti, il gen. Martin Dempsey, aveva lanciato un nuovo brusco avvertimento ad Israele, diffidandolo dall'intraprendere un'azione militare unilaterale contro l'Iran, mentre il direttore della National Intelligence, James Clapper, affermava due volte nel corso di un'udienza parlamentare che non si sono indicazioni sul fatto che l'Iran abbia deciso di sviluppare armi nucleari. E la squadra dell'International Atomic Energy Agency è tornata dall'Iran il 1 febbraio con una fumata nera.

Ciononostante, a dispetto degli sforzi dei vertici militari USA, il pericolo di un conflitto che conduca ad una guerra mondiale rimane talmente acuto che Lyndon LaRouche ha deciso di rinnovare l'allarme in una teleconferenza speciale il 6 febbraio.

I nostri lettori sanno bene che il programma nucleare iraniano è semplicemente un pretesto. L'obiettivo vero di un attacco all'Iran o la Siria è la Russia e la Cina. Questa analisi è stata confermata da un ufficiale dell'Esercito di Liberazione del Popolo, Dai Xu, sull'edizione in lingua russa del Quotidiano del Popolo del 31 gennaio.

Dai, un astuto stratega, descrive la nuova politica USA che mira a isolare e circondare la Russia e la Cina. Perciò quei due paesi dovrebbero collaborare per indurre gli USA a cessare le pressioni nei confronti di nazioni che non seguono le loro prescrizioni. "Si potrebbe affermare che la convergenza tra Cina e Russia sia il risultato inevitabile della pressione strategica degli USA, come pure della scelta compiuta nell'interesse della propria sopravvivenza. Solo assieme esse possiedono la forza di resistere alle mosse USA".

In termini economici, Cina e Russia sono complementari e quindi immuni a blocchi o sanzioni economiche da parte degli USA, scrive Dai. Poiché entrambe le nazioni possiedono armi nucleari, sia gli USA che la NATO possono difficilmente sfidarle militarmente. Infine, assieme, le due nazioni possono attrarre altri paesi dell'Eurasia, compresi Iran e Pakistan, che sono anche bersaglio degli USA.

Sfortunatamente, Dai non intravede la mano britannica dietro la politica dell'amministrazione Obama, e si illude pensando che l'armamento nucleare di Cina e Russia possa fungere da deterrente.

by (MoviSol)

11 febbraio 2012

Il "miracolo" tedesco: nascondere i senza lavoro


La Cancelleria suona le trombe: ecco il miracolo economico tedesco! I disoccupati sono scesi dai 5,1 milioni nel 2005 ai 2,8 oggi. Sono solo il 6,9% della popolazione attiva, un record storico e un sogno in confronto al 9,9% di disoccupati in Francia e al 9,1% negli Usa. Sembra ripetersi il miracolo del Terzo Reich, che in tre anni mise la popolazione al pieno impiego. Merito, dicono le trombe, della “moderazione salariale” dei lavoratori tedeschi, della “disciplina” accettata dai sindacati.

Ma ora, uno studio francese rivela i trucchi e il prezzo sociale occulto di questo miracolo.

Nel 2001, il governo Schroeder comincia ad applicare le idee di Peter Hartz, il capo del personale (pardon, “risorse umane”) di Volkswagen: convinto, non a torto, che i grassi sussidi (di disoccupazione e sociali in genere) vigenti allora in Germania tendano a creare uno strato di fannulloni cronici, concepisce un marchingegno legale che “costringe” i disoccupati a trovar lavoro.

Prima della riforma Hartz, i disoccupati che durante il lavoro avevano versato i contributi, avevano il diritto ad una “allocazione” (Arbeitsengeld o AG1) che durava due, e in certi casi 3 anni. Dopo Hartz, il sussidio AG1 dura un anno soltanto.

Prima, i disoccupati di lunga durata che avevano esaurito il diritto al primo sussidio AG1, prendevano un AG2, molto più modesto. Esisteva anche un “aiuto sociale” (Sozialhilfe) per le persone ancora più lontane dal mondo del lavoro. Oggi, AI2 e Sozialhilfe sono fusi in uno, e distribuiti attraverso centri di lavoro speciali: presso questi centri di lavoro ogni disoccupato deve fare “passi positivi” presentandosi bi-mensilmente e accettare un impiego qualunque, anche meno pagato del precedente, sotto pena di perdere i sussidi.

Il sistema ha fatto cancellare milioni di persone dalle liste di disoccupazione…solo per farle riapparire nelle liste di “lavoratori poveri”, che hanno lavoretti di meno di 15 ore settimanali, e pagati di conseguenza: anche meno di 400 euro mensili. Il buono del sistema Hartz è che per questi “mini-jobs” e mini-salari, lo stato non esige il versamento dei contributi previdenziali e sanitari. Ciò ha incoraggiato molti datori di lavoro ad assumere mini-salariati sotto i 400 euro. Il lato sgradevole è che questi lavoratori, non contribuendo alla previdenza, non hanno pensione nè assicurazione sanitaria.

Secondo lo studio francese, i fruitori del sistema (Hartz IV) sono 6,6 milioni. Di cui 1,7 sono bambini, figli di ragazze madri o famiglie marginali. Il che fa che gli altri – 4,9 milioni di adulti, sono “mini-impiegati” da meno di 15 ore settimanali o precari d’altro tipo. Ci sono anche percettori di “lavori da un euro” – pagati un euro l’ora - per lo più per lavori d’interesse pubblico (“Socialmente utili”, diciamo noi).

Perchè qualcuno dovrebbe accettare “lavori” da un’euro l’ora? Perchè altrimenti perde i sussidi. I “mini-jobs” sono la forma di lavoro che è più straordinariamente cresciuta (+47% tra il 2006 e il 2009), superata solo dal lavoro interinale (+134%). I mini-job sono molto diffusi tra i pensionati: 660 mila di loro integrano la pèensione in questo modo. Dietro le cifre, c’è la tragedia sociale degli anziani licenziati: in base all’ultima riforma previdenziale tedesca, l’età pensionabile è stata alzata dai 65 ai 67 anni, il che ha aumentato il numero di quelli che non vengono più assunti, causa l’ìetà, se non in mini-jobs. Non a caso, se il numero dei beneficiari del sistema Hartz IV è ufficialmente calato del 9,5% tra il 2006 e il 2009, tra i tedeschi di più di 55 anni il numero dei beneficiari è cresciuto del 17,7%.

Nel maggio 2011, gli occupati con mini-jobs erano 5 milioni: si può parlare, senza offesa, di un esercito di sotto-occupati e precari? Ci sono stati anche scandali: aziende che preferiscono assumere due o tre mini-jobs (su cui non pagano i contributi previdenziali) invece di un lavoratore a tempo pieno. La Scheckler, una catena di drogherie, è stata accusata dai verdi di fare questo genere di “dumping salariale”.

Nell’agosto 2010, un rapporto dell’Istitutio del Lavoro dell’Università di Duisberg-Essen ha calcolato che più di 6,55 milioni di tedeschi ricevono meno di 10 euro lordi l’ora – sono aumentati di 2,3 milioni rispetto a dieci anni prima. Due milioni di lavoratori in oltre-Reno campano con meno di 6 euro l’ora, e molti nell’ex Germania comunista si contentano di 4 euro l’ora, ossia 720 euro mensili per un lavoro a tempo pieno.

http://www.iaq.uni-due.de/iaq-report/2010/report2010-06.pdf

I salariati con mini-job non sono i soli mal pagati. In Germania non esiste un salario minimo stabilito per legge (situazione unica in Europa). I “lavoratori poveri” (che restano in miseria pur lavorando) sono il 20% degli occupati germanici.

Quelli che lavorano per meno di 15 ore settimanali, con paghe in proporzione, sono chiamati Aufstocker: sono un milione, ed integrano il magrissimo salario con i magrissimi sussidi sociali. Il loro numero è in continua crescita. Quanto ai sussidi sociali, rende noto lo studio francese, non sono completamente cumulabili: “Per 100 euro di salario, il lavoratore perde il 20% del susidio, per un impiego da 800 euro ne perde l’80%.”

Il caso è stato portato da tre famiglie alla Corte costituzionale di Karlsruhe nel febbraio 2010: i loro sussidi non consentivano “un minimo vitale degno”, era la lagnanza. La Corte ha sancito la costituzionalità della Hartz IV, ma ha chiesto al legislatore di rivalutare l’allocazione di base. E’ stata infatti aumentata: da 359 euro a persona, a 374 euro. Adesso è “un degno minimo vitale”.

Se si toglie il milione di Austocker ai 4,9 milioni di attivi beneficiari di sussidi, si hanno 3,9 milioni di disoccupati di lunga durata, che vivono eslusivamente delle suddette allocazioni: essenzialmente famiglie con un solo genitore e anziani.

Un dirigente del centro-impiego (Arbeitsagentur) di Amburgo, sotto anonimato, dichiara: “Ma quale miracolo economico. Oggi, il governo ripete che siamo sotto i 3 milioni di disocupati, e se fosse vero sarebbe un fatto storico. Ma la verità è diversa, sono 6 milioni di persone beneficiarie di Hartz IV (che prendono i sussidi, ndr.), e sono tutti disoccupati o ultra-precari. La vera cifra non è 3 milioni di senza-lavoro, ma 9 milioni di precari”.

Si aggiunga che la percentuale trionfale di 6,9% di senza-lavoro nasconde forti disparità regionale. I disoccupati sono il 3,4% nella ricca e prospera Baviera, ma il 12,7 a Berlino. E ogni minimo accenno di rallentamento dell’economia colpisce più duramente, com’è ovvio, i milioni di precari o mini-jobs: i primi ad essere licenziati, come si vede nella tabella seguente (le riduzioni del 2009 rispetto al 2008, riguardano soprattutto gli “atipici”).

Che dire? La competitività tedesca ha il suo segreto in quel 20 per cento di sotto-salariati; il miracolo germanico si regge su un gigantesco dumping sociale. E’ questo il modello che ci viene proposto ad esempio: la cinesizzazione della forza-lavoro a basso livello di qualificazione.

Bisogna constatare che, nella nuova economia globalizzata, i popoli diventano superflui – o almeno, grandi porzioni dei popoli. Il che forse spiega la “crisi” della democrazia, ossia la devoluzione della sovranità popolare ai tecnocrati, operata dai politici di professione: maggioranze di cui non si ha bisogno per produrre o consumare, sono inutili anche politicamente. Hanno perso la dignità di cittadini.

Naturalmente, la medaglia ha anche un’altra faccia: in Germania, il costo della vita è inferiore a quello di Francia e Italia (perchè esiste, come abbiamo visto, un “mercato del consumo pauperistico”, per i sottoccupati), e i salari delle classi medie qualificate sono alti. Un professore di liceo ha uno stipendio iniziale di 3 mila euro netti. Il boom esportativo produce persino una mancanza di lavoratori qualificati, tanto che attualmente si arruolano giovani diplomati spagnoli. E’, fra l’altro, un effetto della crescita-zero demografica tedesca. “La riserva di persone disponibili al lavoro sta calando”, ha avvertito la ministra del lavoro, Ursula Van der Leyen. Attualmente, il numero di entranti nel mercato del lavoro è inferiore al numero di quelli che ne escono per anzianità, ed ecco un’altra causa che fa’ calare meccanicamente la disoccupazione…

di Maurizio Blondet
Fonte: www.rischiocalcolato.it

10 febbraio 2012

Mario Draghi. Il privatizzatore, per conto di chi…





«Un vile affarista. Non si può nominare Presidente del Consiglio dei Ministri chi è stato socio della Goldman & Sachs, grande banca d’affari americana. E male, molto male io feci ad appoggiarne, quasi ad imporne la candidatura a Silvio Berlusconi». Francesco Cossiga, ex Presidente della Repubblica e profondo conoscitore degli scantinati dell’Italia repubblicana, non ha mai avuto mano delicata nei confronti di Mario Draghi, ex governatore di Bankitalia e, dal primo novembre del 2011, nuovo Presidente della Banca Centrale Europea. La dichiarazione è ovviamente datata, nata come risposta ad alcune insinuazioni sorte qualche anno fa sull’eventuale candidatura di Draghi a ricoprire il ruolo di Premier: «Ѐ il liquidatore – prosegue Cossiga – dopo la famosa crociera sul “Britannia”, dell’industria pubblica italiana. Da governatore del tesoro ha svenduto l’apparato produttivo statale, figuriamoci cosa potrebbe fare da Presidente del Consiglio dei Ministri».

Insomma, messaggio chiaro e diretto, che non ha bisogno di alcun filtro. Di filtri ne ha sempre avuti pochi, Francesco Cossiga. Non le ha mai mandate a dire, non si è mai tirato indietro, neanche quando, da Ministro degli Interni, non aveva problemi a reprimere con le cattive qualsiasi moto studentesco che si alzasse sopra le righe consentite, in quel lontano – ma non troppo – 1977.

Chissà quali parole avrebbe speso oggi, avendo la possibilità di ammirare l’italica scenografia. Chissà quante picconate sarebbero piovute sul capo di Mario Monti, Presidente del Consiglio e – a quanto pare – socio di Goldman & Sachs proprio come Draghi. La natura ambigua di Cossiga impone una certa calma nella valutazione di qualsiasi dichiarazione, tuttavia passa agli atti anche l’antipatia del politico sassarese nei confronti di Romano Prodi, definito, alla stessa stregua di Draghi, un «vile» (agosto 2005). Certo, fa specie la differenza di trattamento che Cossiga comunque ha riservato ai due: a gamba tesissima su Draghi, molto più morbido nei confronti del Professor Romano, mai nominato nelle allusioni alla famosa crociera sul Britannia.

Alle crociere, si sa, ormai siamo avvezzi. Francesco Schettino, il “Capitan Codardìa” salito alla ribalta dopo la grottesca tragedia della nave Concordia, è entrato subito nell’immaginario italian-popolare. Nei giorni immediatamente successivi al naufragio del Giglio, ecatombe a mo’ di telenovela, tanto pregna di collegamenti e fili meta-testuali da diventare icona buona per considerazioni sociali e antropologiche, spuntò qualche timido riferimento al Britannia. Riferimenti sottili e sussurrati, inglobati e sommersi dal vorticoso ciclone mediatico scatenatosi sul nuovo kolossal made in Mediterranean Sea, narrazione già pronta per sfamare antologie letterarie e cinematografiche.

Eppure, cosa si intende per “Britannia”? Cosa accadde su quella nave, durante quella crociera allusa da molti e raccontata da pochissimi? Scrive Roberto Santoro, il 7 novembre del 2011: « Il 2 giugno del 1992 il direttore del Tesoro, Mario Draghi, sale sulla passerella del Royal Yacht “Britannia”, il panfilo della Regina Elisabetta ormeggiato nel porto di Civitavecchia. Draghi ha con sé l’invito ricevuto dai British Invisibles, che non sono i protagonisti di un romanzo complottista bensì i rappresentanti di un influente gruppo di pressione della City londinese, “invisibles” nel senso che si occupano di transazioni che non riguardano merci ma servizi finanziari. I Warburg, i Barings, i Barclays, ma anche i rappresentanti di Goldman & Sachs, finanzieri e banchieri del capitalismo che funziona, o funzionava, sono venuti a spiegare a un gruppo di imprenditori e boiardi di Stato italiani come fare le privatizzazioni».

Insomma, si parla di privatizzare. Una parola salita esponenzialmente in auge nell’ultimo quindicennio italico, durante il quale molte aziende statali hanno subito una metamorfosi repentina e non troppo rumorosa. La grande IRI, gigantesco consorzio di aziende che per decenni aveva rappresentato il simbolo dell’efficienza e della produttività statale, si è gradualmente smembrata. L’effetto è quel che oggi possiamo ammirare non senza stupore: un corollario di aziende private, che ormai poco hanno a che fare con il novecentesco concetto di “motore nazionale”, avendo ormai struttura internazionale, grazie a capitali esteri: Buitoni, Invernizzi, Locatelli, Galbani, Negroni, Ferrarelle, Peroni, Moretti, Fini Perufine, Mira Lanza, e per ultima, Fiat.

Privatizzazioni furiose che hanno coinvolto qualsiasi ambito. La privatizzazione dell’Istruzione superiore, con i tagli alla scuola pubblica, la privatizzazione del mercato del lavoro, con il famigerato pacchetto Treu rincarato dalla riforma Biagi. Quel pacchetto e quella riforma intrisa di sangue aprirono il sipario sull’angosciante realtà del precariato, pesante fardello demonizzato e al contempo –chissà perché- difeso e tutelato da qualsiasi esecutivo, di destra e di sinistra, fino ad arrivare a Monti e alle sue infelici esternazioni.

Seguendo la nuova stella cometa, nacque anche Autostrade per l’Italia, nuova società costituita nell’ambito della riorganizzazione dell’originaria Società Autostrade Concessioni e Costruzioni S.p.a., completata nei primi mesi del 2003, che autorizzò, nell’ordine: le partecipazioni nelle società attive nel settore autostradale; le partecipazioni nelle altre società, avviate anche con partner, per lo sviluppo di nuove arterie autostradali in Italia; le partecipazioni nelle società che svolgono attività di progettazione e di pavimentazione di supporto alle attività caratteristiche del comparto autostradale; le partecipazioni in società ed enti operanti in attività comunque connesse alla gestione di strade e autostrade.

Andando a ritroso di tre anni, si scopre che il 7 giugno del 2000 la sorte delle autostrade era toccata alle ferrovie, dando il via ad un lento processo di privatizzazione che, pur non avendo ancora completato il suo corso, ha prodotto l’effettiva metamorfosi di un servizio diventato, col passare degli anni, sempre più vicina all’operatività di un’agenzia di viaggi che a una doverosa funzione di trasporto pubblico. Si pensi al rincaro dei biglietti, alla soppressione di molti convogli economici, o alle poco felici e recentissime sponsorizzazioni dal sapore classista.

Dunque, più che soffermarsi ad analizzare cosa avvenne e quali furono gli argomenti trattati sullo yacht Reale, è utile soffermarsi su ciò che accadde dopo quell’incontro, a cui erano presenti, come scrive Santoro, «il già citato Draghi, il presidente di Bankitalia Ciampi, Beniamino Andreatta, Mario Baldassarri, i vertici di Iri, Eni, Ina, Comit, delle grandi partecipate che di lì a poco sarebbero state “svendute”, così si dice, senza grande acume proprio da coloro che nell’ultimo scorcio della Prima Repubblica le avevano trasformate nei “gioielli di famiglia”».

Correva l’anno 1992, un anno denso di avvenimenti: il 500simo anniversario della spedizione colombiana nel Nuovo Mondo, il terremoto politico in Italia, scatenatosi sotto i colpi di Tangentopoli, che portò al disfacimento di un intero sistema politico, la cosiddetta “Prima Repubblica”. Il 1992 fu anche l’anno della svalutazione della lira, della sanguinosa lotta tra Mafia e Stato, con i cadaveri eccellenti di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, macabro preambolo della “stagione delle bombe” del 1993 e del torbido valzer di trattative tra Stato e Cosa Nostra, tornato recentemente di triste attualità. Mauro Bottarelli, oggi firma de Il Riformista, così scriveva l’8 gennaio del 2003: «Nel settembre ’92, soprattutto, l’agenzia di rating Moody’s, la stessa che ha declassato la Fiat poche settimane fa, si accanì particolarmente contro l’Italia: un suo declassamento dei Bot italiani diede infatti il via a una spaventosa speculazione sulla nostra moneta che ci portò fuori dallo Sme. Ecco cosa disse l’allora presidente del Consiglio, Bettino Craxi, al riguardo: «Esiste un intreccio di forze e circostanze diverse». Parlò di «quantità di capitali speculativi provenienti sia da operatori finanziari che da gruppi economici», di «potenti interessi che pare si siano mossi allo scopo di spezzare le maglie dello Sme», di «avversari dell’Unione Europea».

Craxi lo disse allora, ma oggi non può ripeterlo. Craxi non c’è più. Ci sono in compenso altri personaggi che entrano e che escono come caselle perfettamente inserite di un domino. C’è ad esempio Reginald Bartholomew, figlio naturale del caso del 1993 che nel mese di giugno diventerà ambasciatore americano a Roma. Un anno dopo, siamo nel giugno 1994, con la scorpacciata del Britannia bella e consumata, ecco cosa dirà Bartholomew: «Continueremo a sottolineare ai nostri interlocutori italiani la necessità di essere trasparenti nelle privatizzazioni, di proseguire in modo spedito e di rimuovere qualsiasi barriera per gli investimenti esteri».

Ciò che emerge da queste righe è l’evidente parallelismo che alcuni passaggi hanno con la situazione odierna. Oggi Moody’s è sulla bocca di tutti, tanto da attirare le uova degli indignati manifestanti. Si scopre però che i giudizi da penna rossa delle agenzie di rating non sono certo nati con la crisi. L’uscita dallo Sme provocò un terremoto totale, facendo intraprendere al Paese una faticosissima Via Crucis che riportò l’Italia in Europa nella seconda metà degli anni novanta, governata da quel Prodi che assicurò la continuità del progetto Amato: governo tecnico istituito nel 1992 e archiviato con l’uscita della cellula Berlusconi, vera e propria cellula impazzita che avrebbe maramaldeggiato sul paese per quasi vent’anni. Ventennio interrotto appunto dalla parentesi di Romano Prodi e della sua corsa all’Euro. Insomma, per parafrasare il tutto alla ferroviaria maniera, Silvio scese dal vagone Italia sicuro di poterci risalire, ma lasciando a Prodi il compito di azzeccare gli scambi (ferroviari e non solo) in direzione Bruxelles.

Scrive Sergio Romano sul Corriere della Sera, il 16 giugno 2009:

L’ uso del panfilo della Regina Elisabetta sembrò dimostrare che la crociera del Britannia era stata decisa e programmata dal governo di Sua Maestà. E il fatto che l’evento fosse stato organizzato da una società chiamata “British Invisibles” provocò una valanga di sorrisi, ammiccamenti e battute ironiche. Cominciamo dal nome degli organizzatori. “Invisibili”, nel linguaggio economico-finanziario, sono le transazioni di beni immateriali, come per l’appunto la vendita di servizi finanziari. Negli anni in cui fu governata dalla signora Thatcher, la Gran Bretagna privatizzò molte imprese, rilanciò la City, sviluppò la componente finanziaria della sua economia e acquisì in tal modo uno straordinario capitale di competenze nel settore delle acquisizioni e delle fusioni. Fu deciso che quel capitale sarebbe stato utile ad altri Paesi e che le imprese finanziarie britanniche avrebbero potuto svolgere un ruolo utile al loro Paese. “British Invisibles” nacque da un comitato della Banca Centrale del Regno Unito e divenne una sorta di Confindustria delle imprese finanziarie. Oggi si chiama International Financial Services e raggruppa circa 150 aziende del settore. Nel 1992 questa organizzazione capì che anche l’ Italia avrebbe finalmente aperto il capitolo delle privatizzazioni e decise di illustrare al nostro settore pubblico i servizi che le sue imprese erano in grado di fornire. Come luogo dell’incontro fu scelto il Britannia per tre ragioni. Sarebbe stato nel Mediterraneo in occasione di un viaggio della regina Elisabetta a Malta. Era invalsa da tempo l’abitudine di affittarlo per ridurre i costi del suo mantenimento. E, infine, la promozione degli affari britannici nel mondo è sempre stata una delle maggiori occupazioni del governo del Regno Unito.

Cameron, il giorno dopo la tragedia della Concordia, ha dichiarato che non potrà essere donato un nuovo Britannia alla Regina Elisabetta in occasione del suo Giubileo di Diamante. Niente Britannia dunque, in tempi così assonanti a quelli che furono, con Monti che fa l’Amato, Napolitano che fa lo Scalfaro (come più volte ripetuto dai giornali, in occasione della recentissima scomparsa di quest’ultimo) e Moody’s che fa Moody’s. Per il resto, ricetta al sacrificio in umido, con lacrime e sangue per questo paese che pare abbia perso ogni identità. Eppure, tanti anni fa, furono i Romani, con Claudio prima e Nerone poi, a coniare il nome Britannia nell’immaginario anglosassone. E se non è legge del contrappasso questa…

di Nicola Mente

12 febbraio 2012

La miccia per la guerra mondiale è stata accesa


Il "timore principale" del ministro della Difesa statunitense Leon Panetta è che Israele attaccherà l'Iran tra l'aprile e il giugno di quest'anno, secondo quanto ha scritto David Ignatius sul Washington Post del 2 febbraio. Il giorno seguente, al vertice NATO di Bruxelles, Panetta è stato bombardato di domande su quella frase, ma si è rifiutato di commentare.

Poco prima, il Capo degli Stati Maggiori Riuniti degli Stati Uniti, il gen. Martin Dempsey, aveva lanciato un nuovo brusco avvertimento ad Israele, diffidandolo dall'intraprendere un'azione militare unilaterale contro l'Iran, mentre il direttore della National Intelligence, James Clapper, affermava due volte nel corso di un'udienza parlamentare che non si sono indicazioni sul fatto che l'Iran abbia deciso di sviluppare armi nucleari. E la squadra dell'International Atomic Energy Agency è tornata dall'Iran il 1 febbraio con una fumata nera.

Ciononostante, a dispetto degli sforzi dei vertici militari USA, il pericolo di un conflitto che conduca ad una guerra mondiale rimane talmente acuto che Lyndon LaRouche ha deciso di rinnovare l'allarme in una teleconferenza speciale il 6 febbraio.

I nostri lettori sanno bene che il programma nucleare iraniano è semplicemente un pretesto. L'obiettivo vero di un attacco all'Iran o la Siria è la Russia e la Cina. Questa analisi è stata confermata da un ufficiale dell'Esercito di Liberazione del Popolo, Dai Xu, sull'edizione in lingua russa del Quotidiano del Popolo del 31 gennaio.

Dai, un astuto stratega, descrive la nuova politica USA che mira a isolare e circondare la Russia e la Cina. Perciò quei due paesi dovrebbero collaborare per indurre gli USA a cessare le pressioni nei confronti di nazioni che non seguono le loro prescrizioni. "Si potrebbe affermare che la convergenza tra Cina e Russia sia il risultato inevitabile della pressione strategica degli USA, come pure della scelta compiuta nell'interesse della propria sopravvivenza. Solo assieme esse possiedono la forza di resistere alle mosse USA".

In termini economici, Cina e Russia sono complementari e quindi immuni a blocchi o sanzioni economiche da parte degli USA, scrive Dai. Poiché entrambe le nazioni possiedono armi nucleari, sia gli USA che la NATO possono difficilmente sfidarle militarmente. Infine, assieme, le due nazioni possono attrarre altri paesi dell'Eurasia, compresi Iran e Pakistan, che sono anche bersaglio degli USA.

Sfortunatamente, Dai non intravede la mano britannica dietro la politica dell'amministrazione Obama, e si illude pensando che l'armamento nucleare di Cina e Russia possa fungere da deterrente.

by (MoviSol)

11 febbraio 2012

Il "miracolo" tedesco: nascondere i senza lavoro


La Cancelleria suona le trombe: ecco il miracolo economico tedesco! I disoccupati sono scesi dai 5,1 milioni nel 2005 ai 2,8 oggi. Sono solo il 6,9% della popolazione attiva, un record storico e un sogno in confronto al 9,9% di disoccupati in Francia e al 9,1% negli Usa. Sembra ripetersi il miracolo del Terzo Reich, che in tre anni mise la popolazione al pieno impiego. Merito, dicono le trombe, della “moderazione salariale” dei lavoratori tedeschi, della “disciplina” accettata dai sindacati.

Ma ora, uno studio francese rivela i trucchi e il prezzo sociale occulto di questo miracolo.

Nel 2001, il governo Schroeder comincia ad applicare le idee di Peter Hartz, il capo del personale (pardon, “risorse umane”) di Volkswagen: convinto, non a torto, che i grassi sussidi (di disoccupazione e sociali in genere) vigenti allora in Germania tendano a creare uno strato di fannulloni cronici, concepisce un marchingegno legale che “costringe” i disoccupati a trovar lavoro.

Prima della riforma Hartz, i disoccupati che durante il lavoro avevano versato i contributi, avevano il diritto ad una “allocazione” (Arbeitsengeld o AG1) che durava due, e in certi casi 3 anni. Dopo Hartz, il sussidio AG1 dura un anno soltanto.

Prima, i disoccupati di lunga durata che avevano esaurito il diritto al primo sussidio AG1, prendevano un AG2, molto più modesto. Esisteva anche un “aiuto sociale” (Sozialhilfe) per le persone ancora più lontane dal mondo del lavoro. Oggi, AI2 e Sozialhilfe sono fusi in uno, e distribuiti attraverso centri di lavoro speciali: presso questi centri di lavoro ogni disoccupato deve fare “passi positivi” presentandosi bi-mensilmente e accettare un impiego qualunque, anche meno pagato del precedente, sotto pena di perdere i sussidi.

Il sistema ha fatto cancellare milioni di persone dalle liste di disoccupazione…solo per farle riapparire nelle liste di “lavoratori poveri”, che hanno lavoretti di meno di 15 ore settimanali, e pagati di conseguenza: anche meno di 400 euro mensili. Il buono del sistema Hartz è che per questi “mini-jobs” e mini-salari, lo stato non esige il versamento dei contributi previdenziali e sanitari. Ciò ha incoraggiato molti datori di lavoro ad assumere mini-salariati sotto i 400 euro. Il lato sgradevole è che questi lavoratori, non contribuendo alla previdenza, non hanno pensione nè assicurazione sanitaria.

Secondo lo studio francese, i fruitori del sistema (Hartz IV) sono 6,6 milioni. Di cui 1,7 sono bambini, figli di ragazze madri o famiglie marginali. Il che fa che gli altri – 4,9 milioni di adulti, sono “mini-impiegati” da meno di 15 ore settimanali o precari d’altro tipo. Ci sono anche percettori di “lavori da un euro” – pagati un euro l’ora - per lo più per lavori d’interesse pubblico (“Socialmente utili”, diciamo noi).

Perchè qualcuno dovrebbe accettare “lavori” da un’euro l’ora? Perchè altrimenti perde i sussidi. I “mini-jobs” sono la forma di lavoro che è più straordinariamente cresciuta (+47% tra il 2006 e il 2009), superata solo dal lavoro interinale (+134%). I mini-job sono molto diffusi tra i pensionati: 660 mila di loro integrano la pèensione in questo modo. Dietro le cifre, c’è la tragedia sociale degli anziani licenziati: in base all’ultima riforma previdenziale tedesca, l’età pensionabile è stata alzata dai 65 ai 67 anni, il che ha aumentato il numero di quelli che non vengono più assunti, causa l’ìetà, se non in mini-jobs. Non a caso, se il numero dei beneficiari del sistema Hartz IV è ufficialmente calato del 9,5% tra il 2006 e il 2009, tra i tedeschi di più di 55 anni il numero dei beneficiari è cresciuto del 17,7%.

Nel maggio 2011, gli occupati con mini-jobs erano 5 milioni: si può parlare, senza offesa, di un esercito di sotto-occupati e precari? Ci sono stati anche scandali: aziende che preferiscono assumere due o tre mini-jobs (su cui non pagano i contributi previdenziali) invece di un lavoratore a tempo pieno. La Scheckler, una catena di drogherie, è stata accusata dai verdi di fare questo genere di “dumping salariale”.

Nell’agosto 2010, un rapporto dell’Istitutio del Lavoro dell’Università di Duisberg-Essen ha calcolato che più di 6,55 milioni di tedeschi ricevono meno di 10 euro lordi l’ora – sono aumentati di 2,3 milioni rispetto a dieci anni prima. Due milioni di lavoratori in oltre-Reno campano con meno di 6 euro l’ora, e molti nell’ex Germania comunista si contentano di 4 euro l’ora, ossia 720 euro mensili per un lavoro a tempo pieno.

http://www.iaq.uni-due.de/iaq-report/2010/report2010-06.pdf

I salariati con mini-job non sono i soli mal pagati. In Germania non esiste un salario minimo stabilito per legge (situazione unica in Europa). I “lavoratori poveri” (che restano in miseria pur lavorando) sono il 20% degli occupati germanici.

Quelli che lavorano per meno di 15 ore settimanali, con paghe in proporzione, sono chiamati Aufstocker: sono un milione, ed integrano il magrissimo salario con i magrissimi sussidi sociali. Il loro numero è in continua crescita. Quanto ai sussidi sociali, rende noto lo studio francese, non sono completamente cumulabili: “Per 100 euro di salario, il lavoratore perde il 20% del susidio, per un impiego da 800 euro ne perde l’80%.”

Il caso è stato portato da tre famiglie alla Corte costituzionale di Karlsruhe nel febbraio 2010: i loro sussidi non consentivano “un minimo vitale degno”, era la lagnanza. La Corte ha sancito la costituzionalità della Hartz IV, ma ha chiesto al legislatore di rivalutare l’allocazione di base. E’ stata infatti aumentata: da 359 euro a persona, a 374 euro. Adesso è “un degno minimo vitale”.

Se si toglie il milione di Austocker ai 4,9 milioni di attivi beneficiari di sussidi, si hanno 3,9 milioni di disoccupati di lunga durata, che vivono eslusivamente delle suddette allocazioni: essenzialmente famiglie con un solo genitore e anziani.

Un dirigente del centro-impiego (Arbeitsagentur) di Amburgo, sotto anonimato, dichiara: “Ma quale miracolo economico. Oggi, il governo ripete che siamo sotto i 3 milioni di disocupati, e se fosse vero sarebbe un fatto storico. Ma la verità è diversa, sono 6 milioni di persone beneficiarie di Hartz IV (che prendono i sussidi, ndr.), e sono tutti disoccupati o ultra-precari. La vera cifra non è 3 milioni di senza-lavoro, ma 9 milioni di precari”.

Si aggiunga che la percentuale trionfale di 6,9% di senza-lavoro nasconde forti disparità regionale. I disoccupati sono il 3,4% nella ricca e prospera Baviera, ma il 12,7 a Berlino. E ogni minimo accenno di rallentamento dell’economia colpisce più duramente, com’è ovvio, i milioni di precari o mini-jobs: i primi ad essere licenziati, come si vede nella tabella seguente (le riduzioni del 2009 rispetto al 2008, riguardano soprattutto gli “atipici”).

Che dire? La competitività tedesca ha il suo segreto in quel 20 per cento di sotto-salariati; il miracolo germanico si regge su un gigantesco dumping sociale. E’ questo il modello che ci viene proposto ad esempio: la cinesizzazione della forza-lavoro a basso livello di qualificazione.

Bisogna constatare che, nella nuova economia globalizzata, i popoli diventano superflui – o almeno, grandi porzioni dei popoli. Il che forse spiega la “crisi” della democrazia, ossia la devoluzione della sovranità popolare ai tecnocrati, operata dai politici di professione: maggioranze di cui non si ha bisogno per produrre o consumare, sono inutili anche politicamente. Hanno perso la dignità di cittadini.

Naturalmente, la medaglia ha anche un’altra faccia: in Germania, il costo della vita è inferiore a quello di Francia e Italia (perchè esiste, come abbiamo visto, un “mercato del consumo pauperistico”, per i sottoccupati), e i salari delle classi medie qualificate sono alti. Un professore di liceo ha uno stipendio iniziale di 3 mila euro netti. Il boom esportativo produce persino una mancanza di lavoratori qualificati, tanto che attualmente si arruolano giovani diplomati spagnoli. E’, fra l’altro, un effetto della crescita-zero demografica tedesca. “La riserva di persone disponibili al lavoro sta calando”, ha avvertito la ministra del lavoro, Ursula Van der Leyen. Attualmente, il numero di entranti nel mercato del lavoro è inferiore al numero di quelli che ne escono per anzianità, ed ecco un’altra causa che fa’ calare meccanicamente la disoccupazione…

di Maurizio Blondet
Fonte: www.rischiocalcolato.it

10 febbraio 2012

Mario Draghi. Il privatizzatore, per conto di chi…





«Un vile affarista. Non si può nominare Presidente del Consiglio dei Ministri chi è stato socio della Goldman & Sachs, grande banca d’affari americana. E male, molto male io feci ad appoggiarne, quasi ad imporne la candidatura a Silvio Berlusconi». Francesco Cossiga, ex Presidente della Repubblica e profondo conoscitore degli scantinati dell’Italia repubblicana, non ha mai avuto mano delicata nei confronti di Mario Draghi, ex governatore di Bankitalia e, dal primo novembre del 2011, nuovo Presidente della Banca Centrale Europea. La dichiarazione è ovviamente datata, nata come risposta ad alcune insinuazioni sorte qualche anno fa sull’eventuale candidatura di Draghi a ricoprire il ruolo di Premier: «Ѐ il liquidatore – prosegue Cossiga – dopo la famosa crociera sul “Britannia”, dell’industria pubblica italiana. Da governatore del tesoro ha svenduto l’apparato produttivo statale, figuriamoci cosa potrebbe fare da Presidente del Consiglio dei Ministri».

Insomma, messaggio chiaro e diretto, che non ha bisogno di alcun filtro. Di filtri ne ha sempre avuti pochi, Francesco Cossiga. Non le ha mai mandate a dire, non si è mai tirato indietro, neanche quando, da Ministro degli Interni, non aveva problemi a reprimere con le cattive qualsiasi moto studentesco che si alzasse sopra le righe consentite, in quel lontano – ma non troppo – 1977.

Chissà quali parole avrebbe speso oggi, avendo la possibilità di ammirare l’italica scenografia. Chissà quante picconate sarebbero piovute sul capo di Mario Monti, Presidente del Consiglio e – a quanto pare – socio di Goldman & Sachs proprio come Draghi. La natura ambigua di Cossiga impone una certa calma nella valutazione di qualsiasi dichiarazione, tuttavia passa agli atti anche l’antipatia del politico sassarese nei confronti di Romano Prodi, definito, alla stessa stregua di Draghi, un «vile» (agosto 2005). Certo, fa specie la differenza di trattamento che Cossiga comunque ha riservato ai due: a gamba tesissima su Draghi, molto più morbido nei confronti del Professor Romano, mai nominato nelle allusioni alla famosa crociera sul Britannia.

Alle crociere, si sa, ormai siamo avvezzi. Francesco Schettino, il “Capitan Codardìa” salito alla ribalta dopo la grottesca tragedia della nave Concordia, è entrato subito nell’immaginario italian-popolare. Nei giorni immediatamente successivi al naufragio del Giglio, ecatombe a mo’ di telenovela, tanto pregna di collegamenti e fili meta-testuali da diventare icona buona per considerazioni sociali e antropologiche, spuntò qualche timido riferimento al Britannia. Riferimenti sottili e sussurrati, inglobati e sommersi dal vorticoso ciclone mediatico scatenatosi sul nuovo kolossal made in Mediterranean Sea, narrazione già pronta per sfamare antologie letterarie e cinematografiche.

Eppure, cosa si intende per “Britannia”? Cosa accadde su quella nave, durante quella crociera allusa da molti e raccontata da pochissimi? Scrive Roberto Santoro, il 7 novembre del 2011: « Il 2 giugno del 1992 il direttore del Tesoro, Mario Draghi, sale sulla passerella del Royal Yacht “Britannia”, il panfilo della Regina Elisabetta ormeggiato nel porto di Civitavecchia. Draghi ha con sé l’invito ricevuto dai British Invisibles, che non sono i protagonisti di un romanzo complottista bensì i rappresentanti di un influente gruppo di pressione della City londinese, “invisibles” nel senso che si occupano di transazioni che non riguardano merci ma servizi finanziari. I Warburg, i Barings, i Barclays, ma anche i rappresentanti di Goldman & Sachs, finanzieri e banchieri del capitalismo che funziona, o funzionava, sono venuti a spiegare a un gruppo di imprenditori e boiardi di Stato italiani come fare le privatizzazioni».

Insomma, si parla di privatizzare. Una parola salita esponenzialmente in auge nell’ultimo quindicennio italico, durante il quale molte aziende statali hanno subito una metamorfosi repentina e non troppo rumorosa. La grande IRI, gigantesco consorzio di aziende che per decenni aveva rappresentato il simbolo dell’efficienza e della produttività statale, si è gradualmente smembrata. L’effetto è quel che oggi possiamo ammirare non senza stupore: un corollario di aziende private, che ormai poco hanno a che fare con il novecentesco concetto di “motore nazionale”, avendo ormai struttura internazionale, grazie a capitali esteri: Buitoni, Invernizzi, Locatelli, Galbani, Negroni, Ferrarelle, Peroni, Moretti, Fini Perufine, Mira Lanza, e per ultima, Fiat.

Privatizzazioni furiose che hanno coinvolto qualsiasi ambito. La privatizzazione dell’Istruzione superiore, con i tagli alla scuola pubblica, la privatizzazione del mercato del lavoro, con il famigerato pacchetto Treu rincarato dalla riforma Biagi. Quel pacchetto e quella riforma intrisa di sangue aprirono il sipario sull’angosciante realtà del precariato, pesante fardello demonizzato e al contempo –chissà perché- difeso e tutelato da qualsiasi esecutivo, di destra e di sinistra, fino ad arrivare a Monti e alle sue infelici esternazioni.

Seguendo la nuova stella cometa, nacque anche Autostrade per l’Italia, nuova società costituita nell’ambito della riorganizzazione dell’originaria Società Autostrade Concessioni e Costruzioni S.p.a., completata nei primi mesi del 2003, che autorizzò, nell’ordine: le partecipazioni nelle società attive nel settore autostradale; le partecipazioni nelle altre società, avviate anche con partner, per lo sviluppo di nuove arterie autostradali in Italia; le partecipazioni nelle società che svolgono attività di progettazione e di pavimentazione di supporto alle attività caratteristiche del comparto autostradale; le partecipazioni in società ed enti operanti in attività comunque connesse alla gestione di strade e autostrade.

Andando a ritroso di tre anni, si scopre che il 7 giugno del 2000 la sorte delle autostrade era toccata alle ferrovie, dando il via ad un lento processo di privatizzazione che, pur non avendo ancora completato il suo corso, ha prodotto l’effettiva metamorfosi di un servizio diventato, col passare degli anni, sempre più vicina all’operatività di un’agenzia di viaggi che a una doverosa funzione di trasporto pubblico. Si pensi al rincaro dei biglietti, alla soppressione di molti convogli economici, o alle poco felici e recentissime sponsorizzazioni dal sapore classista.

Dunque, più che soffermarsi ad analizzare cosa avvenne e quali furono gli argomenti trattati sullo yacht Reale, è utile soffermarsi su ciò che accadde dopo quell’incontro, a cui erano presenti, come scrive Santoro, «il già citato Draghi, il presidente di Bankitalia Ciampi, Beniamino Andreatta, Mario Baldassarri, i vertici di Iri, Eni, Ina, Comit, delle grandi partecipate che di lì a poco sarebbero state “svendute”, così si dice, senza grande acume proprio da coloro che nell’ultimo scorcio della Prima Repubblica le avevano trasformate nei “gioielli di famiglia”».

Correva l’anno 1992, un anno denso di avvenimenti: il 500simo anniversario della spedizione colombiana nel Nuovo Mondo, il terremoto politico in Italia, scatenatosi sotto i colpi di Tangentopoli, che portò al disfacimento di un intero sistema politico, la cosiddetta “Prima Repubblica”. Il 1992 fu anche l’anno della svalutazione della lira, della sanguinosa lotta tra Mafia e Stato, con i cadaveri eccellenti di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, macabro preambolo della “stagione delle bombe” del 1993 e del torbido valzer di trattative tra Stato e Cosa Nostra, tornato recentemente di triste attualità. Mauro Bottarelli, oggi firma de Il Riformista, così scriveva l’8 gennaio del 2003: «Nel settembre ’92, soprattutto, l’agenzia di rating Moody’s, la stessa che ha declassato la Fiat poche settimane fa, si accanì particolarmente contro l’Italia: un suo declassamento dei Bot italiani diede infatti il via a una spaventosa speculazione sulla nostra moneta che ci portò fuori dallo Sme. Ecco cosa disse l’allora presidente del Consiglio, Bettino Craxi, al riguardo: «Esiste un intreccio di forze e circostanze diverse». Parlò di «quantità di capitali speculativi provenienti sia da operatori finanziari che da gruppi economici», di «potenti interessi che pare si siano mossi allo scopo di spezzare le maglie dello Sme», di «avversari dell’Unione Europea».

Craxi lo disse allora, ma oggi non può ripeterlo. Craxi non c’è più. Ci sono in compenso altri personaggi che entrano e che escono come caselle perfettamente inserite di un domino. C’è ad esempio Reginald Bartholomew, figlio naturale del caso del 1993 che nel mese di giugno diventerà ambasciatore americano a Roma. Un anno dopo, siamo nel giugno 1994, con la scorpacciata del Britannia bella e consumata, ecco cosa dirà Bartholomew: «Continueremo a sottolineare ai nostri interlocutori italiani la necessità di essere trasparenti nelle privatizzazioni, di proseguire in modo spedito e di rimuovere qualsiasi barriera per gli investimenti esteri».

Ciò che emerge da queste righe è l’evidente parallelismo che alcuni passaggi hanno con la situazione odierna. Oggi Moody’s è sulla bocca di tutti, tanto da attirare le uova degli indignati manifestanti. Si scopre però che i giudizi da penna rossa delle agenzie di rating non sono certo nati con la crisi. L’uscita dallo Sme provocò un terremoto totale, facendo intraprendere al Paese una faticosissima Via Crucis che riportò l’Italia in Europa nella seconda metà degli anni novanta, governata da quel Prodi che assicurò la continuità del progetto Amato: governo tecnico istituito nel 1992 e archiviato con l’uscita della cellula Berlusconi, vera e propria cellula impazzita che avrebbe maramaldeggiato sul paese per quasi vent’anni. Ventennio interrotto appunto dalla parentesi di Romano Prodi e della sua corsa all’Euro. Insomma, per parafrasare il tutto alla ferroviaria maniera, Silvio scese dal vagone Italia sicuro di poterci risalire, ma lasciando a Prodi il compito di azzeccare gli scambi (ferroviari e non solo) in direzione Bruxelles.

Scrive Sergio Romano sul Corriere della Sera, il 16 giugno 2009:

L’ uso del panfilo della Regina Elisabetta sembrò dimostrare che la crociera del Britannia era stata decisa e programmata dal governo di Sua Maestà. E il fatto che l’evento fosse stato organizzato da una società chiamata “British Invisibles” provocò una valanga di sorrisi, ammiccamenti e battute ironiche. Cominciamo dal nome degli organizzatori. “Invisibili”, nel linguaggio economico-finanziario, sono le transazioni di beni immateriali, come per l’appunto la vendita di servizi finanziari. Negli anni in cui fu governata dalla signora Thatcher, la Gran Bretagna privatizzò molte imprese, rilanciò la City, sviluppò la componente finanziaria della sua economia e acquisì in tal modo uno straordinario capitale di competenze nel settore delle acquisizioni e delle fusioni. Fu deciso che quel capitale sarebbe stato utile ad altri Paesi e che le imprese finanziarie britanniche avrebbero potuto svolgere un ruolo utile al loro Paese. “British Invisibles” nacque da un comitato della Banca Centrale del Regno Unito e divenne una sorta di Confindustria delle imprese finanziarie. Oggi si chiama International Financial Services e raggruppa circa 150 aziende del settore. Nel 1992 questa organizzazione capì che anche l’ Italia avrebbe finalmente aperto il capitolo delle privatizzazioni e decise di illustrare al nostro settore pubblico i servizi che le sue imprese erano in grado di fornire. Come luogo dell’incontro fu scelto il Britannia per tre ragioni. Sarebbe stato nel Mediterraneo in occasione di un viaggio della regina Elisabetta a Malta. Era invalsa da tempo l’abitudine di affittarlo per ridurre i costi del suo mantenimento. E, infine, la promozione degli affari britannici nel mondo è sempre stata una delle maggiori occupazioni del governo del Regno Unito.

Cameron, il giorno dopo la tragedia della Concordia, ha dichiarato che non potrà essere donato un nuovo Britannia alla Regina Elisabetta in occasione del suo Giubileo di Diamante. Niente Britannia dunque, in tempi così assonanti a quelli che furono, con Monti che fa l’Amato, Napolitano che fa lo Scalfaro (come più volte ripetuto dai giornali, in occasione della recentissima scomparsa di quest’ultimo) e Moody’s che fa Moody’s. Per il resto, ricetta al sacrificio in umido, con lacrime e sangue per questo paese che pare abbia perso ogni identità. Eppure, tanti anni fa, furono i Romani, con Claudio prima e Nerone poi, a coniare il nome Britannia nell’immaginario anglosassone. E se non è legge del contrappasso questa…

di Nicola Mente