18 luglio 2013

Le rivoluzioni europee cominciarono sempre con una rivolta in Ungheria






Italia, Polonia e Ungheria sono tre paesi “di passaggio”: l’Italia in senso nord-sud e gli altri due in senso ovest-est.
Deve essere anche per questo comune destino che ricordiamo anche al ginnasio con piacere la partecipazione di volontari ungheresi, agli ordini di Stefano Türr (1848) e György Klapka (1859) alle nostre lotte per l’indipendenza e citiamo nel nostro inno nazionale “il sangue polacco” che l’aquila bicipite “bevè col cosacco, ma il cor le bruciò”.
Sempre nel 1848 oltre 1100 volontari italiani combatterono per l’indipendenza ungherese agli ordini diAlessandro Monti.

Sui bastioni di Buda c’è una lapide in memoria di un barone salernitano – di cui non ricordo ahimé il nome- che superò per primo i bastioni turchi per la liberazione della città.
Una amica polacca dell’ambasciata, mi ha assicurato che anche nell’inno nazionale polacco c’è un accenno diretto all’Italia e alle lotte comuni.
Insomma siamo in simpatia da oltre duecento anni. Abbiamo trepidato per la loro sorte durante la rivolta ungherese del 1956 – su questo si spaccò il P.C.I. nei suoi elementi di punta – e riabbracciammo i fratelli ungheresi al crollo del patto di Varsavia.
Ieri, 15 luglio, i magiari sembrano ancora una volta voler precedere tutti e indicare agli altri europei la strada da seguire, per reagire ribellandosi alla nuovaSanta Alleanza.
Gyorgy Matolcsy, governatore della Banca centrale ungherese, ha inoltrato alla signora Christine Lagarde una lettera, invitandola a chiudere l’ufficio di Budapest del Fondo Monetario Internazionale (FMI) segnalando che non vi era più ragione per prolungarne la presenza e che il governo ungherese conta concludere il rimborso del prestito contratto in anticipo rispetto al termine del 2014 stabilito dagli accordi vigenti.
L’FMI pare intenzionato a traslocare entro la fine di Agosto, anche perché il prestito negoziato nel 2011 ( Orban giunse al governo nel 2010).
L’Ungheria aveva contratto – subito dopo lo scoppio della crisi finanziaria – nel 2008 un prestito con la trimurti FMI, UE, Banca Mondiale ( WB) per un importo massimo di 25 miliardi, di cui circa 15,7 effettivamente utilizzati.
Il rapporto tra FMI e il governo ungherese presieduto da Viktor Orban è sempre stato tempestoso, al punto che i “soliti ambienti”, mai precisati ma sempre autorevoli, avevano lo scorso anno fatto circolare la voce che in Ungheria esisteva un concreto pericolo di ritorno al fascismo.
Orban ha posto sotto controllo la Banca Centrale, nazionalizzato il sistema pensionistico e posto una supertassa sulla grandi società e questo per l’Unione Europea è un peccato mortale cui ha fatto seguito la minaccia di scomunica.
Si tratta di una minaccia non vana, visto che alcuni articoli della carta delle Nazioni Unite ( tra il 50 e il 54) prevedono espressamente che le Nazioni vincitrici della seconda guerra mondiale possano, invadere senza preavviso qualsiasi tra i paesi sconfitti ( l’Ungheria è tra questi), qualora , a insindacabile giudizio di anche uno solo dei vincitori, si ravvisasse un sintomo di rinascita del fenomeno.
L’Ungheria ha avuto lo scorso anno un lieve miglioramento economico grazie a una forte immissione di nuovi cittadini ( 400.000) provenienti dai paesi vicini beneficiati da concessioni territoriali conseguenza della guerra mondiale.
La relativa liberalizzazione della prima decade del secolo e l’energica conduzione indipendentista del governo Orban, hanno reso possibile il congiungimento di molti alla madrepatria ed una certa quota di inevitabile irredentismo che ha fatto seguito.
Le frizioni col FMI sono la conseguenza della pretesa assurda del FMI di imporre politiche economiche ormai riconosciute errate anche dall’alto management del Fondo, ma che incomprensibilmente non vengono corrette; dalle esigenze elettorali dettate dalle ormai imminenti elezioni politiche e dalla politica indipendentista seguita dal governo che ha potuto attrarre nel paese uomini e capitali tagliati fuori dalla madrepatria.
L’equivalenza tra fascismo e indipendenza nazionale viene perseguita a fini di propaganda dalle autorità di Bruxelles e da alcuni cretini di estrema destra, sia pure per opposte motivazioni.
Orban, tenendo ostinatamente la barra al centro, offre a tutti gli europei un esempio di come trovare una via di ripresa nazionale, mantenendo gli impegni comunque contratti, creare la ripresa mercé l’ottimizzazione e il controllo delle risorse a disposizione.

di Antonio De Martini

Fonte: corrieredellacollera 

17 luglio 2013

Guardate questo paese

GUARDATELO, QUESTO PAESE
Sono stanco di ripetermi in ragionamenti che, al punto in cui siamo, rischiano di diventare quasi irritanti nella loro ovvietà. Ho incominciato la mia collaborazione con questo blog circa un anno e mezzo or sono per provare, nel mio piccolo, a trasmettere una maggiore conoscenza delle cause dei nostri problemi economici, e proporre (sempre nel mio piccolo) alcune soluzioni. Adesso basta. Nulla è cambiato e nulla cambierà. Continuiamo nel piccolo cabotaggio italico. Non si vede nessun governo all'orizzonte con il coraggio e la forza per fare due cose: mettere mano ai quasi 300 miliardi di spese correnti del bilancio dello stato, tagliandone almeno il 10% per destinarlo a sgravi fiscali, giovani, infrastrutture; approvare una manovra straordinaria per l'abbattimento del debito pubblico cumulato, fatta di privatizzazioni e di una patrimoniale sui ricchi. Ci stiamo facendo trasportare dalla corrente. E questa corrente si chiama liquidazione amministrativa controllata. Non un default esplosivo, beninteso. Non conviene a nessuno. Invece una messa in vendita (a prezzi di saldo) del patrimonio di questo paese fatto di medie imprese di qualità, terreni, coste, opere d'arte, è un affare formidabile. Nella storia, questo è spesso stato il modo con cui i paesi improduttivi hanno ripagato i loro debiti. Ci stanno acquistando i tedeschi, i francesi, gli americani, i cinesi. Questo è di tutta evidenza. Meno evidente è, invece, il fatto che ognuno di questi acquirenti comprerà scegliendo secondo la sua cultura e il suo giudizio del nostro paese. Per cui: ai tedeschi i migliori luoghi di vacanze e le medie imprese nel settore utensile; agli americani le opere d'arte e i musei; ai francesi il Made in Italy nel lusso e nella moda; ai cinesi tutto il possibile. Eh si: loro saranno, di tutti i popoli stranieri, i nostri più entusiasti e onnivori acquirenti. Loro come noi, infatti, si trovano bene in paesi dalla normativa opaca e dove contano di più le relazioni che il merito. Questo, secondo me, avverrà. Certo, ci saranno eccezioni positive, imprese italiane eccellenti e a capitale italiano, comuni molto bene amministrati. Eccezioni alle quali ci aggrapperemo come farebbe un naufrago con il pezzo di legno che galleggia. Ma saranno eccezioni. Nella media, il sacco d'Italia è scritto nei numeri della montagna di debito che non sappiamo ripagare se non, appunto, con la grande svendita. Dunque, preferisco non contribuire al coro di "dischi rotti" ed economisti che continuano a propinare le loro ricette teoriche (e inutili), e prendo congedo dai lettori di Cadoinpiedi. Perché non ho più nulla da dire di utile. 

Però prima di prendere commiato, un ultimo sguardo al mio paese lo voglio gettare, e mi permetto di trasferirlo a chi legge. E allora guardiamolo, questo nostro paese. E cosa vediamo? Vediamo a Milano i grandi grattacieli in costruzione invenduti, nel mezzo di una città che ricorda, con le sue torri vuote alla cui base dormono i barboni, certe metropoli Sud Americane degli anni '70. Vediamo, andando in posta a pagare le bollette, la povertà miserabile e senza dignità di troppi pensionati italiani. Vediamo, camminando per i marciapiedi, il racket organizzato dell'accattonaggio che cresce indisturbato. Centinaia, ormai, d'immigrati che evidentemente lavorano per degli sfruttatori. Vediamo, nelle periferie, l'avanzare disordinato e sconclusionato di case, strade, discariche, capannoni (vuoti), a rispecchiare la mancanza totale di pianificazione del territorio. Mancanza che, anch'essa, si riscontra in paesi di stampo sudamericano. Ma vediamo anche, andando per le campagne, le zone artigianali assurde fatte dai troppi sindaci che volevano il loro piccolo momento di celebrità e che, grazie a una normativa scriteriata che ha assegnato una leva d'importanza nazionale come la politica industriale alla loro responsabilità, hanno costellato gli oltre 10.000 comuni di questo paese, come tanti Peppone orgogliosi e tronfi, di zone artigianali troppo piccole, troppo disordinate e troppo mal collegate per essere competitive. E, sempre in quelle campagne, osserviamo il degrado crescente delle strade, l'abbandono degli alvei dei fiumi e dei terreni in pendio, che si traduce in miliardi di euro l'anno di costi dovuti a frane, alluvioni, smottamenti, tipici anch'essi di un paese Sud-Americano. Quando piove, nell'Italia "sudamericanizzata" del 2013, viene giù tutto. 

Notiamo anche, in un paradosso che accosta l'incuria del territorio ai tentativi propagandistici delle grandi opere infrastrutturali, i cantieri infiniti delle bretelle autostradali, dei viadotti, dei ponti. Pagati dal contribuente milioni di euro per essere finiti in pochi anni, e invece perduranti da decenni. Grazie ad una normativa ridicola, che non infligge penali severe sui ritardi nella consegna dell'opera pubblica e che, in molte amministrazioni italiane, prevede ancora che il progettista venga pagato non come "una-tantum" sul suo progetto, ma in % sui costi della sua realizzazione (in pratica: come dare al lupo le chiavi del pollaio). 

Vediamo, in questo paese, neo-laureati brillanti che non si prendono nemmeno più la pena di cercare un lavoro qui da noi. Giustamente, non cercano un presente di sopravvivenza. Vogliono un futuro da vivere. Soprattutto, sanno che se rimangono qui non riceveranno solo un basso stipendio e contratti a termine. Avranno anche, che è forse peggio, da adeguare verso il basso i loro sogni e le loro ambizioni a quelle di un paese rattrappito, rassegnato, furbo nell'arrangiarsi e modesto nel costruire. Il paese di "servo vostro sior paròn", di arlecchino e pulcinella, del vaso di creta tra i vasi di ferro di quel capolavoro di ambizioni limitate e cattolicesimo beghino dalla vista corta che sono i Promessi Sposi. Il paese dei briganti e dei pedaggi estorti dai comuni al viandante che vi entrava, per rimpinguare le casse del paese. I balzelli (dall'antico toscano: "imboscata, agguato") e le gabelle di medioevale memoria che oggi quei comuni eufemisticamente chiamano "tassa di occupazione del suolo", TARSU, ecc. Nelle logiche e negli obiettivi, i balzelli e le gabelle dei comuni odierni sono identiche a quelle dei comuni di secoli fa. Con un'unica differenza: il valore. Quelle applicate oggi sono molto, ma molto più elevate. Il decentramento scriteriato della fiscalità condotto in questi ultimi decenni infatti, ha consentito ai nostri amministratori locali di dare libero sfogo alla loro fantasia e, soprattutto, alle loro ambizioni. E allora ogni sindaco vuole avere la sua polizia, ma che diamine. Torniamo alle abitudini del periodo più buio della storia d'Italia, il 1600. Anche le pulci devono tossire, dice un antico proverbio. E il federalismo fiscale realizzato in salsa (avariata) nostrana, ha permesso ai comuni nostrani di scatenarsi inventando un sottobosco di tributi, imposizioni, contribuzioni, nella gran parte vessatorie per il cittadino. Ne sia prova evidente, il nostro triste primato delle multe pro-capite pagate in Europa, con un aumento di oltre il 1500% in dieci anni. Una tassa vergognosa, quella delle multe, di fatto incostituzionale perché per di più fatta pagare in modo indistinto e generalizzato (al cassintegrato come al miliardario) a differenza di quanto invece avviene in altri paesi. Uno sconcio. Ci sono comuni nel Nord-Italia per i quali le multe rappresentano ormai la seconda, o a volte anche la prima, voce di entrata assoluta del loro bilancio!. Questi azzeccagarbugli locali hanno realizzato un federalismo fiscale da XVII° secolo. E invece di fare i loro bilanci vendendo servizi locali a valore aggiunto per la qualità della nostra vita, ci tendono imboscate fiscali fatte di parcheggi a pagamento senza parchimetri, autovelox nascosti, tasse per i rifiuti anch'esse da primato europeo. Se non fosse una tragedia, ci sarebbe quasi da ridere. Questa vera e propria "imposta ambientale sull'auto" da parte dei comuni, unita alla sconcia mancanza di concorrenza nel settore assicurativo e al costo spropositato dei carburanti, hanno di fatto ucciso la domanda di auto da parte del ceto medio italiano. Infatti, il settore dell'auto che in Europa è in crisi, in Italia è in pratica scomparso. L'italiano non compra più l'auto perché non se la può più permettere. E allora cosa vediamo, se osserviamo le nostre città? Le biciclette!. Al che, l'assessore alla mobilità di una primaria città italiana commentava garrulo e compiaciuto: "ecco, vedete, è un esempio di mobilità sana, alternativa, che fa bene alla persona e all'ambiente". Ma si dimenticava che, lui, le piste ciclabili non le ha realizzate, e che in questa primaria città italiana i ciclisti non sembrano certo, quando li osservi pedalare, dei tranquilli ciclisti di certe città del Nord-Europa, con le loro belle piste ciclabili. Ricordano invece quelli di Bangkok, sempre in bilico tra rotaie e buche (anch'esse in crescita, e ben più delle multe) nelle strade, su e giù dai marciapiedi (comportamento illegale, ma di legittima difesa da parte del povero ciclista, data la situazione). E come dimostrano le statistiche, facendosi spesso del male o rimettendoci le cuoia.

E' proprio vero: possiamo guardarlo, questo paese, con lo sguardo partecipe e innamorato del patriota e del cittadino, e allora ci viene male a vederlo declinare, impoverire, intristire, svendere. O possiamo osservarlo con un altro sguardo: furbo, calcolatore e cinico. E allora, al di là delle belle dichiarazioni di facciata, non ce ne importa nulla. Parola di ciclista. 

di Davide Reina 

16 luglio 2013

Sprint dell'Eurozona verso il fascismo finanziario

 

 Vi avevamo avvertiti, e il 26 giugno i ministri finanziari dell'Eurozona vi hanno trasformato da risparmiatore in finanziere d'assalto. Il nuovo meccanismo di "risoluzione bancaria" approvato dall'Ecofin introduce una svolta epocale, permettendo che i soldi dei risparmiatori siano usati per finanziare istituti in bancarotta. Il rapporto fiduciario banca-cliente non esiste più. Se finora i vostri soldi tenuti in un conto di risparmio o in un conto corrente erano sempre vostri, d'ora in poi non sarà più così. Li avete affidati a un investitore e la responsabilità sarà vostra se saranno persi in speculazione ad alto rischio.
Il principio della protezione del cittadino-risparmiatore è stato sostituito con quello della "protezione del sistema" come base fondamentale della politica. In alcuni casi, come in quello italiano, è stato espressamente violato un principio costituzionale.
Concretamente, se la nuova legge per la Risoluzione Bancaria entrerà in vigore (teoricamente sia il Parlamento Europeo che quelli nazionali possono opporsi), una banca insolvente sarà salvata dall'interno e dall'esterno (bail-in e bail-out). In un primo momento, i debiti saranno saldati dagli azionisti, quindi dai possessori di obbligazioni, e infine dai risparmiatori "non protetti". La dichiarazione finale dell'Ecofin spiega che i conti di sotto ai centomila euro e i depositi di "piccole e medie imprese (…) saranno privilegiati rispetto alle richieste di creditori ordinari non protetti, non privilegiati, e dei depositi delle grandi imprese".
Che significa "piccole e medie imprese"? Si salveranno quelle con cinque addetti e quelle con cinquecento subiranno la confisca? Inoltre, la parola "privilegiato" non significa escluso. Infatti, come l'oligarchia ha segnalato, il buco da coprire supera i 2,5 trilioni di euro, calcolato al valore di mercato attuale degli attivi. Ciò significa che le "circostanze straordinarie" in cui "tutti i debiti non protetti e non privilegiati esclusi i depositi qualificati sono stati impiegati" nel salvataggio vengono a verificarsi facilmente in una liquidazione bancaria, dopodiché "il liquidatore può cercare fondi da fonti finanziarie alternative". Questo è un capolavoro d'indefinitezza e lascia un varco a qualsiasi cosa, compreso il contribuente o i risparmiatori assicurati.
Il presidente della BCE Mario Draghi ha chiesto e ottenuto un impegno ex-ante dai paesi membri dell'UE ad un salvataggio pubblico se il resto fallisce, come elemento costitutivo dell'Unione Bancaria e dello schema di liquidazione bancaria. Ciò tuttavia non significa che tutte le banche saranno salvate. Il recente rapporto della BRI indica chiaramente che si applicherà un salvataggio selettivo, per espropriare il massimo dai poveri e salvare i ricchi.
I super-ricchi, le cui fortune dipendono dalla continuità dell'economia della bisca, saranno risparmiati. Il comunicato dell'Ecofin afferma che "il liquidatore nazionale avrà anche il potere di escludere, completamente o parzialmente, debiti su base discrezionale", tra gli altri motivi "per evitare il contagio". In altre parole, ogni debito "sistemicamente rilevante" deve essere pagato. Le scommesse con i derivati sono i debiti sistematicamente più rilevanti, come dimostrò il caso Lehman Brothers. Una volta chiuso il derivato si apre una voragine. Lo schema dell'Ecofin spalanca un altro portone per salvare ogni tipo di speculazione in derivati, escludendo dal bail-in "i debiti interbancari con scadenza inferiore ai sette giorni". Poiché la maggior parte dei debiti in derivati è tra le banche, e ogni contratto derivato può essere trasformato in qualcosa con scadenza inferiore ai sette giorni, attraverso questo varco può passare l'intero debito speculativo, e il risparmiatore deve pagarlo per "evitare il contagio".

Codificando in legge il principio che il denaro degli speculatori è al sicuro ma quello dei risparmiatori no, l'UE ha messo a repentaglio quella stessa "stabilità del sistema" che voleva preservare. Se si diffonde la percezione che i risparmi non sono più sicuri, ci sarà una fuga dai depositi. 
by  (MoviSol) -

18 luglio 2013

Le rivoluzioni europee cominciarono sempre con una rivolta in Ungheria






Italia, Polonia e Ungheria sono tre paesi “di passaggio”: l’Italia in senso nord-sud e gli altri due in senso ovest-est.
Deve essere anche per questo comune destino che ricordiamo anche al ginnasio con piacere la partecipazione di volontari ungheresi, agli ordini di Stefano Türr (1848) e György Klapka (1859) alle nostre lotte per l’indipendenza e citiamo nel nostro inno nazionale “il sangue polacco” che l’aquila bicipite “bevè col cosacco, ma il cor le bruciò”.
Sempre nel 1848 oltre 1100 volontari italiani combatterono per l’indipendenza ungherese agli ordini diAlessandro Monti.

Sui bastioni di Buda c’è una lapide in memoria di un barone salernitano – di cui non ricordo ahimé il nome- che superò per primo i bastioni turchi per la liberazione della città.
Una amica polacca dell’ambasciata, mi ha assicurato che anche nell’inno nazionale polacco c’è un accenno diretto all’Italia e alle lotte comuni.
Insomma siamo in simpatia da oltre duecento anni. Abbiamo trepidato per la loro sorte durante la rivolta ungherese del 1956 – su questo si spaccò il P.C.I. nei suoi elementi di punta – e riabbracciammo i fratelli ungheresi al crollo del patto di Varsavia.
Ieri, 15 luglio, i magiari sembrano ancora una volta voler precedere tutti e indicare agli altri europei la strada da seguire, per reagire ribellandosi alla nuovaSanta Alleanza.
Gyorgy Matolcsy, governatore della Banca centrale ungherese, ha inoltrato alla signora Christine Lagarde una lettera, invitandola a chiudere l’ufficio di Budapest del Fondo Monetario Internazionale (FMI) segnalando che non vi era più ragione per prolungarne la presenza e che il governo ungherese conta concludere il rimborso del prestito contratto in anticipo rispetto al termine del 2014 stabilito dagli accordi vigenti.
L’FMI pare intenzionato a traslocare entro la fine di Agosto, anche perché il prestito negoziato nel 2011 ( Orban giunse al governo nel 2010).
L’Ungheria aveva contratto – subito dopo lo scoppio della crisi finanziaria – nel 2008 un prestito con la trimurti FMI, UE, Banca Mondiale ( WB) per un importo massimo di 25 miliardi, di cui circa 15,7 effettivamente utilizzati.
Il rapporto tra FMI e il governo ungherese presieduto da Viktor Orban è sempre stato tempestoso, al punto che i “soliti ambienti”, mai precisati ma sempre autorevoli, avevano lo scorso anno fatto circolare la voce che in Ungheria esisteva un concreto pericolo di ritorno al fascismo.
Orban ha posto sotto controllo la Banca Centrale, nazionalizzato il sistema pensionistico e posto una supertassa sulla grandi società e questo per l’Unione Europea è un peccato mortale cui ha fatto seguito la minaccia di scomunica.
Si tratta di una minaccia non vana, visto che alcuni articoli della carta delle Nazioni Unite ( tra il 50 e il 54) prevedono espressamente che le Nazioni vincitrici della seconda guerra mondiale possano, invadere senza preavviso qualsiasi tra i paesi sconfitti ( l’Ungheria è tra questi), qualora , a insindacabile giudizio di anche uno solo dei vincitori, si ravvisasse un sintomo di rinascita del fenomeno.
L’Ungheria ha avuto lo scorso anno un lieve miglioramento economico grazie a una forte immissione di nuovi cittadini ( 400.000) provenienti dai paesi vicini beneficiati da concessioni territoriali conseguenza della guerra mondiale.
La relativa liberalizzazione della prima decade del secolo e l’energica conduzione indipendentista del governo Orban, hanno reso possibile il congiungimento di molti alla madrepatria ed una certa quota di inevitabile irredentismo che ha fatto seguito.
Le frizioni col FMI sono la conseguenza della pretesa assurda del FMI di imporre politiche economiche ormai riconosciute errate anche dall’alto management del Fondo, ma che incomprensibilmente non vengono corrette; dalle esigenze elettorali dettate dalle ormai imminenti elezioni politiche e dalla politica indipendentista seguita dal governo che ha potuto attrarre nel paese uomini e capitali tagliati fuori dalla madrepatria.
L’equivalenza tra fascismo e indipendenza nazionale viene perseguita a fini di propaganda dalle autorità di Bruxelles e da alcuni cretini di estrema destra, sia pure per opposte motivazioni.
Orban, tenendo ostinatamente la barra al centro, offre a tutti gli europei un esempio di come trovare una via di ripresa nazionale, mantenendo gli impegni comunque contratti, creare la ripresa mercé l’ottimizzazione e il controllo delle risorse a disposizione.

di Antonio De Martini

Fonte: corrieredellacollera 

17 luglio 2013

Guardate questo paese

GUARDATELO, QUESTO PAESE
Sono stanco di ripetermi in ragionamenti che, al punto in cui siamo, rischiano di diventare quasi irritanti nella loro ovvietà. Ho incominciato la mia collaborazione con questo blog circa un anno e mezzo or sono per provare, nel mio piccolo, a trasmettere una maggiore conoscenza delle cause dei nostri problemi economici, e proporre (sempre nel mio piccolo) alcune soluzioni. Adesso basta. Nulla è cambiato e nulla cambierà. Continuiamo nel piccolo cabotaggio italico. Non si vede nessun governo all'orizzonte con il coraggio e la forza per fare due cose: mettere mano ai quasi 300 miliardi di spese correnti del bilancio dello stato, tagliandone almeno il 10% per destinarlo a sgravi fiscali, giovani, infrastrutture; approvare una manovra straordinaria per l'abbattimento del debito pubblico cumulato, fatta di privatizzazioni e di una patrimoniale sui ricchi. Ci stiamo facendo trasportare dalla corrente. E questa corrente si chiama liquidazione amministrativa controllata. Non un default esplosivo, beninteso. Non conviene a nessuno. Invece una messa in vendita (a prezzi di saldo) del patrimonio di questo paese fatto di medie imprese di qualità, terreni, coste, opere d'arte, è un affare formidabile. Nella storia, questo è spesso stato il modo con cui i paesi improduttivi hanno ripagato i loro debiti. Ci stanno acquistando i tedeschi, i francesi, gli americani, i cinesi. Questo è di tutta evidenza. Meno evidente è, invece, il fatto che ognuno di questi acquirenti comprerà scegliendo secondo la sua cultura e il suo giudizio del nostro paese. Per cui: ai tedeschi i migliori luoghi di vacanze e le medie imprese nel settore utensile; agli americani le opere d'arte e i musei; ai francesi il Made in Italy nel lusso e nella moda; ai cinesi tutto il possibile. Eh si: loro saranno, di tutti i popoli stranieri, i nostri più entusiasti e onnivori acquirenti. Loro come noi, infatti, si trovano bene in paesi dalla normativa opaca e dove contano di più le relazioni che il merito. Questo, secondo me, avverrà. Certo, ci saranno eccezioni positive, imprese italiane eccellenti e a capitale italiano, comuni molto bene amministrati. Eccezioni alle quali ci aggrapperemo come farebbe un naufrago con il pezzo di legno che galleggia. Ma saranno eccezioni. Nella media, il sacco d'Italia è scritto nei numeri della montagna di debito che non sappiamo ripagare se non, appunto, con la grande svendita. Dunque, preferisco non contribuire al coro di "dischi rotti" ed economisti che continuano a propinare le loro ricette teoriche (e inutili), e prendo congedo dai lettori di Cadoinpiedi. Perché non ho più nulla da dire di utile. 

Però prima di prendere commiato, un ultimo sguardo al mio paese lo voglio gettare, e mi permetto di trasferirlo a chi legge. E allora guardiamolo, questo nostro paese. E cosa vediamo? Vediamo a Milano i grandi grattacieli in costruzione invenduti, nel mezzo di una città che ricorda, con le sue torri vuote alla cui base dormono i barboni, certe metropoli Sud Americane degli anni '70. Vediamo, andando in posta a pagare le bollette, la povertà miserabile e senza dignità di troppi pensionati italiani. Vediamo, camminando per i marciapiedi, il racket organizzato dell'accattonaggio che cresce indisturbato. Centinaia, ormai, d'immigrati che evidentemente lavorano per degli sfruttatori. Vediamo, nelle periferie, l'avanzare disordinato e sconclusionato di case, strade, discariche, capannoni (vuoti), a rispecchiare la mancanza totale di pianificazione del territorio. Mancanza che, anch'essa, si riscontra in paesi di stampo sudamericano. Ma vediamo anche, andando per le campagne, le zone artigianali assurde fatte dai troppi sindaci che volevano il loro piccolo momento di celebrità e che, grazie a una normativa scriteriata che ha assegnato una leva d'importanza nazionale come la politica industriale alla loro responsabilità, hanno costellato gli oltre 10.000 comuni di questo paese, come tanti Peppone orgogliosi e tronfi, di zone artigianali troppo piccole, troppo disordinate e troppo mal collegate per essere competitive. E, sempre in quelle campagne, osserviamo il degrado crescente delle strade, l'abbandono degli alvei dei fiumi e dei terreni in pendio, che si traduce in miliardi di euro l'anno di costi dovuti a frane, alluvioni, smottamenti, tipici anch'essi di un paese Sud-Americano. Quando piove, nell'Italia "sudamericanizzata" del 2013, viene giù tutto. 

Notiamo anche, in un paradosso che accosta l'incuria del territorio ai tentativi propagandistici delle grandi opere infrastrutturali, i cantieri infiniti delle bretelle autostradali, dei viadotti, dei ponti. Pagati dal contribuente milioni di euro per essere finiti in pochi anni, e invece perduranti da decenni. Grazie ad una normativa ridicola, che non infligge penali severe sui ritardi nella consegna dell'opera pubblica e che, in molte amministrazioni italiane, prevede ancora che il progettista venga pagato non come "una-tantum" sul suo progetto, ma in % sui costi della sua realizzazione (in pratica: come dare al lupo le chiavi del pollaio). 

Vediamo, in questo paese, neo-laureati brillanti che non si prendono nemmeno più la pena di cercare un lavoro qui da noi. Giustamente, non cercano un presente di sopravvivenza. Vogliono un futuro da vivere. Soprattutto, sanno che se rimangono qui non riceveranno solo un basso stipendio e contratti a termine. Avranno anche, che è forse peggio, da adeguare verso il basso i loro sogni e le loro ambizioni a quelle di un paese rattrappito, rassegnato, furbo nell'arrangiarsi e modesto nel costruire. Il paese di "servo vostro sior paròn", di arlecchino e pulcinella, del vaso di creta tra i vasi di ferro di quel capolavoro di ambizioni limitate e cattolicesimo beghino dalla vista corta che sono i Promessi Sposi. Il paese dei briganti e dei pedaggi estorti dai comuni al viandante che vi entrava, per rimpinguare le casse del paese. I balzelli (dall'antico toscano: "imboscata, agguato") e le gabelle di medioevale memoria che oggi quei comuni eufemisticamente chiamano "tassa di occupazione del suolo", TARSU, ecc. Nelle logiche e negli obiettivi, i balzelli e le gabelle dei comuni odierni sono identiche a quelle dei comuni di secoli fa. Con un'unica differenza: il valore. Quelle applicate oggi sono molto, ma molto più elevate. Il decentramento scriteriato della fiscalità condotto in questi ultimi decenni infatti, ha consentito ai nostri amministratori locali di dare libero sfogo alla loro fantasia e, soprattutto, alle loro ambizioni. E allora ogni sindaco vuole avere la sua polizia, ma che diamine. Torniamo alle abitudini del periodo più buio della storia d'Italia, il 1600. Anche le pulci devono tossire, dice un antico proverbio. E il federalismo fiscale realizzato in salsa (avariata) nostrana, ha permesso ai comuni nostrani di scatenarsi inventando un sottobosco di tributi, imposizioni, contribuzioni, nella gran parte vessatorie per il cittadino. Ne sia prova evidente, il nostro triste primato delle multe pro-capite pagate in Europa, con un aumento di oltre il 1500% in dieci anni. Una tassa vergognosa, quella delle multe, di fatto incostituzionale perché per di più fatta pagare in modo indistinto e generalizzato (al cassintegrato come al miliardario) a differenza di quanto invece avviene in altri paesi. Uno sconcio. Ci sono comuni nel Nord-Italia per i quali le multe rappresentano ormai la seconda, o a volte anche la prima, voce di entrata assoluta del loro bilancio!. Questi azzeccagarbugli locali hanno realizzato un federalismo fiscale da XVII° secolo. E invece di fare i loro bilanci vendendo servizi locali a valore aggiunto per la qualità della nostra vita, ci tendono imboscate fiscali fatte di parcheggi a pagamento senza parchimetri, autovelox nascosti, tasse per i rifiuti anch'esse da primato europeo. Se non fosse una tragedia, ci sarebbe quasi da ridere. Questa vera e propria "imposta ambientale sull'auto" da parte dei comuni, unita alla sconcia mancanza di concorrenza nel settore assicurativo e al costo spropositato dei carburanti, hanno di fatto ucciso la domanda di auto da parte del ceto medio italiano. Infatti, il settore dell'auto che in Europa è in crisi, in Italia è in pratica scomparso. L'italiano non compra più l'auto perché non se la può più permettere. E allora cosa vediamo, se osserviamo le nostre città? Le biciclette!. Al che, l'assessore alla mobilità di una primaria città italiana commentava garrulo e compiaciuto: "ecco, vedete, è un esempio di mobilità sana, alternativa, che fa bene alla persona e all'ambiente". Ma si dimenticava che, lui, le piste ciclabili non le ha realizzate, e che in questa primaria città italiana i ciclisti non sembrano certo, quando li osservi pedalare, dei tranquilli ciclisti di certe città del Nord-Europa, con le loro belle piste ciclabili. Ricordano invece quelli di Bangkok, sempre in bilico tra rotaie e buche (anch'esse in crescita, e ben più delle multe) nelle strade, su e giù dai marciapiedi (comportamento illegale, ma di legittima difesa da parte del povero ciclista, data la situazione). E come dimostrano le statistiche, facendosi spesso del male o rimettendoci le cuoia.

E' proprio vero: possiamo guardarlo, questo paese, con lo sguardo partecipe e innamorato del patriota e del cittadino, e allora ci viene male a vederlo declinare, impoverire, intristire, svendere. O possiamo osservarlo con un altro sguardo: furbo, calcolatore e cinico. E allora, al di là delle belle dichiarazioni di facciata, non ce ne importa nulla. Parola di ciclista. 

di Davide Reina 

16 luglio 2013

Sprint dell'Eurozona verso il fascismo finanziario

 

 Vi avevamo avvertiti, e il 26 giugno i ministri finanziari dell'Eurozona vi hanno trasformato da risparmiatore in finanziere d'assalto. Il nuovo meccanismo di "risoluzione bancaria" approvato dall'Ecofin introduce una svolta epocale, permettendo che i soldi dei risparmiatori siano usati per finanziare istituti in bancarotta. Il rapporto fiduciario banca-cliente non esiste più. Se finora i vostri soldi tenuti in un conto di risparmio o in un conto corrente erano sempre vostri, d'ora in poi non sarà più così. Li avete affidati a un investitore e la responsabilità sarà vostra se saranno persi in speculazione ad alto rischio.
Il principio della protezione del cittadino-risparmiatore è stato sostituito con quello della "protezione del sistema" come base fondamentale della politica. In alcuni casi, come in quello italiano, è stato espressamente violato un principio costituzionale.
Concretamente, se la nuova legge per la Risoluzione Bancaria entrerà in vigore (teoricamente sia il Parlamento Europeo che quelli nazionali possono opporsi), una banca insolvente sarà salvata dall'interno e dall'esterno (bail-in e bail-out). In un primo momento, i debiti saranno saldati dagli azionisti, quindi dai possessori di obbligazioni, e infine dai risparmiatori "non protetti". La dichiarazione finale dell'Ecofin spiega che i conti di sotto ai centomila euro e i depositi di "piccole e medie imprese (…) saranno privilegiati rispetto alle richieste di creditori ordinari non protetti, non privilegiati, e dei depositi delle grandi imprese".
Che significa "piccole e medie imprese"? Si salveranno quelle con cinque addetti e quelle con cinquecento subiranno la confisca? Inoltre, la parola "privilegiato" non significa escluso. Infatti, come l'oligarchia ha segnalato, il buco da coprire supera i 2,5 trilioni di euro, calcolato al valore di mercato attuale degli attivi. Ciò significa che le "circostanze straordinarie" in cui "tutti i debiti non protetti e non privilegiati esclusi i depositi qualificati sono stati impiegati" nel salvataggio vengono a verificarsi facilmente in una liquidazione bancaria, dopodiché "il liquidatore può cercare fondi da fonti finanziarie alternative". Questo è un capolavoro d'indefinitezza e lascia un varco a qualsiasi cosa, compreso il contribuente o i risparmiatori assicurati.
Il presidente della BCE Mario Draghi ha chiesto e ottenuto un impegno ex-ante dai paesi membri dell'UE ad un salvataggio pubblico se il resto fallisce, come elemento costitutivo dell'Unione Bancaria e dello schema di liquidazione bancaria. Ciò tuttavia non significa che tutte le banche saranno salvate. Il recente rapporto della BRI indica chiaramente che si applicherà un salvataggio selettivo, per espropriare il massimo dai poveri e salvare i ricchi.
I super-ricchi, le cui fortune dipendono dalla continuità dell'economia della bisca, saranno risparmiati. Il comunicato dell'Ecofin afferma che "il liquidatore nazionale avrà anche il potere di escludere, completamente o parzialmente, debiti su base discrezionale", tra gli altri motivi "per evitare il contagio". In altre parole, ogni debito "sistemicamente rilevante" deve essere pagato. Le scommesse con i derivati sono i debiti sistematicamente più rilevanti, come dimostrò il caso Lehman Brothers. Una volta chiuso il derivato si apre una voragine. Lo schema dell'Ecofin spalanca un altro portone per salvare ogni tipo di speculazione in derivati, escludendo dal bail-in "i debiti interbancari con scadenza inferiore ai sette giorni". Poiché la maggior parte dei debiti in derivati è tra le banche, e ogni contratto derivato può essere trasformato in qualcosa con scadenza inferiore ai sette giorni, attraverso questo varco può passare l'intero debito speculativo, e il risparmiatore deve pagarlo per "evitare il contagio".

Codificando in legge il principio che il denaro degli speculatori è al sicuro ma quello dei risparmiatori no, l'UE ha messo a repentaglio quella stessa "stabilità del sistema" che voleva preservare. Se si diffonde la percezione che i risparmi non sono più sicuri, ci sarà una fuga dai depositi. 
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