23 marzo 2012

Noam Chomsky: il mondo ha paura di Israele, non dell’Iran

Nel numero di gennaio-febbraio della rivista “Foreign Affairs” un articolo di Matthew Kroenig intitolato “È il momento di attaccare l’Iran” spiega perché un attacco è l’opzione meno peggiore. Sui media si fa un gran parlare di un possibile attacco israeliano contro l’Iran, mentre gli Stati Uniti traccheggiano tenendo aperta l’opzione dell’aggressione, ciò che configura la sistematica violazione della carta delle Nazioni Unite, fondamento del diritto internazionale. Mano a mano che aumentano le tensioni, nell’aria aleggiano i fremiti delle guerre in Afghanistan e Iraq. La febbrile retorica della campagna per le primarie negli Usa rinforza il suono dei tamburi di guerra. Si suole attribuire alla “comunità internazionale” – nome in codice per definire gli alleati degli Stati Uniti – le preoccupazioni per l’imminente minaccia iraniana. I popoli del mondo, però, tendono a vedere le cose in modo diverso.

I paesi non-allineati, un movimento che raggruppa 120 nazioni, hanno vigorosamente appoggiato il diritto dell’Iran di arricchire l’uranio, opinione bomba atomicacondivisa dalla maggioranza della popolazione degli Stati Uniti (sondaggio “WorlPublicOpinion.org”) prima dell’asfissiante offensiva propagandistica lanciata da due anni. Cina e Russia si oppongono alla politica Usa rispetto all’Iran, come pure l’India, che ha annunciato che non rispetterà le sanzioni statunitensi e aumenterà il volume dei suoi commerci con l’Iran. Idem la Turchia. Le popolazioni europee vedono Israele come la maggior minaccia alla pace mondiale. Nel mondo arabo, a nessuno piace troppo l’Iran, però solo una minoranza molto ridotta lo considera una minaccia. Al contrario, si pensa che siano Israele e Stati Uniti le minacce principali. La maggioranza si dice convinta che la regione sarebbe più sicura se l’Iran si dotasse di armi nucleari. In Egitto, alla vigilia della primavera araba, il 90% compartiva questa opinione, secondo i sondaggi della “Brookings Institution” e di “Zogby International”.

I commentatori occidentali parlano molto del fatto che i dittatori arabi appoggiano la posizione Usa sull’Iran, mentre tacciono il fatto che la gran maggioranza della popolazione araba è contraria. Negli Stati Uniti alcuni osservatori hanno espresso anche, da un bel po’ di tempo, le loro preoccupazioni per l’arsenale nucleare israeliano. Il generale Lee Butler, ex-capo del comando strategico Usa, ha affermato che l’armamento nucleare israeliano è straordinariamente pericoloso. In una pubblicazione dell’esercito Usa, il tenente colonnello Warner Farr ha ricordato che «un obiettivo delle armi nucleari israeliane, che non si usa precisare ma che è Zeev Maozovvio, è “impiegarle” negli Stati uniti», presumibilmente per garantire un appoggio continuo di Washington alle politiche di Israele.

Una preoccupazione immediata, in questo momento, è che Israele cerchi di provocare qualche reazione iraniana, che a sua volta provochi un attacco Usa. Uno dei principali analisti strategici israeliani, Zeev Maoz, in “Difesa della Terra santa”, un’analisi esaustiva della politica di sicurezza ed estera israeliana, arriva alla conclusione che il saldo della politica nucleare di Israele è decisamente negativo e dannoso per la sicurezza dello Stato ebraico. E incita Israele a cercare di arrivare a un trattato regionale di proscrizione delle armi di distruzione di massa e a creare una zona libera da tali armi, come chiedeva già nel 1974 una risoluzione dell’Assemblea generale dell’Onu.

Intanto le sanzioni occidentali contro l’Iran fanno già sentire i loro effetti soliti, causando penuria di alimenti basici non per il clero governante ma per la popolazione. Non può meravigliare che anche la valorosa opposizione iraniana condanni le sanzioni. Le sanzioni contro l’Iran potrebbero avere gli stessi effetti di quella precedenti contro l’Iraq, condannate come genocide dai rispettabili diplomatici dell’Onu che pure le amministravano, e che alla fine si dimisero come segno di protesta. In Iraq le sanzioni hanno devastato la popolazione e rafforzato Saddam Hussein, a cui probabilmente hanno evitato, almeno all’inizio, la sorte toccata alla sfilza degli altri tiranni Mahmud Ahmadinejadappoggiati da Usa e Gb, dittatori che hanno prosperato praticamente fino al giorno in cui varie rivolte interne li hanno rovesciati.

Esiste un dibattito poco credibile su ciò che costituisca esattamente la minaccia iraniana, per quanto abbiamo una risposta autorizzata, fornita dalle forze armate e dai servizi segreti Usa. I loro rapporti e audizioni davanti al Congresso hanno lasciato ben chiaro che l’Iran non costituisce nessuna minaccia militare: ha una capacità molto limitata di dispiegare le sue forze e la sua dottrina strategica è difensiva, destinata a dissuadere da un’invasione per il tempo necessario alla diplomazia per entrare in campo. Se l’Iran sta sviluppando armi nucleari (ciò che ancora non è provato), questo sarebbe parte della sua strategia di dissuasione. Il concetto dei più seri fra gli analisti israeliani e statunitensi è stato espresso con chiarezza da Bruce Riedel, un veterano con 30 anni di Cia sulle spalle, che nel gennaio scorso ha dichiarato che se lui fosse un consigliere per la sicurezza nazionale iraniano auspicherebbe certamente di avere armi nucleari come fattore di dissuasione.

Un’altra accusa dell’Occidente contro l’Iran è che la Repubblica islamica sta cercando di ampliare la sua influenza nei paesi vicini, attaccati e occupati da Stati uniti e Gran Bretagna, e che appoggia la resistenza all’aggressione israeliana in Libano e all’occupazione illegale dei territori palestinesi, sostenute dagli Usa. Al pari della sua strategia di dissuasione contro possibili atti di violenza da parte di paesi occidentali, si dice che le azioni dell’Iran costituiscono minacce intollerabili per l’ordine globale. L’opinione pubblica concorda con Maoz. L’appoggio all’idea di stabilire una zona libera dalle armi di distruzione di massa in Medio Oriente è schiacciante. Questa zona dovrebbe comprendere Iran, Israele e, preferibilmente, le altre due potenze nucleari che si sono rifiutate di entrare nel Trattato di non proliferazione Noam Chomskynucleare (Tnp) – Pakistan e India – paesi che, come Israele, hanno sviluppato i loro programmi atomici con l’aiuto Usa.

L’appoggio a questa politica nella conferenza sulla revisione del Tnp, nel maggio 2010, fu tanto forte che Washington si vide obbligata ad accettarla formalmente, però imponendo condizioni: la zona non potrà divenire effettiva prima di un accordo di pace fra Israele e i suoi vicini arabi; il programma di armamenti nucleari di Israele sarebbe esentato dalle ispezioni internazionali; nessun paese (si legga: Usa) potrebbe essere obbligato a fornire informazioni sulle installazioni e le attività nucleari israeliane, né informazioni relative a trasferimenti anteriori di tecnologia nucleare a Israele.

Nella conferenza del 2010 si fissò una nuova sessione per il maggio 2012 con l’obiettivo di avanzare nella creazione di una zona libera da armi di distruzione di massa. Tuttavia con tutto il bailamme sollevato intorno all’Iran, è molto poca l’attenzione che si dà a questa opzione che pure sarebbe il modo più costruttivo per gestire le minacce nucleari nella regione: per la “comunità internazionale” la minaccia che l’Iran arrivi alla capacità nucleare; per la maggior parte del mondo, la minaccia rappresentata dall’unico Stato della regione che possieda le armi nucleari e una lunga storia di aggressioni, e dalla superpotenza che gli fa da padrino.
di Giorgio Cattaneo

(Noam Chomsky, “La bomba iraniana”, da “Il Manifesto” del 18 marzo 2012)

I ricchi sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri

Prendendo parte ai lavori del Forum Sociale Tematico di Porto Alegre, l’ex vice-cancelliere di Lula e Alto Rappresentante del Mercosur ha precisato le differenze fra il concetto di “commercio” e quello di “integrazione”, ha presentato una panoramica sul mondo e parlato delle contraddizioni in seno allo stesso.


Conclusa la carriera ad Itamaraty, il Dicastero degli Esteri, Samuel Pinheiro Guimaraes – considerato uno dei maggiori intellettuali brasiliani – riveste da un anno la carica di Alto Rappresentante del Mercosur, su proposta di Lula e accettazione unanime di Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay.

- Non riveste un ruolo semplice, in qualità di responsabile del Mercosur…

No, sebbene la situazione sia molto diversa in diversi paesi e continenti. In Europa predominano programmi di aggiustamento finanziario e pressione molto forte sull’intera popolazione. Tutte le misure previste vanno a danno dei più poveri e dei lavoratori. Contemporaneamente assistiamo allo sbocco finale di questa fase: le banche soffrono danni consistenti. Hanno ricevuto risorse dai governi per acquistare titoli e i governi adesso aumentano le tasse, riducono gli aiuti sociali e modificano la regolamentazione del lavoro per far fronte ai debiti: il popolo si ritrova a dover pagare il conto di tutto questo. Banche e società di revisione hanno causato la crisi, l’hanno gonfiata e alla fine questa è esplosa. I governi vengono in soccorso delle banche e queste sicuramente migliorano la propria situazione. Infine, le banche che erogarono credito agli Stati, sapevano che questi non avrebbero potuto pagare e così vanno contro il popolo.

- Negli Stati Uniti succede la stessa cosa?

Lì la situazione è un po’ diversa. C’è una certa enfasi sulla questione dell’aumento dell’occupazione, però vi è stata una forte virata a destra. Il governo vuole aumentare le imposte per i più ricchi e viene accusato di “comunismo”; le banche sono state salvate ma in ogni caso non si risparmiano attacchi ad Obama. Allo stesso modo, essendovi indubbie necessità di aggiustamento fiscale, il governo probabilmente finirà per aumentare le imposte. La domanda è in che modo ciò avverrà: toccando le fasce di popolazione più ricche o quelle più disagiate?

- E in Asia e Cina?

La situazione qui è molto diversa. C’è grande preoccupazione per il rischio di drastica riduzione della crescita a causa del calo delle attività economiche negli Stati Uniti e in Europa. Non sono molto sicuro di quel che succederà ma i tassi di crescita saranno in ogni caso elevati. Pensavano che nel 2010 il tasso sarebbe stato dell’8% ed invece è stato del 10%.

- Quale sbocco avrà la crisi?

Il problema è il controllo politico, la sovranità politica di lungo periodo.

- Controllo di cosa?

La crisi riguarda le piccole e medie imprese. Quelle grandi stanno bene, mentre i lavoratori stanno male: gli anziani, i giovani e le imprese medie sono in difficoltà. Questa crisi è diversa da quella del ’29, quando il capitalismo aveva un carattere molto più marcatamente nazionale e il livello di globalizzazione finanziaria e produttiva era minore. La pressione sui governi per risolvere la crisi era maggiore di oggi e con “Occupy Wall Street” non è aumentata; bisogna dunque prendere provvedimenti. Il candidato alle presidenziali Mitt Romney ha versato meno del 15% di imposte a fronte del 30% da parte della sua segretaria. Il ritardo nel risolvere la crisi è preoccupante e l’instabilità è dietro l’angolo. Per fortuna oggi non c’è modo per arrivare ad una guerra come la Seconda Guerra Mondiale, però bisogna stare in allerta a causa del rischio di nuove guerre locali.

- Il Sudamerica però non è in crisi.

No, il problema per il Sudamerica è un altro: i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.

- La situazione al riguardo non è migliorata?

Poniamo la questione in altri termini: io sono meno ricco di un altro se questi possiede più di quel che ho io. Posso aumentare le mie ricchezze, ma questi può distanziarsi da me a sua volta con sue nuove acquisizioni. E’ positivo che 30 milioni di poveri hanno migliorato le proprie difficili condizioni. Però i super-ricchi in Brasile hanno rendite incredibili. Sto parlando di persone fisiche: le banche non esistono, esistono gli azionisti delle banche e i meccanismi di concentrazione.

- E lo Stato cosa fa?

Il governo cerca di realizzare meccanismi di riallocazione, come sussidi alle famiglie, borse di studio agli studenti, l’Assegnazione Universale per Figli in Argentina. E tutto ciò è positivo. La fonte dei problemi è la distribuzione di ricchezza, non del reddito. Però bisogna ricordare che gli Stati son creati dalle classi egemoni; anche le modalità di nomina dei giudici, per fare un esempio specifico, lo sono. I governi in generale sono dunque strumenti della classe egemone. Il Partito dei Lavoratori infatti, anche nel Congresso, e non solo nell’Esecutivo, ha preso solo una porzione di potere. Le classi conservatrici con il proprio peso interferiscono sui tentativi di redistribuzione e ciò avviene in tutti i campi.

- Più precisamente quali?

Qual è la base fondamentale di tutto ciò? Quello che il governo riscuote con le imposte. E quindi si intraprende una campagna per il recupero delle imposte. I grandi prestiti delle banche statali hanno i tassi di interesse più bassi. I ricchi vanno contro le politiche sociali pubbliche e quando queste vengono applicate, essi spingono comunque per privatizzarle e terziarizzarle. Le parlo di questa problematica perché si è andati molto avanti al riguardo. Lo sforzo è stato grande, anche per una resistenza conservatrice onnipresente, che si trascina da secoli.

- Come la crisi coinvolge i paesi del Mercosur?

Oggi i paesi del Mercosur soffrono impatti di diversa matrice. Una è quella cinese, altra quella degli Stati Uniti e della crisi europea. La Cina ha è caratterizzata da enorme domanda di prodotti agricoli e minerari e ciò influenza i quattro paesi dell’Organizzazione. Ciò, da un lato, genera introiti molto interessanti; Dall’altro però la Cina è una fornitrice di prodotti manifatturieri a basso costo, la qual cosa tocca le strutture industriali ed il funzionamento del Mercosur in relazione al commercio interno. Diminuiscono gli incentivi agli investimenti industriali: se lei è un investitore, non investe il suo denaro mettendo su una fabbrica per venderne i prodotti in Cina; piuttosto investirà in terre o miniere per vendere ai cinesi materie prime.

Una relazione necessaria e a tratti contraddittoria…

Il punto è come trasformare le relazioni con la Cina di modo che i cinesi finiscano per contribuire al nostro sviluppo industriale. La popolazione è largamente urbanizzata e bisogna mantenere uno sviluppo urbano, l’agricoltura impiega sempre meno lavoratori perché è organizzata su larga scala. Stesso discorso per il settore minerario. Inoltre, i paesi soffrono le fluttuazioni di prezzo per le materie prime. Bisogna trarre vantaggio dall’esportazione di queste risorse, ma non possiamo pensare di vivere indefinitamente di queste soltanto.

Esiste da ormai un anno la valuta virtuale jefe del Mercosur. Il risultato la soddisfa?

Mi lasci ricordare alcuni punti. Il Mercosur è nato nel 1991 dall’impulso di governi neoliberali. I firmatari del Trattato di Asunción furono Carlos Menem, Fernando Collor, Andrés Rodríguez e Luis Lacalle, presidenti di governi tipicamente neoliberali, che concepivano l’integrazione regionale come strumentale ad una integrazione nell’intero globo. Ma questo non può essere: il regionalismo aperto è come un matrimonio aperto. E’ un controsenso, perché gli accordi di libero commercio con terzi distruggerebbe il Mercosur a causa dell’annullamento dei dazi. Perciò bisogna trasformare l’Organizzazione in uno strumento di sviluppo industriale dei quattro paesi. In qualsiasi sistema di integrazione i paesi maggiori traggono i maggiori benefici, però devono esserci meccanismi di compensazione in favore dei paesi minori, soprattutto mediante infrastrutture. L’attuale visione del Mercosur, tuttavia, si basa sul libero commercio e tale visione cozza con alcuni esempi in seno a questa stessa realtà. Il 40% del commercio fra Brasile ed Argentina riguarda veicoli motorizzati, ma non si tratta di un interscambio sorto dal libero commercio il quale avverrebbe per mezzo di multinazionali invece che di imprese nazionali. Con la libertà commerciale e senza accordi, chissà che la industria automobilistica non si sarebbe infine concentrata in un solo paese. Abbandonare questa visione, perciò, è urgente e ancor più in vista dell’aggressività commerciale cinese. Il libero commercio non porta allo sviluppo; porta alla disintegrazione.

Da dove si dovrebbe cominciare?

Convincendo i paesi maggiori. Il fondo di compensazione che esiste oggi è un passo ancora troppo breve. Il Mercosur è come un’automobile impantanatasi: Il guidatore accelera, il fango schizza in tutte le direzioni ma l’auto non si muove. Che fare? I passeggeri più forti dovrebbero scendere dall’auto e spingere. Ci troviamo in questa situazione. Se non agiamo così, potremo fare molte riunioni ma non risolveremo nulla. Allo stesso tempo, devo dire che il commercio si è espanso, vi sono molti investimenti, soprattutto dai paesi maggiori. Ma stiamo parlando di commercio, l’integrazione è ben altra cosa.

Lei è ambasciatore, è stato ministro di Lula e vicecancelliere. Come è giunto a simili ruoli?

(Ride) Una spiegazione che infastidirà i diplomatici: mio nonno ebbe lo stesso ruolo.

C’è un’altra spiegazione?

Bene, nella famiglia di mia madre c’erano diversi imprenditori. Dal lato paterno della famiglia, erano politici abolizionisti e repubblicani. Ma uno nella vita ha a che fare con ogni tipo di contraddizione: frequentai un collegio d’élite, il Collegio dei Gesuiti Sant’Ingnazio di Rio, e al tempo stesso giocavo a calcio con ragazzi delle favelas. Cominciai a guardare con attenzione a quel che avevo e a quel che ero; fu il mio contatto con la diversità. Mio padre simpatizzava per Gétulio Vargas e Juscelino Kubitschek. Era anticlericale ed ateo e mi fece andare in un collegio di gesuiti. Ero in mezzo alle contraddizioni; non è vero, d’aaltronde, che il mondo è molto complesso? Ero all’università a studiare diritto nel 1958, uno dei periodi più politicizzati nella vita del Brasile. Entrai nella politica studentesca all’epoca in cui il paese seguiva una politica estera indipendente. E nel 1961 sono entrato a Palazzo Itamaraty, al Ministero degli Esteri.

Qual è la sua maggiore fonte d’orgoglio come vicecancelliere di Lula?

Prima di Lula mi ero già dedicato alla lotta contro l’ALCA. Ottenemmo nel 2005 che i paesi più importanti del Sudamerica non formassero un’area di libero commercio di tutta l’America. Ricordo anche la battaglia, proprio in Brasile, contro gli accordi di protezione degli investimenti. Ancora oggi l’Argentina soffre parecchio questi accordi firmati da Menem. Il nostro Ministero delle Finanze, guidato dal signor Antonio Palocci, lo desiderava; io no. E La mia amicizia con Celso Amorim, allora Cancelliere, giocò un ruolo importante nel rifiuto di adesione. Demmo molta enfasi alla cosa in America del Sud. Vi fu una direttiva del presidente Lula, però priva d’esecuzione. Vi provvedemmo. Aumentiamo del 30% la dotazione delle nostre ambasciate, obblighiamo tutti i diplomatici ad avere come prima destinazione un’ambasciata in America del Sud. Non in America Latina, in America del Sud. E’ un modo pratico per comprendere le realtà e le asimmetrie. E, bene, qui trova spazio lo scambio di pensiero. Già nel ’75 scrissi dell’importanza di rompere con il colonialismo portoghese e con l’Africa del Sud. Quando uno studia le cose, comincia a comprenderle un po’ meglio, non è vero?
di Martin Granovsky
(Traduzione di Giacomo Guarini)

22 marzo 2012

Intoccabili

Con estrema ingenuità eravamo convinti che l’acme del grottesco fosse stato raggiunto ieri sera. Quando l’usuraio Mario Monti e il suo delfino lacrima Fornero sono stati omaggiati dalla Torino “che conta”, costituita dal PD e dalla"famiglia Fiat", unitamente ai guitti da cortile modello Littizzetto e ad altro bestiario politico di minoranza. Mentre in un centro blindato stile G8, il resto dei torinesi che non contano nulla, venivano tenuti lontani tramite le transenne ed un nutrito manipolo di poliziotti in tenuta antisommossa. Lontani dall’egoarca e dal suo ministro, che dopo avere cenato al “Cambio” in salsa chic, sono stati ospitati al teatro Regio, dove (dicono i giornali) tutta la città dentro le transenne avrebbe tributato loro una lunga ovazione per il"lavoro" di demolizione svolto fino ad oggi nel paese.
L’elite tecno finanziaria, con il proprio codazzo di camerieri politici e consorteria assortita dentro, impegnati a celebrare sé stessi in una cerimonia autoreferenziale, e tutto il resto del mondo fuori, senza alcun diritto, ma con il dovere di mantenerne economicamente di tasca propria i fasti principeschi. Una commedia dell’assurdo che risale alla notte dei tempi ed è oggi più attuale che mai.
Ma in tutta evidenza il grottesco non conosce limite, dal momento che in un’Ansa di oggi si può apprendere come un ragazzo sia stato fermato dalla polizia e poi denunciato, per avere rivolto degli insulti a lacrima Fornero, durante la visita fatta dalla stessa alle OGR, dove ha presenziato all’inaugurazione della mostra dedicata ai 150 anni dell’unità d’Italia, prima di recarsi al Cambio per rifocillarsi dopo l’improba fatica…..


In un paese dove i ministri del governo precedente e di quelli precedenti ancora (compresi i presidenti del Consiglio) sono sempre stati sistematicamente insultati in TV e sui giornali, con una variegata quantità di epiteti che spaziava dal “mortadella” allo “psiconano”, passando attraverso dracula, gli scheletri e le gobbe, solamente i “tecnici” al servizio della BCE assurgono allo status di intoccabili, inavvicinabili, inguardabili e assolutamente da non criticare.

E’ un segno dello stato di polizia nel quale stiamo precipitando, il fatto che un giovane venga fermato, intimidito e denunciato, per avere osato esprimere tutto il proprio entusiasmo nei confronti di colei che gli ha negato il diritto ad andare un giorno in pensione e si sta prodigando per eliminare ogni prospettiva di trovare un posto di lavoro dignitoso.
Ma è un segno che in fondo non stupisce, proprio a Torino, dove magistrati compiacenti sono soliti incarcerare le donne incinta e le persone perbene, con la sola colpa di battersi contro la costruzione del TAV. E tenerceli dentro anche dei mesi, nonostante non esistano le motivazioni oggettive per farlo, salvo poi lagnarsi e piagnucolare per le (poche) contestazioni subite, al solo fine di pubblicizzare la vendita di libercoli che nessuno comprerebbe mai, se non per compiacenza e servilismo.

Non si possono guardare, non si possono toccare, non si può esternare loro il nostro pensiero. Sono i ministri del governo di occupazione, lavorano per le grandi banche, per la BCE e per la FED. Tutti dietro le transenne e in rigoroso silenzio, il primo che proferisce parola vola dritto in galera senza neanche passare dal via, siamo in democrazia, cosa vi credete?
di Marco Cedolin

23 marzo 2012

Noam Chomsky: il mondo ha paura di Israele, non dell’Iran

Nel numero di gennaio-febbraio della rivista “Foreign Affairs” un articolo di Matthew Kroenig intitolato “È il momento di attaccare l’Iran” spiega perché un attacco è l’opzione meno peggiore. Sui media si fa un gran parlare di un possibile attacco israeliano contro l’Iran, mentre gli Stati Uniti traccheggiano tenendo aperta l’opzione dell’aggressione, ciò che configura la sistematica violazione della carta delle Nazioni Unite, fondamento del diritto internazionale. Mano a mano che aumentano le tensioni, nell’aria aleggiano i fremiti delle guerre in Afghanistan e Iraq. La febbrile retorica della campagna per le primarie negli Usa rinforza il suono dei tamburi di guerra. Si suole attribuire alla “comunità internazionale” – nome in codice per definire gli alleati degli Stati Uniti – le preoccupazioni per l’imminente minaccia iraniana. I popoli del mondo, però, tendono a vedere le cose in modo diverso.

I paesi non-allineati, un movimento che raggruppa 120 nazioni, hanno vigorosamente appoggiato il diritto dell’Iran di arricchire l’uranio, opinione bomba atomicacondivisa dalla maggioranza della popolazione degli Stati Uniti (sondaggio “WorlPublicOpinion.org”) prima dell’asfissiante offensiva propagandistica lanciata da due anni. Cina e Russia si oppongono alla politica Usa rispetto all’Iran, come pure l’India, che ha annunciato che non rispetterà le sanzioni statunitensi e aumenterà il volume dei suoi commerci con l’Iran. Idem la Turchia. Le popolazioni europee vedono Israele come la maggior minaccia alla pace mondiale. Nel mondo arabo, a nessuno piace troppo l’Iran, però solo una minoranza molto ridotta lo considera una minaccia. Al contrario, si pensa che siano Israele e Stati Uniti le minacce principali. La maggioranza si dice convinta che la regione sarebbe più sicura se l’Iran si dotasse di armi nucleari. In Egitto, alla vigilia della primavera araba, il 90% compartiva questa opinione, secondo i sondaggi della “Brookings Institution” e di “Zogby International”.

I commentatori occidentali parlano molto del fatto che i dittatori arabi appoggiano la posizione Usa sull’Iran, mentre tacciono il fatto che la gran maggioranza della popolazione araba è contraria. Negli Stati Uniti alcuni osservatori hanno espresso anche, da un bel po’ di tempo, le loro preoccupazioni per l’arsenale nucleare israeliano. Il generale Lee Butler, ex-capo del comando strategico Usa, ha affermato che l’armamento nucleare israeliano è straordinariamente pericoloso. In una pubblicazione dell’esercito Usa, il tenente colonnello Warner Farr ha ricordato che «un obiettivo delle armi nucleari israeliane, che non si usa precisare ma che è Zeev Maozovvio, è “impiegarle” negli Stati uniti», presumibilmente per garantire un appoggio continuo di Washington alle politiche di Israele.

Una preoccupazione immediata, in questo momento, è che Israele cerchi di provocare qualche reazione iraniana, che a sua volta provochi un attacco Usa. Uno dei principali analisti strategici israeliani, Zeev Maoz, in “Difesa della Terra santa”, un’analisi esaustiva della politica di sicurezza ed estera israeliana, arriva alla conclusione che il saldo della politica nucleare di Israele è decisamente negativo e dannoso per la sicurezza dello Stato ebraico. E incita Israele a cercare di arrivare a un trattato regionale di proscrizione delle armi di distruzione di massa e a creare una zona libera da tali armi, come chiedeva già nel 1974 una risoluzione dell’Assemblea generale dell’Onu.

Intanto le sanzioni occidentali contro l’Iran fanno già sentire i loro effetti soliti, causando penuria di alimenti basici non per il clero governante ma per la popolazione. Non può meravigliare che anche la valorosa opposizione iraniana condanni le sanzioni. Le sanzioni contro l’Iran potrebbero avere gli stessi effetti di quella precedenti contro l’Iraq, condannate come genocide dai rispettabili diplomatici dell’Onu che pure le amministravano, e che alla fine si dimisero come segno di protesta. In Iraq le sanzioni hanno devastato la popolazione e rafforzato Saddam Hussein, a cui probabilmente hanno evitato, almeno all’inizio, la sorte toccata alla sfilza degli altri tiranni Mahmud Ahmadinejadappoggiati da Usa e Gb, dittatori che hanno prosperato praticamente fino al giorno in cui varie rivolte interne li hanno rovesciati.

Esiste un dibattito poco credibile su ciò che costituisca esattamente la minaccia iraniana, per quanto abbiamo una risposta autorizzata, fornita dalle forze armate e dai servizi segreti Usa. I loro rapporti e audizioni davanti al Congresso hanno lasciato ben chiaro che l’Iran non costituisce nessuna minaccia militare: ha una capacità molto limitata di dispiegare le sue forze e la sua dottrina strategica è difensiva, destinata a dissuadere da un’invasione per il tempo necessario alla diplomazia per entrare in campo. Se l’Iran sta sviluppando armi nucleari (ciò che ancora non è provato), questo sarebbe parte della sua strategia di dissuasione. Il concetto dei più seri fra gli analisti israeliani e statunitensi è stato espresso con chiarezza da Bruce Riedel, un veterano con 30 anni di Cia sulle spalle, che nel gennaio scorso ha dichiarato che se lui fosse un consigliere per la sicurezza nazionale iraniano auspicherebbe certamente di avere armi nucleari come fattore di dissuasione.

Un’altra accusa dell’Occidente contro l’Iran è che la Repubblica islamica sta cercando di ampliare la sua influenza nei paesi vicini, attaccati e occupati da Stati uniti e Gran Bretagna, e che appoggia la resistenza all’aggressione israeliana in Libano e all’occupazione illegale dei territori palestinesi, sostenute dagli Usa. Al pari della sua strategia di dissuasione contro possibili atti di violenza da parte di paesi occidentali, si dice che le azioni dell’Iran costituiscono minacce intollerabili per l’ordine globale. L’opinione pubblica concorda con Maoz. L’appoggio all’idea di stabilire una zona libera dalle armi di distruzione di massa in Medio Oriente è schiacciante. Questa zona dovrebbe comprendere Iran, Israele e, preferibilmente, le altre due potenze nucleari che si sono rifiutate di entrare nel Trattato di non proliferazione Noam Chomskynucleare (Tnp) – Pakistan e India – paesi che, come Israele, hanno sviluppato i loro programmi atomici con l’aiuto Usa.

L’appoggio a questa politica nella conferenza sulla revisione del Tnp, nel maggio 2010, fu tanto forte che Washington si vide obbligata ad accettarla formalmente, però imponendo condizioni: la zona non potrà divenire effettiva prima di un accordo di pace fra Israele e i suoi vicini arabi; il programma di armamenti nucleari di Israele sarebbe esentato dalle ispezioni internazionali; nessun paese (si legga: Usa) potrebbe essere obbligato a fornire informazioni sulle installazioni e le attività nucleari israeliane, né informazioni relative a trasferimenti anteriori di tecnologia nucleare a Israele.

Nella conferenza del 2010 si fissò una nuova sessione per il maggio 2012 con l’obiettivo di avanzare nella creazione di una zona libera da armi di distruzione di massa. Tuttavia con tutto il bailamme sollevato intorno all’Iran, è molto poca l’attenzione che si dà a questa opzione che pure sarebbe il modo più costruttivo per gestire le minacce nucleari nella regione: per la “comunità internazionale” la minaccia che l’Iran arrivi alla capacità nucleare; per la maggior parte del mondo, la minaccia rappresentata dall’unico Stato della regione che possieda le armi nucleari e una lunga storia di aggressioni, e dalla superpotenza che gli fa da padrino.
di Giorgio Cattaneo

(Noam Chomsky, “La bomba iraniana”, da “Il Manifesto” del 18 marzo 2012)

I ricchi sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri

Prendendo parte ai lavori del Forum Sociale Tematico di Porto Alegre, l’ex vice-cancelliere di Lula e Alto Rappresentante del Mercosur ha precisato le differenze fra il concetto di “commercio” e quello di “integrazione”, ha presentato una panoramica sul mondo e parlato delle contraddizioni in seno allo stesso.


Conclusa la carriera ad Itamaraty, il Dicastero degli Esteri, Samuel Pinheiro Guimaraes – considerato uno dei maggiori intellettuali brasiliani – riveste da un anno la carica di Alto Rappresentante del Mercosur, su proposta di Lula e accettazione unanime di Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay.

- Non riveste un ruolo semplice, in qualità di responsabile del Mercosur…

No, sebbene la situazione sia molto diversa in diversi paesi e continenti. In Europa predominano programmi di aggiustamento finanziario e pressione molto forte sull’intera popolazione. Tutte le misure previste vanno a danno dei più poveri e dei lavoratori. Contemporaneamente assistiamo allo sbocco finale di questa fase: le banche soffrono danni consistenti. Hanno ricevuto risorse dai governi per acquistare titoli e i governi adesso aumentano le tasse, riducono gli aiuti sociali e modificano la regolamentazione del lavoro per far fronte ai debiti: il popolo si ritrova a dover pagare il conto di tutto questo. Banche e società di revisione hanno causato la crisi, l’hanno gonfiata e alla fine questa è esplosa. I governi vengono in soccorso delle banche e queste sicuramente migliorano la propria situazione. Infine, le banche che erogarono credito agli Stati, sapevano che questi non avrebbero potuto pagare e così vanno contro il popolo.

- Negli Stati Uniti succede la stessa cosa?

Lì la situazione è un po’ diversa. C’è una certa enfasi sulla questione dell’aumento dell’occupazione, però vi è stata una forte virata a destra. Il governo vuole aumentare le imposte per i più ricchi e viene accusato di “comunismo”; le banche sono state salvate ma in ogni caso non si risparmiano attacchi ad Obama. Allo stesso modo, essendovi indubbie necessità di aggiustamento fiscale, il governo probabilmente finirà per aumentare le imposte. La domanda è in che modo ciò avverrà: toccando le fasce di popolazione più ricche o quelle più disagiate?

- E in Asia e Cina?

La situazione qui è molto diversa. C’è grande preoccupazione per il rischio di drastica riduzione della crescita a causa del calo delle attività economiche negli Stati Uniti e in Europa. Non sono molto sicuro di quel che succederà ma i tassi di crescita saranno in ogni caso elevati. Pensavano che nel 2010 il tasso sarebbe stato dell’8% ed invece è stato del 10%.

- Quale sbocco avrà la crisi?

Il problema è il controllo politico, la sovranità politica di lungo periodo.

- Controllo di cosa?

La crisi riguarda le piccole e medie imprese. Quelle grandi stanno bene, mentre i lavoratori stanno male: gli anziani, i giovani e le imprese medie sono in difficoltà. Questa crisi è diversa da quella del ’29, quando il capitalismo aveva un carattere molto più marcatamente nazionale e il livello di globalizzazione finanziaria e produttiva era minore. La pressione sui governi per risolvere la crisi era maggiore di oggi e con “Occupy Wall Street” non è aumentata; bisogna dunque prendere provvedimenti. Il candidato alle presidenziali Mitt Romney ha versato meno del 15% di imposte a fronte del 30% da parte della sua segretaria. Il ritardo nel risolvere la crisi è preoccupante e l’instabilità è dietro l’angolo. Per fortuna oggi non c’è modo per arrivare ad una guerra come la Seconda Guerra Mondiale, però bisogna stare in allerta a causa del rischio di nuove guerre locali.

- Il Sudamerica però non è in crisi.

No, il problema per il Sudamerica è un altro: i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.

- La situazione al riguardo non è migliorata?

Poniamo la questione in altri termini: io sono meno ricco di un altro se questi possiede più di quel che ho io. Posso aumentare le mie ricchezze, ma questi può distanziarsi da me a sua volta con sue nuove acquisizioni. E’ positivo che 30 milioni di poveri hanno migliorato le proprie difficili condizioni. Però i super-ricchi in Brasile hanno rendite incredibili. Sto parlando di persone fisiche: le banche non esistono, esistono gli azionisti delle banche e i meccanismi di concentrazione.

- E lo Stato cosa fa?

Il governo cerca di realizzare meccanismi di riallocazione, come sussidi alle famiglie, borse di studio agli studenti, l’Assegnazione Universale per Figli in Argentina. E tutto ciò è positivo. La fonte dei problemi è la distribuzione di ricchezza, non del reddito. Però bisogna ricordare che gli Stati son creati dalle classi egemoni; anche le modalità di nomina dei giudici, per fare un esempio specifico, lo sono. I governi in generale sono dunque strumenti della classe egemone. Il Partito dei Lavoratori infatti, anche nel Congresso, e non solo nell’Esecutivo, ha preso solo una porzione di potere. Le classi conservatrici con il proprio peso interferiscono sui tentativi di redistribuzione e ciò avviene in tutti i campi.

- Più precisamente quali?

Qual è la base fondamentale di tutto ciò? Quello che il governo riscuote con le imposte. E quindi si intraprende una campagna per il recupero delle imposte. I grandi prestiti delle banche statali hanno i tassi di interesse più bassi. I ricchi vanno contro le politiche sociali pubbliche e quando queste vengono applicate, essi spingono comunque per privatizzarle e terziarizzarle. Le parlo di questa problematica perché si è andati molto avanti al riguardo. Lo sforzo è stato grande, anche per una resistenza conservatrice onnipresente, che si trascina da secoli.

- Come la crisi coinvolge i paesi del Mercosur?

Oggi i paesi del Mercosur soffrono impatti di diversa matrice. Una è quella cinese, altra quella degli Stati Uniti e della crisi europea. La Cina ha è caratterizzata da enorme domanda di prodotti agricoli e minerari e ciò influenza i quattro paesi dell’Organizzazione. Ciò, da un lato, genera introiti molto interessanti; Dall’altro però la Cina è una fornitrice di prodotti manifatturieri a basso costo, la qual cosa tocca le strutture industriali ed il funzionamento del Mercosur in relazione al commercio interno. Diminuiscono gli incentivi agli investimenti industriali: se lei è un investitore, non investe il suo denaro mettendo su una fabbrica per venderne i prodotti in Cina; piuttosto investirà in terre o miniere per vendere ai cinesi materie prime.

Una relazione necessaria e a tratti contraddittoria…

Il punto è come trasformare le relazioni con la Cina di modo che i cinesi finiscano per contribuire al nostro sviluppo industriale. La popolazione è largamente urbanizzata e bisogna mantenere uno sviluppo urbano, l’agricoltura impiega sempre meno lavoratori perché è organizzata su larga scala. Stesso discorso per il settore minerario. Inoltre, i paesi soffrono le fluttuazioni di prezzo per le materie prime. Bisogna trarre vantaggio dall’esportazione di queste risorse, ma non possiamo pensare di vivere indefinitamente di queste soltanto.

Esiste da ormai un anno la valuta virtuale jefe del Mercosur. Il risultato la soddisfa?

Mi lasci ricordare alcuni punti. Il Mercosur è nato nel 1991 dall’impulso di governi neoliberali. I firmatari del Trattato di Asunción furono Carlos Menem, Fernando Collor, Andrés Rodríguez e Luis Lacalle, presidenti di governi tipicamente neoliberali, che concepivano l’integrazione regionale come strumentale ad una integrazione nell’intero globo. Ma questo non può essere: il regionalismo aperto è come un matrimonio aperto. E’ un controsenso, perché gli accordi di libero commercio con terzi distruggerebbe il Mercosur a causa dell’annullamento dei dazi. Perciò bisogna trasformare l’Organizzazione in uno strumento di sviluppo industriale dei quattro paesi. In qualsiasi sistema di integrazione i paesi maggiori traggono i maggiori benefici, però devono esserci meccanismi di compensazione in favore dei paesi minori, soprattutto mediante infrastrutture. L’attuale visione del Mercosur, tuttavia, si basa sul libero commercio e tale visione cozza con alcuni esempi in seno a questa stessa realtà. Il 40% del commercio fra Brasile ed Argentina riguarda veicoli motorizzati, ma non si tratta di un interscambio sorto dal libero commercio il quale avverrebbe per mezzo di multinazionali invece che di imprese nazionali. Con la libertà commerciale e senza accordi, chissà che la industria automobilistica non si sarebbe infine concentrata in un solo paese. Abbandonare questa visione, perciò, è urgente e ancor più in vista dell’aggressività commerciale cinese. Il libero commercio non porta allo sviluppo; porta alla disintegrazione.

Da dove si dovrebbe cominciare?

Convincendo i paesi maggiori. Il fondo di compensazione che esiste oggi è un passo ancora troppo breve. Il Mercosur è come un’automobile impantanatasi: Il guidatore accelera, il fango schizza in tutte le direzioni ma l’auto non si muove. Che fare? I passeggeri più forti dovrebbero scendere dall’auto e spingere. Ci troviamo in questa situazione. Se non agiamo così, potremo fare molte riunioni ma non risolveremo nulla. Allo stesso tempo, devo dire che il commercio si è espanso, vi sono molti investimenti, soprattutto dai paesi maggiori. Ma stiamo parlando di commercio, l’integrazione è ben altra cosa.

Lei è ambasciatore, è stato ministro di Lula e vicecancelliere. Come è giunto a simili ruoli?

(Ride) Una spiegazione che infastidirà i diplomatici: mio nonno ebbe lo stesso ruolo.

C’è un’altra spiegazione?

Bene, nella famiglia di mia madre c’erano diversi imprenditori. Dal lato paterno della famiglia, erano politici abolizionisti e repubblicani. Ma uno nella vita ha a che fare con ogni tipo di contraddizione: frequentai un collegio d’élite, il Collegio dei Gesuiti Sant’Ingnazio di Rio, e al tempo stesso giocavo a calcio con ragazzi delle favelas. Cominciai a guardare con attenzione a quel che avevo e a quel che ero; fu il mio contatto con la diversità. Mio padre simpatizzava per Gétulio Vargas e Juscelino Kubitschek. Era anticlericale ed ateo e mi fece andare in un collegio di gesuiti. Ero in mezzo alle contraddizioni; non è vero, d’aaltronde, che il mondo è molto complesso? Ero all’università a studiare diritto nel 1958, uno dei periodi più politicizzati nella vita del Brasile. Entrai nella politica studentesca all’epoca in cui il paese seguiva una politica estera indipendente. E nel 1961 sono entrato a Palazzo Itamaraty, al Ministero degli Esteri.

Qual è la sua maggiore fonte d’orgoglio come vicecancelliere di Lula?

Prima di Lula mi ero già dedicato alla lotta contro l’ALCA. Ottenemmo nel 2005 che i paesi più importanti del Sudamerica non formassero un’area di libero commercio di tutta l’America. Ricordo anche la battaglia, proprio in Brasile, contro gli accordi di protezione degli investimenti. Ancora oggi l’Argentina soffre parecchio questi accordi firmati da Menem. Il nostro Ministero delle Finanze, guidato dal signor Antonio Palocci, lo desiderava; io no. E La mia amicizia con Celso Amorim, allora Cancelliere, giocò un ruolo importante nel rifiuto di adesione. Demmo molta enfasi alla cosa in America del Sud. Vi fu una direttiva del presidente Lula, però priva d’esecuzione. Vi provvedemmo. Aumentiamo del 30% la dotazione delle nostre ambasciate, obblighiamo tutti i diplomatici ad avere come prima destinazione un’ambasciata in America del Sud. Non in America Latina, in America del Sud. E’ un modo pratico per comprendere le realtà e le asimmetrie. E, bene, qui trova spazio lo scambio di pensiero. Già nel ’75 scrissi dell’importanza di rompere con il colonialismo portoghese e con l’Africa del Sud. Quando uno studia le cose, comincia a comprenderle un po’ meglio, non è vero?
di Martin Granovsky
(Traduzione di Giacomo Guarini)

22 marzo 2012

Intoccabili

Con estrema ingenuità eravamo convinti che l’acme del grottesco fosse stato raggiunto ieri sera. Quando l’usuraio Mario Monti e il suo delfino lacrima Fornero sono stati omaggiati dalla Torino “che conta”, costituita dal PD e dalla"famiglia Fiat", unitamente ai guitti da cortile modello Littizzetto e ad altro bestiario politico di minoranza. Mentre in un centro blindato stile G8, il resto dei torinesi che non contano nulla, venivano tenuti lontani tramite le transenne ed un nutrito manipolo di poliziotti in tenuta antisommossa. Lontani dall’egoarca e dal suo ministro, che dopo avere cenato al “Cambio” in salsa chic, sono stati ospitati al teatro Regio, dove (dicono i giornali) tutta la città dentro le transenne avrebbe tributato loro una lunga ovazione per il"lavoro" di demolizione svolto fino ad oggi nel paese.
L’elite tecno finanziaria, con il proprio codazzo di camerieri politici e consorteria assortita dentro, impegnati a celebrare sé stessi in una cerimonia autoreferenziale, e tutto il resto del mondo fuori, senza alcun diritto, ma con il dovere di mantenerne economicamente di tasca propria i fasti principeschi. Una commedia dell’assurdo che risale alla notte dei tempi ed è oggi più attuale che mai.
Ma in tutta evidenza il grottesco non conosce limite, dal momento che in un’Ansa di oggi si può apprendere come un ragazzo sia stato fermato dalla polizia e poi denunciato, per avere rivolto degli insulti a lacrima Fornero, durante la visita fatta dalla stessa alle OGR, dove ha presenziato all’inaugurazione della mostra dedicata ai 150 anni dell’unità d’Italia, prima di recarsi al Cambio per rifocillarsi dopo l’improba fatica…..


In un paese dove i ministri del governo precedente e di quelli precedenti ancora (compresi i presidenti del Consiglio) sono sempre stati sistematicamente insultati in TV e sui giornali, con una variegata quantità di epiteti che spaziava dal “mortadella” allo “psiconano”, passando attraverso dracula, gli scheletri e le gobbe, solamente i “tecnici” al servizio della BCE assurgono allo status di intoccabili, inavvicinabili, inguardabili e assolutamente da non criticare.

E’ un segno dello stato di polizia nel quale stiamo precipitando, il fatto che un giovane venga fermato, intimidito e denunciato, per avere osato esprimere tutto il proprio entusiasmo nei confronti di colei che gli ha negato il diritto ad andare un giorno in pensione e si sta prodigando per eliminare ogni prospettiva di trovare un posto di lavoro dignitoso.
Ma è un segno che in fondo non stupisce, proprio a Torino, dove magistrati compiacenti sono soliti incarcerare le donne incinta e le persone perbene, con la sola colpa di battersi contro la costruzione del TAV. E tenerceli dentro anche dei mesi, nonostante non esistano le motivazioni oggettive per farlo, salvo poi lagnarsi e piagnucolare per le (poche) contestazioni subite, al solo fine di pubblicizzare la vendita di libercoli che nessuno comprerebbe mai, se non per compiacenza e servilismo.

Non si possono guardare, non si possono toccare, non si può esternare loro il nostro pensiero. Sono i ministri del governo di occupazione, lavorano per le grandi banche, per la BCE e per la FED. Tutti dietro le transenne e in rigoroso silenzio, il primo che proferisce parola vola dritto in galera senza neanche passare dal via, siamo in democrazia, cosa vi credete?
di Marco Cedolin