A cosa servono le idee? Ad affrontare la giornata? No, per questa possono bastare i riflessi condizionati di cui anche l’uomo, come gli animali – Pavlov insegna – risulta dotato. A prendere iniziative per essere felici? A effettuare tentativi – magari non individuali, bensì collettivi – per cambiare la realtà, i suoi rapporti di forza, la sua struttura sociale? Già su questo piano potremmo esserci. Anzi, ci siamo. Ma allora la domanda si sposta. Chi ha idee oggi in Italia? Chi mette in campo le idee che ha perché le cose cambino? La Chiesa cattolica? I partiti? I movimenti? Gli intellettuali? Immagino le risposte dei lettori di Nuova Vicenza. Sono risposte realistiche, corrette. Identificabili al punto che si possono omettere.
Viviamo in un paese dove i rapporti di forza, già delineati da tempo, sono, per intima loro natura e grazia, tali da essere stati concepiti per la loro conservazione sine die. Rapporti di forza economici, industriali, ideali, religiosi. Nulla fa pensare che ci sia una sola forza intellettuale, produttrice di idee, detentrice del diritto a cambiarli, a modificarne l’iter.
In Italia il futuro dei prossimi dieci anni è già segnato. Monti è lo spartiacque iniziale fra il passato e i prossimi dieci (forse venti) anni. Con l’avvento di Monti è terminata la fase del conflitto delle idee. L’ultimo a giustificare il conflitto è stato Berlusconi con il suo contrastato regno. Finito Berlusconi, finito il regno visibile (quello invisibile prosegue la corsa), finiti i conflitti, finite le idee. Come potevamo supporre nel corso di quel regno la sua forza era un limite per sé medesimo (sempre lo stesso vuoto, la solita TV, le stesse figure femminili virtuali, gli stessi conflitti con la giustizia) ma soprattutto per gli oppositori, sfiancati dalla sua resistenza e dalla loro concentrazione su un unico obiettivo. L’anti-berlusconismo era troppo impegnato sul proprio versante bellico per avere tempo e modo (e genio) per altri obiettivi. Finito Berlusconi, finito lo schieramento anti, siamo tutti in un deserto. E i Tartari non arrivano mai.
Questa lunga premessa mi è servita per delineare un primo simbolo dell’insussistenza di idee (che hegelianamente dovrebbero portare a novità su una situazione statica): il fenomeno Mario Monti. Il vero golem nazionale, oggi.
Mario Monti viene dal mondo economico della conservazione, il liberismo estremo dei bocconiani. Al di là degli incarichi pubblici che il “pensiero unico” liberista nato negli anni ’80 e tuttora in auge in occidente gli ha affidato (Commissario Europeo alla Concorrenza, eccetera) il nostro professore è stato (ed è?) un esponente di grido dell’americana Goldman Sachs, la famosa banca d’affari uscita da tutte le crisi (a partire dal ’29) con l’aureola, e sempre capace di riciclarsi. Con uno stile unico: tenere i propri uomini in sospeso, sempre in un pendant magico fra il mondo asettico del profitto finanziario e la politica. In un lessico più corretto questo si chiama conflitto di interessi (e di quelli letali, anche, altro che i berluschini) ma non importa.
Oggi la Goldman è a disagio per qualche buccia di banana su cui recentemente è scivolata. Ma certo, se fossi stato fascista ai tempi della peggiore propaganda non avrei esitato a portare la Goldman come esempio di demoplutocrazia. Oggi sarei un nostalgico. Ma ci sono fatti che non si possono nascondere. La Goldman produce influenza planetaria e profitti altissimi. Dal suo scranno centrale cova le istituzioni democratiche e mette i propri uomini a capo di esse.
Esempi. Henry Paulson esce da Goldman come presidente e diventa ministro del tesoro di George W. Bush. Robert Rubin, alto dirigente Goldman diventa ministro del tesoro con Clinton. William Dudley, alto dirigente Goldman, diventa presidente della Federal Reserve di New York. Mario Draghi, prima di diventare governatore della Banca d’Italia e ora presidente della BCE, è stato dirigente Goldman. Lo stesso Romano Prodi, catturato ai tempi dell’IRI da Goldman, è poi diventato presidente del consiglio italiano. E Gianni Letta, braccio destro del signor B., membro dell’Advisory Board di Goldman. E come Letta, Monti, anche lui dell’Advisory Board.
Ricordate i tempi in cui si parlava di pensiero unico? Ci si arrovellava il cervello. Più che dei capi di stato e di governo, lo pensavamo dominio di un grande vecchio. Ma sì, era la Goldman! Virtualmente, senz’altro, fisicamente, quasi certamente, pure. L’esaltazione del profitto finanziario, l’invenzione dei derivati, il profitto che viene dall’etere e via fantasticando, sono tutte creature Goldman. Che non si limita a fare profitti, vuole che la sua filosofia corrompa – per il bene di tutti, naturalmente – la politica. Con i suoi uomini: alti, forti, prestigiosi, a volte un po’ rarefatti.
Monti non potrà mai disdegnare questa sua radice. Per questo non c’è bisogno di idee. Basta mantenere il corso già tracciato dal pensiero unico (che, per definizione è immobile, cioè senza idee). Basta ascoltare Goldman.
di Pino Dato
27 marzo 2012
26 marzo 2012
Riflessioni contro la democrazia
Prima di intraprendere il discorso è necessario chiarire il titolo. Perché scrivere delle riflessioni contro la democrazia? Per due principali motivi: se la consideriamo come un dogma, ovvero un valore assoluto dal quale non si può trascendere, e dunque un regime di governo perfetto da difendere al costo di tacitare e, se necessario, eliminare chi non la pensa come noi -cioè l'antidemocratico-, allora l'uomo non saprà mai cogliere le imperfezioni di tale regime, condannandolo al ristagnamento. È certo infatti che l'antidemocratico perseguitato ed escluso non diventerà mai un liberaldemocratico. Può dunque valer la pena di mettere a repentaglio la democrazia facendo beneficiare di essa anche il suo nemico, se l'unica possibile alternativa è di restringerla sino a rischiare di soffocarla. Meglio una democrazia sempre sotto esame ma espansiva, che una democrazia protetta ma incapace di svilupparsi.
Il secondo motivo è che la democrazia attuale, in estrema sintesi, non è mai stata tale. Per meglio chiarire bisognerebbe guardare la faccenda da una visuale più ampia: come scriveva Rousseau nel "Contratto sociale" possiamo sostenere che l'uomo, per quanto ci provi, non raggiungerà mai una democrazia pura: essendo infatti il governo del pubblico sul pubblico richiederebbe l'attenzione dei cittadini 24 ore su 24. Scrive Rousseau: "non si può immaginare che il popolo resti continuamente adunato per attendere agli affari pubblici". Una democrazia perfetta richiede poi una piccola comunità: più è grande uno Stato maggiore sarà la difficoltà nel controllarlo.
Che fare dunque? La necessità sarà cercare di avvicinarsi maggiormente ad un certo tipo di democrazia che possa soddisfare il classico concetto del governo del pubblico sul pubblico, sempreché l’intenzione della società sia quella di vivere in democrazia.
Ora, individuato il fine resta da chiedersi: la democrazia attuale soddisfa tale necessità? Il potere politico, qualsiasi esso sia, destra o sinistra, ingannando il cittadino, risponderà di sì. E con quale tesi? Semplicemente sfogliando la Costituzione e rispondendo: "la sovranità appartiene al popolo, che la esercita attraverso l'elezione dei suoi rappresentanti: una testa uguale un voto". Sono grandi parole che non dicono nulla. Noi, in sostanza, non decidiamo le questioni, ma decidiamo chi decide le questioni. Ma non è tanto questo il guaio, pur essendo comunque una delega della sovranità, cioè un gap democratico: vivendo oggi in Nazioni che contano milioni di abitanti è infatti impossibile che un'intera società possa adunarsi per decidere le questioni, diventa quindi necessario scegliere un pugno di rappresentanti, chiamati a soddisfare le richieste dal basso, che si adunino in luoghi istituzionali e riconosciuti dal popolo, i parlamenti. Il vero guaio della democrazia contemporanea non è tanto chi decide, ma come si decide.
Diamo infatti per scontato, e assolutamente legittimo, che le decisioni sul nostro futuro provengano da luoghi al di fuori da quelli istituzionali. Oggigiorno il destino di uno Stato non è più deciso dalle sue forze politiche ma da tutt’altri poteri, i quali dettano legge nonostante non siano legittimati dal voto dei cittadini. Scrive Massimo Salvadori: “Uno dei primi atti che legittima o meno la formazione di un governo è la sua quotazione in borsa, vale a dire il gradimento o non gradimento da parte della finanza nazionale e internazionale”. Il potere oligarchico nella democrazia rappresentativa, in sintesi, è espressione delle multinazionali, i cosiddetti poteri forti, sottratte non solo al controllo dei cittadini, ma anche al controllo dei governi e dei parlamenti stessi. Viviamo, insomma, in una democrazia senza democrazia, o in una democrazia di subordinati, dove il nostro unico potere, quando in realtà in noi risiderebbe la sovranità assoluta e indivisibile, è il voto elettorale. L'unica facoltà che si lascia al cittadino è la scelta di chi lo comanda: in dittatura il tiranno s'impone con la forza, in democrazia, che se vogliamo è un tipo di dispotismo armonico e dolce, gli oligarchi sono scelti dal popolo. Qualcuno sosterrà che questa è una tesi fin troppo qualunquista, asserendo con forza che i partiti politici non sono tutti uguali, perché c'è chi pensa al bene comune e chi ai propri interessi. Bene, fermo restando che ogni partito tende a salvaguardare la volontà dei propri elettori, facendo del loro interesse quello generale, in realtà con questa tesi non si vuole sostenere che i partiti sono tutti uguali, altresì che è il sistema politico ad essere sbagliato.
Se è la democrazia che cerchiamo, allora è tempo di cambiarla, perché quella rappresentativa ha completamente esaurito il suo potere democratico. Paradossalmente c’era più democrazia nel primo sistema liberale, sorto con la “Gloriosa Rivoluzione”, di quanto ce ne sia oggi. Dico paradossalmente perché allora, nel ‘600, chi aveva il diritto di voto era soltanto il proprietario terriero, ovvero poco meno del 2% della popolazione, mentre il “Terzo Stato” non vantava alcun diritto politico. Ma quel 2%, a differenza di oggi, esercitava in maniera efficace la propria sovranità, anche perché allora non si parlava di “economie globali”, ma di “economie nazionali”, e dunque nessuna forza sovranazionale si permetteva di mettere il cappello sulle decisioni altrui, che erano affare del proprio governo.
Soluzioni? La democrazia dei nostri successori, per una legge dell'evoluzione che non si arresta mai, non sarà mai uguale a quella dei nostri predecessori: è necessario estendere la rappresentanza, cioè democraticizzare i grandi padroni dell'economia che oggi decidono, senza alcuna legittimità, le sorti del futuro mondiale (vedi la Bce). Ma ovviamente non basta, la necessità maggiore è insita nel nostro lontano passato: maggior partecipazione dei cittadini alla vita pubblica. Ne sanno qualcosa i vecchi ateniesi.
di Marcello Frigeri
25 marzo 2012
La politica ha perso il contatto con la realtà
La politica, quella con la P maiuscola, è una cosa con cui tutti dobbiamo fare i conti, se non vogliamo condannarci alla irrilevanza, alla passività, e lasciare il campo libero alle oligarchie finanziarie, industriali, religiose, che la loro politica la fanno tutti i giorni con mezzi enormi e fondamentalmente vogliono che i rapporti tra sfruttatori e struttati rimangano quelli che sono. La prima verità da gridare, manifesta oggi come mai prima, è che la maggior parte del popolo italiano, quella formata da lavoratori dipendenti, salariati e stipendiati, dai disoccupati, dai pensionati, non ha rappresentanza politica, come dimostra il fatto che il partito che li dovrebbe rappresentare, il PD, appoggia un governo che taglia le pensioni e smantella le tutele degli occupati. Non è POSSBILE che un partito che abusivamente si definisce di “sinistra” continui ad avere i voti di operai, disoccupati e pensionati, mentre l’unica strada da percorrere è quella in cui queste categorie sociali si organizzino in modo autonomo e facciano eleggere propri rappresentanti. Lo stesso dicasi per i sindacati che non rappresentano i lavoratori, ma gli interessi dei partiti politici e avallano i loro cedimenti e i loro inciuci, da abbandonare immediatamente per costituire il Sindacato Unico dei Lavoratori, autogestito dagli stessi, con regole nuove. Se è vero che solo l’8% degli italiani ha fiducia nei partiti, l’unica strada percorribile è quella di abbandonare la CASTA, vecchia, sorda, chiusa nei Palazzi, e giocare la carta della autorganizzazione e dell’autogestione da parte delle classi subalterne, su cui si è abbattuta la ferocia padronale di Confindustria e dei suoi impiegati bocconiani. L’obiettivo chiaro delle classi dominanti è avere oggi una classe lavoratrice intimidita, sottomessa, pronta ad accettare precarietà, licenziamenti, aumenti dei carichi di lavoro, meno stipendio, in nome di una globalizzazione che non dà scampo: o sei competitivo con i cinesi o sarai disoccupato. Forse sarebbe il caso di ricordare che proprio la “globalizzazione” è all’origine della grave crisi in cui siamo: è un suo frutto avvelenato la speculazione finanziaria sui subprime e derivati venuta dagli USA che ha bloccato l’economia europea, in Italia è stato permesso a decine di migliaia di imprenditori di chiudere fabbriche e delocalizzare dove la manodopera costa di meno, sempre in Italia si è accettato che i capitali fuggissero all’estero ben sapendo che la nostra economia ne avrebbe risentito, non si è più investito nella ricerca ben sapendo che ciò significa veder emigrare i migliori cervelli avviandoci sicuramente sulla strada del declino. E’ molto probabile che le panzane che il governo dei “professori” ci racconta su una manovra pensata per la “crescita” si rivelino tragicamente false e che la recessione, l’enorme debito pubblico, la fuga di imprese, capitali e cervelli, ci abbiano già condannato ad un declino inesorabile da cui non usciremo. Almeno se continueremo a restare dentro la globalizzazione e le sue regole. L’unica vera speranza, che riguarda anche il rinnovamento della politica e del sindacato, è quella di individuare una strada alternativa a quella attuale, che punti a creare nuova occupazione in settori innovativi e strategici, come quelli dell’autosufficienza energetica con le rinnovabili (fotovoltaico, eolico, idrogeno per autotrazione, risparmio energetico, biomasse, geotermico, ecc.) e dell’autosufficienza alimentare che significa spostare verso l’agricoltura milioni di addetti. Naturalmente questi settori produttivi dovrebbero essere protetti da importazioni dall’estero, rivedendo proprio le regole del liberismo che ci ha portato a questa crisi. Appare tragicomico che in questa situazione, in cui si sacrifica la vita quotidiana di lavoratori e pensionati, si mantengano impegni come quello di acquistare dagli USA 90 cacciabombardieri, si mantengano gli interventi militari nel mondo, si continui a non abolire le province, si mantenga il finanziamento pubblico ai partiti e all’editoria, si continui a pagare deputati, senatori, amministratori regionali con stipendi e vitalizi osceni, si continui ad avere rapporti economici con il Vaticano che riceve denaro pubblico in molte forme, si continui a supportare un’evasione fiscale indecente. E’ proprio un fatto che la vecchia politica ha perso il contatto con la realtà.
di Paolo De Gregorio
di Paolo De Gregorio
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27 marzo 2012
Che la Goldman sia con te
A cosa servono le idee? Ad affrontare la giornata? No, per questa possono bastare i riflessi condizionati di cui anche l’uomo, come gli animali – Pavlov insegna – risulta dotato. A prendere iniziative per essere felici? A effettuare tentativi – magari non individuali, bensì collettivi – per cambiare la realtà, i suoi rapporti di forza, la sua struttura sociale? Già su questo piano potremmo esserci. Anzi, ci siamo. Ma allora la domanda si sposta. Chi ha idee oggi in Italia? Chi mette in campo le idee che ha perché le cose cambino? La Chiesa cattolica? I partiti? I movimenti? Gli intellettuali? Immagino le risposte dei lettori di Nuova Vicenza. Sono risposte realistiche, corrette. Identificabili al punto che si possono omettere.
Viviamo in un paese dove i rapporti di forza, già delineati da tempo, sono, per intima loro natura e grazia, tali da essere stati concepiti per la loro conservazione sine die. Rapporti di forza economici, industriali, ideali, religiosi. Nulla fa pensare che ci sia una sola forza intellettuale, produttrice di idee, detentrice del diritto a cambiarli, a modificarne l’iter.
In Italia il futuro dei prossimi dieci anni è già segnato. Monti è lo spartiacque iniziale fra il passato e i prossimi dieci (forse venti) anni. Con l’avvento di Monti è terminata la fase del conflitto delle idee. L’ultimo a giustificare il conflitto è stato Berlusconi con il suo contrastato regno. Finito Berlusconi, finito il regno visibile (quello invisibile prosegue la corsa), finiti i conflitti, finite le idee. Come potevamo supporre nel corso di quel regno la sua forza era un limite per sé medesimo (sempre lo stesso vuoto, la solita TV, le stesse figure femminili virtuali, gli stessi conflitti con la giustizia) ma soprattutto per gli oppositori, sfiancati dalla sua resistenza e dalla loro concentrazione su un unico obiettivo. L’anti-berlusconismo era troppo impegnato sul proprio versante bellico per avere tempo e modo (e genio) per altri obiettivi. Finito Berlusconi, finito lo schieramento anti, siamo tutti in un deserto. E i Tartari non arrivano mai.
Questa lunga premessa mi è servita per delineare un primo simbolo dell’insussistenza di idee (che hegelianamente dovrebbero portare a novità su una situazione statica): il fenomeno Mario Monti. Il vero golem nazionale, oggi.
Mario Monti viene dal mondo economico della conservazione, il liberismo estremo dei bocconiani. Al di là degli incarichi pubblici che il “pensiero unico” liberista nato negli anni ’80 e tuttora in auge in occidente gli ha affidato (Commissario Europeo alla Concorrenza, eccetera) il nostro professore è stato (ed è?) un esponente di grido dell’americana Goldman Sachs, la famosa banca d’affari uscita da tutte le crisi (a partire dal ’29) con l’aureola, e sempre capace di riciclarsi. Con uno stile unico: tenere i propri uomini in sospeso, sempre in un pendant magico fra il mondo asettico del profitto finanziario e la politica. In un lessico più corretto questo si chiama conflitto di interessi (e di quelli letali, anche, altro che i berluschini) ma non importa.
Oggi la Goldman è a disagio per qualche buccia di banana su cui recentemente è scivolata. Ma certo, se fossi stato fascista ai tempi della peggiore propaganda non avrei esitato a portare la Goldman come esempio di demoplutocrazia. Oggi sarei un nostalgico. Ma ci sono fatti che non si possono nascondere. La Goldman produce influenza planetaria e profitti altissimi. Dal suo scranno centrale cova le istituzioni democratiche e mette i propri uomini a capo di esse.
Esempi. Henry Paulson esce da Goldman come presidente e diventa ministro del tesoro di George W. Bush. Robert Rubin, alto dirigente Goldman diventa ministro del tesoro con Clinton. William Dudley, alto dirigente Goldman, diventa presidente della Federal Reserve di New York. Mario Draghi, prima di diventare governatore della Banca d’Italia e ora presidente della BCE, è stato dirigente Goldman. Lo stesso Romano Prodi, catturato ai tempi dell’IRI da Goldman, è poi diventato presidente del consiglio italiano. E Gianni Letta, braccio destro del signor B., membro dell’Advisory Board di Goldman. E come Letta, Monti, anche lui dell’Advisory Board.
Ricordate i tempi in cui si parlava di pensiero unico? Ci si arrovellava il cervello. Più che dei capi di stato e di governo, lo pensavamo dominio di un grande vecchio. Ma sì, era la Goldman! Virtualmente, senz’altro, fisicamente, quasi certamente, pure. L’esaltazione del profitto finanziario, l’invenzione dei derivati, il profitto che viene dall’etere e via fantasticando, sono tutte creature Goldman. Che non si limita a fare profitti, vuole che la sua filosofia corrompa – per il bene di tutti, naturalmente – la politica. Con i suoi uomini: alti, forti, prestigiosi, a volte un po’ rarefatti.
Monti non potrà mai disdegnare questa sua radice. Per questo non c’è bisogno di idee. Basta mantenere il corso già tracciato dal pensiero unico (che, per definizione è immobile, cioè senza idee). Basta ascoltare Goldman.
di Pino Dato
Viviamo in un paese dove i rapporti di forza, già delineati da tempo, sono, per intima loro natura e grazia, tali da essere stati concepiti per la loro conservazione sine die. Rapporti di forza economici, industriali, ideali, religiosi. Nulla fa pensare che ci sia una sola forza intellettuale, produttrice di idee, detentrice del diritto a cambiarli, a modificarne l’iter.
In Italia il futuro dei prossimi dieci anni è già segnato. Monti è lo spartiacque iniziale fra il passato e i prossimi dieci (forse venti) anni. Con l’avvento di Monti è terminata la fase del conflitto delle idee. L’ultimo a giustificare il conflitto è stato Berlusconi con il suo contrastato regno. Finito Berlusconi, finito il regno visibile (quello invisibile prosegue la corsa), finiti i conflitti, finite le idee. Come potevamo supporre nel corso di quel regno la sua forza era un limite per sé medesimo (sempre lo stesso vuoto, la solita TV, le stesse figure femminili virtuali, gli stessi conflitti con la giustizia) ma soprattutto per gli oppositori, sfiancati dalla sua resistenza e dalla loro concentrazione su un unico obiettivo. L’anti-berlusconismo era troppo impegnato sul proprio versante bellico per avere tempo e modo (e genio) per altri obiettivi. Finito Berlusconi, finito lo schieramento anti, siamo tutti in un deserto. E i Tartari non arrivano mai.
Questa lunga premessa mi è servita per delineare un primo simbolo dell’insussistenza di idee (che hegelianamente dovrebbero portare a novità su una situazione statica): il fenomeno Mario Monti. Il vero golem nazionale, oggi.
Mario Monti viene dal mondo economico della conservazione, il liberismo estremo dei bocconiani. Al di là degli incarichi pubblici che il “pensiero unico” liberista nato negli anni ’80 e tuttora in auge in occidente gli ha affidato (Commissario Europeo alla Concorrenza, eccetera) il nostro professore è stato (ed è?) un esponente di grido dell’americana Goldman Sachs, la famosa banca d’affari uscita da tutte le crisi (a partire dal ’29) con l’aureola, e sempre capace di riciclarsi. Con uno stile unico: tenere i propri uomini in sospeso, sempre in un pendant magico fra il mondo asettico del profitto finanziario e la politica. In un lessico più corretto questo si chiama conflitto di interessi (e di quelli letali, anche, altro che i berluschini) ma non importa.
Oggi la Goldman è a disagio per qualche buccia di banana su cui recentemente è scivolata. Ma certo, se fossi stato fascista ai tempi della peggiore propaganda non avrei esitato a portare la Goldman come esempio di demoplutocrazia. Oggi sarei un nostalgico. Ma ci sono fatti che non si possono nascondere. La Goldman produce influenza planetaria e profitti altissimi. Dal suo scranno centrale cova le istituzioni democratiche e mette i propri uomini a capo di esse.
Esempi. Henry Paulson esce da Goldman come presidente e diventa ministro del tesoro di George W. Bush. Robert Rubin, alto dirigente Goldman diventa ministro del tesoro con Clinton. William Dudley, alto dirigente Goldman, diventa presidente della Federal Reserve di New York. Mario Draghi, prima di diventare governatore della Banca d’Italia e ora presidente della BCE, è stato dirigente Goldman. Lo stesso Romano Prodi, catturato ai tempi dell’IRI da Goldman, è poi diventato presidente del consiglio italiano. E Gianni Letta, braccio destro del signor B., membro dell’Advisory Board di Goldman. E come Letta, Monti, anche lui dell’Advisory Board.
Ricordate i tempi in cui si parlava di pensiero unico? Ci si arrovellava il cervello. Più che dei capi di stato e di governo, lo pensavamo dominio di un grande vecchio. Ma sì, era la Goldman! Virtualmente, senz’altro, fisicamente, quasi certamente, pure. L’esaltazione del profitto finanziario, l’invenzione dei derivati, il profitto che viene dall’etere e via fantasticando, sono tutte creature Goldman. Che non si limita a fare profitti, vuole che la sua filosofia corrompa – per il bene di tutti, naturalmente – la politica. Con i suoi uomini: alti, forti, prestigiosi, a volte un po’ rarefatti.
Monti non potrà mai disdegnare questa sua radice. Per questo non c’è bisogno di idee. Basta mantenere il corso già tracciato dal pensiero unico (che, per definizione è immobile, cioè senza idee). Basta ascoltare Goldman.
di Pino Dato
26 marzo 2012
Riflessioni contro la democrazia
Prima di intraprendere il discorso è necessario chiarire il titolo. Perché scrivere delle riflessioni contro la democrazia? Per due principali motivi: se la consideriamo come un dogma, ovvero un valore assoluto dal quale non si può trascendere, e dunque un regime di governo perfetto da difendere al costo di tacitare e, se necessario, eliminare chi non la pensa come noi -cioè l'antidemocratico-, allora l'uomo non saprà mai cogliere le imperfezioni di tale regime, condannandolo al ristagnamento. È certo infatti che l'antidemocratico perseguitato ed escluso non diventerà mai un liberaldemocratico. Può dunque valer la pena di mettere a repentaglio la democrazia facendo beneficiare di essa anche il suo nemico, se l'unica possibile alternativa è di restringerla sino a rischiare di soffocarla. Meglio una democrazia sempre sotto esame ma espansiva, che una democrazia protetta ma incapace di svilupparsi.
Il secondo motivo è che la democrazia attuale, in estrema sintesi, non è mai stata tale. Per meglio chiarire bisognerebbe guardare la faccenda da una visuale più ampia: come scriveva Rousseau nel "Contratto sociale" possiamo sostenere che l'uomo, per quanto ci provi, non raggiungerà mai una democrazia pura: essendo infatti il governo del pubblico sul pubblico richiederebbe l'attenzione dei cittadini 24 ore su 24. Scrive Rousseau: "non si può immaginare che il popolo resti continuamente adunato per attendere agli affari pubblici". Una democrazia perfetta richiede poi una piccola comunità: più è grande uno Stato maggiore sarà la difficoltà nel controllarlo.
Che fare dunque? La necessità sarà cercare di avvicinarsi maggiormente ad un certo tipo di democrazia che possa soddisfare il classico concetto del governo del pubblico sul pubblico, sempreché l’intenzione della società sia quella di vivere in democrazia.
Ora, individuato il fine resta da chiedersi: la democrazia attuale soddisfa tale necessità? Il potere politico, qualsiasi esso sia, destra o sinistra, ingannando il cittadino, risponderà di sì. E con quale tesi? Semplicemente sfogliando la Costituzione e rispondendo: "la sovranità appartiene al popolo, che la esercita attraverso l'elezione dei suoi rappresentanti: una testa uguale un voto". Sono grandi parole che non dicono nulla. Noi, in sostanza, non decidiamo le questioni, ma decidiamo chi decide le questioni. Ma non è tanto questo il guaio, pur essendo comunque una delega della sovranità, cioè un gap democratico: vivendo oggi in Nazioni che contano milioni di abitanti è infatti impossibile che un'intera società possa adunarsi per decidere le questioni, diventa quindi necessario scegliere un pugno di rappresentanti, chiamati a soddisfare le richieste dal basso, che si adunino in luoghi istituzionali e riconosciuti dal popolo, i parlamenti. Il vero guaio della democrazia contemporanea non è tanto chi decide, ma come si decide.
Diamo infatti per scontato, e assolutamente legittimo, che le decisioni sul nostro futuro provengano da luoghi al di fuori da quelli istituzionali. Oggigiorno il destino di uno Stato non è più deciso dalle sue forze politiche ma da tutt’altri poteri, i quali dettano legge nonostante non siano legittimati dal voto dei cittadini. Scrive Massimo Salvadori: “Uno dei primi atti che legittima o meno la formazione di un governo è la sua quotazione in borsa, vale a dire il gradimento o non gradimento da parte della finanza nazionale e internazionale”. Il potere oligarchico nella democrazia rappresentativa, in sintesi, è espressione delle multinazionali, i cosiddetti poteri forti, sottratte non solo al controllo dei cittadini, ma anche al controllo dei governi e dei parlamenti stessi. Viviamo, insomma, in una democrazia senza democrazia, o in una democrazia di subordinati, dove il nostro unico potere, quando in realtà in noi risiderebbe la sovranità assoluta e indivisibile, è il voto elettorale. L'unica facoltà che si lascia al cittadino è la scelta di chi lo comanda: in dittatura il tiranno s'impone con la forza, in democrazia, che se vogliamo è un tipo di dispotismo armonico e dolce, gli oligarchi sono scelti dal popolo. Qualcuno sosterrà che questa è una tesi fin troppo qualunquista, asserendo con forza che i partiti politici non sono tutti uguali, perché c'è chi pensa al bene comune e chi ai propri interessi. Bene, fermo restando che ogni partito tende a salvaguardare la volontà dei propri elettori, facendo del loro interesse quello generale, in realtà con questa tesi non si vuole sostenere che i partiti sono tutti uguali, altresì che è il sistema politico ad essere sbagliato.
Se è la democrazia che cerchiamo, allora è tempo di cambiarla, perché quella rappresentativa ha completamente esaurito il suo potere democratico. Paradossalmente c’era più democrazia nel primo sistema liberale, sorto con la “Gloriosa Rivoluzione”, di quanto ce ne sia oggi. Dico paradossalmente perché allora, nel ‘600, chi aveva il diritto di voto era soltanto il proprietario terriero, ovvero poco meno del 2% della popolazione, mentre il “Terzo Stato” non vantava alcun diritto politico. Ma quel 2%, a differenza di oggi, esercitava in maniera efficace la propria sovranità, anche perché allora non si parlava di “economie globali”, ma di “economie nazionali”, e dunque nessuna forza sovranazionale si permetteva di mettere il cappello sulle decisioni altrui, che erano affare del proprio governo.
Soluzioni? La democrazia dei nostri successori, per una legge dell'evoluzione che non si arresta mai, non sarà mai uguale a quella dei nostri predecessori: è necessario estendere la rappresentanza, cioè democraticizzare i grandi padroni dell'economia che oggi decidono, senza alcuna legittimità, le sorti del futuro mondiale (vedi la Bce). Ma ovviamente non basta, la necessità maggiore è insita nel nostro lontano passato: maggior partecipazione dei cittadini alla vita pubblica. Ne sanno qualcosa i vecchi ateniesi.
di Marcello Frigeri
25 marzo 2012
La politica ha perso il contatto con la realtà
La politica, quella con la P maiuscola, è una cosa con cui tutti dobbiamo fare i conti, se non vogliamo condannarci alla irrilevanza, alla passività, e lasciare il campo libero alle oligarchie finanziarie, industriali, religiose, che la loro politica la fanno tutti i giorni con mezzi enormi e fondamentalmente vogliono che i rapporti tra sfruttatori e struttati rimangano quelli che sono. La prima verità da gridare, manifesta oggi come mai prima, è che la maggior parte del popolo italiano, quella formata da lavoratori dipendenti, salariati e stipendiati, dai disoccupati, dai pensionati, non ha rappresentanza politica, come dimostra il fatto che il partito che li dovrebbe rappresentare, il PD, appoggia un governo che taglia le pensioni e smantella le tutele degli occupati. Non è POSSBILE che un partito che abusivamente si definisce di “sinistra” continui ad avere i voti di operai, disoccupati e pensionati, mentre l’unica strada da percorrere è quella in cui queste categorie sociali si organizzino in modo autonomo e facciano eleggere propri rappresentanti. Lo stesso dicasi per i sindacati che non rappresentano i lavoratori, ma gli interessi dei partiti politici e avallano i loro cedimenti e i loro inciuci, da abbandonare immediatamente per costituire il Sindacato Unico dei Lavoratori, autogestito dagli stessi, con regole nuove. Se è vero che solo l’8% degli italiani ha fiducia nei partiti, l’unica strada percorribile è quella di abbandonare la CASTA, vecchia, sorda, chiusa nei Palazzi, e giocare la carta della autorganizzazione e dell’autogestione da parte delle classi subalterne, su cui si è abbattuta la ferocia padronale di Confindustria e dei suoi impiegati bocconiani. L’obiettivo chiaro delle classi dominanti è avere oggi una classe lavoratrice intimidita, sottomessa, pronta ad accettare precarietà, licenziamenti, aumenti dei carichi di lavoro, meno stipendio, in nome di una globalizzazione che non dà scampo: o sei competitivo con i cinesi o sarai disoccupato. Forse sarebbe il caso di ricordare che proprio la “globalizzazione” è all’origine della grave crisi in cui siamo: è un suo frutto avvelenato la speculazione finanziaria sui subprime e derivati venuta dagli USA che ha bloccato l’economia europea, in Italia è stato permesso a decine di migliaia di imprenditori di chiudere fabbriche e delocalizzare dove la manodopera costa di meno, sempre in Italia si è accettato che i capitali fuggissero all’estero ben sapendo che la nostra economia ne avrebbe risentito, non si è più investito nella ricerca ben sapendo che ciò significa veder emigrare i migliori cervelli avviandoci sicuramente sulla strada del declino. E’ molto probabile che le panzane che il governo dei “professori” ci racconta su una manovra pensata per la “crescita” si rivelino tragicamente false e che la recessione, l’enorme debito pubblico, la fuga di imprese, capitali e cervelli, ci abbiano già condannato ad un declino inesorabile da cui non usciremo. Almeno se continueremo a restare dentro la globalizzazione e le sue regole. L’unica vera speranza, che riguarda anche il rinnovamento della politica e del sindacato, è quella di individuare una strada alternativa a quella attuale, che punti a creare nuova occupazione in settori innovativi e strategici, come quelli dell’autosufficienza energetica con le rinnovabili (fotovoltaico, eolico, idrogeno per autotrazione, risparmio energetico, biomasse, geotermico, ecc.) e dell’autosufficienza alimentare che significa spostare verso l’agricoltura milioni di addetti. Naturalmente questi settori produttivi dovrebbero essere protetti da importazioni dall’estero, rivedendo proprio le regole del liberismo che ci ha portato a questa crisi. Appare tragicomico che in questa situazione, in cui si sacrifica la vita quotidiana di lavoratori e pensionati, si mantengano impegni come quello di acquistare dagli USA 90 cacciabombardieri, si mantengano gli interventi militari nel mondo, si continui a non abolire le province, si mantenga il finanziamento pubblico ai partiti e all’editoria, si continui a pagare deputati, senatori, amministratori regionali con stipendi e vitalizi osceni, si continui ad avere rapporti economici con il Vaticano che riceve denaro pubblico in molte forme, si continui a supportare un’evasione fiscale indecente. E’ proprio un fatto che la vecchia politica ha perso il contatto con la realtà.
di Paolo De Gregorio
di Paolo De Gregorio
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