02 febbraio 2013

Monte dei Paschi: origini e cause di uno scandalo







IL GROVIGLIO ARMONIOSO
Della serie: la truffa è l'anima del capitalismo finanziario
Pochi oggi ricordano lo scandalo della Banca Romana culminato nel 1893 con le dimissioni del governo Giolitti e il crollo di mezzo sistema bancario italiano. Per occultare le perdite dovute a cattivi investimenti la Banca Romana, a fronte dei 60 milioni autorizzati, coperti da corrispondenti riserve auree, emise biglietti di banca per 113 milioni di lire, incluse banconote false per 40 milioni. L’inchiesta rivelò che il governatore della banca versò, affinché lo scandalo non emergesse, cospicue somme a diversi esponenti politici, tra cui due Presidenti del Consiglio, Francesco Crispi e Giovanni Giolitti.
Menzogne sistemiche
A 112 anni di distanza l’Italia è alle prese con lo scoppio di un gigantesco bubbone bancario, quello del Monte dei Paschi di Siena, i cui vertici (già indagati per “aggiotaggio e ostacolo alle autorità di vigilanza” per la torbida vicenda dell’acquisto della Banca Antonveneta) rischiano di finire in galera assieme, ai loro politicanti complici, per aver, sotto la gestione di Giuseppe Mussari (a sua volta rinviato a giudizio per falso e turbativa nella gara per la costruzione dell'aeroporto di Ampugnano), truccato i conti dopo almeno un paio di disastrose operazioni speculative in titoli tossici.
Giovanni Bazoli, presidente di Intesa Sanpaolo, afferma che quello del Mps «è un fatto episodico… che il sistema bancario italiano è sano». [1] Da parte sua, visto che il Mps è controllato da una Fondazione a sua volta controllata dal Pd, Pierluigi Bersani sostiene: «Nessuna responsabilità del Pd, per l’amor di Dio. Il Pd fa il Pd e le banche fanno le banche». [2]
Entrambi mentono. Mentono con ogni evidenza anche le Autorità preposte alla vigilanza, tra cui Banca d’Italia e Consob, che in un laconico comunicato pensano di cavarsela scrivendo che: «La possibilità da parte delle autorità di conoscere in modo compiuto le operazioni di una banca dipende dalla corretta contabilizzazione delle medesime e soprattutto dalla corretta gestione della documentazione. Con il Mps ci sono mancate entrambe queste condizioni». [3]
Ma come? Non dovrebbe essere che chi vigila è appunto tenuto a verificare la correttezza della documentazione prodotta dal soggetto su cui s’indaga? Fesso chi lo ha pensato! Con solare candore Bankitalia e Consob ci dicono che si sono fidati delle carte e dei bilanci presentati da Giuseppe Mussari e dal consiglio di Amministrazione del Mps, e che quindi le loro indagini son sempre fatte alla carlona, concepite per coprire gli imbrogli contabili e le sconsiderate operazioni corsare delle banche d’affari.
Ovviamente mente Bazoli. Che il sistema bancario italiano, ma il sistema bancario in generale, siano fondati sulla contraffazione dei conti, sulla manipolazione dei bilanci, sull’occultamento delle manovre finanziarie più spericolate, e quindi sull’inganno dei correntisti, sul raggiro degli azionisti nonché delle autorità di vigilanza, in breve sul malaffare, sono fatti lampanti, dimostrati incontrovertibilmente dagli scandali più recenti, come quello della manipolazione dei tassi Libor.
E mente anche il Bersani. Il segretario pensa di poterci ingannare con uno dei suoi soliti fumogeni, con una delle sue mediocri battute paesane, mentre l’intreccio tra malaffare e politica, ai massimi livelli, è acclarato, in particolare il senese “groviglio armonioso” tra sinistra sistemica e mondo della grande finanza. [4]

Torbido intreccio
L’attuale inchiesta della Procura della repubblica di Siena sull’ammanco colossale di Mps dipende dall’aver giocato d’azzardo, nel 2005-2006, in titoli tossici, nei famigerati derivati. Il catastrofico affare corsaro del Mps emerse ben presto, dopo il settembre 2008 quando, scoperchiatosi a scala mondiale il Vaso di Pandora della speculazione sui derivati (fallimento della Lehman Brothers), Mps vide svanire una cifra che si aggirava sui 740 milioni di euro. [5]
Andava a farsi friggere la bella favoletta della banca “democratica” legata al territorio e rispettosa delle regole etiche che dovrebbero presiedere alla tutela dei risparmiatori: i quattrini di questi ultimi venivano giocati, ovviamente a loro insaputa, nella bisca del capitalismo casinò, nella spasmodica ricerca di sovrapprofitti, non solo e non tanto per potenziare la banca, ma per elargire ai manager dei diversi dipartimenti bonus stellari nonché per oliare la vorace macchina delle clientele politiche.
Il fatto è che la più antica banca d’Europa, una delle poche che non aveva mai registrato perdite, oramai diventata banca d’affari quotata in borsa, non poteva permettersi di far sapere a clienti e azionisti di essere andata in rosso, con ciò temendo l’inevitabile crollo dei propri titoli. Di qui non soltanto la contraffazione dei bilanci, la manipolazione dei conti, l’occultazione dell’ammanco; di qui ulteriori spericolate operazioni corsare nella disperata ricerca di far ri-quadrare i conti, risoltesi poi in rovesci ancora più disastrosi.
«Le probabilità di realizzare tanti investimenti sbagliati tutti in fila, come è accaduto al Mps dal 2006, erano più o meno le stesse di fare “zero” alla schedina del Totocalcio. Monte Paschi ci è riuscita. (…) Con le operazioni sui derivati Santorini e Alexandria l’istituto ha perso centinaia di milioni (c’è chi stima 750 milioni lordi) mai visti in bilancio, colmati ora con 500 milioni di euro di Monti-bond aggiuntivi rispetto alle stime iniziali. [6] Ma questo ormai è scoperto. L’ulteriore bomba da gestire è un’altra: il maxi-derivato realizzato da Mps su buona parte dei 25 miliardi di BTp che ha in bilancio. Qui la banca ha fatto un doppio flop. Ha rinunciato a circa 3 miliardi di euro di incassi sulle cedole negli ultimi tre anni. E in più si ritrova con perdite potenziali per 2,8 miliardi». [7]

L’intrigo Antoveneta
E’ negli stessi anni, mentre presiede alle spericolate scorribande sui derivati, che Giuseppe Mussari, oramai entrato a far parte del gotha dei banchieri, guidò nel novembre 2007 l’operazione d’acquisto della banca Antonveneta — già al centro, nel 2005, della battaglia per il suo controllo da parte della Popolare di Lodi, vicenda che fece finire in carcere Giampiero Fiorani e indagato l’ex Governatore di Bankitalia Antonio Fazio. La cifra sborsata fu astronomica: più di 10 miliardi (circa 20mila miliardi di vecchie lire).
Il fatto è che Antonveneta era stata acquistata pochi mesi prima dagli spagnoli di Santander per la ben più modesta cifra di 6,6 miliardi.
«Un affare concluso a una cifra davvero folle, roba da perdersi dietro agli zeri: 10,3 miliardi. Il venditore, la banca spagnola Santander, che l'Antonveneta l'aveva acquistata per 6,6 miliardi appena due mesi prima, incassò una sostanziosa plusvalenza. Mps si trovò invece con un ferrovecchio, anche se qualcuno in Italia provò a esultare per il presunto successo patriottico. Il fatto è che l'Antonveneta quei soldi non li valeva proprio: anni dopo il collegio sindacale della banca senese stimò il suo valore patrimoniale a 2,3 miliardi. Non basta. Antonveneta fu pagata da Mps molto di più di 10 miliardi e passa. La banca allora guidata da Mussari si accollò infatti anche i 7,9 miliardi di passivo che gravavano al momento della compravendita sull'ex gioiello del Nord-Est». [8]
Resta un "mistero", che l’inchiesta ancora in corso dovrà chiarire: per quale ragione il Mps sborsò più di tre miliardi e mezzo in più per acquistare una banca che ne valeva al massimo 3? [9] In onore al patriottismo bancario, come sbandieravano media ed analisti compiacenti? Oppure, com’è lecito sospettare, i quattrini vennero stornati di nascosto anche per corrompere consulenti, politici e vigilanti?
Sta di fatto, come fanno notare Morya Longo e Fabio Pavesi, che «L’operazione Antonveneta pagata 10 miliardi nel 2007 ha lasciato tracce incancellabili nei conti. La banca di Siena ha cumulato, solo tra il 2011 e i primi 9 mesi del 2012, 6,2 miliardi di perdite. Una cifra che va oltre la metà del patrimonio netto della banca». [10]

All’origine del casinò
Quanto abbiamo sin qui scritto, lo si può trovare, a spizzichi e bocconi, sulla stampa di questi ultimi giorni. Nemmeno l’organo ufficiale del capitalismo italiano, Il Sole 24 Ore, ha esitazioni a mettere sulla graticola Mussari e i suoi sodali del vertice Mps, salvo porre al riparo i vertici Consob e Bankitalia (e anzitutto Mario Draghi che era governatore ai tempi della magagne senesi in questione). Sarebbe interessante andare a rileggere proprio Il Sole di quegli anni, che contribuì così tanto a stendere il tappeto rosso che poi consentì a Mussari di presiedere addirittura l’Associazione bancaria italiana (Abi).
Quello che non troverete nella stampa di questi giorni, nemmeno su Il fatto quotidiano che strilla tanto (grazie alle carte passategli si suppone dallo stesso Profumo), è l’indaginesull’origine del tumore che infetta l’intero sistema bancario italiano (ed europeo) e di cui quella del Mps è solo una delle metastasi.
Ci riferiamo al colossale processo di privatizzazioni e concentrazioni degli anni ’90 e che culminò nel 1998 nella nascita, ad esempio, dei due mostri Unicredit e Banca Intesa. Un processo che cambiò da cima a fondo l’architettura stessa del sistema bancario italiano e che consistette nel passaggio delle banche da commerciali a banche d’affari, quindi non solo quotate in borsa ma oramai dedite alle scorribande predatorie sui mercati finanziari. Solo a patto di focalizzare questo colossale processo di privatizzazione-concentrazione-speculazione è possibile capire perché anche una banca come Mps si lanciò nella gara, fraudolenta, viziata nativamente da trucchi di vario tipo e, quel che a noi preme sottolineare, voluta e avallata dai partiti politici e dai governi, sia di centro-sinistra che berlusconian-leghisti.
Gli anni ’90 erano quelli che prepararono l’ingresso nell’Euro. Gli anni in cui l’Italia doveva adeguarsi agli standard previsti dai Trattati, implicanti il trasferimento della sovranità politica a Bruxelles e quella monetaria a Francoforte. Gli anni in cui prendeva definitivamente forma il regime oligarchico europeo incardinato nel predominio del sistema bancario e finanziario.
Una delle tappe cruciali di questo processo di avvicinamento verso l’abisso della globalizzazione iniziò certamente nel 1981, col divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia. Ma ve ne fu una seconda, di portata altrettanto grande, essa venne sancita, il 30 luglio 1990, con la Legge Amato n. 218 e successivi decreti di attuazione — Primo Ministro Andreotti, coalizione di centro-sinistra Dc, Psi, Psdi, Pri, Pli con Azeglio Ciampi a governatore della Banca d’Italia. [11]
Essa venne adottata sotto la pressione della Comunità Europea, che nel decennio degli ’80 avviò un radicale processo di liberalizzazioni e privatizzazioni dell’economia e quindi del mondo bancario. L’imperativo liberista, sappiamo, era quello di porre fine ad ogni tipo di supremazia e controllo vincolante degli Stati nella sfera economica, in ossequio al dogma della cosiddetta “libera concorrenza”. In verità, in nome della concorrenza, nacquero i colossi monopolistici che oggi abbiamo sotto gli occhi, e che fanno il bello e il cattivo tempo, e che hanno una potenza a volte superiore a certi Stati.
Le banche da commerciali si trasformarono quindi in banche d’affari, divennero Società per azioni, vennero quotate in borsa, iniziarono a giocare i depositi e i risparmi in investimenti speculativi, e furono esse il veicolo per mercanteggiare i titoli di Stato italiani sui mercati finanziari internazionali. Erano gli anni del raddoppio del debito statale malgrado la costante riduzione della spesa pubblica. Gli anni del sodalizio imperfetto tra centro-sinistra e centro-destra, di governi che agirono tutti in perfetta continuità assecondando i dettami europei e i desiderata dei banchieri (compreso Giulio Tremonti che oggi cerca di rifarsi un’impossibile verginità).
Questo è quel che media, economisti e analisti non vi dicono, né possono dirvi, perché essi stessi, come i politici, sono collusi se non addirittura venduti, alla finanza predatoria globale, quella che ha nelle banche i suoi templi, i luoghi dove i nuovi sacerdoti del Dio-denaro offrono in sacrificio la vita e il sangue di interi popoli come lo scalpo di intere nazioni.
di Moreno Pasquinelli 

NOTE
[1] Reuters, 24 gennaio 2013
[2] Ansa, 23 gennaio 2013
[3] Finanza e Mercati, 24 Gennaio 2013
[4] Carlo Marroni, Finanza e Mercati, 23 gennaio 2013
[5] Marco Lillo, Il Fatto Quotidiano del 22 gennaio 2013
[6] Il Ministero del Tesoro offrirà a Mps, con interessi del 9% Monti-bond per un ammontare complessivo di 3,5-3,9 miliardi, ovviamente in cambio di garanzie di pari importo, Nda]
[7] Morya Longo e Fabio Pavesi, Il doppio flop su derivati e BTp, Finanza e Mercati, 24 gennaio 2013-01-24
[8] Il Giornale, 24 gennaio 2013
[9] Mauro Aurigi, Antoveneta: un’operazione che ancora non ha un perché. Il cittadino on line, 28 aprile 2012
[10] Il Sole 24 Ore, del 23 gennaio 2013
[11] I successivi decreti applicatici furono: il Decreto legislativo di attuazione n.356 del 1990. La legge-delega Ciampi n.461 del 1998. Il Decreto legislativo di attuazione n.153 del 1999. La legge n.448 del 2001 (cosiddetta legge Tremonti). La Legge n.112 del 2002.

01 febbraio 2013

Quello che sta per succedere e perché





Dopo un 2012 turbolento, il nuovo anno è iniziato in un clima economico di relativa tranquillità. Gli spread sono bassi e la crisi sembra concedere una tregua. Ma cosa ci aspetta nel prossimo futuro? Le difficoltà sono davvero superate o sono destinate a riproporsi? Poiché esistono due opposte chiavi di lettura della crisi, per rispondere a queste domande è necessario capire quale sia la più convincente. Vediamole:

Chiave di lettura 1: Crisi dei debiti sovrani.

Secondo questa chiave di lettura, alcuni Paesi europei hanno vissuto al di sopra delle loro possibilità. Hanno aumentato il loro debito pubblico senza migliorare la competitività, rischiando il default. L’aumento degli spread indica che i mercati sono restii ad investire in titoli di Paesi spendaccioni e già molto indebitati.
La soluzione della crisi consisterebbe dunque nel rafforzare la disciplina di bilancio, imponendo un tetto al rapporto debito/PIL e implementando drastiche misure di austerity che diminuiscano la spesa. Per scoraggiare la speculazione, a livello europeo andrebbero inoltre introdotte forme di mutualizzazione dei debiti sovrani (acquisto di titoli da parte della BCE, emissione di Eurobonds) in modo che tutti i Paesi si impegnino a garantire, collegialmente, il pagamento degli interessi e il rimborso dei titoli in scadenza emessi dai singoli Stati. Tuttavia, per evitare azzardi morali, i governi nazionali dovrebbero accettare di essere vincolati a realizzare le politiche indicate dagli organismi europei, indipendentemente dalla volontà dei loro cittadini.

Chiave di lettura 2: Crisi dell’euro.

Secondo questa chiave di lettura, invece, alcuni Paesi europei avrebbero sfruttato l’appartenenza alla moneta unica per aumentare la loro competitività, a discapito di altri. Contenendo salari e domanda interna, avrebbero mantenuto la propria inflazione sistematicamente a livelli inferiori rispetto ai partners. I quali, condividendo la stessa moneta, non avrebbero potuto operare una svalutazione difensiva per determinare un riequilibrio. I primi avrebbero accumulato surplus commerciali, mentre i secondi avrebbero visto peggiorare i conti con l’estero, fino ad entrare in crisi.
L’aumento degli spread indicherebbe che i mercati sanno che in futuro il valore dei titoli dei Paesi in crisi potrebbe diminuire: essi potrebbero uscire dall’euro, svalutare, rinegoziare il debito o rinominarlo nella nuova valuta.
Per uscire dalla crisi servirebbe dunque introdurre un meccanismo automatico di riequilibrio fra i Paesi in surplus strutturale e quelli in deficit. Inoltre, data la recessione in atto, le politiche di austerity andrebbero smantellate e sostituite con interventi di segno opposto, a sostegno della domanda e dell’occupazione. Nei Paesi in surplus andrebbero poi alzati significativamente i salari.
Tuttavia, apparendo questa strada impercorribile, poiché presupporrebbe che tutti i principali Paesi europei invertano le politiche economiche adottate fino ad oggi, e che quelli più forti accettino trasferimenti automatici verso quelli meno competitivi, l’unica via di salvezza resterebbe l’uscita dall’euro e il recupero della sovranità nazionale in materia di politiche economiche e monetarie.

Quale è quella corretta?

Chiaramente, queste tesi sono fra loro inconciliabili. Se si accetta l’idea che ad andare in sofferenza siano stati quei Paesi che presentavano un alto rapporto debito/PIL, allora la prima spiegazione appare come quella corretta. Invece, se si crede che la crisi abbia colpito chi ha avuto un tasso di inflazione più alto, converrà orientarsi sulla seconda.
Ecco una breve tabella riassuntiva:
  debito pub / PIL (%)
Squilibri esterni e differenziali di costo nell’eurozona
Paese 1999 2007 2011 Saldo conto corrente / PIL
(* 100) 1999-2012
Costo unitario del lavoro
var % 1999-2010
Indice prezzi al consumo
1999-2012
Germania
61
65
83
 52.0  1.4 21.8
Portogallo
50
68
106
-132.2 11.1 35.1
Italia
114
104
121
 -24.4 28.5 30.9
Grecia
103
105
166
-123.2 54.9 43.1
Spagna
62
36
67
 -75.5 24.8 38.4
[Dati estratti da Europa: una crisi di debito o di bilancia dei pagamenti? - A.F. Presbitero, Università Politecnica delle Marche, pubblicato su linkiesta.it ]
Le prime colonne mostrano che la prima chiave di lettura è infondata: due dei Paesi più colpiti dalla crisi, il Portogallo e la Spagna, fino al 2007 presentavano un rapporto debito/PIL simile o addirittura migliore rispetto a quello della “virtuosa” Germania. La parte destra della tabella conferma quel che abbiamo già avuto modo di affermare: il problema non è il debito pubblico. La Germania ha beneficiato di una minore inflazione (ultima colonna) grazie al contenimento del costo del lavoro (penultima colonna) ed oggi vanta il “record” del maggior numero percentuale di lavoratori a basso reddito di tutta l’Europa occidentale (il 22.2%, secondo Eurostat). In questo modo ha aumentato la propria competitività, a discapito dei partners europei (terzultima colonna) mandandoli in crisi.
Dunque, i dati indicano che la tesi corretta è la seconda, la quale infatti è sostenuta da numerosi esperti nazionali ed internazionali. Tuttavia la quasi totalità dei media sposa la prima chiave di lettura, l’unica ad essere ufficialmente accettata da tutte le élite di governo europee, di destra come di sinistra. Questo non deve stupire: sia ai governanti dei Paesi forti che a quelli degli Stati in crisi conviene far credere che il problema principale siano la spesa dello Stato e il debito pubblico. In questo modo, infatti, i primi possono proseguire il contenimento della domanda interna, arricchendosi grazie alle esportazioni e garantendosi surplus utili ad acquisire aziende pregiate dei Paesi in crisi (come testimonia, per esempio, la recente acquisizione di Ducati da parte di Audi-Volkswagen). I secondi (gli stati in crisi) ottengono di poter sbandierare un “vincolo esterno” grazie al quale imporre ai cittadini quello che altrimenti sarebbe stato impossibile realizzare: tagli ai servizi pubblici e alle pensioni, restringimento delle tutele dei lavoratori, privatizzazioni, continue manovre finanziarie “lacrime e sangue”.
Così, mentre smantellano lo stato sociale, i governi di Italia, Francia e Germania danno vita ad un insulso gioco delle parti: quando Monti e Hollande spingono per introdurre forme di condivisione dei debiti sovrani, la Merkel risponde pretendendo cessioni di sovranità verso le istituzioni UE. Due facce della stessa medaglia, entrambe riconducibili alla chiave di lettura 1. Quella sbagliata.
In seno al Consiglio Europeo è stata già siglato l’accordo che consentirà a ciascun leader di cantare vittoria nella propria patria: da Giugno 2013 la Commissione UE potrà far sottoscrivere ad ogni Stato un vero e proprio contratto, ove indicherà le “riforme” da attuare e le modalità con cui realizzarle; eventuali “meccanismi di solidarietà” saranno riservati ai Paesi che avranno sottoscritto tali intese.
Ecco quindi il leitmotiv che ascolteremo nel 2013: “solidarietà” in cambio di cessioni di sovranità. Lo conferma il presidente del consiglio europeo, Van Rompuy, che però omette di precisare che la solidarietà sarà fasulla: le eventuali forme di mutualizzazione dei debiti saranno parziali e temporanee, come ha già chiarito Angela Merkel, intervenendo al Bundestag. E in ogni caso esse non potranno mai risolvere gli squilibri strutturali fra le economie.
Pertanto c’è da aspettarsi che la crisi riesploda. Anche perché dal primo gennaio 2013 è entrato in vigore il fiscal compact, che statuisce, tra le altre cose, che il rapporto debito/PIL deve assestarsi al 60%. L’Italia, per tentare di raggiungere l’obiettivo, dovrà varare manovre su manovre, ogni anno, per decine e decine di miliardi. In assenza di una crescita sostenuta, le conseguenze saranno inimmaginabili, come testimoniano le analisi della Corte dei Conti e l’ISPI. L’Italia e gli altri PIGS resteranno intrappolati in una spirale recessiva, senza via di uscita. Ma gli alfieri della chiave di lettura sbagliata non si fermeranno. Anzi, rincareranno la dose. Quelli italiani hanno già nel mirino la privatizzazione della sanità, che non a caso si sta già realizzando in Spagna.
Uno dopo l’altro i Paesi dell’eurozona dovranno richiedere gli “aiuti” del MES e, in cambio, dovranno cedere ogni residua forma di sovranità nazionale. Così, le decisioni verranno prese direttamente a Bruxelles e Francoforte, senza che né i cittadini né i Parlamenti nazionali possano opporvi resistenza. Ma ciò che è più drammatico è che alla gran parte dell’opinione pubblica, tutto ciò apparirà come necessario, in quanto coerente con la teoria della crisi dei debiti sovrani, propagandata dalla stragrande maggioranza dei media.
Per questo, il primo fronte sul quale schierare le forze che vogliono impedire lo sfacelo è quello dell’informazione. Un’informazione corretta sulle reali cause della crisi.

di Fabrizio Tringali -

31 gennaio 2013

L'Italia nel tunnel





Secondo i dati di Bankitalia, (1) diffusi a dicembre scorso, alla fine del 2010 la ricchezza netta delle famiglie italiane era pari a 8 volte il reddito disponibile (contro l’8,2 del Regno Unito, l’8,1 della Francia, il 7,8 del Giappone e il 5,3 degli USA). Il debito delle famiglie italiane era pari al 70% del reddito disponibile (contro circa il 100% di Francia e Germania, il 125% di USA e Giappone e il 165% del Regno Unito). Il 10% delle famiglie più ricche deteneva il 45,9% della ricchezza, la metà più povera soltanto il 9,4%.
Alla fine del 2011 la ricchezza netta delle famiglie italiane ammontava a 8619 miliardi di euro (la ricchezza in abitazioni ammontava a oltre 5000 miliardi e quella in attività finanziarie a oltre 3500 miliardi). Una ricchezza leggermente inferiore a quella del 2010 (8683 miliardi) a prezzi costanti, ma se calcolata a prezzi 2011 nettamente inferiore a quella registrata negli anni successivi al 2007, ad ulteriore conferma dell’impatto negativo sulla nostra economia della crisi finanziaria del 2008. Una ricchezza comunque sempre pari a quattro volte l’ammontare complessivo del debito pubblico.
Vi sono pochi dubbi perciò che, se in Italia vi fosse una classe dirigente degna di tale nome, la campagna elettorale verterebbe alla luce di queste cifre  soprattutto sulle conseguenze che derivano dall’obbligo di pareggio di bilancio e dal patto fiscale europeo (il cosiddetto “fiscal compact“), che ci costringe a ridurre il debito pubblico del 50% nell’arco dei prossimi vent’anni. Si tratta di misure d’austerità imposte al nostro Paese dal governo del “commissario tecnico” Mario Monti, e fondate sulla previsione (gravemente errata) che la diminuzione di un punto del deficit pubblico avrebbe causato la riduzione di mezzo punto di crescita, mentre in realtà ne ha prodotto il triplo (ossia un punto e mezzo di crescita in meno).
Misure che alimentano una recessione che sta dilagando in tutta Europa. E che, oltre a far impennare il tasso di povertà e quello di disoccupazione (specialmente del tasso di disoccupazione giovanile), stanno compromettendo addirittura la base produttiva del nostro Paese – un Paese notoriamente privo di materie prime e dagli anni Novanta anche di quel “pungiglione strategico” che una “mano pubblica”, esperta e decisa, oggi avrebbe potuto (e dovuto) sfruttare per trarre il massimo profitto dal mutamento geopolitico che sta rivoluzionando gli equilibri del sistema internazionale. Invece, essendovi in Italia tutto fuorché una classe dirigente, non solo non vi è alcun serio dibattito su tali problemi, ma si trova perfino del tutto normale che anche quel poco che resta del settore strategico pubblico venga ceduto allo “straniero”. E ci si limita a ripetere il mantra liberista lamentandosi del fatto che in questi anni non vi sia stata alcuna vera “rivoluzione liberale”, come se il terremoto finanziario del 2008 fosse il risultato delle scelte sbagliate del nostro Paese. Ma soprattutto “ci si balocca” con alcuni dati macroeconomici, senza nemmeno tener conto del fatto che la causa principale dell’andamento dello spread sui tassi d’interesse dipende, come in definitiva la stesso Fmi e Bankitalia riconoscono – non tanto dal debito pubblico quanto dalla mancanza di un autentico “soggetto politico europeo” e di conseguenza dal possibile collasso dell’eurozona, che proprio le politiche di austerity rendono più probabile.
Del resto, indipendentemente dalla internazionalizzazione (voluta da Amato e dagli altri tecnocrati “europeisti”) del nostro debito pubblico, dopo aver deciso, all’inizio degli anni Ottanta, il divorzio tra ministero del Tesoro e Bankitalia (divorzio che causò una crescita vertiginosa del debito pubblico), si sa che il Giappone, che ha un tasso di disoccupazione del 4,5% (contro l’11% dell’Europa) e che è la terza economia del pianeta, intende ampliare la propria spesa pubblica con un primo intervento di 85 miliardi, pur avendo un debito pubblico che è del 236% del Pil e un rapporto deficit/Pil al 10%. (2) Indubbiamente, ciò dipende pure dal fatto che il debito pubblico del Giappone è pressoché completamente detenuto dai giapponesi, ma la sostanza è che non vi può essere alcuna crescita né alcuna vera ripresa dell’economia reale senza rinunciare a misure d’austerity, il cui fallimento è sotto gli occhi di tutti.
D’altra parte, si può ragionevolmente ritenere che l’oligarchia che detiene le leve del potere in Europa consideri più importante liquidare una volta per tutte il “vecchio” Welfare e imporre un modello liberista di tipo americano, in particolare nei Paesi europei più deboli, garantendo da un lato i “mercati finanziari” e dall’altro gli interessi geopolitici degli Stati Uniti. Questi ultimi infatti, hanno tutto l’interesse a impedire una qualsiasi politica europea distinta da quella atlantista e al tempo stesso devono saldare la Germania all’Atlantico, per bloccare “preventivamente” ogni tentativo di dar vita a una nuova Ostpolitik, soprattutto ora che la sfida con la Cina (e con la Russia) è decisiva per il futuro degli Usa. Non a caso, gli statunitensi o i loro “agenti” si adoperano perché si lasci alla Francia sufficientemente spazio per poter fare una politica di tipo neocoloniale in Africa e agiscono in modo tale da approfondire sempre più il solco tra il Baltico e il Mediterraneo.
Insomma, si applica la solita strategia del divide et impera, con la differenza però che se nelle aree più calde del pianeta questa strategia non si distingue da una geopolitica del caos, che può giocare non pochi brutti scherzi agli apprendisti stregoni occidentali (dalla Libia al Mali, dall’Egitto alla Siria), in Europa si può facilmente far leva su gruppi subdominanti che, avendo ormai rinnegato ogni ideale, sono disposti a tutto pur di non perdere i favori degli amici “d’oltreoceano”. In questo senso, il nostro Paese sta giocando un ruolo di primo piano, sia sotto il profilo della ridefinizione in chiave mercantile dei rapporti sociali, sia sotto quello geopolitico, configurandosi come una base sicura per la NATO e la politica di potenza statunitense. Tanto che Difesa ed Esteri sono di fatto gestiti direttamente dagli statunitensi, essendo palese che si tratta di ministeri controllati rispettivamente dal Pentagono e dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, e che non rappresentano né tutelano in alcun modo i reali interessi del nostro Paese. Ragion per cui anche coloro (come Luciano Gallino e Stefano Sylos Labini) che difendono le ragioni di un intervento pubblico per far uscire l’Itala da una spirale recessiva che minaccia di far compiere alla maggioranza degli italiani un drammatico “balzo all’indietro”, dovrebbero rendersi conto che non vi sono solo ostacoli di tipo economico da superare. Anzi gli ostacoli maggiori sono di ben altra natura. E se si può concedere che la Fornero non ne sia consapevole, Mario Monti e certamente Mario Draghi sanno sicuramente quel che bolle in pentola. E agiscono di conseguenza.
In ogni caso, l’azione politico-strategica dei “mercati” è favorita dallo pseudoeuropeismo dei tecnocrati atlantisti (il cosiddetto “euroatlantismo”) e da una lotta tra forze politiche il cui vero obiettivo è diventare i portavoce degli strateghi d’oltreoceano, infischiandosene della sorte della maggioranza degli italiani. I quali, tuttavia, non hanno fatto molto in questi ultimi lustri per cercare di far prevalere l’interesse generale, badando perlopiù al proprio “particulare” e prestando ascolto ai soliti gazzettieri e intellettuali mercenari che infestano il nostro Paese da decenni. Non c’è dubbio quindi che gli italiani sapranno premiare i peggiori pure questa volta. Anche perché non pare che vi siano vere alternative, se non vi è nessuna forza politica che difenda princìpi e valori di tipo socialista e nazionalpopolare e che allo stesso tempo intenda battersi per i diritti dei popoli europei contro la prepotenza dei “mercati” e della oligarchia euroatlantista. Quel che però è certo è che quei (pochi) italiani che non hanno dimenticato che anche il comandante in capo delle forze armate statunitensi nel Vietnam del Sud, generale William Westmoreland, disse che vedeva la luce in fondo al tunnel poco prima della famosa offensiva del Tet, che sancì la sconfitta degli Stati Uniti nella guerra del Vietnam, non possono non essere d’accordo con chi sostiene che l’ottimismo è l’oppio degli insipienti e che, se veramente si vuole il bene dell’Italia, sarebbe invece opportuno non nascondere il timore che il peggio debba ancora venire.
Con ciò non si vuole affermare che non vi sia via d’uscita. Si tratta piuttosto di prendere atto che solo uno “squilibrio” derivante da una (invero non impossibile) nuova crisi internazionale potrebbe liberare una “quantità d’energia” tale da indurre la Germania (e la Francia) a decidersi per un cambiamento di paradigma (geo)politico. Si concederà però che, rebus sic stantibus, non vi è nulla che faccia ritenere che vi sia in Europa la volontà di dar inizio ad un tale nuovo corso politico, che avrebbe effetti positivi anche in un Paese come il nostro in cui funzione politica e innovazione strategica sembrano quasi del tutto scomparse.

di Fabio Falchi 

(1)Bancaditalia.it
(2) IlSole24ore.com

02 febbraio 2013

Monte dei Paschi: origini e cause di uno scandalo







IL GROVIGLIO ARMONIOSO
Della serie: la truffa è l'anima del capitalismo finanziario
Pochi oggi ricordano lo scandalo della Banca Romana culminato nel 1893 con le dimissioni del governo Giolitti e il crollo di mezzo sistema bancario italiano. Per occultare le perdite dovute a cattivi investimenti la Banca Romana, a fronte dei 60 milioni autorizzati, coperti da corrispondenti riserve auree, emise biglietti di banca per 113 milioni di lire, incluse banconote false per 40 milioni. L’inchiesta rivelò che il governatore della banca versò, affinché lo scandalo non emergesse, cospicue somme a diversi esponenti politici, tra cui due Presidenti del Consiglio, Francesco Crispi e Giovanni Giolitti.
Menzogne sistemiche
A 112 anni di distanza l’Italia è alle prese con lo scoppio di un gigantesco bubbone bancario, quello del Monte dei Paschi di Siena, i cui vertici (già indagati per “aggiotaggio e ostacolo alle autorità di vigilanza” per la torbida vicenda dell’acquisto della Banca Antonveneta) rischiano di finire in galera assieme, ai loro politicanti complici, per aver, sotto la gestione di Giuseppe Mussari (a sua volta rinviato a giudizio per falso e turbativa nella gara per la costruzione dell'aeroporto di Ampugnano), truccato i conti dopo almeno un paio di disastrose operazioni speculative in titoli tossici.
Giovanni Bazoli, presidente di Intesa Sanpaolo, afferma che quello del Mps «è un fatto episodico… che il sistema bancario italiano è sano». [1] Da parte sua, visto che il Mps è controllato da una Fondazione a sua volta controllata dal Pd, Pierluigi Bersani sostiene: «Nessuna responsabilità del Pd, per l’amor di Dio. Il Pd fa il Pd e le banche fanno le banche». [2]
Entrambi mentono. Mentono con ogni evidenza anche le Autorità preposte alla vigilanza, tra cui Banca d’Italia e Consob, che in un laconico comunicato pensano di cavarsela scrivendo che: «La possibilità da parte delle autorità di conoscere in modo compiuto le operazioni di una banca dipende dalla corretta contabilizzazione delle medesime e soprattutto dalla corretta gestione della documentazione. Con il Mps ci sono mancate entrambe queste condizioni». [3]
Ma come? Non dovrebbe essere che chi vigila è appunto tenuto a verificare la correttezza della documentazione prodotta dal soggetto su cui s’indaga? Fesso chi lo ha pensato! Con solare candore Bankitalia e Consob ci dicono che si sono fidati delle carte e dei bilanci presentati da Giuseppe Mussari e dal consiglio di Amministrazione del Mps, e che quindi le loro indagini son sempre fatte alla carlona, concepite per coprire gli imbrogli contabili e le sconsiderate operazioni corsare delle banche d’affari.
Ovviamente mente Bazoli. Che il sistema bancario italiano, ma il sistema bancario in generale, siano fondati sulla contraffazione dei conti, sulla manipolazione dei bilanci, sull’occultamento delle manovre finanziarie più spericolate, e quindi sull’inganno dei correntisti, sul raggiro degli azionisti nonché delle autorità di vigilanza, in breve sul malaffare, sono fatti lampanti, dimostrati incontrovertibilmente dagli scandali più recenti, come quello della manipolazione dei tassi Libor.
E mente anche il Bersani. Il segretario pensa di poterci ingannare con uno dei suoi soliti fumogeni, con una delle sue mediocri battute paesane, mentre l’intreccio tra malaffare e politica, ai massimi livelli, è acclarato, in particolare il senese “groviglio armonioso” tra sinistra sistemica e mondo della grande finanza. [4]

Torbido intreccio
L’attuale inchiesta della Procura della repubblica di Siena sull’ammanco colossale di Mps dipende dall’aver giocato d’azzardo, nel 2005-2006, in titoli tossici, nei famigerati derivati. Il catastrofico affare corsaro del Mps emerse ben presto, dopo il settembre 2008 quando, scoperchiatosi a scala mondiale il Vaso di Pandora della speculazione sui derivati (fallimento della Lehman Brothers), Mps vide svanire una cifra che si aggirava sui 740 milioni di euro. [5]
Andava a farsi friggere la bella favoletta della banca “democratica” legata al territorio e rispettosa delle regole etiche che dovrebbero presiedere alla tutela dei risparmiatori: i quattrini di questi ultimi venivano giocati, ovviamente a loro insaputa, nella bisca del capitalismo casinò, nella spasmodica ricerca di sovrapprofitti, non solo e non tanto per potenziare la banca, ma per elargire ai manager dei diversi dipartimenti bonus stellari nonché per oliare la vorace macchina delle clientele politiche.
Il fatto è che la più antica banca d’Europa, una delle poche che non aveva mai registrato perdite, oramai diventata banca d’affari quotata in borsa, non poteva permettersi di far sapere a clienti e azionisti di essere andata in rosso, con ciò temendo l’inevitabile crollo dei propri titoli. Di qui non soltanto la contraffazione dei bilanci, la manipolazione dei conti, l’occultazione dell’ammanco; di qui ulteriori spericolate operazioni corsare nella disperata ricerca di far ri-quadrare i conti, risoltesi poi in rovesci ancora più disastrosi.
«Le probabilità di realizzare tanti investimenti sbagliati tutti in fila, come è accaduto al Mps dal 2006, erano più o meno le stesse di fare “zero” alla schedina del Totocalcio. Monte Paschi ci è riuscita. (…) Con le operazioni sui derivati Santorini e Alexandria l’istituto ha perso centinaia di milioni (c’è chi stima 750 milioni lordi) mai visti in bilancio, colmati ora con 500 milioni di euro di Monti-bond aggiuntivi rispetto alle stime iniziali. [6] Ma questo ormai è scoperto. L’ulteriore bomba da gestire è un’altra: il maxi-derivato realizzato da Mps su buona parte dei 25 miliardi di BTp che ha in bilancio. Qui la banca ha fatto un doppio flop. Ha rinunciato a circa 3 miliardi di euro di incassi sulle cedole negli ultimi tre anni. E in più si ritrova con perdite potenziali per 2,8 miliardi». [7]

L’intrigo Antoveneta
E’ negli stessi anni, mentre presiede alle spericolate scorribande sui derivati, che Giuseppe Mussari, oramai entrato a far parte del gotha dei banchieri, guidò nel novembre 2007 l’operazione d’acquisto della banca Antonveneta — già al centro, nel 2005, della battaglia per il suo controllo da parte della Popolare di Lodi, vicenda che fece finire in carcere Giampiero Fiorani e indagato l’ex Governatore di Bankitalia Antonio Fazio. La cifra sborsata fu astronomica: più di 10 miliardi (circa 20mila miliardi di vecchie lire).
Il fatto è che Antonveneta era stata acquistata pochi mesi prima dagli spagnoli di Santander per la ben più modesta cifra di 6,6 miliardi.
«Un affare concluso a una cifra davvero folle, roba da perdersi dietro agli zeri: 10,3 miliardi. Il venditore, la banca spagnola Santander, che l'Antonveneta l'aveva acquistata per 6,6 miliardi appena due mesi prima, incassò una sostanziosa plusvalenza. Mps si trovò invece con un ferrovecchio, anche se qualcuno in Italia provò a esultare per il presunto successo patriottico. Il fatto è che l'Antonveneta quei soldi non li valeva proprio: anni dopo il collegio sindacale della banca senese stimò il suo valore patrimoniale a 2,3 miliardi. Non basta. Antonveneta fu pagata da Mps molto di più di 10 miliardi e passa. La banca allora guidata da Mussari si accollò infatti anche i 7,9 miliardi di passivo che gravavano al momento della compravendita sull'ex gioiello del Nord-Est». [8]
Resta un "mistero", che l’inchiesta ancora in corso dovrà chiarire: per quale ragione il Mps sborsò più di tre miliardi e mezzo in più per acquistare una banca che ne valeva al massimo 3? [9] In onore al patriottismo bancario, come sbandieravano media ed analisti compiacenti? Oppure, com’è lecito sospettare, i quattrini vennero stornati di nascosto anche per corrompere consulenti, politici e vigilanti?
Sta di fatto, come fanno notare Morya Longo e Fabio Pavesi, che «L’operazione Antonveneta pagata 10 miliardi nel 2007 ha lasciato tracce incancellabili nei conti. La banca di Siena ha cumulato, solo tra il 2011 e i primi 9 mesi del 2012, 6,2 miliardi di perdite. Una cifra che va oltre la metà del patrimonio netto della banca». [10]

All’origine del casinò
Quanto abbiamo sin qui scritto, lo si può trovare, a spizzichi e bocconi, sulla stampa di questi ultimi giorni. Nemmeno l’organo ufficiale del capitalismo italiano, Il Sole 24 Ore, ha esitazioni a mettere sulla graticola Mussari e i suoi sodali del vertice Mps, salvo porre al riparo i vertici Consob e Bankitalia (e anzitutto Mario Draghi che era governatore ai tempi della magagne senesi in questione). Sarebbe interessante andare a rileggere proprio Il Sole di quegli anni, che contribuì così tanto a stendere il tappeto rosso che poi consentì a Mussari di presiedere addirittura l’Associazione bancaria italiana (Abi).
Quello che non troverete nella stampa di questi giorni, nemmeno su Il fatto quotidiano che strilla tanto (grazie alle carte passategli si suppone dallo stesso Profumo), è l’indaginesull’origine del tumore che infetta l’intero sistema bancario italiano (ed europeo) e di cui quella del Mps è solo una delle metastasi.
Ci riferiamo al colossale processo di privatizzazioni e concentrazioni degli anni ’90 e che culminò nel 1998 nella nascita, ad esempio, dei due mostri Unicredit e Banca Intesa. Un processo che cambiò da cima a fondo l’architettura stessa del sistema bancario italiano e che consistette nel passaggio delle banche da commerciali a banche d’affari, quindi non solo quotate in borsa ma oramai dedite alle scorribande predatorie sui mercati finanziari. Solo a patto di focalizzare questo colossale processo di privatizzazione-concentrazione-speculazione è possibile capire perché anche una banca come Mps si lanciò nella gara, fraudolenta, viziata nativamente da trucchi di vario tipo e, quel che a noi preme sottolineare, voluta e avallata dai partiti politici e dai governi, sia di centro-sinistra che berlusconian-leghisti.
Gli anni ’90 erano quelli che prepararono l’ingresso nell’Euro. Gli anni in cui l’Italia doveva adeguarsi agli standard previsti dai Trattati, implicanti il trasferimento della sovranità politica a Bruxelles e quella monetaria a Francoforte. Gli anni in cui prendeva definitivamente forma il regime oligarchico europeo incardinato nel predominio del sistema bancario e finanziario.
Una delle tappe cruciali di questo processo di avvicinamento verso l’abisso della globalizzazione iniziò certamente nel 1981, col divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia. Ma ve ne fu una seconda, di portata altrettanto grande, essa venne sancita, il 30 luglio 1990, con la Legge Amato n. 218 e successivi decreti di attuazione — Primo Ministro Andreotti, coalizione di centro-sinistra Dc, Psi, Psdi, Pri, Pli con Azeglio Ciampi a governatore della Banca d’Italia. [11]
Essa venne adottata sotto la pressione della Comunità Europea, che nel decennio degli ’80 avviò un radicale processo di liberalizzazioni e privatizzazioni dell’economia e quindi del mondo bancario. L’imperativo liberista, sappiamo, era quello di porre fine ad ogni tipo di supremazia e controllo vincolante degli Stati nella sfera economica, in ossequio al dogma della cosiddetta “libera concorrenza”. In verità, in nome della concorrenza, nacquero i colossi monopolistici che oggi abbiamo sotto gli occhi, e che fanno il bello e il cattivo tempo, e che hanno una potenza a volte superiore a certi Stati.
Le banche da commerciali si trasformarono quindi in banche d’affari, divennero Società per azioni, vennero quotate in borsa, iniziarono a giocare i depositi e i risparmi in investimenti speculativi, e furono esse il veicolo per mercanteggiare i titoli di Stato italiani sui mercati finanziari internazionali. Erano gli anni del raddoppio del debito statale malgrado la costante riduzione della spesa pubblica. Gli anni del sodalizio imperfetto tra centro-sinistra e centro-destra, di governi che agirono tutti in perfetta continuità assecondando i dettami europei e i desiderata dei banchieri (compreso Giulio Tremonti che oggi cerca di rifarsi un’impossibile verginità).
Questo è quel che media, economisti e analisti non vi dicono, né possono dirvi, perché essi stessi, come i politici, sono collusi se non addirittura venduti, alla finanza predatoria globale, quella che ha nelle banche i suoi templi, i luoghi dove i nuovi sacerdoti del Dio-denaro offrono in sacrificio la vita e il sangue di interi popoli come lo scalpo di intere nazioni.
di Moreno Pasquinelli 

NOTE
[1] Reuters, 24 gennaio 2013
[2] Ansa, 23 gennaio 2013
[3] Finanza e Mercati, 24 Gennaio 2013
[4] Carlo Marroni, Finanza e Mercati, 23 gennaio 2013
[5] Marco Lillo, Il Fatto Quotidiano del 22 gennaio 2013
[6] Il Ministero del Tesoro offrirà a Mps, con interessi del 9% Monti-bond per un ammontare complessivo di 3,5-3,9 miliardi, ovviamente in cambio di garanzie di pari importo, Nda]
[7] Morya Longo e Fabio Pavesi, Il doppio flop su derivati e BTp, Finanza e Mercati, 24 gennaio 2013-01-24
[8] Il Giornale, 24 gennaio 2013
[9] Mauro Aurigi, Antoveneta: un’operazione che ancora non ha un perché. Il cittadino on line, 28 aprile 2012
[10] Il Sole 24 Ore, del 23 gennaio 2013
[11] I successivi decreti applicatici furono: il Decreto legislativo di attuazione n.356 del 1990. La legge-delega Ciampi n.461 del 1998. Il Decreto legislativo di attuazione n.153 del 1999. La legge n.448 del 2001 (cosiddetta legge Tremonti). La Legge n.112 del 2002.

01 febbraio 2013

Quello che sta per succedere e perché





Dopo un 2012 turbolento, il nuovo anno è iniziato in un clima economico di relativa tranquillità. Gli spread sono bassi e la crisi sembra concedere una tregua. Ma cosa ci aspetta nel prossimo futuro? Le difficoltà sono davvero superate o sono destinate a riproporsi? Poiché esistono due opposte chiavi di lettura della crisi, per rispondere a queste domande è necessario capire quale sia la più convincente. Vediamole:

Chiave di lettura 1: Crisi dei debiti sovrani.

Secondo questa chiave di lettura, alcuni Paesi europei hanno vissuto al di sopra delle loro possibilità. Hanno aumentato il loro debito pubblico senza migliorare la competitività, rischiando il default. L’aumento degli spread indica che i mercati sono restii ad investire in titoli di Paesi spendaccioni e già molto indebitati.
La soluzione della crisi consisterebbe dunque nel rafforzare la disciplina di bilancio, imponendo un tetto al rapporto debito/PIL e implementando drastiche misure di austerity che diminuiscano la spesa. Per scoraggiare la speculazione, a livello europeo andrebbero inoltre introdotte forme di mutualizzazione dei debiti sovrani (acquisto di titoli da parte della BCE, emissione di Eurobonds) in modo che tutti i Paesi si impegnino a garantire, collegialmente, il pagamento degli interessi e il rimborso dei titoli in scadenza emessi dai singoli Stati. Tuttavia, per evitare azzardi morali, i governi nazionali dovrebbero accettare di essere vincolati a realizzare le politiche indicate dagli organismi europei, indipendentemente dalla volontà dei loro cittadini.

Chiave di lettura 2: Crisi dell’euro.

Secondo questa chiave di lettura, invece, alcuni Paesi europei avrebbero sfruttato l’appartenenza alla moneta unica per aumentare la loro competitività, a discapito di altri. Contenendo salari e domanda interna, avrebbero mantenuto la propria inflazione sistematicamente a livelli inferiori rispetto ai partners. I quali, condividendo la stessa moneta, non avrebbero potuto operare una svalutazione difensiva per determinare un riequilibrio. I primi avrebbero accumulato surplus commerciali, mentre i secondi avrebbero visto peggiorare i conti con l’estero, fino ad entrare in crisi.
L’aumento degli spread indicherebbe che i mercati sanno che in futuro il valore dei titoli dei Paesi in crisi potrebbe diminuire: essi potrebbero uscire dall’euro, svalutare, rinegoziare il debito o rinominarlo nella nuova valuta.
Per uscire dalla crisi servirebbe dunque introdurre un meccanismo automatico di riequilibrio fra i Paesi in surplus strutturale e quelli in deficit. Inoltre, data la recessione in atto, le politiche di austerity andrebbero smantellate e sostituite con interventi di segno opposto, a sostegno della domanda e dell’occupazione. Nei Paesi in surplus andrebbero poi alzati significativamente i salari.
Tuttavia, apparendo questa strada impercorribile, poiché presupporrebbe che tutti i principali Paesi europei invertano le politiche economiche adottate fino ad oggi, e che quelli più forti accettino trasferimenti automatici verso quelli meno competitivi, l’unica via di salvezza resterebbe l’uscita dall’euro e il recupero della sovranità nazionale in materia di politiche economiche e monetarie.

Quale è quella corretta?

Chiaramente, queste tesi sono fra loro inconciliabili. Se si accetta l’idea che ad andare in sofferenza siano stati quei Paesi che presentavano un alto rapporto debito/PIL, allora la prima spiegazione appare come quella corretta. Invece, se si crede che la crisi abbia colpito chi ha avuto un tasso di inflazione più alto, converrà orientarsi sulla seconda.
Ecco una breve tabella riassuntiva:
  debito pub / PIL (%)
Squilibri esterni e differenziali di costo nell’eurozona
Paese 1999 2007 2011 Saldo conto corrente / PIL
(* 100) 1999-2012
Costo unitario del lavoro
var % 1999-2010
Indice prezzi al consumo
1999-2012
Germania
61
65
83
 52.0  1.4 21.8
Portogallo
50
68
106
-132.2 11.1 35.1
Italia
114
104
121
 -24.4 28.5 30.9
Grecia
103
105
166
-123.2 54.9 43.1
Spagna
62
36
67
 -75.5 24.8 38.4
[Dati estratti da Europa: una crisi di debito o di bilancia dei pagamenti? - A.F. Presbitero, Università Politecnica delle Marche, pubblicato su linkiesta.it ]
Le prime colonne mostrano che la prima chiave di lettura è infondata: due dei Paesi più colpiti dalla crisi, il Portogallo e la Spagna, fino al 2007 presentavano un rapporto debito/PIL simile o addirittura migliore rispetto a quello della “virtuosa” Germania. La parte destra della tabella conferma quel che abbiamo già avuto modo di affermare: il problema non è il debito pubblico. La Germania ha beneficiato di una minore inflazione (ultima colonna) grazie al contenimento del costo del lavoro (penultima colonna) ed oggi vanta il “record” del maggior numero percentuale di lavoratori a basso reddito di tutta l’Europa occidentale (il 22.2%, secondo Eurostat). In questo modo ha aumentato la propria competitività, a discapito dei partners europei (terzultima colonna) mandandoli in crisi.
Dunque, i dati indicano che la tesi corretta è la seconda, la quale infatti è sostenuta da numerosi esperti nazionali ed internazionali. Tuttavia la quasi totalità dei media sposa la prima chiave di lettura, l’unica ad essere ufficialmente accettata da tutte le élite di governo europee, di destra come di sinistra. Questo non deve stupire: sia ai governanti dei Paesi forti che a quelli degli Stati in crisi conviene far credere che il problema principale siano la spesa dello Stato e il debito pubblico. In questo modo, infatti, i primi possono proseguire il contenimento della domanda interna, arricchendosi grazie alle esportazioni e garantendosi surplus utili ad acquisire aziende pregiate dei Paesi in crisi (come testimonia, per esempio, la recente acquisizione di Ducati da parte di Audi-Volkswagen). I secondi (gli stati in crisi) ottengono di poter sbandierare un “vincolo esterno” grazie al quale imporre ai cittadini quello che altrimenti sarebbe stato impossibile realizzare: tagli ai servizi pubblici e alle pensioni, restringimento delle tutele dei lavoratori, privatizzazioni, continue manovre finanziarie “lacrime e sangue”.
Così, mentre smantellano lo stato sociale, i governi di Italia, Francia e Germania danno vita ad un insulso gioco delle parti: quando Monti e Hollande spingono per introdurre forme di condivisione dei debiti sovrani, la Merkel risponde pretendendo cessioni di sovranità verso le istituzioni UE. Due facce della stessa medaglia, entrambe riconducibili alla chiave di lettura 1. Quella sbagliata.
In seno al Consiglio Europeo è stata già siglato l’accordo che consentirà a ciascun leader di cantare vittoria nella propria patria: da Giugno 2013 la Commissione UE potrà far sottoscrivere ad ogni Stato un vero e proprio contratto, ove indicherà le “riforme” da attuare e le modalità con cui realizzarle; eventuali “meccanismi di solidarietà” saranno riservati ai Paesi che avranno sottoscritto tali intese.
Ecco quindi il leitmotiv che ascolteremo nel 2013: “solidarietà” in cambio di cessioni di sovranità. Lo conferma il presidente del consiglio europeo, Van Rompuy, che però omette di precisare che la solidarietà sarà fasulla: le eventuali forme di mutualizzazione dei debiti saranno parziali e temporanee, come ha già chiarito Angela Merkel, intervenendo al Bundestag. E in ogni caso esse non potranno mai risolvere gli squilibri strutturali fra le economie.
Pertanto c’è da aspettarsi che la crisi riesploda. Anche perché dal primo gennaio 2013 è entrato in vigore il fiscal compact, che statuisce, tra le altre cose, che il rapporto debito/PIL deve assestarsi al 60%. L’Italia, per tentare di raggiungere l’obiettivo, dovrà varare manovre su manovre, ogni anno, per decine e decine di miliardi. In assenza di una crescita sostenuta, le conseguenze saranno inimmaginabili, come testimoniano le analisi della Corte dei Conti e l’ISPI. L’Italia e gli altri PIGS resteranno intrappolati in una spirale recessiva, senza via di uscita. Ma gli alfieri della chiave di lettura sbagliata non si fermeranno. Anzi, rincareranno la dose. Quelli italiani hanno già nel mirino la privatizzazione della sanità, che non a caso si sta già realizzando in Spagna.
Uno dopo l’altro i Paesi dell’eurozona dovranno richiedere gli “aiuti” del MES e, in cambio, dovranno cedere ogni residua forma di sovranità nazionale. Così, le decisioni verranno prese direttamente a Bruxelles e Francoforte, senza che né i cittadini né i Parlamenti nazionali possano opporvi resistenza. Ma ciò che è più drammatico è che alla gran parte dell’opinione pubblica, tutto ciò apparirà come necessario, in quanto coerente con la teoria della crisi dei debiti sovrani, propagandata dalla stragrande maggioranza dei media.
Per questo, il primo fronte sul quale schierare le forze che vogliono impedire lo sfacelo è quello dell’informazione. Un’informazione corretta sulle reali cause della crisi.

di Fabrizio Tringali -

31 gennaio 2013

L'Italia nel tunnel





Secondo i dati di Bankitalia, (1) diffusi a dicembre scorso, alla fine del 2010 la ricchezza netta delle famiglie italiane era pari a 8 volte il reddito disponibile (contro l’8,2 del Regno Unito, l’8,1 della Francia, il 7,8 del Giappone e il 5,3 degli USA). Il debito delle famiglie italiane era pari al 70% del reddito disponibile (contro circa il 100% di Francia e Germania, il 125% di USA e Giappone e il 165% del Regno Unito). Il 10% delle famiglie più ricche deteneva il 45,9% della ricchezza, la metà più povera soltanto il 9,4%.
Alla fine del 2011 la ricchezza netta delle famiglie italiane ammontava a 8619 miliardi di euro (la ricchezza in abitazioni ammontava a oltre 5000 miliardi e quella in attività finanziarie a oltre 3500 miliardi). Una ricchezza leggermente inferiore a quella del 2010 (8683 miliardi) a prezzi costanti, ma se calcolata a prezzi 2011 nettamente inferiore a quella registrata negli anni successivi al 2007, ad ulteriore conferma dell’impatto negativo sulla nostra economia della crisi finanziaria del 2008. Una ricchezza comunque sempre pari a quattro volte l’ammontare complessivo del debito pubblico.
Vi sono pochi dubbi perciò che, se in Italia vi fosse una classe dirigente degna di tale nome, la campagna elettorale verterebbe alla luce di queste cifre  soprattutto sulle conseguenze che derivano dall’obbligo di pareggio di bilancio e dal patto fiscale europeo (il cosiddetto “fiscal compact“), che ci costringe a ridurre il debito pubblico del 50% nell’arco dei prossimi vent’anni. Si tratta di misure d’austerità imposte al nostro Paese dal governo del “commissario tecnico” Mario Monti, e fondate sulla previsione (gravemente errata) che la diminuzione di un punto del deficit pubblico avrebbe causato la riduzione di mezzo punto di crescita, mentre in realtà ne ha prodotto il triplo (ossia un punto e mezzo di crescita in meno).
Misure che alimentano una recessione che sta dilagando in tutta Europa. E che, oltre a far impennare il tasso di povertà e quello di disoccupazione (specialmente del tasso di disoccupazione giovanile), stanno compromettendo addirittura la base produttiva del nostro Paese – un Paese notoriamente privo di materie prime e dagli anni Novanta anche di quel “pungiglione strategico” che una “mano pubblica”, esperta e decisa, oggi avrebbe potuto (e dovuto) sfruttare per trarre il massimo profitto dal mutamento geopolitico che sta rivoluzionando gli equilibri del sistema internazionale. Invece, essendovi in Italia tutto fuorché una classe dirigente, non solo non vi è alcun serio dibattito su tali problemi, ma si trova perfino del tutto normale che anche quel poco che resta del settore strategico pubblico venga ceduto allo “straniero”. E ci si limita a ripetere il mantra liberista lamentandosi del fatto che in questi anni non vi sia stata alcuna vera “rivoluzione liberale”, come se il terremoto finanziario del 2008 fosse il risultato delle scelte sbagliate del nostro Paese. Ma soprattutto “ci si balocca” con alcuni dati macroeconomici, senza nemmeno tener conto del fatto che la causa principale dell’andamento dello spread sui tassi d’interesse dipende, come in definitiva la stesso Fmi e Bankitalia riconoscono – non tanto dal debito pubblico quanto dalla mancanza di un autentico “soggetto politico europeo” e di conseguenza dal possibile collasso dell’eurozona, che proprio le politiche di austerity rendono più probabile.
Del resto, indipendentemente dalla internazionalizzazione (voluta da Amato e dagli altri tecnocrati “europeisti”) del nostro debito pubblico, dopo aver deciso, all’inizio degli anni Ottanta, il divorzio tra ministero del Tesoro e Bankitalia (divorzio che causò una crescita vertiginosa del debito pubblico), si sa che il Giappone, che ha un tasso di disoccupazione del 4,5% (contro l’11% dell’Europa) e che è la terza economia del pianeta, intende ampliare la propria spesa pubblica con un primo intervento di 85 miliardi, pur avendo un debito pubblico che è del 236% del Pil e un rapporto deficit/Pil al 10%. (2) Indubbiamente, ciò dipende pure dal fatto che il debito pubblico del Giappone è pressoché completamente detenuto dai giapponesi, ma la sostanza è che non vi può essere alcuna crescita né alcuna vera ripresa dell’economia reale senza rinunciare a misure d’austerity, il cui fallimento è sotto gli occhi di tutti.
D’altra parte, si può ragionevolmente ritenere che l’oligarchia che detiene le leve del potere in Europa consideri più importante liquidare una volta per tutte il “vecchio” Welfare e imporre un modello liberista di tipo americano, in particolare nei Paesi europei più deboli, garantendo da un lato i “mercati finanziari” e dall’altro gli interessi geopolitici degli Stati Uniti. Questi ultimi infatti, hanno tutto l’interesse a impedire una qualsiasi politica europea distinta da quella atlantista e al tempo stesso devono saldare la Germania all’Atlantico, per bloccare “preventivamente” ogni tentativo di dar vita a una nuova Ostpolitik, soprattutto ora che la sfida con la Cina (e con la Russia) è decisiva per il futuro degli Usa. Non a caso, gli statunitensi o i loro “agenti” si adoperano perché si lasci alla Francia sufficientemente spazio per poter fare una politica di tipo neocoloniale in Africa e agiscono in modo tale da approfondire sempre più il solco tra il Baltico e il Mediterraneo.
Insomma, si applica la solita strategia del divide et impera, con la differenza però che se nelle aree più calde del pianeta questa strategia non si distingue da una geopolitica del caos, che può giocare non pochi brutti scherzi agli apprendisti stregoni occidentali (dalla Libia al Mali, dall’Egitto alla Siria), in Europa si può facilmente far leva su gruppi subdominanti che, avendo ormai rinnegato ogni ideale, sono disposti a tutto pur di non perdere i favori degli amici “d’oltreoceano”. In questo senso, il nostro Paese sta giocando un ruolo di primo piano, sia sotto il profilo della ridefinizione in chiave mercantile dei rapporti sociali, sia sotto quello geopolitico, configurandosi come una base sicura per la NATO e la politica di potenza statunitense. Tanto che Difesa ed Esteri sono di fatto gestiti direttamente dagli statunitensi, essendo palese che si tratta di ministeri controllati rispettivamente dal Pentagono e dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, e che non rappresentano né tutelano in alcun modo i reali interessi del nostro Paese. Ragion per cui anche coloro (come Luciano Gallino e Stefano Sylos Labini) che difendono le ragioni di un intervento pubblico per far uscire l’Itala da una spirale recessiva che minaccia di far compiere alla maggioranza degli italiani un drammatico “balzo all’indietro”, dovrebbero rendersi conto che non vi sono solo ostacoli di tipo economico da superare. Anzi gli ostacoli maggiori sono di ben altra natura. E se si può concedere che la Fornero non ne sia consapevole, Mario Monti e certamente Mario Draghi sanno sicuramente quel che bolle in pentola. E agiscono di conseguenza.
In ogni caso, l’azione politico-strategica dei “mercati” è favorita dallo pseudoeuropeismo dei tecnocrati atlantisti (il cosiddetto “euroatlantismo”) e da una lotta tra forze politiche il cui vero obiettivo è diventare i portavoce degli strateghi d’oltreoceano, infischiandosene della sorte della maggioranza degli italiani. I quali, tuttavia, non hanno fatto molto in questi ultimi lustri per cercare di far prevalere l’interesse generale, badando perlopiù al proprio “particulare” e prestando ascolto ai soliti gazzettieri e intellettuali mercenari che infestano il nostro Paese da decenni. Non c’è dubbio quindi che gli italiani sapranno premiare i peggiori pure questa volta. Anche perché non pare che vi siano vere alternative, se non vi è nessuna forza politica che difenda princìpi e valori di tipo socialista e nazionalpopolare e che allo stesso tempo intenda battersi per i diritti dei popoli europei contro la prepotenza dei “mercati” e della oligarchia euroatlantista. Quel che però è certo è che quei (pochi) italiani che non hanno dimenticato che anche il comandante in capo delle forze armate statunitensi nel Vietnam del Sud, generale William Westmoreland, disse che vedeva la luce in fondo al tunnel poco prima della famosa offensiva del Tet, che sancì la sconfitta degli Stati Uniti nella guerra del Vietnam, non possono non essere d’accordo con chi sostiene che l’ottimismo è l’oppio degli insipienti e che, se veramente si vuole il bene dell’Italia, sarebbe invece opportuno non nascondere il timore che il peggio debba ancora venire.
Con ciò non si vuole affermare che non vi sia via d’uscita. Si tratta piuttosto di prendere atto che solo uno “squilibrio” derivante da una (invero non impossibile) nuova crisi internazionale potrebbe liberare una “quantità d’energia” tale da indurre la Germania (e la Francia) a decidersi per un cambiamento di paradigma (geo)politico. Si concederà però che, rebus sic stantibus, non vi è nulla che faccia ritenere che vi sia in Europa la volontà di dar inizio ad un tale nuovo corso politico, che avrebbe effetti positivi anche in un Paese come il nostro in cui funzione politica e innovazione strategica sembrano quasi del tutto scomparse.

di Fabio Falchi 

(1)Bancaditalia.it
(2) IlSole24ore.com