01 febbraio 2013

Quello che sta per succedere e perché





Dopo un 2012 turbolento, il nuovo anno è iniziato in un clima economico di relativa tranquillità. Gli spread sono bassi e la crisi sembra concedere una tregua. Ma cosa ci aspetta nel prossimo futuro? Le difficoltà sono davvero superate o sono destinate a riproporsi? Poiché esistono due opposte chiavi di lettura della crisi, per rispondere a queste domande è necessario capire quale sia la più convincente. Vediamole:

Chiave di lettura 1: Crisi dei debiti sovrani.

Secondo questa chiave di lettura, alcuni Paesi europei hanno vissuto al di sopra delle loro possibilità. Hanno aumentato il loro debito pubblico senza migliorare la competitività, rischiando il default. L’aumento degli spread indica che i mercati sono restii ad investire in titoli di Paesi spendaccioni e già molto indebitati.
La soluzione della crisi consisterebbe dunque nel rafforzare la disciplina di bilancio, imponendo un tetto al rapporto debito/PIL e implementando drastiche misure di austerity che diminuiscano la spesa. Per scoraggiare la speculazione, a livello europeo andrebbero inoltre introdotte forme di mutualizzazione dei debiti sovrani (acquisto di titoli da parte della BCE, emissione di Eurobonds) in modo che tutti i Paesi si impegnino a garantire, collegialmente, il pagamento degli interessi e il rimborso dei titoli in scadenza emessi dai singoli Stati. Tuttavia, per evitare azzardi morali, i governi nazionali dovrebbero accettare di essere vincolati a realizzare le politiche indicate dagli organismi europei, indipendentemente dalla volontà dei loro cittadini.

Chiave di lettura 2: Crisi dell’euro.

Secondo questa chiave di lettura, invece, alcuni Paesi europei avrebbero sfruttato l’appartenenza alla moneta unica per aumentare la loro competitività, a discapito di altri. Contenendo salari e domanda interna, avrebbero mantenuto la propria inflazione sistematicamente a livelli inferiori rispetto ai partners. I quali, condividendo la stessa moneta, non avrebbero potuto operare una svalutazione difensiva per determinare un riequilibrio. I primi avrebbero accumulato surplus commerciali, mentre i secondi avrebbero visto peggiorare i conti con l’estero, fino ad entrare in crisi.
L’aumento degli spread indicherebbe che i mercati sanno che in futuro il valore dei titoli dei Paesi in crisi potrebbe diminuire: essi potrebbero uscire dall’euro, svalutare, rinegoziare il debito o rinominarlo nella nuova valuta.
Per uscire dalla crisi servirebbe dunque introdurre un meccanismo automatico di riequilibrio fra i Paesi in surplus strutturale e quelli in deficit. Inoltre, data la recessione in atto, le politiche di austerity andrebbero smantellate e sostituite con interventi di segno opposto, a sostegno della domanda e dell’occupazione. Nei Paesi in surplus andrebbero poi alzati significativamente i salari.
Tuttavia, apparendo questa strada impercorribile, poiché presupporrebbe che tutti i principali Paesi europei invertano le politiche economiche adottate fino ad oggi, e che quelli più forti accettino trasferimenti automatici verso quelli meno competitivi, l’unica via di salvezza resterebbe l’uscita dall’euro e il recupero della sovranità nazionale in materia di politiche economiche e monetarie.

Quale è quella corretta?

Chiaramente, queste tesi sono fra loro inconciliabili. Se si accetta l’idea che ad andare in sofferenza siano stati quei Paesi che presentavano un alto rapporto debito/PIL, allora la prima spiegazione appare come quella corretta. Invece, se si crede che la crisi abbia colpito chi ha avuto un tasso di inflazione più alto, converrà orientarsi sulla seconda.
Ecco una breve tabella riassuntiva:
  debito pub / PIL (%)
Squilibri esterni e differenziali di costo nell’eurozona
Paese 1999 2007 2011 Saldo conto corrente / PIL
(* 100) 1999-2012
Costo unitario del lavoro
var % 1999-2010
Indice prezzi al consumo
1999-2012
Germania
61
65
83
 52.0  1.4 21.8
Portogallo
50
68
106
-132.2 11.1 35.1
Italia
114
104
121
 -24.4 28.5 30.9
Grecia
103
105
166
-123.2 54.9 43.1
Spagna
62
36
67
 -75.5 24.8 38.4
[Dati estratti da Europa: una crisi di debito o di bilancia dei pagamenti? - A.F. Presbitero, Università Politecnica delle Marche, pubblicato su linkiesta.it ]
Le prime colonne mostrano che la prima chiave di lettura è infondata: due dei Paesi più colpiti dalla crisi, il Portogallo e la Spagna, fino al 2007 presentavano un rapporto debito/PIL simile o addirittura migliore rispetto a quello della “virtuosa” Germania. La parte destra della tabella conferma quel che abbiamo già avuto modo di affermare: il problema non è il debito pubblico. La Germania ha beneficiato di una minore inflazione (ultima colonna) grazie al contenimento del costo del lavoro (penultima colonna) ed oggi vanta il “record” del maggior numero percentuale di lavoratori a basso reddito di tutta l’Europa occidentale (il 22.2%, secondo Eurostat). In questo modo ha aumentato la propria competitività, a discapito dei partners europei (terzultima colonna) mandandoli in crisi.
Dunque, i dati indicano che la tesi corretta è la seconda, la quale infatti è sostenuta da numerosi esperti nazionali ed internazionali. Tuttavia la quasi totalità dei media sposa la prima chiave di lettura, l’unica ad essere ufficialmente accettata da tutte le élite di governo europee, di destra come di sinistra. Questo non deve stupire: sia ai governanti dei Paesi forti che a quelli degli Stati in crisi conviene far credere che il problema principale siano la spesa dello Stato e il debito pubblico. In questo modo, infatti, i primi possono proseguire il contenimento della domanda interna, arricchendosi grazie alle esportazioni e garantendosi surplus utili ad acquisire aziende pregiate dei Paesi in crisi (come testimonia, per esempio, la recente acquisizione di Ducati da parte di Audi-Volkswagen). I secondi (gli stati in crisi) ottengono di poter sbandierare un “vincolo esterno” grazie al quale imporre ai cittadini quello che altrimenti sarebbe stato impossibile realizzare: tagli ai servizi pubblici e alle pensioni, restringimento delle tutele dei lavoratori, privatizzazioni, continue manovre finanziarie “lacrime e sangue”.
Così, mentre smantellano lo stato sociale, i governi di Italia, Francia e Germania danno vita ad un insulso gioco delle parti: quando Monti e Hollande spingono per introdurre forme di condivisione dei debiti sovrani, la Merkel risponde pretendendo cessioni di sovranità verso le istituzioni UE. Due facce della stessa medaglia, entrambe riconducibili alla chiave di lettura 1. Quella sbagliata.
In seno al Consiglio Europeo è stata già siglato l’accordo che consentirà a ciascun leader di cantare vittoria nella propria patria: da Giugno 2013 la Commissione UE potrà far sottoscrivere ad ogni Stato un vero e proprio contratto, ove indicherà le “riforme” da attuare e le modalità con cui realizzarle; eventuali “meccanismi di solidarietà” saranno riservati ai Paesi che avranno sottoscritto tali intese.
Ecco quindi il leitmotiv che ascolteremo nel 2013: “solidarietà” in cambio di cessioni di sovranità. Lo conferma il presidente del consiglio europeo, Van Rompuy, che però omette di precisare che la solidarietà sarà fasulla: le eventuali forme di mutualizzazione dei debiti saranno parziali e temporanee, come ha già chiarito Angela Merkel, intervenendo al Bundestag. E in ogni caso esse non potranno mai risolvere gli squilibri strutturali fra le economie.
Pertanto c’è da aspettarsi che la crisi riesploda. Anche perché dal primo gennaio 2013 è entrato in vigore il fiscal compact, che statuisce, tra le altre cose, che il rapporto debito/PIL deve assestarsi al 60%. L’Italia, per tentare di raggiungere l’obiettivo, dovrà varare manovre su manovre, ogni anno, per decine e decine di miliardi. In assenza di una crescita sostenuta, le conseguenze saranno inimmaginabili, come testimoniano le analisi della Corte dei Conti e l’ISPI. L’Italia e gli altri PIGS resteranno intrappolati in una spirale recessiva, senza via di uscita. Ma gli alfieri della chiave di lettura sbagliata non si fermeranno. Anzi, rincareranno la dose. Quelli italiani hanno già nel mirino la privatizzazione della sanità, che non a caso si sta già realizzando in Spagna.
Uno dopo l’altro i Paesi dell’eurozona dovranno richiedere gli “aiuti” del MES e, in cambio, dovranno cedere ogni residua forma di sovranità nazionale. Così, le decisioni verranno prese direttamente a Bruxelles e Francoforte, senza che né i cittadini né i Parlamenti nazionali possano opporvi resistenza. Ma ciò che è più drammatico è che alla gran parte dell’opinione pubblica, tutto ciò apparirà come necessario, in quanto coerente con la teoria della crisi dei debiti sovrani, propagandata dalla stragrande maggioranza dei media.
Per questo, il primo fronte sul quale schierare le forze che vogliono impedire lo sfacelo è quello dell’informazione. Un’informazione corretta sulle reali cause della crisi.

di Fabrizio Tringali -

31 gennaio 2013

L'Italia nel tunnel





Secondo i dati di Bankitalia, (1) diffusi a dicembre scorso, alla fine del 2010 la ricchezza netta delle famiglie italiane era pari a 8 volte il reddito disponibile (contro l’8,2 del Regno Unito, l’8,1 della Francia, il 7,8 del Giappone e il 5,3 degli USA). Il debito delle famiglie italiane era pari al 70% del reddito disponibile (contro circa il 100% di Francia e Germania, il 125% di USA e Giappone e il 165% del Regno Unito). Il 10% delle famiglie più ricche deteneva il 45,9% della ricchezza, la metà più povera soltanto il 9,4%.
Alla fine del 2011 la ricchezza netta delle famiglie italiane ammontava a 8619 miliardi di euro (la ricchezza in abitazioni ammontava a oltre 5000 miliardi e quella in attività finanziarie a oltre 3500 miliardi). Una ricchezza leggermente inferiore a quella del 2010 (8683 miliardi) a prezzi costanti, ma se calcolata a prezzi 2011 nettamente inferiore a quella registrata negli anni successivi al 2007, ad ulteriore conferma dell’impatto negativo sulla nostra economia della crisi finanziaria del 2008. Una ricchezza comunque sempre pari a quattro volte l’ammontare complessivo del debito pubblico.
Vi sono pochi dubbi perciò che, se in Italia vi fosse una classe dirigente degna di tale nome, la campagna elettorale verterebbe alla luce di queste cifre  soprattutto sulle conseguenze che derivano dall’obbligo di pareggio di bilancio e dal patto fiscale europeo (il cosiddetto “fiscal compact“), che ci costringe a ridurre il debito pubblico del 50% nell’arco dei prossimi vent’anni. Si tratta di misure d’austerità imposte al nostro Paese dal governo del “commissario tecnico” Mario Monti, e fondate sulla previsione (gravemente errata) che la diminuzione di un punto del deficit pubblico avrebbe causato la riduzione di mezzo punto di crescita, mentre in realtà ne ha prodotto il triplo (ossia un punto e mezzo di crescita in meno).
Misure che alimentano una recessione che sta dilagando in tutta Europa. E che, oltre a far impennare il tasso di povertà e quello di disoccupazione (specialmente del tasso di disoccupazione giovanile), stanno compromettendo addirittura la base produttiva del nostro Paese – un Paese notoriamente privo di materie prime e dagli anni Novanta anche di quel “pungiglione strategico” che una “mano pubblica”, esperta e decisa, oggi avrebbe potuto (e dovuto) sfruttare per trarre il massimo profitto dal mutamento geopolitico che sta rivoluzionando gli equilibri del sistema internazionale. Invece, essendovi in Italia tutto fuorché una classe dirigente, non solo non vi è alcun serio dibattito su tali problemi, ma si trova perfino del tutto normale che anche quel poco che resta del settore strategico pubblico venga ceduto allo “straniero”. E ci si limita a ripetere il mantra liberista lamentandosi del fatto che in questi anni non vi sia stata alcuna vera “rivoluzione liberale”, come se il terremoto finanziario del 2008 fosse il risultato delle scelte sbagliate del nostro Paese. Ma soprattutto “ci si balocca” con alcuni dati macroeconomici, senza nemmeno tener conto del fatto che la causa principale dell’andamento dello spread sui tassi d’interesse dipende, come in definitiva la stesso Fmi e Bankitalia riconoscono – non tanto dal debito pubblico quanto dalla mancanza di un autentico “soggetto politico europeo” e di conseguenza dal possibile collasso dell’eurozona, che proprio le politiche di austerity rendono più probabile.
Del resto, indipendentemente dalla internazionalizzazione (voluta da Amato e dagli altri tecnocrati “europeisti”) del nostro debito pubblico, dopo aver deciso, all’inizio degli anni Ottanta, il divorzio tra ministero del Tesoro e Bankitalia (divorzio che causò una crescita vertiginosa del debito pubblico), si sa che il Giappone, che ha un tasso di disoccupazione del 4,5% (contro l’11% dell’Europa) e che è la terza economia del pianeta, intende ampliare la propria spesa pubblica con un primo intervento di 85 miliardi, pur avendo un debito pubblico che è del 236% del Pil e un rapporto deficit/Pil al 10%. (2) Indubbiamente, ciò dipende pure dal fatto che il debito pubblico del Giappone è pressoché completamente detenuto dai giapponesi, ma la sostanza è che non vi può essere alcuna crescita né alcuna vera ripresa dell’economia reale senza rinunciare a misure d’austerity, il cui fallimento è sotto gli occhi di tutti.
D’altra parte, si può ragionevolmente ritenere che l’oligarchia che detiene le leve del potere in Europa consideri più importante liquidare una volta per tutte il “vecchio” Welfare e imporre un modello liberista di tipo americano, in particolare nei Paesi europei più deboli, garantendo da un lato i “mercati finanziari” e dall’altro gli interessi geopolitici degli Stati Uniti. Questi ultimi infatti, hanno tutto l’interesse a impedire una qualsiasi politica europea distinta da quella atlantista e al tempo stesso devono saldare la Germania all’Atlantico, per bloccare “preventivamente” ogni tentativo di dar vita a una nuova Ostpolitik, soprattutto ora che la sfida con la Cina (e con la Russia) è decisiva per il futuro degli Usa. Non a caso, gli statunitensi o i loro “agenti” si adoperano perché si lasci alla Francia sufficientemente spazio per poter fare una politica di tipo neocoloniale in Africa e agiscono in modo tale da approfondire sempre più il solco tra il Baltico e il Mediterraneo.
Insomma, si applica la solita strategia del divide et impera, con la differenza però che se nelle aree più calde del pianeta questa strategia non si distingue da una geopolitica del caos, che può giocare non pochi brutti scherzi agli apprendisti stregoni occidentali (dalla Libia al Mali, dall’Egitto alla Siria), in Europa si può facilmente far leva su gruppi subdominanti che, avendo ormai rinnegato ogni ideale, sono disposti a tutto pur di non perdere i favori degli amici “d’oltreoceano”. In questo senso, il nostro Paese sta giocando un ruolo di primo piano, sia sotto il profilo della ridefinizione in chiave mercantile dei rapporti sociali, sia sotto quello geopolitico, configurandosi come una base sicura per la NATO e la politica di potenza statunitense. Tanto che Difesa ed Esteri sono di fatto gestiti direttamente dagli statunitensi, essendo palese che si tratta di ministeri controllati rispettivamente dal Pentagono e dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, e che non rappresentano né tutelano in alcun modo i reali interessi del nostro Paese. Ragion per cui anche coloro (come Luciano Gallino e Stefano Sylos Labini) che difendono le ragioni di un intervento pubblico per far uscire l’Itala da una spirale recessiva che minaccia di far compiere alla maggioranza degli italiani un drammatico “balzo all’indietro”, dovrebbero rendersi conto che non vi sono solo ostacoli di tipo economico da superare. Anzi gli ostacoli maggiori sono di ben altra natura. E se si può concedere che la Fornero non ne sia consapevole, Mario Monti e certamente Mario Draghi sanno sicuramente quel che bolle in pentola. E agiscono di conseguenza.
In ogni caso, l’azione politico-strategica dei “mercati” è favorita dallo pseudoeuropeismo dei tecnocrati atlantisti (il cosiddetto “euroatlantismo”) e da una lotta tra forze politiche il cui vero obiettivo è diventare i portavoce degli strateghi d’oltreoceano, infischiandosene della sorte della maggioranza degli italiani. I quali, tuttavia, non hanno fatto molto in questi ultimi lustri per cercare di far prevalere l’interesse generale, badando perlopiù al proprio “particulare” e prestando ascolto ai soliti gazzettieri e intellettuali mercenari che infestano il nostro Paese da decenni. Non c’è dubbio quindi che gli italiani sapranno premiare i peggiori pure questa volta. Anche perché non pare che vi siano vere alternative, se non vi è nessuna forza politica che difenda princìpi e valori di tipo socialista e nazionalpopolare e che allo stesso tempo intenda battersi per i diritti dei popoli europei contro la prepotenza dei “mercati” e della oligarchia euroatlantista. Quel che però è certo è che quei (pochi) italiani che non hanno dimenticato che anche il comandante in capo delle forze armate statunitensi nel Vietnam del Sud, generale William Westmoreland, disse che vedeva la luce in fondo al tunnel poco prima della famosa offensiva del Tet, che sancì la sconfitta degli Stati Uniti nella guerra del Vietnam, non possono non essere d’accordo con chi sostiene che l’ottimismo è l’oppio degli insipienti e che, se veramente si vuole il bene dell’Italia, sarebbe invece opportuno non nascondere il timore che il peggio debba ancora venire.
Con ciò non si vuole affermare che non vi sia via d’uscita. Si tratta piuttosto di prendere atto che solo uno “squilibrio” derivante da una (invero non impossibile) nuova crisi internazionale potrebbe liberare una “quantità d’energia” tale da indurre la Germania (e la Francia) a decidersi per un cambiamento di paradigma (geo)politico. Si concederà però che, rebus sic stantibus, non vi è nulla che faccia ritenere che vi sia in Europa la volontà di dar inizio ad un tale nuovo corso politico, che avrebbe effetti positivi anche in un Paese come il nostro in cui funzione politica e innovazione strategica sembrano quasi del tutto scomparse.

di Fabio Falchi 

(1)Bancaditalia.it
(2) IlSole24ore.com

30 gennaio 2013

L'ineffabile ombra della finanza mondiale




   
   

Il missionario e giornalista P. Giulio Albanese ha inserito in un articolo del numero di Gennaio della sua rivista “Popoli e missione”, un’informazione tanto fondamentale quanto ignorata dalla stampa e che riportiamo qui sperando di aiutare in questo modo a divulgarla. Vorremmo anche che i nostri governanti, astutissimi banchieri che non trovano mai sufficiente la cosiddetta “trasparenza e tracciabilità” dei nostri miseri redditi, inseguendo con la forza di quella che ormai possiamo considerare la loro particolare Polizia, i militari della Finanza, ogni nostro scontrino, ogni più piccola ricevuta, ci spiegassero quali sono i “loro” interessi a mantenere nell’ombra queste operazioni. Dei nostri politici è inutile tenere conto: una volta ridotto il Parlamento alla farsa del dire “sì” ai banchieri, sono diventati come le famose scimmiette che non vedono, non sentono, non parlano, impegnati esclusivamente nella salvaguardia della propria carriera.

“Si tratta di un importante studio sul "sistema bancario ombra", lo shadow banking mondiale, pubblicato dal Financial Stability Board (Fsb), l'istituto internazionale di coordinamento dei governi, delle banche centrali e degli organi di controllo per la stabilità finanziaria a livello globale. Leggendo attentamente questo testo, si scopre che qualcosa di aberrante è all'origine della crisi finanziaria planetaria. Lo studio, incentrato sulla cosiddetta eurozona e su altri 25 Paesi, evidenzia infatti che a fine 2011 ben 67mila miliardi di dollari erano gestiti da una "finanza parallela", al di fuori, quindi, dei controlli e delle regole bancarie vigenti; una cifra che equivale al 111% del Pil mondiale ed è pari alla metà delle attività bancarie globali e a circa un quarto dell'intero sistema finanziario.

Leggendo questo studio si ha l'impressione d'essere al cospetto di un movimento sovversivo che specula impunemente ai danni degli Stati sovrani e soprattutto dei ceti meno abbienti. In altre parole, se da una parte ci sono i conti correnti con i risparmi dei cittadini e delle imprese, dall'altra abbiamo questo sistema bancario occulto, composto da tutte le transazioni finanziarie fatte fuori dalle regolari operazioni bancarie.

Come spiegato in più circostanze su questa rivista dal 2008, in coincidenza col fallimento della Lehman Brothers e dall'inizio della crisi sistemica dei mercati, si tratta di operazioni fatte da differenti intermediari finanziari, come certi operatori specializzati nel collocamento dei “derivati”, quei prodotti finanziari che, in larga misura, hanno inquinato i mercati. Tutte attività, queste, rigorosamente over the counter (otc), cioè stipulate fuori dai mercati borsistici e spesso tenute anche fuori dai bilanci. Alcuni autorevoli economisti ritengono che il "sistema ombra" sia spesso un'emanazione delle grandi banche internazionali che hanno interesse ad aggirare le regole e i controlli cui sono sottoposte.”


Naturalmente nulla di tutto ciò è nuovo: se ne è parlato in libri e articoli (vedi “La Dittatura europea”) già diversi anni fa e discusso abbondantemente in molti siti internet, incluso il nostro, ma come è successo sempre per quanto riguarda l’Unione europea e la moneta unica, politici e governanti ignorano qualsiasi domanda, passano sopra con dittatoriale indifferenza alle richieste e ai bisogni dei sudditi, intenti esclusivamente a condurre in porto il proprio progetto di potere: l’unificazione del mondo governato dai banchieri. Non ha nessuna importanza il fallimento evidente di tante delle loro imprese, inclusa quella dell’euro, visto che se ne sono arricchiti in denaro e in potere, togliendoli ai cittadini. La bilancia, infatti, è proprio questa: tanto hanno perso in sovranità e in denaro i cittadini d’Europa, tanto hanno acquistato in potere e in denaro i banchieri. Come abbiamo già detto, i politici non contano: sono esclusivamente al servizio dei banchieri, forse perché altrimenti perderebbero pure le apparenze del potere e le connesse prebende di cui ancora godono.

Lo spettacolo che le migliaia di pirati all’arrembaggio hanno offerto ai nostri occhi in questi giorni per candidarsi alle prossime elezioni, per appropriarsi, come affamate cavallette, degli ultimi resti del corpo dilapidato dell’Italia, ha dato la misura di una involuzione ormai irreversibile. Nessuno ha minimamente messo in dubbio che si debba dipendere dai banchieri, dall’alta finanza che governa l’Europa. Nessuno ha detto che, senza la sovranità monetaria, è impossibile ricominciare ad avere un vero mercato e salvare qualche briciola dalla competizione con gli Stati emergenti. Nessuno ha parlato della fine degli Stati nazionali e della loro indipendenza. Addirittura si è deciso di partecipare ad una guerra (quella in Mali) senza discuterne in Parlamento. Nessuno ha preso in considerazione, in un’Europa che si vanta della propria civiltà, la criminalità di strutture di governo che dominano i sudditi attraverso il denaro, attraverso il fisco, assurto ad unico “valore”. Non parliamo dei “cattolici” visto che si vantano di esserlo anche molti dei governanti banchieri, pur calpestando il Vangelo ad ogni passo. Parliamo, però, della gerarchia della Chiesa la quale non ha mai condannato l’unificazione europea, pur voluta dall’alta finanza e guidata dai banchieri, e non ha neanche mai condannato i governanti banchieri che attraverso il fisco hanno spinto i sudditi alla disperazione fino al suicidio. Ma soprattutto parliamo della gerarchia della Chiesa che adopera essa stessa il linguaggio del mercato laddove parla di valori “non negoziabili”. Formula atroce che fa rabbrividire chi sa che nel Vangelo non esiste nessun valore “non negoziabile” perché soltanto di una specie di peccatori Gesù ha detto che “non entreranno nel regno dei cieli”: i ricchi.

di Ida Magli

01 febbraio 2013

Quello che sta per succedere e perché





Dopo un 2012 turbolento, il nuovo anno è iniziato in un clima economico di relativa tranquillità. Gli spread sono bassi e la crisi sembra concedere una tregua. Ma cosa ci aspetta nel prossimo futuro? Le difficoltà sono davvero superate o sono destinate a riproporsi? Poiché esistono due opposte chiavi di lettura della crisi, per rispondere a queste domande è necessario capire quale sia la più convincente. Vediamole:

Chiave di lettura 1: Crisi dei debiti sovrani.

Secondo questa chiave di lettura, alcuni Paesi europei hanno vissuto al di sopra delle loro possibilità. Hanno aumentato il loro debito pubblico senza migliorare la competitività, rischiando il default. L’aumento degli spread indica che i mercati sono restii ad investire in titoli di Paesi spendaccioni e già molto indebitati.
La soluzione della crisi consisterebbe dunque nel rafforzare la disciplina di bilancio, imponendo un tetto al rapporto debito/PIL e implementando drastiche misure di austerity che diminuiscano la spesa. Per scoraggiare la speculazione, a livello europeo andrebbero inoltre introdotte forme di mutualizzazione dei debiti sovrani (acquisto di titoli da parte della BCE, emissione di Eurobonds) in modo che tutti i Paesi si impegnino a garantire, collegialmente, il pagamento degli interessi e il rimborso dei titoli in scadenza emessi dai singoli Stati. Tuttavia, per evitare azzardi morali, i governi nazionali dovrebbero accettare di essere vincolati a realizzare le politiche indicate dagli organismi europei, indipendentemente dalla volontà dei loro cittadini.

Chiave di lettura 2: Crisi dell’euro.

Secondo questa chiave di lettura, invece, alcuni Paesi europei avrebbero sfruttato l’appartenenza alla moneta unica per aumentare la loro competitività, a discapito di altri. Contenendo salari e domanda interna, avrebbero mantenuto la propria inflazione sistematicamente a livelli inferiori rispetto ai partners. I quali, condividendo la stessa moneta, non avrebbero potuto operare una svalutazione difensiva per determinare un riequilibrio. I primi avrebbero accumulato surplus commerciali, mentre i secondi avrebbero visto peggiorare i conti con l’estero, fino ad entrare in crisi.
L’aumento degli spread indicherebbe che i mercati sanno che in futuro il valore dei titoli dei Paesi in crisi potrebbe diminuire: essi potrebbero uscire dall’euro, svalutare, rinegoziare il debito o rinominarlo nella nuova valuta.
Per uscire dalla crisi servirebbe dunque introdurre un meccanismo automatico di riequilibrio fra i Paesi in surplus strutturale e quelli in deficit. Inoltre, data la recessione in atto, le politiche di austerity andrebbero smantellate e sostituite con interventi di segno opposto, a sostegno della domanda e dell’occupazione. Nei Paesi in surplus andrebbero poi alzati significativamente i salari.
Tuttavia, apparendo questa strada impercorribile, poiché presupporrebbe che tutti i principali Paesi europei invertano le politiche economiche adottate fino ad oggi, e che quelli più forti accettino trasferimenti automatici verso quelli meno competitivi, l’unica via di salvezza resterebbe l’uscita dall’euro e il recupero della sovranità nazionale in materia di politiche economiche e monetarie.

Quale è quella corretta?

Chiaramente, queste tesi sono fra loro inconciliabili. Se si accetta l’idea che ad andare in sofferenza siano stati quei Paesi che presentavano un alto rapporto debito/PIL, allora la prima spiegazione appare come quella corretta. Invece, se si crede che la crisi abbia colpito chi ha avuto un tasso di inflazione più alto, converrà orientarsi sulla seconda.
Ecco una breve tabella riassuntiva:
  debito pub / PIL (%)
Squilibri esterni e differenziali di costo nell’eurozona
Paese 1999 2007 2011 Saldo conto corrente / PIL
(* 100) 1999-2012
Costo unitario del lavoro
var % 1999-2010
Indice prezzi al consumo
1999-2012
Germania
61
65
83
 52.0  1.4 21.8
Portogallo
50
68
106
-132.2 11.1 35.1
Italia
114
104
121
 -24.4 28.5 30.9
Grecia
103
105
166
-123.2 54.9 43.1
Spagna
62
36
67
 -75.5 24.8 38.4
[Dati estratti da Europa: una crisi di debito o di bilancia dei pagamenti? - A.F. Presbitero, Università Politecnica delle Marche, pubblicato su linkiesta.it ]
Le prime colonne mostrano che la prima chiave di lettura è infondata: due dei Paesi più colpiti dalla crisi, il Portogallo e la Spagna, fino al 2007 presentavano un rapporto debito/PIL simile o addirittura migliore rispetto a quello della “virtuosa” Germania. La parte destra della tabella conferma quel che abbiamo già avuto modo di affermare: il problema non è il debito pubblico. La Germania ha beneficiato di una minore inflazione (ultima colonna) grazie al contenimento del costo del lavoro (penultima colonna) ed oggi vanta il “record” del maggior numero percentuale di lavoratori a basso reddito di tutta l’Europa occidentale (il 22.2%, secondo Eurostat). In questo modo ha aumentato la propria competitività, a discapito dei partners europei (terzultima colonna) mandandoli in crisi.
Dunque, i dati indicano che la tesi corretta è la seconda, la quale infatti è sostenuta da numerosi esperti nazionali ed internazionali. Tuttavia la quasi totalità dei media sposa la prima chiave di lettura, l’unica ad essere ufficialmente accettata da tutte le élite di governo europee, di destra come di sinistra. Questo non deve stupire: sia ai governanti dei Paesi forti che a quelli degli Stati in crisi conviene far credere che il problema principale siano la spesa dello Stato e il debito pubblico. In questo modo, infatti, i primi possono proseguire il contenimento della domanda interna, arricchendosi grazie alle esportazioni e garantendosi surplus utili ad acquisire aziende pregiate dei Paesi in crisi (come testimonia, per esempio, la recente acquisizione di Ducati da parte di Audi-Volkswagen). I secondi (gli stati in crisi) ottengono di poter sbandierare un “vincolo esterno” grazie al quale imporre ai cittadini quello che altrimenti sarebbe stato impossibile realizzare: tagli ai servizi pubblici e alle pensioni, restringimento delle tutele dei lavoratori, privatizzazioni, continue manovre finanziarie “lacrime e sangue”.
Così, mentre smantellano lo stato sociale, i governi di Italia, Francia e Germania danno vita ad un insulso gioco delle parti: quando Monti e Hollande spingono per introdurre forme di condivisione dei debiti sovrani, la Merkel risponde pretendendo cessioni di sovranità verso le istituzioni UE. Due facce della stessa medaglia, entrambe riconducibili alla chiave di lettura 1. Quella sbagliata.
In seno al Consiglio Europeo è stata già siglato l’accordo che consentirà a ciascun leader di cantare vittoria nella propria patria: da Giugno 2013 la Commissione UE potrà far sottoscrivere ad ogni Stato un vero e proprio contratto, ove indicherà le “riforme” da attuare e le modalità con cui realizzarle; eventuali “meccanismi di solidarietà” saranno riservati ai Paesi che avranno sottoscritto tali intese.
Ecco quindi il leitmotiv che ascolteremo nel 2013: “solidarietà” in cambio di cessioni di sovranità. Lo conferma il presidente del consiglio europeo, Van Rompuy, che però omette di precisare che la solidarietà sarà fasulla: le eventuali forme di mutualizzazione dei debiti saranno parziali e temporanee, come ha già chiarito Angela Merkel, intervenendo al Bundestag. E in ogni caso esse non potranno mai risolvere gli squilibri strutturali fra le economie.
Pertanto c’è da aspettarsi che la crisi riesploda. Anche perché dal primo gennaio 2013 è entrato in vigore il fiscal compact, che statuisce, tra le altre cose, che il rapporto debito/PIL deve assestarsi al 60%. L’Italia, per tentare di raggiungere l’obiettivo, dovrà varare manovre su manovre, ogni anno, per decine e decine di miliardi. In assenza di una crescita sostenuta, le conseguenze saranno inimmaginabili, come testimoniano le analisi della Corte dei Conti e l’ISPI. L’Italia e gli altri PIGS resteranno intrappolati in una spirale recessiva, senza via di uscita. Ma gli alfieri della chiave di lettura sbagliata non si fermeranno. Anzi, rincareranno la dose. Quelli italiani hanno già nel mirino la privatizzazione della sanità, che non a caso si sta già realizzando in Spagna.
Uno dopo l’altro i Paesi dell’eurozona dovranno richiedere gli “aiuti” del MES e, in cambio, dovranno cedere ogni residua forma di sovranità nazionale. Così, le decisioni verranno prese direttamente a Bruxelles e Francoforte, senza che né i cittadini né i Parlamenti nazionali possano opporvi resistenza. Ma ciò che è più drammatico è che alla gran parte dell’opinione pubblica, tutto ciò apparirà come necessario, in quanto coerente con la teoria della crisi dei debiti sovrani, propagandata dalla stragrande maggioranza dei media.
Per questo, il primo fronte sul quale schierare le forze che vogliono impedire lo sfacelo è quello dell’informazione. Un’informazione corretta sulle reali cause della crisi.

di Fabrizio Tringali -

31 gennaio 2013

L'Italia nel tunnel





Secondo i dati di Bankitalia, (1) diffusi a dicembre scorso, alla fine del 2010 la ricchezza netta delle famiglie italiane era pari a 8 volte il reddito disponibile (contro l’8,2 del Regno Unito, l’8,1 della Francia, il 7,8 del Giappone e il 5,3 degli USA). Il debito delle famiglie italiane era pari al 70% del reddito disponibile (contro circa il 100% di Francia e Germania, il 125% di USA e Giappone e il 165% del Regno Unito). Il 10% delle famiglie più ricche deteneva il 45,9% della ricchezza, la metà più povera soltanto il 9,4%.
Alla fine del 2011 la ricchezza netta delle famiglie italiane ammontava a 8619 miliardi di euro (la ricchezza in abitazioni ammontava a oltre 5000 miliardi e quella in attività finanziarie a oltre 3500 miliardi). Una ricchezza leggermente inferiore a quella del 2010 (8683 miliardi) a prezzi costanti, ma se calcolata a prezzi 2011 nettamente inferiore a quella registrata negli anni successivi al 2007, ad ulteriore conferma dell’impatto negativo sulla nostra economia della crisi finanziaria del 2008. Una ricchezza comunque sempre pari a quattro volte l’ammontare complessivo del debito pubblico.
Vi sono pochi dubbi perciò che, se in Italia vi fosse una classe dirigente degna di tale nome, la campagna elettorale verterebbe alla luce di queste cifre  soprattutto sulle conseguenze che derivano dall’obbligo di pareggio di bilancio e dal patto fiscale europeo (il cosiddetto “fiscal compact“), che ci costringe a ridurre il debito pubblico del 50% nell’arco dei prossimi vent’anni. Si tratta di misure d’austerità imposte al nostro Paese dal governo del “commissario tecnico” Mario Monti, e fondate sulla previsione (gravemente errata) che la diminuzione di un punto del deficit pubblico avrebbe causato la riduzione di mezzo punto di crescita, mentre in realtà ne ha prodotto il triplo (ossia un punto e mezzo di crescita in meno).
Misure che alimentano una recessione che sta dilagando in tutta Europa. E che, oltre a far impennare il tasso di povertà e quello di disoccupazione (specialmente del tasso di disoccupazione giovanile), stanno compromettendo addirittura la base produttiva del nostro Paese – un Paese notoriamente privo di materie prime e dagli anni Novanta anche di quel “pungiglione strategico” che una “mano pubblica”, esperta e decisa, oggi avrebbe potuto (e dovuto) sfruttare per trarre il massimo profitto dal mutamento geopolitico che sta rivoluzionando gli equilibri del sistema internazionale. Invece, essendovi in Italia tutto fuorché una classe dirigente, non solo non vi è alcun serio dibattito su tali problemi, ma si trova perfino del tutto normale che anche quel poco che resta del settore strategico pubblico venga ceduto allo “straniero”. E ci si limita a ripetere il mantra liberista lamentandosi del fatto che in questi anni non vi sia stata alcuna vera “rivoluzione liberale”, come se il terremoto finanziario del 2008 fosse il risultato delle scelte sbagliate del nostro Paese. Ma soprattutto “ci si balocca” con alcuni dati macroeconomici, senza nemmeno tener conto del fatto che la causa principale dell’andamento dello spread sui tassi d’interesse dipende, come in definitiva la stesso Fmi e Bankitalia riconoscono – non tanto dal debito pubblico quanto dalla mancanza di un autentico “soggetto politico europeo” e di conseguenza dal possibile collasso dell’eurozona, che proprio le politiche di austerity rendono più probabile.
Del resto, indipendentemente dalla internazionalizzazione (voluta da Amato e dagli altri tecnocrati “europeisti”) del nostro debito pubblico, dopo aver deciso, all’inizio degli anni Ottanta, il divorzio tra ministero del Tesoro e Bankitalia (divorzio che causò una crescita vertiginosa del debito pubblico), si sa che il Giappone, che ha un tasso di disoccupazione del 4,5% (contro l’11% dell’Europa) e che è la terza economia del pianeta, intende ampliare la propria spesa pubblica con un primo intervento di 85 miliardi, pur avendo un debito pubblico che è del 236% del Pil e un rapporto deficit/Pil al 10%. (2) Indubbiamente, ciò dipende pure dal fatto che il debito pubblico del Giappone è pressoché completamente detenuto dai giapponesi, ma la sostanza è che non vi può essere alcuna crescita né alcuna vera ripresa dell’economia reale senza rinunciare a misure d’austerity, il cui fallimento è sotto gli occhi di tutti.
D’altra parte, si può ragionevolmente ritenere che l’oligarchia che detiene le leve del potere in Europa consideri più importante liquidare una volta per tutte il “vecchio” Welfare e imporre un modello liberista di tipo americano, in particolare nei Paesi europei più deboli, garantendo da un lato i “mercati finanziari” e dall’altro gli interessi geopolitici degli Stati Uniti. Questi ultimi infatti, hanno tutto l’interesse a impedire una qualsiasi politica europea distinta da quella atlantista e al tempo stesso devono saldare la Germania all’Atlantico, per bloccare “preventivamente” ogni tentativo di dar vita a una nuova Ostpolitik, soprattutto ora che la sfida con la Cina (e con la Russia) è decisiva per il futuro degli Usa. Non a caso, gli statunitensi o i loro “agenti” si adoperano perché si lasci alla Francia sufficientemente spazio per poter fare una politica di tipo neocoloniale in Africa e agiscono in modo tale da approfondire sempre più il solco tra il Baltico e il Mediterraneo.
Insomma, si applica la solita strategia del divide et impera, con la differenza però che se nelle aree più calde del pianeta questa strategia non si distingue da una geopolitica del caos, che può giocare non pochi brutti scherzi agli apprendisti stregoni occidentali (dalla Libia al Mali, dall’Egitto alla Siria), in Europa si può facilmente far leva su gruppi subdominanti che, avendo ormai rinnegato ogni ideale, sono disposti a tutto pur di non perdere i favori degli amici “d’oltreoceano”. In questo senso, il nostro Paese sta giocando un ruolo di primo piano, sia sotto il profilo della ridefinizione in chiave mercantile dei rapporti sociali, sia sotto quello geopolitico, configurandosi come una base sicura per la NATO e la politica di potenza statunitense. Tanto che Difesa ed Esteri sono di fatto gestiti direttamente dagli statunitensi, essendo palese che si tratta di ministeri controllati rispettivamente dal Pentagono e dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, e che non rappresentano né tutelano in alcun modo i reali interessi del nostro Paese. Ragion per cui anche coloro (come Luciano Gallino e Stefano Sylos Labini) che difendono le ragioni di un intervento pubblico per far uscire l’Itala da una spirale recessiva che minaccia di far compiere alla maggioranza degli italiani un drammatico “balzo all’indietro”, dovrebbero rendersi conto che non vi sono solo ostacoli di tipo economico da superare. Anzi gli ostacoli maggiori sono di ben altra natura. E se si può concedere che la Fornero non ne sia consapevole, Mario Monti e certamente Mario Draghi sanno sicuramente quel che bolle in pentola. E agiscono di conseguenza.
In ogni caso, l’azione politico-strategica dei “mercati” è favorita dallo pseudoeuropeismo dei tecnocrati atlantisti (il cosiddetto “euroatlantismo”) e da una lotta tra forze politiche il cui vero obiettivo è diventare i portavoce degli strateghi d’oltreoceano, infischiandosene della sorte della maggioranza degli italiani. I quali, tuttavia, non hanno fatto molto in questi ultimi lustri per cercare di far prevalere l’interesse generale, badando perlopiù al proprio “particulare” e prestando ascolto ai soliti gazzettieri e intellettuali mercenari che infestano il nostro Paese da decenni. Non c’è dubbio quindi che gli italiani sapranno premiare i peggiori pure questa volta. Anche perché non pare che vi siano vere alternative, se non vi è nessuna forza politica che difenda princìpi e valori di tipo socialista e nazionalpopolare e che allo stesso tempo intenda battersi per i diritti dei popoli europei contro la prepotenza dei “mercati” e della oligarchia euroatlantista. Quel che però è certo è che quei (pochi) italiani che non hanno dimenticato che anche il comandante in capo delle forze armate statunitensi nel Vietnam del Sud, generale William Westmoreland, disse che vedeva la luce in fondo al tunnel poco prima della famosa offensiva del Tet, che sancì la sconfitta degli Stati Uniti nella guerra del Vietnam, non possono non essere d’accordo con chi sostiene che l’ottimismo è l’oppio degli insipienti e che, se veramente si vuole il bene dell’Italia, sarebbe invece opportuno non nascondere il timore che il peggio debba ancora venire.
Con ciò non si vuole affermare che non vi sia via d’uscita. Si tratta piuttosto di prendere atto che solo uno “squilibrio” derivante da una (invero non impossibile) nuova crisi internazionale potrebbe liberare una “quantità d’energia” tale da indurre la Germania (e la Francia) a decidersi per un cambiamento di paradigma (geo)politico. Si concederà però che, rebus sic stantibus, non vi è nulla che faccia ritenere che vi sia in Europa la volontà di dar inizio ad un tale nuovo corso politico, che avrebbe effetti positivi anche in un Paese come il nostro in cui funzione politica e innovazione strategica sembrano quasi del tutto scomparse.

di Fabio Falchi 

(1)Bancaditalia.it
(2) IlSole24ore.com

30 gennaio 2013

L'ineffabile ombra della finanza mondiale




   
   

Il missionario e giornalista P. Giulio Albanese ha inserito in un articolo del numero di Gennaio della sua rivista “Popoli e missione”, un’informazione tanto fondamentale quanto ignorata dalla stampa e che riportiamo qui sperando di aiutare in questo modo a divulgarla. Vorremmo anche che i nostri governanti, astutissimi banchieri che non trovano mai sufficiente la cosiddetta “trasparenza e tracciabilità” dei nostri miseri redditi, inseguendo con la forza di quella che ormai possiamo considerare la loro particolare Polizia, i militari della Finanza, ogni nostro scontrino, ogni più piccola ricevuta, ci spiegassero quali sono i “loro” interessi a mantenere nell’ombra queste operazioni. Dei nostri politici è inutile tenere conto: una volta ridotto il Parlamento alla farsa del dire “sì” ai banchieri, sono diventati come le famose scimmiette che non vedono, non sentono, non parlano, impegnati esclusivamente nella salvaguardia della propria carriera.

“Si tratta di un importante studio sul "sistema bancario ombra", lo shadow banking mondiale, pubblicato dal Financial Stability Board (Fsb), l'istituto internazionale di coordinamento dei governi, delle banche centrali e degli organi di controllo per la stabilità finanziaria a livello globale. Leggendo attentamente questo testo, si scopre che qualcosa di aberrante è all'origine della crisi finanziaria planetaria. Lo studio, incentrato sulla cosiddetta eurozona e su altri 25 Paesi, evidenzia infatti che a fine 2011 ben 67mila miliardi di dollari erano gestiti da una "finanza parallela", al di fuori, quindi, dei controlli e delle regole bancarie vigenti; una cifra che equivale al 111% del Pil mondiale ed è pari alla metà delle attività bancarie globali e a circa un quarto dell'intero sistema finanziario.

Leggendo questo studio si ha l'impressione d'essere al cospetto di un movimento sovversivo che specula impunemente ai danni degli Stati sovrani e soprattutto dei ceti meno abbienti. In altre parole, se da una parte ci sono i conti correnti con i risparmi dei cittadini e delle imprese, dall'altra abbiamo questo sistema bancario occulto, composto da tutte le transazioni finanziarie fatte fuori dalle regolari operazioni bancarie.

Come spiegato in più circostanze su questa rivista dal 2008, in coincidenza col fallimento della Lehman Brothers e dall'inizio della crisi sistemica dei mercati, si tratta di operazioni fatte da differenti intermediari finanziari, come certi operatori specializzati nel collocamento dei “derivati”, quei prodotti finanziari che, in larga misura, hanno inquinato i mercati. Tutte attività, queste, rigorosamente over the counter (otc), cioè stipulate fuori dai mercati borsistici e spesso tenute anche fuori dai bilanci. Alcuni autorevoli economisti ritengono che il "sistema ombra" sia spesso un'emanazione delle grandi banche internazionali che hanno interesse ad aggirare le regole e i controlli cui sono sottoposte.”


Naturalmente nulla di tutto ciò è nuovo: se ne è parlato in libri e articoli (vedi “La Dittatura europea”) già diversi anni fa e discusso abbondantemente in molti siti internet, incluso il nostro, ma come è successo sempre per quanto riguarda l’Unione europea e la moneta unica, politici e governanti ignorano qualsiasi domanda, passano sopra con dittatoriale indifferenza alle richieste e ai bisogni dei sudditi, intenti esclusivamente a condurre in porto il proprio progetto di potere: l’unificazione del mondo governato dai banchieri. Non ha nessuna importanza il fallimento evidente di tante delle loro imprese, inclusa quella dell’euro, visto che se ne sono arricchiti in denaro e in potere, togliendoli ai cittadini. La bilancia, infatti, è proprio questa: tanto hanno perso in sovranità e in denaro i cittadini d’Europa, tanto hanno acquistato in potere e in denaro i banchieri. Come abbiamo già detto, i politici non contano: sono esclusivamente al servizio dei banchieri, forse perché altrimenti perderebbero pure le apparenze del potere e le connesse prebende di cui ancora godono.

Lo spettacolo che le migliaia di pirati all’arrembaggio hanno offerto ai nostri occhi in questi giorni per candidarsi alle prossime elezioni, per appropriarsi, come affamate cavallette, degli ultimi resti del corpo dilapidato dell’Italia, ha dato la misura di una involuzione ormai irreversibile. Nessuno ha minimamente messo in dubbio che si debba dipendere dai banchieri, dall’alta finanza che governa l’Europa. Nessuno ha detto che, senza la sovranità monetaria, è impossibile ricominciare ad avere un vero mercato e salvare qualche briciola dalla competizione con gli Stati emergenti. Nessuno ha parlato della fine degli Stati nazionali e della loro indipendenza. Addirittura si è deciso di partecipare ad una guerra (quella in Mali) senza discuterne in Parlamento. Nessuno ha preso in considerazione, in un’Europa che si vanta della propria civiltà, la criminalità di strutture di governo che dominano i sudditi attraverso il denaro, attraverso il fisco, assurto ad unico “valore”. Non parliamo dei “cattolici” visto che si vantano di esserlo anche molti dei governanti banchieri, pur calpestando il Vangelo ad ogni passo. Parliamo, però, della gerarchia della Chiesa la quale non ha mai condannato l’unificazione europea, pur voluta dall’alta finanza e guidata dai banchieri, e non ha neanche mai condannato i governanti banchieri che attraverso il fisco hanno spinto i sudditi alla disperazione fino al suicidio. Ma soprattutto parliamo della gerarchia della Chiesa che adopera essa stessa il linguaggio del mercato laddove parla di valori “non negoziabili”. Formula atroce che fa rabbrividire chi sa che nel Vangelo non esiste nessun valore “non negoziabile” perché soltanto di una specie di peccatori Gesù ha detto che “non entreranno nel regno dei cieli”: i ricchi.

di Ida Magli