31 gennaio 2013

L'Italia nel tunnel





Secondo i dati di Bankitalia, (1) diffusi a dicembre scorso, alla fine del 2010 la ricchezza netta delle famiglie italiane era pari a 8 volte il reddito disponibile (contro l’8,2 del Regno Unito, l’8,1 della Francia, il 7,8 del Giappone e il 5,3 degli USA). Il debito delle famiglie italiane era pari al 70% del reddito disponibile (contro circa il 100% di Francia e Germania, il 125% di USA e Giappone e il 165% del Regno Unito). Il 10% delle famiglie più ricche deteneva il 45,9% della ricchezza, la metà più povera soltanto il 9,4%.
Alla fine del 2011 la ricchezza netta delle famiglie italiane ammontava a 8619 miliardi di euro (la ricchezza in abitazioni ammontava a oltre 5000 miliardi e quella in attività finanziarie a oltre 3500 miliardi). Una ricchezza leggermente inferiore a quella del 2010 (8683 miliardi) a prezzi costanti, ma se calcolata a prezzi 2011 nettamente inferiore a quella registrata negli anni successivi al 2007, ad ulteriore conferma dell’impatto negativo sulla nostra economia della crisi finanziaria del 2008. Una ricchezza comunque sempre pari a quattro volte l’ammontare complessivo del debito pubblico.
Vi sono pochi dubbi perciò che, se in Italia vi fosse una classe dirigente degna di tale nome, la campagna elettorale verterebbe alla luce di queste cifre  soprattutto sulle conseguenze che derivano dall’obbligo di pareggio di bilancio e dal patto fiscale europeo (il cosiddetto “fiscal compact“), che ci costringe a ridurre il debito pubblico del 50% nell’arco dei prossimi vent’anni. Si tratta di misure d’austerità imposte al nostro Paese dal governo del “commissario tecnico” Mario Monti, e fondate sulla previsione (gravemente errata) che la diminuzione di un punto del deficit pubblico avrebbe causato la riduzione di mezzo punto di crescita, mentre in realtà ne ha prodotto il triplo (ossia un punto e mezzo di crescita in meno).
Misure che alimentano una recessione che sta dilagando in tutta Europa. E che, oltre a far impennare il tasso di povertà e quello di disoccupazione (specialmente del tasso di disoccupazione giovanile), stanno compromettendo addirittura la base produttiva del nostro Paese – un Paese notoriamente privo di materie prime e dagli anni Novanta anche di quel “pungiglione strategico” che una “mano pubblica”, esperta e decisa, oggi avrebbe potuto (e dovuto) sfruttare per trarre il massimo profitto dal mutamento geopolitico che sta rivoluzionando gli equilibri del sistema internazionale. Invece, essendovi in Italia tutto fuorché una classe dirigente, non solo non vi è alcun serio dibattito su tali problemi, ma si trova perfino del tutto normale che anche quel poco che resta del settore strategico pubblico venga ceduto allo “straniero”. E ci si limita a ripetere il mantra liberista lamentandosi del fatto che in questi anni non vi sia stata alcuna vera “rivoluzione liberale”, come se il terremoto finanziario del 2008 fosse il risultato delle scelte sbagliate del nostro Paese. Ma soprattutto “ci si balocca” con alcuni dati macroeconomici, senza nemmeno tener conto del fatto che la causa principale dell’andamento dello spread sui tassi d’interesse dipende, come in definitiva la stesso Fmi e Bankitalia riconoscono – non tanto dal debito pubblico quanto dalla mancanza di un autentico “soggetto politico europeo” e di conseguenza dal possibile collasso dell’eurozona, che proprio le politiche di austerity rendono più probabile.
Del resto, indipendentemente dalla internazionalizzazione (voluta da Amato e dagli altri tecnocrati “europeisti”) del nostro debito pubblico, dopo aver deciso, all’inizio degli anni Ottanta, il divorzio tra ministero del Tesoro e Bankitalia (divorzio che causò una crescita vertiginosa del debito pubblico), si sa che il Giappone, che ha un tasso di disoccupazione del 4,5% (contro l’11% dell’Europa) e che è la terza economia del pianeta, intende ampliare la propria spesa pubblica con un primo intervento di 85 miliardi, pur avendo un debito pubblico che è del 236% del Pil e un rapporto deficit/Pil al 10%. (2) Indubbiamente, ciò dipende pure dal fatto che il debito pubblico del Giappone è pressoché completamente detenuto dai giapponesi, ma la sostanza è che non vi può essere alcuna crescita né alcuna vera ripresa dell’economia reale senza rinunciare a misure d’austerity, il cui fallimento è sotto gli occhi di tutti.
D’altra parte, si può ragionevolmente ritenere che l’oligarchia che detiene le leve del potere in Europa consideri più importante liquidare una volta per tutte il “vecchio” Welfare e imporre un modello liberista di tipo americano, in particolare nei Paesi europei più deboli, garantendo da un lato i “mercati finanziari” e dall’altro gli interessi geopolitici degli Stati Uniti. Questi ultimi infatti, hanno tutto l’interesse a impedire una qualsiasi politica europea distinta da quella atlantista e al tempo stesso devono saldare la Germania all’Atlantico, per bloccare “preventivamente” ogni tentativo di dar vita a una nuova Ostpolitik, soprattutto ora che la sfida con la Cina (e con la Russia) è decisiva per il futuro degli Usa. Non a caso, gli statunitensi o i loro “agenti” si adoperano perché si lasci alla Francia sufficientemente spazio per poter fare una politica di tipo neocoloniale in Africa e agiscono in modo tale da approfondire sempre più il solco tra il Baltico e il Mediterraneo.
Insomma, si applica la solita strategia del divide et impera, con la differenza però che se nelle aree più calde del pianeta questa strategia non si distingue da una geopolitica del caos, che può giocare non pochi brutti scherzi agli apprendisti stregoni occidentali (dalla Libia al Mali, dall’Egitto alla Siria), in Europa si può facilmente far leva su gruppi subdominanti che, avendo ormai rinnegato ogni ideale, sono disposti a tutto pur di non perdere i favori degli amici “d’oltreoceano”. In questo senso, il nostro Paese sta giocando un ruolo di primo piano, sia sotto il profilo della ridefinizione in chiave mercantile dei rapporti sociali, sia sotto quello geopolitico, configurandosi come una base sicura per la NATO e la politica di potenza statunitense. Tanto che Difesa ed Esteri sono di fatto gestiti direttamente dagli statunitensi, essendo palese che si tratta di ministeri controllati rispettivamente dal Pentagono e dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, e che non rappresentano né tutelano in alcun modo i reali interessi del nostro Paese. Ragion per cui anche coloro (come Luciano Gallino e Stefano Sylos Labini) che difendono le ragioni di un intervento pubblico per far uscire l’Itala da una spirale recessiva che minaccia di far compiere alla maggioranza degli italiani un drammatico “balzo all’indietro”, dovrebbero rendersi conto che non vi sono solo ostacoli di tipo economico da superare. Anzi gli ostacoli maggiori sono di ben altra natura. E se si può concedere che la Fornero non ne sia consapevole, Mario Monti e certamente Mario Draghi sanno sicuramente quel che bolle in pentola. E agiscono di conseguenza.
In ogni caso, l’azione politico-strategica dei “mercati” è favorita dallo pseudoeuropeismo dei tecnocrati atlantisti (il cosiddetto “euroatlantismo”) e da una lotta tra forze politiche il cui vero obiettivo è diventare i portavoce degli strateghi d’oltreoceano, infischiandosene della sorte della maggioranza degli italiani. I quali, tuttavia, non hanno fatto molto in questi ultimi lustri per cercare di far prevalere l’interesse generale, badando perlopiù al proprio “particulare” e prestando ascolto ai soliti gazzettieri e intellettuali mercenari che infestano il nostro Paese da decenni. Non c’è dubbio quindi che gli italiani sapranno premiare i peggiori pure questa volta. Anche perché non pare che vi siano vere alternative, se non vi è nessuna forza politica che difenda princìpi e valori di tipo socialista e nazionalpopolare e che allo stesso tempo intenda battersi per i diritti dei popoli europei contro la prepotenza dei “mercati” e della oligarchia euroatlantista. Quel che però è certo è che quei (pochi) italiani che non hanno dimenticato che anche il comandante in capo delle forze armate statunitensi nel Vietnam del Sud, generale William Westmoreland, disse che vedeva la luce in fondo al tunnel poco prima della famosa offensiva del Tet, che sancì la sconfitta degli Stati Uniti nella guerra del Vietnam, non possono non essere d’accordo con chi sostiene che l’ottimismo è l’oppio degli insipienti e che, se veramente si vuole il bene dell’Italia, sarebbe invece opportuno non nascondere il timore che il peggio debba ancora venire.
Con ciò non si vuole affermare che non vi sia via d’uscita. Si tratta piuttosto di prendere atto che solo uno “squilibrio” derivante da una (invero non impossibile) nuova crisi internazionale potrebbe liberare una “quantità d’energia” tale da indurre la Germania (e la Francia) a decidersi per un cambiamento di paradigma (geo)politico. Si concederà però che, rebus sic stantibus, non vi è nulla che faccia ritenere che vi sia in Europa la volontà di dar inizio ad un tale nuovo corso politico, che avrebbe effetti positivi anche in un Paese come il nostro in cui funzione politica e innovazione strategica sembrano quasi del tutto scomparse.

di Fabio Falchi 

(1)Bancaditalia.it
(2) IlSole24ore.com

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31 gennaio 2013

L'Italia nel tunnel





Secondo i dati di Bankitalia, (1) diffusi a dicembre scorso, alla fine del 2010 la ricchezza netta delle famiglie italiane era pari a 8 volte il reddito disponibile (contro l’8,2 del Regno Unito, l’8,1 della Francia, il 7,8 del Giappone e il 5,3 degli USA). Il debito delle famiglie italiane era pari al 70% del reddito disponibile (contro circa il 100% di Francia e Germania, il 125% di USA e Giappone e il 165% del Regno Unito). Il 10% delle famiglie più ricche deteneva il 45,9% della ricchezza, la metà più povera soltanto il 9,4%.
Alla fine del 2011 la ricchezza netta delle famiglie italiane ammontava a 8619 miliardi di euro (la ricchezza in abitazioni ammontava a oltre 5000 miliardi e quella in attività finanziarie a oltre 3500 miliardi). Una ricchezza leggermente inferiore a quella del 2010 (8683 miliardi) a prezzi costanti, ma se calcolata a prezzi 2011 nettamente inferiore a quella registrata negli anni successivi al 2007, ad ulteriore conferma dell’impatto negativo sulla nostra economia della crisi finanziaria del 2008. Una ricchezza comunque sempre pari a quattro volte l’ammontare complessivo del debito pubblico.
Vi sono pochi dubbi perciò che, se in Italia vi fosse una classe dirigente degna di tale nome, la campagna elettorale verterebbe alla luce di queste cifre  soprattutto sulle conseguenze che derivano dall’obbligo di pareggio di bilancio e dal patto fiscale europeo (il cosiddetto “fiscal compact“), che ci costringe a ridurre il debito pubblico del 50% nell’arco dei prossimi vent’anni. Si tratta di misure d’austerità imposte al nostro Paese dal governo del “commissario tecnico” Mario Monti, e fondate sulla previsione (gravemente errata) che la diminuzione di un punto del deficit pubblico avrebbe causato la riduzione di mezzo punto di crescita, mentre in realtà ne ha prodotto il triplo (ossia un punto e mezzo di crescita in meno).
Misure che alimentano una recessione che sta dilagando in tutta Europa. E che, oltre a far impennare il tasso di povertà e quello di disoccupazione (specialmente del tasso di disoccupazione giovanile), stanno compromettendo addirittura la base produttiva del nostro Paese – un Paese notoriamente privo di materie prime e dagli anni Novanta anche di quel “pungiglione strategico” che una “mano pubblica”, esperta e decisa, oggi avrebbe potuto (e dovuto) sfruttare per trarre il massimo profitto dal mutamento geopolitico che sta rivoluzionando gli equilibri del sistema internazionale. Invece, essendovi in Italia tutto fuorché una classe dirigente, non solo non vi è alcun serio dibattito su tali problemi, ma si trova perfino del tutto normale che anche quel poco che resta del settore strategico pubblico venga ceduto allo “straniero”. E ci si limita a ripetere il mantra liberista lamentandosi del fatto che in questi anni non vi sia stata alcuna vera “rivoluzione liberale”, come se il terremoto finanziario del 2008 fosse il risultato delle scelte sbagliate del nostro Paese. Ma soprattutto “ci si balocca” con alcuni dati macroeconomici, senza nemmeno tener conto del fatto che la causa principale dell’andamento dello spread sui tassi d’interesse dipende, come in definitiva la stesso Fmi e Bankitalia riconoscono – non tanto dal debito pubblico quanto dalla mancanza di un autentico “soggetto politico europeo” e di conseguenza dal possibile collasso dell’eurozona, che proprio le politiche di austerity rendono più probabile.
Del resto, indipendentemente dalla internazionalizzazione (voluta da Amato e dagli altri tecnocrati “europeisti”) del nostro debito pubblico, dopo aver deciso, all’inizio degli anni Ottanta, il divorzio tra ministero del Tesoro e Bankitalia (divorzio che causò una crescita vertiginosa del debito pubblico), si sa che il Giappone, che ha un tasso di disoccupazione del 4,5% (contro l’11% dell’Europa) e che è la terza economia del pianeta, intende ampliare la propria spesa pubblica con un primo intervento di 85 miliardi, pur avendo un debito pubblico che è del 236% del Pil e un rapporto deficit/Pil al 10%. (2) Indubbiamente, ciò dipende pure dal fatto che il debito pubblico del Giappone è pressoché completamente detenuto dai giapponesi, ma la sostanza è che non vi può essere alcuna crescita né alcuna vera ripresa dell’economia reale senza rinunciare a misure d’austerity, il cui fallimento è sotto gli occhi di tutti.
D’altra parte, si può ragionevolmente ritenere che l’oligarchia che detiene le leve del potere in Europa consideri più importante liquidare una volta per tutte il “vecchio” Welfare e imporre un modello liberista di tipo americano, in particolare nei Paesi europei più deboli, garantendo da un lato i “mercati finanziari” e dall’altro gli interessi geopolitici degli Stati Uniti. Questi ultimi infatti, hanno tutto l’interesse a impedire una qualsiasi politica europea distinta da quella atlantista e al tempo stesso devono saldare la Germania all’Atlantico, per bloccare “preventivamente” ogni tentativo di dar vita a una nuova Ostpolitik, soprattutto ora che la sfida con la Cina (e con la Russia) è decisiva per il futuro degli Usa. Non a caso, gli statunitensi o i loro “agenti” si adoperano perché si lasci alla Francia sufficientemente spazio per poter fare una politica di tipo neocoloniale in Africa e agiscono in modo tale da approfondire sempre più il solco tra il Baltico e il Mediterraneo.
Insomma, si applica la solita strategia del divide et impera, con la differenza però che se nelle aree più calde del pianeta questa strategia non si distingue da una geopolitica del caos, che può giocare non pochi brutti scherzi agli apprendisti stregoni occidentali (dalla Libia al Mali, dall’Egitto alla Siria), in Europa si può facilmente far leva su gruppi subdominanti che, avendo ormai rinnegato ogni ideale, sono disposti a tutto pur di non perdere i favori degli amici “d’oltreoceano”. In questo senso, il nostro Paese sta giocando un ruolo di primo piano, sia sotto il profilo della ridefinizione in chiave mercantile dei rapporti sociali, sia sotto quello geopolitico, configurandosi come una base sicura per la NATO e la politica di potenza statunitense. Tanto che Difesa ed Esteri sono di fatto gestiti direttamente dagli statunitensi, essendo palese che si tratta di ministeri controllati rispettivamente dal Pentagono e dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, e che non rappresentano né tutelano in alcun modo i reali interessi del nostro Paese. Ragion per cui anche coloro (come Luciano Gallino e Stefano Sylos Labini) che difendono le ragioni di un intervento pubblico per far uscire l’Itala da una spirale recessiva che minaccia di far compiere alla maggioranza degli italiani un drammatico “balzo all’indietro”, dovrebbero rendersi conto che non vi sono solo ostacoli di tipo economico da superare. Anzi gli ostacoli maggiori sono di ben altra natura. E se si può concedere che la Fornero non ne sia consapevole, Mario Monti e certamente Mario Draghi sanno sicuramente quel che bolle in pentola. E agiscono di conseguenza.
In ogni caso, l’azione politico-strategica dei “mercati” è favorita dallo pseudoeuropeismo dei tecnocrati atlantisti (il cosiddetto “euroatlantismo”) e da una lotta tra forze politiche il cui vero obiettivo è diventare i portavoce degli strateghi d’oltreoceano, infischiandosene della sorte della maggioranza degli italiani. I quali, tuttavia, non hanno fatto molto in questi ultimi lustri per cercare di far prevalere l’interesse generale, badando perlopiù al proprio “particulare” e prestando ascolto ai soliti gazzettieri e intellettuali mercenari che infestano il nostro Paese da decenni. Non c’è dubbio quindi che gli italiani sapranno premiare i peggiori pure questa volta. Anche perché non pare che vi siano vere alternative, se non vi è nessuna forza politica che difenda princìpi e valori di tipo socialista e nazionalpopolare e che allo stesso tempo intenda battersi per i diritti dei popoli europei contro la prepotenza dei “mercati” e della oligarchia euroatlantista. Quel che però è certo è che quei (pochi) italiani che non hanno dimenticato che anche il comandante in capo delle forze armate statunitensi nel Vietnam del Sud, generale William Westmoreland, disse che vedeva la luce in fondo al tunnel poco prima della famosa offensiva del Tet, che sancì la sconfitta degli Stati Uniti nella guerra del Vietnam, non possono non essere d’accordo con chi sostiene che l’ottimismo è l’oppio degli insipienti e che, se veramente si vuole il bene dell’Italia, sarebbe invece opportuno non nascondere il timore che il peggio debba ancora venire.
Con ciò non si vuole affermare che non vi sia via d’uscita. Si tratta piuttosto di prendere atto che solo uno “squilibrio” derivante da una (invero non impossibile) nuova crisi internazionale potrebbe liberare una “quantità d’energia” tale da indurre la Germania (e la Francia) a decidersi per un cambiamento di paradigma (geo)politico. Si concederà però che, rebus sic stantibus, non vi è nulla che faccia ritenere che vi sia in Europa la volontà di dar inizio ad un tale nuovo corso politico, che avrebbe effetti positivi anche in un Paese come il nostro in cui funzione politica e innovazione strategica sembrano quasi del tutto scomparse.

di Fabio Falchi 

(1)Bancaditalia.it
(2) IlSole24ore.com

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