17 giugno 2013

Masse disintegrate, corpo elettorale e astensione



Ludopatia, droga, psicofarmaci, istruzione scadente, intontimento mediatico si sono combinati con disoccupazione di lungo periodo, sotto-occupazione, svalutazione del lavoro, precarietà e redditi reali in picchiata sostituendo al cittadino il neoschiavo precario, o l’escluso, e alle vecchie classi dominate le masse disintegrate, culturalmente, politicamente e socialmente.
Questo è quanto è accaduto in Italia negli ultimi decenni, in un processo di adattamento dell’ordine sociale e della popolazione alle esigenze sovrane del grande capitale finanziario, in vista di un irreversibile cambiamento storico che comporta la perdita della sovranità – e la sua cessione “volontaria” al mercato – nonché l’instaurazione di una “società aperta di mercato” sul modello nordamericano.
Sappiamo che in America pochi sono coloro che votano, partecipando al rito fondamentale della democrazia, e che non vanno a votare milioni di poveri senza speranza, di emarginati, di esclusi dai “diritti” che un sistema definito democratico, liberale, avanzato dovrebbe sempre e comunque assicurare a tutti. Inoltre, in America l’ordine classista è sempre stato incerto, ambiguo, sfumato, profondamente diverso da quello europeo, tanto che, semplificando molto, forse un po’ troppo, si può dire che là vale da sempre la brutale dicotomia fra ricchi e poveri, fra coloro che i soldi li hanno e quelli che arrancano dormendo in roulotte, o addirittura nei vicoli. Fra quelli che possiedono ricchezza e patrimoni e milioni di disperati che vivono di scampoli di assistenza pubblica, di carità privata o di espedienti, c’è sempre stato un robusto ceto medio a fare da “cuscinetto”. Se non che, la crisi iniziata nel 2006 ed esplosa l’anno successivo ha ridotto i numeri dell’area di relativo, moderato benessere, espresso in forme rigorosamente consumistiche, anche nel cuore del neocapitalismo trionfante, cioè in Nord America. Anzi, i numeri del ceto medio statunitense, che in parte significativa va alle urne giustificando il “sistema democratico” e liberale, hanno iniziato a ridursi fin da prima della cosiddetta “crisi subprime”, man mano che si affermavano le logiche finanziarie neocapitalistiche e avanzava la globalizzazione economica. Per la verità, la brutale e semplificatrice dicotomia fra ricchi e poveri, che sembra non basarsi sulla “mediazione” di classi sociali definite e intese come mondi culturali, nasconde una nuova strutturazione della società, un ordine classista ancor peggiore di quello imposto dal capitalismo dello scorso millennio. La dicotomia fra global class e pauper class, pesando sempre meno la presenza, sul piano sociale, del ceto medio figlio del welfare. Un ordine dai tratti inequivocabilmente neofeudali.
I poveri, gli impoveriti, coloro che vivono quotidianamente situazioni di marginalità e di difficoltà e che possono sperare al più in lavori temporanei mal pagati, sono poco propensi a votare, a partecipare, a entusiasmarsi per contese politiche posticce, sempre più simili a partite di calcio (football americano, per l’oltre oceano capitalistico) o a corse dei cani truccate con la finta lepre che gli corre davanti, che avvantaggiano soltanto allibratori (bookmakers) e grossi scommettitori. Sanno per istinto ed esperienza i poveri senza speranza, immersi in un ordine sociale che gli è estraneo e nemico, disintegrati culturalmente e privati anche delle loro origini, che nessun politico e nessun “comitato elettorale”, una volta incassato i voti, prenderà le loro parti e cercherà di migliorarne le condizioni di vita. Capiscono che gli attoruncoli della politica, ben pettinati, coperti di cerone, truccati come puttane da bordello che mentono nascondendo le loro vere intenzioni, sono lì per fare ben altri interessi. Gli stessi che hanno ridotto tutti loro, i loro padri e i loro figli in quelle condizioni. Pur non avendone piena coscienza e pur non rivoltandosi come dovrebbero, i poveri, le neoplebi, le masse disintegrate da questo capitalismo, sanno che la politica liberaldemocratica e tutti i suoi attori sono al servizio di forze determinate e molto concrete, d'interessi di classe avversi a quelli della maggioranza della popolazione. Non sono certo al servizio di una “volontà popolare” ipotetica e non meglio identificata, o di uno stato ridotto a puro testimonial dei mercati e alla loro completa mercé.
Sia ben chiaro. Una cosa è non votare perché s'intuisce, quasi d’istinto, che la democrazia liberale è una truffa e perché le necessità di sopravvivenza prendono il sopravvento su tutto. Altra cosa è opporsi al sistema avendo alle spalle un’organizzazione antagonista e uno straccio di progetto politico. I poveri schiacciati dai ricchi, come nella società nordamericana, le neoplebi e le masse culturalmente disintegrate alle loro spalle, in questo momento, non hanno proprio nulla. Sono abbandonate a se stesse, in balia del controllo e della manipolazione sistemici. E soprattutto della “legge del mercato”.
Non troppo dissimile da questa è la situazione sociopolitica che oggi caratterizza l’Italia. Un intenso processo di trasformazione dell’ordine sociale, inasprito e velocizzato dalla crisi economica strutturale, dalla dipendenza dall’euro, dal ricatto del debito e dalla “cessione” della sovranità nazionale ha fatalmente trasformato il paese in “società aperta di mercato”, attraversata da flussi migratori e caratterizzata dal dilatarsi dei differenziali di ricchezza, potere e prestigio fra ricchi e poveri. Anche qui, come in America, il ceto medio arretra, risucchiato verso il basso dall’applicazione delle dinamiche neocapitalistiche. Anche qui la povertà dilaga e fanno capolino problemi alimentari per una parte significativa, ma sempre più invisibile, della popolazione. Eppure costoro, i cui interessi vitali sono calpestati, godono delle “libertà civili” e dei “diritti politici”. Sembra una beffa, un’insopportabile ipocrisia, ma è la sostanza del sistema liberaldemocratico, puntello politico del neocapitalismo.
Non c’è da stupirsi, alla luce delle precedenti considerazioni, che nei ballottaggi per le comunali del 9 e del 10 giugno abbia votato meno della metà degli aventi diritto: solo il 48,5% a livello nazionale. Davanti al dato dell’astensione in crescita, fino a superare la soglia della metà più uno degli aventi diritto, i giornalisti e i politici, come il solito, stendono cortine fumogene, danno interpretazioni capziose del fenomeno, cercano di giustificare quel sistema e quegli interessi dominanti che hanno prodotto l’astensionismo di massa. Ne prendiamo in considerazione due. 1) Secondo alcuni il segnale non sarebbe poi negativo come si crede, perché testimonierebbe una “maturazione” nella società italiana in senso nordamericano (sempre più simili agli Usa, infatti), in cui alcuni votano e altri se ne stanno “alla finestra” a guardare quel che succede. L’astensione non sarebbe un male, secondo questa interpretazione, ma un segnale che stiamo raggiungendo finalmente la piena “maturità democratica”, testimoniata dal numero di votanti sempre più basso. 2) Altri, più banalmente, pongono l’accento sulla distanza fra “i problemi della gente”, ossia quelle bazzecole come il lavoro che non c’è, il reddito che cala, i costi della vita che salgono, l’insicurezza materiale e psicologica che tende a esplodere, e le cose, meno concrete ma forse più nobili, più eteree (come il “sesso degli angeli” nella Costantinopoli assediata dagli ottomani), di cui suole occuparsi la politica di questi tempi. In tal caso, la conclusione di rito di politici e giornalisti d’apparato è che la politica deve tornare a occuparsi “dei problemi della gente”, affinché tutto si sistemi per il meglio e l’astensionismo diminuisca. Ben sapendo, però, che ciò non è possibile se non a livello di puro annuncio, perché la politica risponde esclusivamente ai centri di dominio neocapitalistici, come Bruxelles, Francoforte, la City londinese, Washington e Wall Street. Non importa se il calo della partecipazione al voto, che ha spaccato letteralmente in due il cosiddetto corpo elettorale, si registra in occasione di consultazioni comunali, e quindi amministrative, di rango e interesse inferiore rispetto alle politiche. La “disaffezione” nei confronti del voto liberaldemocratico, del sistema politico ascaro del mercato e della finanza, dei politici opportunisti, incapaci, servi e corrotti si manifesta, ormai, in ogni occasione elettorale. Solo l’effimero exploit di Grillo e delle sue liste, un po’ di tempo fa alle ultime politiche, è sembrato invertire la tendenza, calmierando l’astensione, ma ormai è acqua passata e gli effetti concreti dei meccanismi di dominazione neocapitalistica, nel corpo elettorale e nel paese, hanno ripreso il sopravvento. Prova ne sia che in Sicilia, regione in cui il movimento aveva avuto notevoli affermazioni, i candidati cinque stelle deludono e l’astensione aumenta. 
Delle due giustificazioni in merito fenomeno dell’astensionismo la prima (1) sembra essere la migliore, perché originaria, andando alla sorgente del problema, e la seconda (2) soltanto derivata, in quanto effetto delle grandi trasformazioni socioeconomiche, culturali e politiche verificatesi in Italia nell’ultimo ventennio. Infatti, se l’astensionismo in occasione delle elezioni politiche del 27-28 marzo 1994 che hanno incoronato “premier” Berlusconi per la prima volta era di poco inferiore al 14% degli aventi diritto (facendo base sul proporzionale), nelle ultime politiche del 24-25 febbraio 2013, con altra e famigerata legge elettorale, il dato della non partecipazione è cresciuto alla camera fino a quasi il 25%, nonostante la presenza “recupera-astensioni” di Grillo. Naturalmente la situazione economica e sociale del 1994 era incomparabilmente migliore dell’attuale, nonostante il passaggio del ciclone “Tangentopoli/ Mani pulite”, l’avvio delle privatizzazioni e il crollo del sistema di cambi europeo a stretti margini di oscillazione valutaria (Sme), nel settembre del 1992, che travolse letteralmente la lira. Ma è nelle ultime comunali che si è raggiunto un minimo storico di partecipazione del corpo elettorale alla ritualità del voto liberale e democratico. Questo perché il processo di trasformazione in senso neocapitalistico della società italiana, che diventa “società aperta di mercato” più simile a quella modello nordamericana, è già a buon punto, e di ciò si compiacciono, facendo credere che sia una cosa positiva per tutti, i servi mediatici e politici delle aristocrazie finanziarie. Pochi ricchi, infedeli nei confronti dei luoghi d’origine, un piccolo strato intermedio integrato dal neocapitalismo nel sistema e un oceano sempre più vasto di poveri, fra i quali un certo numero di immigrati, i cui interessi non hanno e non avranno rappresentanza alcuna. Il fatto, poi, che la politica indigena costosa e bizantina, arroccata in “zone rosse” ben protette, si occupi del “sesso degli angeli” anziché dei “problemi della gente” (con brutta espressione politico-giornalistica), è una conseguenza della predetta trasformazione in senso neocapitalistico, che ha tolto alla politica nazionale il bastone del comando (e l’autonomia decisionale particolarmente in campo monetario) per offrirlo a Bruxelles, Francoforte, alla City londinese, Washington e Wall Street. Dei “problemi della gente” in Italia, quindi, si occupano gli organismi sopranazionali che ci controllano, in armonia con gli interessi elitistici. I politici indigeni devono soltanto obbedire ed eseguire.
Come chiarito in precedenza, i poveri tendono a non votare, se intuiscono (pur senza poterselo spiegare con analisi articolate) di essere completamente invisibili e dimenticati nel nuovo ordine, di non avere alcuna possibilità di tutela dei propri interessi dentro il sistema. Le masse disintegrate almeno una cosa l’hanno intuita. Quelli che dovrebbero eleggere, recandosi alle urne, non saranno mai i loro rappresentanti, ma sono e resteranno soltanto dei nemici. Dei collaborazionisti al servizio dell’occupatore del paese il cui compito è mentire, dissimulare, annunciare miglioramenti che non si verificheranno, continuando a spremerli per conto dei padroni globali. I sindaci dei capoluoghi di provincia eletti nell’ultima tornata di amministrative (undici in totale, tutti “di sinistra”, ossia del pd e appendici) non sfuggono alla regola dell’asservimento della politica ai poteri esterni, al mercato, alle capitali del nuovo “impero del male” in occidente. Così Ignazio Marino a Roma, il burocrate piddino del “daje” che gongola sorridendo per la vittoria, ma piagnucola un po’ per l’astensione, così Enzo Bianco ex senatore del pd a Catania e vecchia volpe della politica (già sindaco della città siciliana nel lontano 1988). Persino Letta è intervenuto pro domo sua, dichiarando che queste elezioni rafforzano l’attuale esecutivo, nato da un inciucio e dal tradimento delle promesse elettorali. Quel che è più grave è che nonostante alcune affermazioni apparentemente preoccupate, per l’elevata astensione dal voto delle masse, questi farabutti (intendiamo sia i politici come Marino, Bianco e Letta, sia i giornalisti prezzolati) sanno che non v’è pericolo imminente. Infatti, non esistono movimenti alternativi organizzati, disposti a dar battaglia al sistema, né, tantomeno, vi sono tracce di programmi politici nuovi, antiliberisti e antieuro. Così, almeno per ora, la rabbia e il dissenso delle masse disintegrate si manifestano con la crescita dell’astensionismo, quando non si “stemperano” attraverso l’adesione ai distruttivi circenses offerti dal sistema, come ad esempio il gioco d’azzardo diffuso e la droga. Peccato, però, che i giochi ci sono, sono irresistibili e coinvolgenti, ma il pane manca sempre di più. I farabutti politici e giornalistici sanno che le esplosioni di follia individuale e i suicidi per ragioni economiche segnano quest’epoca, in cui antagonismo vero e lotta armata sono pressoché assenti. Quindi capiscono di non correre particolari rischi. Perciò è molto probabile che il sistema potrà sopportare, o addirittura volgere a suo favore, elevati tassi di astensione dal voto nel corpo elettorale, che altro non è, in parte significativa, se non la massa di dominati culturalmente disintegrata, soggetta a privazioni crescenti in termini di risorse e di diritti, che al pari di molti poveracci nella società “modello” nordamericana può fare una sola cosa: non andare a votare e continuare ad arrancare.

Con profonda tristezza

di Eugenio Orso e Anatolio Anatoli 

16 giugno 2013

Destra e sinistra sono destinate a perire









Lunedi' pomeriggio ho acceso la Tv alle tre su La7 perchè era la prima a fare una trasmissione sul secondo turno delle amministrative. Per cinquanta minuti Enrico Mentana si è destreggiato a parlare di tutto tranne che del dato che interessava di più, l'affluenza alle urne, a quell'ora già disponibile al Viminale. Spazientito ho girato sulla Rai che peraltro questa volta, a differenza di precedenti, interminabili, maratone, ha dato scarso spazio al turno elettorale (e anche questo è un segnale). Finalmente al Tg1 delle otto abbiamo saputo che il 51,5% degli italiani non era andato a votare. Un meno 25,5% rispetto alle recenti politiche. Un risultato che sarebbe stato ancor più impressionante se 5Stelle non fosse stato presente in tre ballottaggi, sia pur in piccoli comuni, e se alcuni grillini, cioè elettori al limite dell'astensione, non si fossero recati, per disperazione, alle urne turandosi montellianamente il naso. A cio' vanno aggiunte le schede bianche e nulle, che il Viminale prudentemente non dà o nasconde fra le righe, ma che storicamente oscillano fra il milione e il milione e mezzo. Ancora più clamorosi sono i dati di Roma dove ha votato il 44,9% degli aventi diritto. Clamorosi non solo perchè l'affluenza è stata particolarmente infima, ma perchè a Roma sono concentrati gli apparati dei partiti che sono obbligati a votare pena la perdita del posto di lavoro. Insomma molto più di un italiano su due ha disertato le urne (o le ha riempite di bianche e di insulti) ma anche parecchi di quelli che vi sono andati lo hanno fatto di malavoglia. Questo pone un problema di legittimità democratica. Che legittimità, che credibilità puo' avere un sindaco che puo' contare su meno della metà della metà del consenso dei suoi cittadini? E il discorso vale, a maggior ragione, per le elezioni politiche, dove i partiti percentualmente conservano i consensi, e quindi paiono ancora vivi, ma in termini assoluti non fanno che perdere voti. Bisognerebbe mettere un quorum, come nei referendum. Altrimenti, andando avanti di questo passo, potremmo trovarci di fronte al paradosso che un 10% degli italiani governa su un 90% che gli è ostile.

Naturalmente i politici e gli opinionisti al loro seguito, oltre a dire frasi scontate tipo «dobbiamo riflettere su questo fenomeno», trovano mille giustificazioni per questo tracollo del consenso. La più utilizzata è che negli altri Paesi democratici l'affluenza è ancora più bassa. Ma noi abbiamo una storia diversa, di passione politica. Fino al 1979 andava a votare il 90%. Da allora c'è stata prima una lenta poi una sempre più rapida e innarestabile discesa. Inoltre sono diverse le ragioni dell'astensione. In Svizzera, in Germania, in Danimarca, in Svezia i cittadini che non vanno a votare lo fanno perchè hanno fiducia nelle proprie classi dirigenti, pensano che chiunque governi curerà comunque gli interessi del loro Paese. La nostra invece è una crisi di sfiducia. Nei confronti del sistema, del regime dei partiti e, in definitiva, della democrazia rappresentativa.
Infine c'è una questione più profonda che non riguarda solo l'Italia ma tutte le democrazie occidentali. Destra e sinistra, in cui si dividono i partiti, sono categorie politiche vecchie di due secoli e mezzo che non sono più in grado di comprendere le vere esigenze dell'uomo contemporaneo. Che, per quanto cio' possa suonar strano, particolarmente oggi, non sono economiche ma esistenziali. E quindi destra e sinistra sono destinate a perire, a parer mio abbastanza alla svelta, con quel modello di sviluppo economicista, nato con la Rivoluzione industriale, in cui sono cresciute e si sono affermate.


di Massimo Fini 

15 giugno 2013

I nuovi schiavi della "globalizzazione di Stato"


Ci aspettavamo francamente qualche reazione in più alle ultime notizie  sulle “morti bianche”,  provenienti dalla Cina. Muore un ragazzino  di 14 anni, Liu Fuzong, stroncato dai ritmi del lavoro, dodici ore al giorno, fino a quindici se la produzione lo richiede. Muoiono, suicidi, tre lavoratori della Foxcomm, azienda che assembla telefonini, per i ritmi alti e le pessime condizioni di lavoro. Punte d’iceberg di un’autentica mattanza che, nel 2010, ha provocato, in Cina, seicentomila morti per cause riconducibili a “stress da lavoro”. Numeri grandiosi  e storie terribili  su cui in Occidente il silenzio regna sovrano:  giusto la notizia e niente di più. Nessuna mobilitazione dei mass media, nessun commento preoccupato, nessuna manifestazione di solidarietà da parte dei sindacati. L’imbarazzo domina  sovrano, quasi che la Cina goda di un regime speciale, di una sorta di salvacondotto con duplice firma: quella di un capitalismo internazionale, a cui le delocalizzazioni servono per abbattere i costi di produzione e quella di una sinistra per la quale le vecchie appartenenze contano ancora e pesano psicologicamente (visto che comunque a governare è il Partito Comunista).
In  questo mondo, globalizzato e dove le notizie sono in presa diretta, la questione etica non può non dilatare i suoi confini, costringendo le nostre coscienze ad interrogarsi e a turbarsi per avvenimenti che sono apparentemente  lontani eppure ci sono vicinissimi, non solo perché li vediamo sui nostri schermi ma perché quelle merci, prodotte  nelle regioni della Cina profonda, fanno bella mostra nelle vetrine delle nostre città, per poi venire  da noi acquistate.
Non è di moda parlare di schiavitù. Eppure non c’è altro termine per definire la penosa condizione di milioni di lavoratori e lavoratrici costretti a “vendersi” per qualche spicciolo e per questo rischiare la vita, sotto la pressione dei ritmi imposti dalla produzione. Come per Liu Fuzong, il ragazzino di 14 anni. 
Formalmente la schiavitù non esiste. Ricacciata com’è stata negli oscuri meandri della storia, nelle immagini cinematografiche dei colossal d’annata, tra catene avvilenti e punizioni a colpi di frusta. Sotto la coltre rassicurante dei “diritti dell’uomo”, garantiti per tutti, il fenomeno più che scomparire sì è però modificato, adattandosi alle mutate condizioni socio-economiche del nuovo millennio.
Si è “aggiornato” non perdendo  la sua essenza dominatrice. Perciò ci appare ancora più  brutale di quanto non lo fosse nell’antichità, con il suo insinuarsi e dissimularsi tra le pieghe deboli del mondo moderno; “globale” proprio per la sua capacità di pervadere popoli lontani e diversi tra loro, di segnare destini individuali ed intere comunità (di giovani e di adulti, di uomini e di donne); “cinico” come le reti stese, sotto i balconi delle fabbriche cinesi,  per attutire i lanci suicidi; “anodino” come i formicai produttivi dai colori pastello.
E’ il grande paradosso schiavista di questi anni, così generosamente “liberal”. E’ il paradosso delle centinaia di migliaia di suicidi, dove ad essere polverizzato, insieme alle vite degli operai cinesi, è il falso umanitarismo occidentale, l’incapacità di uscire fuori dal perbenismo dei valori, il silenzio dei vertici istituzionali, tanto insensibili da arrivare a dire – come ha fatto la presidente della Camera, Laura Boldrini – di amare la Cina e di vestire cinese (“Camera con Laura”, intervista a “D-la Repubblica”, 26 aprile 2013).
Un maestro della cultura nazional-sociale, Ernesto Massi, alla fine degli Anni Quaranta del Novecento, così fissava la “questione sociale”: “Potremo ragionare di orientamenti economici quando ci saremo bene intesi sui fini sociali da raggiungere, che sono fini etici: perché il fine di ogni società è il perfezionamento dell’uomo e il bene comune. L’economia invece è la scienza dei mezzi, rispetto all’etica che è la scienza dei fini”.
Di questo “finalismo”, di fronte alle nuove, grandi questioni poste dalla globalizzazione, è inderogabile, oggi, farsi carico. E non solo per prenderne coscienza. Occorre finalmente attivare adeguati strumenti di controllo internazionale. Occorre che anche i sindacati occidentali facciano la loro parte, non lasciando da soli i “nuovi schiavi” del produttivismo globalizzato. Occorre mobilitare tutti gli strumenti informativi perché non siano  il silenzio o peggio il disincanto a trionfare.
Se il campo del confronto è il mercato, esso non può essere insomma lasciato, su scala mondiale, in balia di una lotta senza regole, dove a soccombere saranno sempre i più deboli, uccisi da un profitto senza  regole.



                                                                   di    Mario Bozzi Sentieri  

17 giugno 2013

Masse disintegrate, corpo elettorale e astensione



Ludopatia, droga, psicofarmaci, istruzione scadente, intontimento mediatico si sono combinati con disoccupazione di lungo periodo, sotto-occupazione, svalutazione del lavoro, precarietà e redditi reali in picchiata sostituendo al cittadino il neoschiavo precario, o l’escluso, e alle vecchie classi dominate le masse disintegrate, culturalmente, politicamente e socialmente.
Questo è quanto è accaduto in Italia negli ultimi decenni, in un processo di adattamento dell’ordine sociale e della popolazione alle esigenze sovrane del grande capitale finanziario, in vista di un irreversibile cambiamento storico che comporta la perdita della sovranità – e la sua cessione “volontaria” al mercato – nonché l’instaurazione di una “società aperta di mercato” sul modello nordamericano.
Sappiamo che in America pochi sono coloro che votano, partecipando al rito fondamentale della democrazia, e che non vanno a votare milioni di poveri senza speranza, di emarginati, di esclusi dai “diritti” che un sistema definito democratico, liberale, avanzato dovrebbe sempre e comunque assicurare a tutti. Inoltre, in America l’ordine classista è sempre stato incerto, ambiguo, sfumato, profondamente diverso da quello europeo, tanto che, semplificando molto, forse un po’ troppo, si può dire che là vale da sempre la brutale dicotomia fra ricchi e poveri, fra coloro che i soldi li hanno e quelli che arrancano dormendo in roulotte, o addirittura nei vicoli. Fra quelli che possiedono ricchezza e patrimoni e milioni di disperati che vivono di scampoli di assistenza pubblica, di carità privata o di espedienti, c’è sempre stato un robusto ceto medio a fare da “cuscinetto”. Se non che, la crisi iniziata nel 2006 ed esplosa l’anno successivo ha ridotto i numeri dell’area di relativo, moderato benessere, espresso in forme rigorosamente consumistiche, anche nel cuore del neocapitalismo trionfante, cioè in Nord America. Anzi, i numeri del ceto medio statunitense, che in parte significativa va alle urne giustificando il “sistema democratico” e liberale, hanno iniziato a ridursi fin da prima della cosiddetta “crisi subprime”, man mano che si affermavano le logiche finanziarie neocapitalistiche e avanzava la globalizzazione economica. Per la verità, la brutale e semplificatrice dicotomia fra ricchi e poveri, che sembra non basarsi sulla “mediazione” di classi sociali definite e intese come mondi culturali, nasconde una nuova strutturazione della società, un ordine classista ancor peggiore di quello imposto dal capitalismo dello scorso millennio. La dicotomia fra global class e pauper class, pesando sempre meno la presenza, sul piano sociale, del ceto medio figlio del welfare. Un ordine dai tratti inequivocabilmente neofeudali.
I poveri, gli impoveriti, coloro che vivono quotidianamente situazioni di marginalità e di difficoltà e che possono sperare al più in lavori temporanei mal pagati, sono poco propensi a votare, a partecipare, a entusiasmarsi per contese politiche posticce, sempre più simili a partite di calcio (football americano, per l’oltre oceano capitalistico) o a corse dei cani truccate con la finta lepre che gli corre davanti, che avvantaggiano soltanto allibratori (bookmakers) e grossi scommettitori. Sanno per istinto ed esperienza i poveri senza speranza, immersi in un ordine sociale che gli è estraneo e nemico, disintegrati culturalmente e privati anche delle loro origini, che nessun politico e nessun “comitato elettorale”, una volta incassato i voti, prenderà le loro parti e cercherà di migliorarne le condizioni di vita. Capiscono che gli attoruncoli della politica, ben pettinati, coperti di cerone, truccati come puttane da bordello che mentono nascondendo le loro vere intenzioni, sono lì per fare ben altri interessi. Gli stessi che hanno ridotto tutti loro, i loro padri e i loro figli in quelle condizioni. Pur non avendone piena coscienza e pur non rivoltandosi come dovrebbero, i poveri, le neoplebi, le masse disintegrate da questo capitalismo, sanno che la politica liberaldemocratica e tutti i suoi attori sono al servizio di forze determinate e molto concrete, d'interessi di classe avversi a quelli della maggioranza della popolazione. Non sono certo al servizio di una “volontà popolare” ipotetica e non meglio identificata, o di uno stato ridotto a puro testimonial dei mercati e alla loro completa mercé.
Sia ben chiaro. Una cosa è non votare perché s'intuisce, quasi d’istinto, che la democrazia liberale è una truffa e perché le necessità di sopravvivenza prendono il sopravvento su tutto. Altra cosa è opporsi al sistema avendo alle spalle un’organizzazione antagonista e uno straccio di progetto politico. I poveri schiacciati dai ricchi, come nella società nordamericana, le neoplebi e le masse culturalmente disintegrate alle loro spalle, in questo momento, non hanno proprio nulla. Sono abbandonate a se stesse, in balia del controllo e della manipolazione sistemici. E soprattutto della “legge del mercato”.
Non troppo dissimile da questa è la situazione sociopolitica che oggi caratterizza l’Italia. Un intenso processo di trasformazione dell’ordine sociale, inasprito e velocizzato dalla crisi economica strutturale, dalla dipendenza dall’euro, dal ricatto del debito e dalla “cessione” della sovranità nazionale ha fatalmente trasformato il paese in “società aperta di mercato”, attraversata da flussi migratori e caratterizzata dal dilatarsi dei differenziali di ricchezza, potere e prestigio fra ricchi e poveri. Anche qui, come in America, il ceto medio arretra, risucchiato verso il basso dall’applicazione delle dinamiche neocapitalistiche. Anche qui la povertà dilaga e fanno capolino problemi alimentari per una parte significativa, ma sempre più invisibile, della popolazione. Eppure costoro, i cui interessi vitali sono calpestati, godono delle “libertà civili” e dei “diritti politici”. Sembra una beffa, un’insopportabile ipocrisia, ma è la sostanza del sistema liberaldemocratico, puntello politico del neocapitalismo.
Non c’è da stupirsi, alla luce delle precedenti considerazioni, che nei ballottaggi per le comunali del 9 e del 10 giugno abbia votato meno della metà degli aventi diritto: solo il 48,5% a livello nazionale. Davanti al dato dell’astensione in crescita, fino a superare la soglia della metà più uno degli aventi diritto, i giornalisti e i politici, come il solito, stendono cortine fumogene, danno interpretazioni capziose del fenomeno, cercano di giustificare quel sistema e quegli interessi dominanti che hanno prodotto l’astensionismo di massa. Ne prendiamo in considerazione due. 1) Secondo alcuni il segnale non sarebbe poi negativo come si crede, perché testimonierebbe una “maturazione” nella società italiana in senso nordamericano (sempre più simili agli Usa, infatti), in cui alcuni votano e altri se ne stanno “alla finestra” a guardare quel che succede. L’astensione non sarebbe un male, secondo questa interpretazione, ma un segnale che stiamo raggiungendo finalmente la piena “maturità democratica”, testimoniata dal numero di votanti sempre più basso. 2) Altri, più banalmente, pongono l’accento sulla distanza fra “i problemi della gente”, ossia quelle bazzecole come il lavoro che non c’è, il reddito che cala, i costi della vita che salgono, l’insicurezza materiale e psicologica che tende a esplodere, e le cose, meno concrete ma forse più nobili, più eteree (come il “sesso degli angeli” nella Costantinopoli assediata dagli ottomani), di cui suole occuparsi la politica di questi tempi. In tal caso, la conclusione di rito di politici e giornalisti d’apparato è che la politica deve tornare a occuparsi “dei problemi della gente”, affinché tutto si sistemi per il meglio e l’astensionismo diminuisca. Ben sapendo, però, che ciò non è possibile se non a livello di puro annuncio, perché la politica risponde esclusivamente ai centri di dominio neocapitalistici, come Bruxelles, Francoforte, la City londinese, Washington e Wall Street. Non importa se il calo della partecipazione al voto, che ha spaccato letteralmente in due il cosiddetto corpo elettorale, si registra in occasione di consultazioni comunali, e quindi amministrative, di rango e interesse inferiore rispetto alle politiche. La “disaffezione” nei confronti del voto liberaldemocratico, del sistema politico ascaro del mercato e della finanza, dei politici opportunisti, incapaci, servi e corrotti si manifesta, ormai, in ogni occasione elettorale. Solo l’effimero exploit di Grillo e delle sue liste, un po’ di tempo fa alle ultime politiche, è sembrato invertire la tendenza, calmierando l’astensione, ma ormai è acqua passata e gli effetti concreti dei meccanismi di dominazione neocapitalistica, nel corpo elettorale e nel paese, hanno ripreso il sopravvento. Prova ne sia che in Sicilia, regione in cui il movimento aveva avuto notevoli affermazioni, i candidati cinque stelle deludono e l’astensione aumenta. 
Delle due giustificazioni in merito fenomeno dell’astensionismo la prima (1) sembra essere la migliore, perché originaria, andando alla sorgente del problema, e la seconda (2) soltanto derivata, in quanto effetto delle grandi trasformazioni socioeconomiche, culturali e politiche verificatesi in Italia nell’ultimo ventennio. Infatti, se l’astensionismo in occasione delle elezioni politiche del 27-28 marzo 1994 che hanno incoronato “premier” Berlusconi per la prima volta era di poco inferiore al 14% degli aventi diritto (facendo base sul proporzionale), nelle ultime politiche del 24-25 febbraio 2013, con altra e famigerata legge elettorale, il dato della non partecipazione è cresciuto alla camera fino a quasi il 25%, nonostante la presenza “recupera-astensioni” di Grillo. Naturalmente la situazione economica e sociale del 1994 era incomparabilmente migliore dell’attuale, nonostante il passaggio del ciclone “Tangentopoli/ Mani pulite”, l’avvio delle privatizzazioni e il crollo del sistema di cambi europeo a stretti margini di oscillazione valutaria (Sme), nel settembre del 1992, che travolse letteralmente la lira. Ma è nelle ultime comunali che si è raggiunto un minimo storico di partecipazione del corpo elettorale alla ritualità del voto liberale e democratico. Questo perché il processo di trasformazione in senso neocapitalistico della società italiana, che diventa “società aperta di mercato” più simile a quella modello nordamericana, è già a buon punto, e di ciò si compiacciono, facendo credere che sia una cosa positiva per tutti, i servi mediatici e politici delle aristocrazie finanziarie. Pochi ricchi, infedeli nei confronti dei luoghi d’origine, un piccolo strato intermedio integrato dal neocapitalismo nel sistema e un oceano sempre più vasto di poveri, fra i quali un certo numero di immigrati, i cui interessi non hanno e non avranno rappresentanza alcuna. Il fatto, poi, che la politica indigena costosa e bizantina, arroccata in “zone rosse” ben protette, si occupi del “sesso degli angeli” anziché dei “problemi della gente” (con brutta espressione politico-giornalistica), è una conseguenza della predetta trasformazione in senso neocapitalistico, che ha tolto alla politica nazionale il bastone del comando (e l’autonomia decisionale particolarmente in campo monetario) per offrirlo a Bruxelles, Francoforte, alla City londinese, Washington e Wall Street. Dei “problemi della gente” in Italia, quindi, si occupano gli organismi sopranazionali che ci controllano, in armonia con gli interessi elitistici. I politici indigeni devono soltanto obbedire ed eseguire.
Come chiarito in precedenza, i poveri tendono a non votare, se intuiscono (pur senza poterselo spiegare con analisi articolate) di essere completamente invisibili e dimenticati nel nuovo ordine, di non avere alcuna possibilità di tutela dei propri interessi dentro il sistema. Le masse disintegrate almeno una cosa l’hanno intuita. Quelli che dovrebbero eleggere, recandosi alle urne, non saranno mai i loro rappresentanti, ma sono e resteranno soltanto dei nemici. Dei collaborazionisti al servizio dell’occupatore del paese il cui compito è mentire, dissimulare, annunciare miglioramenti che non si verificheranno, continuando a spremerli per conto dei padroni globali. I sindaci dei capoluoghi di provincia eletti nell’ultima tornata di amministrative (undici in totale, tutti “di sinistra”, ossia del pd e appendici) non sfuggono alla regola dell’asservimento della politica ai poteri esterni, al mercato, alle capitali del nuovo “impero del male” in occidente. Così Ignazio Marino a Roma, il burocrate piddino del “daje” che gongola sorridendo per la vittoria, ma piagnucola un po’ per l’astensione, così Enzo Bianco ex senatore del pd a Catania e vecchia volpe della politica (già sindaco della città siciliana nel lontano 1988). Persino Letta è intervenuto pro domo sua, dichiarando che queste elezioni rafforzano l’attuale esecutivo, nato da un inciucio e dal tradimento delle promesse elettorali. Quel che è più grave è che nonostante alcune affermazioni apparentemente preoccupate, per l’elevata astensione dal voto delle masse, questi farabutti (intendiamo sia i politici come Marino, Bianco e Letta, sia i giornalisti prezzolati) sanno che non v’è pericolo imminente. Infatti, non esistono movimenti alternativi organizzati, disposti a dar battaglia al sistema, né, tantomeno, vi sono tracce di programmi politici nuovi, antiliberisti e antieuro. Così, almeno per ora, la rabbia e il dissenso delle masse disintegrate si manifestano con la crescita dell’astensionismo, quando non si “stemperano” attraverso l’adesione ai distruttivi circenses offerti dal sistema, come ad esempio il gioco d’azzardo diffuso e la droga. Peccato, però, che i giochi ci sono, sono irresistibili e coinvolgenti, ma il pane manca sempre di più. I farabutti politici e giornalistici sanno che le esplosioni di follia individuale e i suicidi per ragioni economiche segnano quest’epoca, in cui antagonismo vero e lotta armata sono pressoché assenti. Quindi capiscono di non correre particolari rischi. Perciò è molto probabile che il sistema potrà sopportare, o addirittura volgere a suo favore, elevati tassi di astensione dal voto nel corpo elettorale, che altro non è, in parte significativa, se non la massa di dominati culturalmente disintegrata, soggetta a privazioni crescenti in termini di risorse e di diritti, che al pari di molti poveracci nella società “modello” nordamericana può fare una sola cosa: non andare a votare e continuare ad arrancare.

Con profonda tristezza

di Eugenio Orso e Anatolio Anatoli 

16 giugno 2013

Destra e sinistra sono destinate a perire









Lunedi' pomeriggio ho acceso la Tv alle tre su La7 perchè era la prima a fare una trasmissione sul secondo turno delle amministrative. Per cinquanta minuti Enrico Mentana si è destreggiato a parlare di tutto tranne che del dato che interessava di più, l'affluenza alle urne, a quell'ora già disponibile al Viminale. Spazientito ho girato sulla Rai che peraltro questa volta, a differenza di precedenti, interminabili, maratone, ha dato scarso spazio al turno elettorale (e anche questo è un segnale). Finalmente al Tg1 delle otto abbiamo saputo che il 51,5% degli italiani non era andato a votare. Un meno 25,5% rispetto alle recenti politiche. Un risultato che sarebbe stato ancor più impressionante se 5Stelle non fosse stato presente in tre ballottaggi, sia pur in piccoli comuni, e se alcuni grillini, cioè elettori al limite dell'astensione, non si fossero recati, per disperazione, alle urne turandosi montellianamente il naso. A cio' vanno aggiunte le schede bianche e nulle, che il Viminale prudentemente non dà o nasconde fra le righe, ma che storicamente oscillano fra il milione e il milione e mezzo. Ancora più clamorosi sono i dati di Roma dove ha votato il 44,9% degli aventi diritto. Clamorosi non solo perchè l'affluenza è stata particolarmente infima, ma perchè a Roma sono concentrati gli apparati dei partiti che sono obbligati a votare pena la perdita del posto di lavoro. Insomma molto più di un italiano su due ha disertato le urne (o le ha riempite di bianche e di insulti) ma anche parecchi di quelli che vi sono andati lo hanno fatto di malavoglia. Questo pone un problema di legittimità democratica. Che legittimità, che credibilità puo' avere un sindaco che puo' contare su meno della metà della metà del consenso dei suoi cittadini? E il discorso vale, a maggior ragione, per le elezioni politiche, dove i partiti percentualmente conservano i consensi, e quindi paiono ancora vivi, ma in termini assoluti non fanno che perdere voti. Bisognerebbe mettere un quorum, come nei referendum. Altrimenti, andando avanti di questo passo, potremmo trovarci di fronte al paradosso che un 10% degli italiani governa su un 90% che gli è ostile.

Naturalmente i politici e gli opinionisti al loro seguito, oltre a dire frasi scontate tipo «dobbiamo riflettere su questo fenomeno», trovano mille giustificazioni per questo tracollo del consenso. La più utilizzata è che negli altri Paesi democratici l'affluenza è ancora più bassa. Ma noi abbiamo una storia diversa, di passione politica. Fino al 1979 andava a votare il 90%. Da allora c'è stata prima una lenta poi una sempre più rapida e innarestabile discesa. Inoltre sono diverse le ragioni dell'astensione. In Svizzera, in Germania, in Danimarca, in Svezia i cittadini che non vanno a votare lo fanno perchè hanno fiducia nelle proprie classi dirigenti, pensano che chiunque governi curerà comunque gli interessi del loro Paese. La nostra invece è una crisi di sfiducia. Nei confronti del sistema, del regime dei partiti e, in definitiva, della democrazia rappresentativa.
Infine c'è una questione più profonda che non riguarda solo l'Italia ma tutte le democrazie occidentali. Destra e sinistra, in cui si dividono i partiti, sono categorie politiche vecchie di due secoli e mezzo che non sono più in grado di comprendere le vere esigenze dell'uomo contemporaneo. Che, per quanto cio' possa suonar strano, particolarmente oggi, non sono economiche ma esistenziali. E quindi destra e sinistra sono destinate a perire, a parer mio abbastanza alla svelta, con quel modello di sviluppo economicista, nato con la Rivoluzione industriale, in cui sono cresciute e si sono affermate.


di Massimo Fini 

15 giugno 2013

I nuovi schiavi della "globalizzazione di Stato"


Ci aspettavamo francamente qualche reazione in più alle ultime notizie  sulle “morti bianche”,  provenienti dalla Cina. Muore un ragazzino  di 14 anni, Liu Fuzong, stroncato dai ritmi del lavoro, dodici ore al giorno, fino a quindici se la produzione lo richiede. Muoiono, suicidi, tre lavoratori della Foxcomm, azienda che assembla telefonini, per i ritmi alti e le pessime condizioni di lavoro. Punte d’iceberg di un’autentica mattanza che, nel 2010, ha provocato, in Cina, seicentomila morti per cause riconducibili a “stress da lavoro”. Numeri grandiosi  e storie terribili  su cui in Occidente il silenzio regna sovrano:  giusto la notizia e niente di più. Nessuna mobilitazione dei mass media, nessun commento preoccupato, nessuna manifestazione di solidarietà da parte dei sindacati. L’imbarazzo domina  sovrano, quasi che la Cina goda di un regime speciale, di una sorta di salvacondotto con duplice firma: quella di un capitalismo internazionale, a cui le delocalizzazioni servono per abbattere i costi di produzione e quella di una sinistra per la quale le vecchie appartenenze contano ancora e pesano psicologicamente (visto che comunque a governare è il Partito Comunista).
In  questo mondo, globalizzato e dove le notizie sono in presa diretta, la questione etica non può non dilatare i suoi confini, costringendo le nostre coscienze ad interrogarsi e a turbarsi per avvenimenti che sono apparentemente  lontani eppure ci sono vicinissimi, non solo perché li vediamo sui nostri schermi ma perché quelle merci, prodotte  nelle regioni della Cina profonda, fanno bella mostra nelle vetrine delle nostre città, per poi venire  da noi acquistate.
Non è di moda parlare di schiavitù. Eppure non c’è altro termine per definire la penosa condizione di milioni di lavoratori e lavoratrici costretti a “vendersi” per qualche spicciolo e per questo rischiare la vita, sotto la pressione dei ritmi imposti dalla produzione. Come per Liu Fuzong, il ragazzino di 14 anni. 
Formalmente la schiavitù non esiste. Ricacciata com’è stata negli oscuri meandri della storia, nelle immagini cinematografiche dei colossal d’annata, tra catene avvilenti e punizioni a colpi di frusta. Sotto la coltre rassicurante dei “diritti dell’uomo”, garantiti per tutti, il fenomeno più che scomparire sì è però modificato, adattandosi alle mutate condizioni socio-economiche del nuovo millennio.
Si è “aggiornato” non perdendo  la sua essenza dominatrice. Perciò ci appare ancora più  brutale di quanto non lo fosse nell’antichità, con il suo insinuarsi e dissimularsi tra le pieghe deboli del mondo moderno; “globale” proprio per la sua capacità di pervadere popoli lontani e diversi tra loro, di segnare destini individuali ed intere comunità (di giovani e di adulti, di uomini e di donne); “cinico” come le reti stese, sotto i balconi delle fabbriche cinesi,  per attutire i lanci suicidi; “anodino” come i formicai produttivi dai colori pastello.
E’ il grande paradosso schiavista di questi anni, così generosamente “liberal”. E’ il paradosso delle centinaia di migliaia di suicidi, dove ad essere polverizzato, insieme alle vite degli operai cinesi, è il falso umanitarismo occidentale, l’incapacità di uscire fuori dal perbenismo dei valori, il silenzio dei vertici istituzionali, tanto insensibili da arrivare a dire – come ha fatto la presidente della Camera, Laura Boldrini – di amare la Cina e di vestire cinese (“Camera con Laura”, intervista a “D-la Repubblica”, 26 aprile 2013).
Un maestro della cultura nazional-sociale, Ernesto Massi, alla fine degli Anni Quaranta del Novecento, così fissava la “questione sociale”: “Potremo ragionare di orientamenti economici quando ci saremo bene intesi sui fini sociali da raggiungere, che sono fini etici: perché il fine di ogni società è il perfezionamento dell’uomo e il bene comune. L’economia invece è la scienza dei mezzi, rispetto all’etica che è la scienza dei fini”.
Di questo “finalismo”, di fronte alle nuove, grandi questioni poste dalla globalizzazione, è inderogabile, oggi, farsi carico. E non solo per prenderne coscienza. Occorre finalmente attivare adeguati strumenti di controllo internazionale. Occorre che anche i sindacati occidentali facciano la loro parte, non lasciando da soli i “nuovi schiavi” del produttivismo globalizzato. Occorre mobilitare tutti gli strumenti informativi perché non siano  il silenzio o peggio il disincanto a trionfare.
Se il campo del confronto è il mercato, esso non può essere insomma lasciato, su scala mondiale, in balia di una lotta senza regole, dove a soccombere saranno sempre i più deboli, uccisi da un profitto senza  regole.



                                                                   di    Mario Bozzi Sentieri