27 agosto 2010

Come i ricchi speculatori traggono profitto dai disastri



Le calamità naturali danno ad alcuni capitalisti l’opportunità di trarre massimi profitti dalla carenza di beni alimentari

Quando la terra cuoce, i mercati vanno a fuoco.

Il caldo intenso e la più rigida siccità degli ultimi cent’anni hanno bruciato una enorme fetta di terra coltivabile in Russia che va dal Mar Nero alla Siberia, distruggendo la raccolta di grano e portando il governo di Medvedev a bloccare le esportazioni nel tentativo di assicurare le scorte.

Come conseguenza, i prezzi sono lievitati dappertutto nel resto del mondo. In Europa sono aumentati dell’80% nelle scorse sei settimane, mentre i mercati del grano a Chicago hanno visto un aumento del 25% in una settimana. Chi ha comprato il grano a prezzo fissato in anticipo ha incassato una fortuna, mentre i contadini in Russia si trovano davanti alla prospettiva di impoverimento e disperazione.

I paesi importatori e le multinazionali di beni alimentari si sono rivolti agli Stati Uniti, Australia, Argentina e alla UE. Il Financial Times commenta: “C'è abbastanza stock per coprire il buco ma manca un cuscino di sicurezza. In altre parole, le condizioni climatiche da qui alla raccolta di dicembre dovranno essere perfette”.

I consumatori devono aspettarsi di pagare di più per il pane e altri beni essenziali entro la fine dell’anno. In seguito, se il tempo non migliora, pagheranno molto di più.

Continua il FT: “I dirigenti delle aziende agricole e gli analisti dicono che la crisi probabilmente accelererà il consolidamento dell’agricoltura russa, permettendo alle grandi aziende di colpire i piccoli agricoltori che combattono”.

Per ogni cento milioni di perdenti nella lotteria dell’economia globale, c'è sempre qualche migliaio di vincitori. Uno dei più grandi a vincere recentemente è stato l’affarista londinese Anthony Ward.

Nell’ottobre del 2009 ha iniziato a stipulare contratti per iniziare la distribuzione del cacao del mese scorso. Cinque settimane fa, il suo hedge fund, Armajaro, ha preso in consegna 240,100 tonnellate, circa il 7% della produzione annuale mondiale. L’effetto è stato l’aumento dei prezzi ai livelli più alti da 30 anni, con enormi profitti per il signor Ward e i suoi investitori.

Le pagine finanziarie suggeriscono che i profitti potranno lievitare verso cime vertiginose se in Ottobre il raccolto della Costa d’Avorio andrà male così come sperano gli affaristi. In quel caso, i prezzi nel paese crolleranno – verso lo zero, secondo un commentatore – creando le condizioni per un altro lucrativo accaparramento di terre.

La Banca Mondiale affermava nei primi giorni di Agosto che “gli investitori mirano ai paesi con leggi deboli, comprano terre coltivabili a prezzi ridotti e non mantengono le promesse fatte”. Circa 124 milioni di acri di terreni coltivabili appartengono agli hedge funds.

Gli hedge funds – “macchine designate per saccheggiare navi naufragate”, secondo la memorabile definizione di un banchiere – si sono rivolti al settore del cibo, dei terreni coltivabili e delle ricchezze minerali del sud del mondo dal momento che le ricche risorse del settore immobiliare si sono prosciugate.

Il secondo più grande hedge fund del mondo, Paulson and Co., ha guadagnato miliardi scommettendo sul collasso del mercato dei subprime negli Stati Uniti. Quando il collasso è avvenuto, buttando fuori casa centinaia di migliaia di famiglie, il capo del fund, John Paulson, ha personalmente guadagnato 3.3 miliardi di dollari. Ora è accreditato come il quarantacinquesimo uomo più ricco al mondo.

Al lato di Paulson, in modo discreto, si trova l’azienda di trasporti di beni Glencore, che fa affari con terreni, grano, zucchero, zinco, gas naturale, ecc., e opera in tutto il pianeta. Anch’essa è nata dal crollo immobiliare in modo prepotente e l’anno scorso ha avuto un utile netto di 2.8 miliardi di dollari dalle sue nuove operazioni.

I prodotti delle aziende agricole di proprietà delle banche e degli hedge funds non sono destinati alle popolazioni locali ma ai mercati internazionali.

A questo fine, l’azienda londinese Central African Mining and Exploration, per esempio, ha appena acquistato 75,000 acri di terra fertile nel Mozambico per creare biocombustibile da esportare. La popolazione locale aveva capito che la terra doveva essere data o concessa in prestito a mille famiglie di coltivatori dislocate dopo che il parco nazionale era stato costituito con l’obiettivo di attrarre turisti.

Un rappresentante del governo spiega che quella gente era “confusa”. Senza dubbio.

Ciò che colpisce di queste operazioni – ce ne sono a centinaia – è l’impatto che possono avere sulla vita quotidiana di un vasto numero di persone, pur rimanendo virtualmente anonime e rimanere totalmente esenti da responsabilità.

L’idea che il profitto è l’unica cosa che conta quando si parla di produzione di alimenti potrà sembrare distorta e perfino immorale. Ma è strettamente in linea con l’etica dell’economia di mercato. Quando una piccola parte del mondo degli affari ha espresso il proprio malcontento per la monopolizzazione del mercato del cacao da parte di Anthony Ward, il Financial Times è corso in suo aiuto con un energico editoriale in cui si metteva in evidenza che egli “non ha infranto alcuna legge”.

Certamente non l’ha fatto. Sono le stesse leggi a truccare il gioco, è lo stesso sistema a generare le ingiustizie.

Titolo originale: "Fat cats profiting off disaster "

Fonte: http://www.belfasttelegraph.co.uk


di Eamonn McCann -

26 agosto 2010

Un Paese a sovranità limitata






Nonostante l’invidiabile posizione geografica e a dispetto dei caratteri che ne costituiscono la struttura morfologica, attualmente l’Italia non possiede una dottrina geopolitica.

Ciò è dovuto principalmente ai tre seguenti elementi: a) l’appartenenza dell’Italia alla sfera d’influenza statunitense (il cosiddetto sistema occidentale); b) la profonda crisi dell’identità nazionale; c) la scarsa cultura geopolitica delle sue classi dirigenti.

Il primo elemento, oltre a limitare la sovranità dello Stato italiano in molteplici ambiti, da quello militare a quello della politica estera, tanto per citare i più rilevanti per l’aspetto geopolitico, ne condiziona la politica e l’economia interne, le scelte strategiche in materia di energia, ricerca tecnologica e realizzazione di grandi infrastrutture e, non da ultimo, ne vincola persino le politiche nazionali di contrasto alla criminalità organizzata. L’Italia repubblicana, a causa delle note conseguenze del trattato di pace del 1947 ed anche in virtù dell’ambiguità ideologica del proprio dettato costituzionale, per il quale la sovranità apparterebbe ad una entità socioeconomica e culturale, peraltro mutevole e vagamente omogenea, il popolo, e non ad un soggetto politico ben definito come lo Stato (1), ha seguito la regola aurea del “realismo collaborazionista o claudicante”, ovverosia la rinuncia alla responsabilità di dirigere il proprio destino (2). Tale abdicazione situa l’Italia nella condizione di “subordinazione passiva” e lega le sue scelte strategiche alla “buona volontà dello Stato subordinante” (3).

Il secondo elemento inficia uno dei fattori necessari per la definizione di una coerente dottrina geopolitica. La crisi dell’identità italiana è dovuta a cause complesse che risalgono alla mal riuscita combinazione delle varie ideologie nazionali (di ispirazione cattolica, monarchica, liberale, socialista e laico-massonica) che hanno sostenuto il processo di unificazione dell’Italia, l’edificazione dello Stato unitario e, dopo la parentesi fascista, la realizzazione dell’attuale assetto repubblicano. La crisi dell’identità nazionale è dovuta, inoltre, anche alla mal digerita esperienza fascista e al trauma della perdita della guerra. La retorica romantica dello stato-nazione, il mito della nazione e, successivamente, quelli della resistenza e della “liberazione” non hanno reso certamente un buon servizio agli interessi dell’Italia, che, a centocinquanta anni dalla sua unificazione, è ancora alla ricerca della propria identità nazionale.

Il terzo elemento, infine, in parte ricollegabile per motivi storici ai precedenti, non permette di collocare la questione delle direttrici geopolitiche dell’Italia tra le priorità dell’agenda nazionale.

Eppure una sorta di geopolitica – o meglio una politica estera basata essenzialmente sulla collocazione geografica – rispondente agli interessi nazionali, e dunque eccentrica rispetto alle indicazioni statunitensi, esclusivamente dirette ad assicurare a Washington l’egemonia nel Mediterraneo, è stata presente nelle alterne vicende della Repubblica italiana. In particolare, l’attenzione di uomini di governo come Moro, Andreotti, Craxi come anche di importanti commis d’État come Mattei rivolta ai Paesi del Nordafrica e a quelli del Vicino e Medio Oriente, seppur limitata ai rapporti di “buon vicinato” e di “coprosperità”, era decisamente conforme non solo alla posizione geografica dell’Italia nel Mediterraneo, ma anche funzionale sia ad una potenziale, futura ed augurabile emancipazione dell’Italia democratica dalla tutela nordamericana, sia al ruolo regionale che Roma avrebbe potuto esercitare anche nell’ambito del rigido sistema bipolare. Tali iniziative avrebbero potuto ben costituire la base per definire le linee strategiche di quello che l’argentino Marcelo Gullo ha chiamato, nell’ambito dello studio della costruzione del potere delle nazioni, “realismo liberazionista”, e far transitare, pertanto, l’Italia dalla “subordinazione passiva” alla “subordinazione attiva”: uno stadio decisivo per ottenere alcuni spazi di autonomia nell’agone internazionale.

Il fallimento della modesta politica mediterranea dell’Italia repubblicana è da ascrivere, oltre che alle interferenze statunitensi, alla natura episodica con cui è stata esercitata e all’atteggiamento contrario e ostativo dei gruppi di pressione interni più filoamericani e prosionisti. Con la fine del bipolarismo e della cosiddetta Prima repubblica, però, le iniziative sopra esposte, dirette a ricavare un pur limitata autonomia delle politica estera italiana, sono decisamente sfumate.

Oggi l’Italia, quale paese euromediterraneo subordinato agli interessi statunitensi, si trova in una situazione molto delicata, giacché oltre a risentire, in quanto membro dell’Unione Europea e della NATO, delle tensioni tra gli USA e la Russia presenti nell’Europa continentale, in particolare in quella centrorientale (vedi la questione polacca per quanto concerne la “sicurezza”, oppure quella energetica), subisce soprattutto i contraccolpi delle politiche vicino e mediorientali di Washington. Inoltre, la soggezione dell’Italia agli USA, che – occorre ribadirlo – si esprime attraverso una evidente limitazione della sovranità dello Stato italiano, esalta i caratteri di fragilità tipici delle aree peninsulari (tensione tra la parte continentale, seppur limitata nel caso dell’Italia, e quelle più propriamente peninsulare ed insulare), aumenta le spinte centrifughe, rendendo difficoltosa persino la gestione della normale amministrazione dello Stato.

Militarmente occupata dagli USA – nell’ambito dell’“alleanza” atlantica – con oltre cento basi (4), priva di risorse energetiche adeguate, economicamente fragile e socialmente instabile per la continua erosione dell’ormai agonizzante “stato sociale”, l’Italia non possiede gradi di libertà tali da permetterle di valorizzare il suo potenziale geopolitico e geostrategico nelle sue naturali direttrici costituite dal Mediterraneo e dall’area adriatico-balcanico-danubiana, se non nel contesto delle strategie d’oltreatlantico, a esclusivo beneficio, dunque, degli interessi extranazionali ed extracontinentali.

Le opportunità per l’Italia di ricavarsi un proprio ruolo geopolitico risultano dunque esterne alla volontà di Roma; esse risiedono nelle ricadute che l’attuale evoluzione dello scenario mondiale – ormai multipolare – provoca nel bacino mediterraneo e nell’area continentale europea. I grandi rivolgimenti geopolitici in atto, determinati principalmente dalla Russia, infatti, potrebbero esaltare la funzione strategica dell’Italia nel Mediterraneo proprio nell’ambito dell’assetto e del consolidamento del nuovo sistema multipolare e della potenziale integrazione eurasiatica.

Occorre, infatti, tener presente che la strutturazione di questo nuovo sistema geopolitico multipolare passa, per ovvie ragioni, attraverso il processo di disarticolazione o ridimensionamento di quello “occidentale” a guida nordamericana, a partire dalle sue periferie. Queste ultime sono costituite, considerando la massa euroafroasiatica, dalla penisola europea, dal bacino mediterraneo e dall’arco insulare giapponese.





Russia e Turchia: i due poli geopolitici



I recenti mutamenti del quadro geopolitico globale hanno prodotto alcuni fattori che potrebbero dunque facilitare lo “svincolamento” di gran parte dei paesi che costituisco il cosiddetto sistema occidentale dalla tutela dell’”amico americano”. Ciò metterebbe potenzialmente Roma in grado di attivare una propria dottrina geopolitica coerente col nuovo contesto mondiale.

Come noto, la riaffermazione della Russia a livello mondiale ed il protagonismo della Cina e dell’India hanno provocato un riassestamento delle relazioni tra le maggiori potenze e posto le premesse per la costituzione di un nuovo ordinamento, basato su unità geopolitiche continentali a partire, non da rapporti di forza militare, ma da intese strategiche. Tali mutamenti si registrano anche nella parte meridionale dell’emisfero orientale, l’ormai ex cortile di casa degli USA, ove i rapporti di Brasile, Argentina e Venezuela con le potenze eurasiatiche sopra citate hanno fornito nuovo slancio alle ipotesi dell’unità continentale sudamericana. Relativamente all’area mediterranea, il principale tra questi nuovi fattori geopolitici è costituito dall’inversione di tendenza impressa da Ankara alle sue ultime politiche vicino e mediorientali. Lo strappo di Ankara da Washington e Tel Aviv potrebbe assumere, nel medio periodo, una valenza geopolitica di vasta portata ai fini della costituzione di uno spazio geopolitico eurasiatico integrato, giacché rappresenta un primo atto concreto sul quale è possibile innescare il processo di disarticolazione (o di limitazione) del sistema occidentale a partire dal bacino mediterraneo.

Date le condizioni attuali, i poli geopolitici sui quali un’Italia realmente intenzionata ad emanciparsi dalla tutela nordamericana dovrebbe far perno sono rappresentati proprio dalla Turchia e dalla Russia. Un allineamento di Roma alle indicazioni turche in materia di politica vicinorientale fornirebbe all’Italia la necessaria credibilità, pesantemente offuscata dalle sue vassallatiche relazioni con Washington, per imprimere un senso geopolitico alla stanca politica di cooperazione che da anni la Farnesina intrattiene con la sponda sud del Mediterraneo ed il Vicino Oriente. La metterebbe, inoltre, insieme (e grazie) all’alleato turco, nelle condizioni, se non proprio di denunciare il patto atlantico, almeno in quelle necessarie per rinegoziare l’oneroso e avvilente impegno in seno all’Alleanza, e per prospettare, simultaneamente, la riconversione dei siti militari presidiati dalla NATO in basi utili alla sicurezza del Mediterraneo. L’Italia e la Turchia, insieme agli altri paesi rivieraschi del Mediterraneo, potrebbero in tal caso realizzare un sistema di difesa integrato sull’esempio dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (OTSC).

Nell’attuazione di questa “exit strategy” dai vincoli statunitensi, sopra sinteticamente abbozzata, Roma troverebbe validi sostegni, oltre che ad Ankara, anche a Tripoli, Damasco e Teheran e, ovviamente, Mosca. Quest’ultima, peraltro, sosterrebbe certamente Roma nella uscita dall’orbita nordamericana, favorendo la sua naturale proiezione geopolitica nella direttrice adriatico-balcanico-danubiana nel quadro, ovviamente, di un’intesa italo-turco-russa costruita sui comuni interessi nel cosiddetto Mediterraneo allargato (costituito dai mari Mediterraneo, Nero, Caspio).

di Tiberio Graziani

24 agosto 2010

La morte di Mussolini


Su queste pagine, nel corso di circa due anni, abbiamo condotto una lunga controinchiesta su la morte di Mussolini, nella quale crediamo di aver dimostrato con fondate deduzioni, testimonianze attendibili e alcuni elementi oggettivi, che la “storica versione” ovvero la “vulgata” tramandata da Walter Audisio e dal Pci (fucilazione di Mussolini e la Petacci alle 16,10 del 28 aprile 1945 davanti al cancello di Villa Belmonte in Giulino di Mezzegra) è inattendibile. Il nostro, tutto sommato, non è stato un compito difficile, viste le contraddizioni e le assurdità che quella versione presentava e che già erano state denunciate da valenti storici, molto prima di noi. Quello che invece, non abbiamo fatto è il fornire una nostra ricostruzione, una nostra ipotesi su come possa essersi svolta quella misteriosa uccisione, anche se abbiamo sempre intercalato nei nostri articoli di controinformazione alcune ipotesi alternative ai fatti esaminati. Non lo abbiamo fatto in quanto, non essendo disponibili prove concrete e riscontri verificabili, la nostra “ipotesi alternativa” sarebbe rimasta come tale. Conclusa ora la nostra controinchiesta (circa 22 articoli), vogliamo addentrarci, pur con un certo disincanto e per linee generali, a fornire una nostra ricostruzione su come in realtà potrebbe essere andata quella storia. Lo faremo sintetizzando al massimo tutta la vicenda e astenendoci dal presentare le opportune dimostrazioni di quanto andiamo sostenendo, perché lo spazio concessoci non lo consente, ma chi ha seguito i nostri articoli saprà trovare i vari riferimenti. Come noto il pomeriggio del 27 aprile 1945 a Milano giunse la notizia che Mussolini era stato catturato e si trovava a Dongo nelle mani del comando della 52esima Brigata Garibaldi “Luigi Clerici”, uno sparuto gruppetto di partigiani che agiva nell’alto Lago, vale a dire: Pier Bellini delle Stelle Pedro, vanitoso comandante ad interim della 52esima Brigata, ex ufficiale dell’esercito badogliano, senese di nobili origini e di tendenze non comuniste; quindi Michele Moretti Pietro Gatti, un fedele comunista di vecchia data, commissario politico della Brigata; ed infine Luigi Canali Neri, un comunista idealista, atipico per quel partito e ultimamente caduto in disgrazia con il partito e con il comando Lombardo delle Brigate, tanto da essere stato condannato a morte, anche se poi la condanna era rimasta sospesa. Il Canali, ex comandante della 52esima Brigata ed ora con l’anomalo grado di capo di Stato Maggiore della stessa (conferitogli per non dover ricambiare tutti i gradi già in essere) era apparso a Dongo proprio quel pomeriggio a cattura del Duce avvenuta. In quelle zone del comasco, a parte alcune basi dei servizi anglo americani, le uniche strutture con un minimo di efficienza erano gli spezzoni della Guardia di Finanza e le cellule del partito comunista. E’ infatti dal brigadiere della G. d. F. Antonio Scappin Carlo, che da Gera Lario arrivò tra le 17 e le 18 la notizia della cattura al colonnello Alfredo Malgeri della G. d. F., e sicuramente in qualche modo arrivò alla direzione del Pci. Verso sera giunse poi la notizia del trasferimento di Mussolini, in una casermetta della G. d. F. di Germasino, pochi chilometri sopra Dongo. Quel che traspare dalla cronaca di quegli avvenimenti riportati con versioni eterogenee, contraddittorie ed edulcorate, che per la loro inaffidabilità noi aggireremo basandoci esclusivamente su fatti e conseguenze accertate, è che questa vicenda venne subito presa in mano da Luigi Longo, vice comandante del Cvl, comandante delle Brigate Garibaldi, membro del Clnai e massimo dirigente del Pci nel nord Italia. Il comandante, ma più che altro nominale, del Cvl (la struttura militare della Resistenza) è il generale Raffaele Cadorna. Era comunque auspicato da molti che Mussolini venisse eliminato alla svelta e Luigi Longo non soltanto era favorevole a una sbrigativa uccisione per convinzione di partito e personale, ma egli interpretava in Italia anche la volontà di Stalin, senza la quale il Pci non muoveva foglia, ed è inoltre oramai appurato che il Pci aveva con le “intelligence” inglesi un rapporto di stretta collaborazione (continuato da Togliatti e Churchill anche nel dopoguerra) come si evince anche dal libro del comunista Maurizio Valenzi, ebreo italo tunisino, futuro senatore del Pci e sindaco di Napoli: “Confesso che mi sono divertito”, Pironti editore 2007, laddove ricorda quando venne spedito a Napoli, prima ancora dell’arrivo di Togliatti a Salerno, a organizzare le strutture comuniste e tutta la situazione logistica e finanziaria venne organizzata dal servizio segreto inglese. Come sappiamo, sovietici e inglesi erano i più interessati alla eliminazione immediata del Duce, ma anche gli americani, che apparentemente dicevano di volerlo catturare vivo, sottobanco invece diedero opportune e segrete disposizioni alle loro missioni, per lasciarlo eliminare. Lo storico Renzo De Felice, in Rosso & Nero, Baldini & Castoldi editori 1995, afferma: “Fu molto facile per gli inglesi evitare (...) che gli americani mettessero le mani sul Duce. Fecero tutto i partigiani. Ma fu un agente dei servizi inglesi, italiano di origine, che li esortò a far presto a chiudere in fretta la partita”. Anche un altro storico, Alessandro De Felice, ha rivelato una fugace confidenza da lui ricevuta dall’allora senatore Leo Valiani che gli raccontò, pregandolo poi di non farne menzione: “La morte di Mussolini deve rimanere un mistero. Ed è meglio che sia così…, Londra ha suonato la musica, ed il Pci è andato a tempo!”. Oggi, che sappiamo il Valiani, aver avuto un ruolo, oltre che nel Clnai, anche nel Soe (il servizio segreto inglese) a cui collaborava, le sue parole assumono una certa importanza. In tutta la zona del comasco, comunque, agiscono gruppi che, dato il momento, risultano incontrollabili, mentre Mussolini è nelle mani del comando della 52esima Brigata Garibaldi dell’alto Lario, composto da elementi eterogenei e non tutti comunisti, stessa cosa per il Cln di Como. Inoltre sulle tracce di Mussolini sono lanciati gli Alleati, in particolare gli americani i quali dicono di voler catturare il Duce vivo anche se, segretamente, fanno in modo che ciò non avvenga, ma questo non è noto e poi, nonostante ciò, è probabile che se per qualche motivo una loro missione dovesse capitare sul Duce, questi verrebbe requisito e non passato per le armi. Del resto il governo del Sud e di conseguenza le strutture del Clnai e del Cvl, in ottemperanza agli accordi armistiziali sottoscritti, dovrebbe consegnare Mussolini vivo agli Alleati. Da qui tutta una serie di ordini e atteggiamenti contraddittori, che a Milano ci narrano di pareri discordi, di fantasiosi piani di salvataggio del Duce, ecc. A nostro avviso fu tutto un gioco delle parti, perché alla fin fine anche Cadorna e tutti gli altri furono concordi nel lasciar fare a Longo. Per Longo però c’è anche il problema di presentare tutte le uccisioni in un certo modo, storicamente accettabile per l’agiografia resistenziale, coinvolgendo nelle fucilazioni, quale “giustizia in nome del popolo italiano”, tutte le componenti della Resistenza, in modo da farle digerire agli Alleati e poi pesare nelle alchimie politiche e governative post liberazione (come in effetti accadde). Per prima cosa viene disposto di mettere Mussolini in un posto segreto e più sicuro. La disposizione sarà realizzata sul posto, grazie al Canali Neri (che ne consiglia il luogo), al Bellini Pedro e il Moretti Pietro, che portano il Duce in casa dei contadini De Maria a Bonzanigo, ma questa decisione così importante e delicata visto il caos di quelle ore, e con la quale si decise anche di aggiungere a Mussolini una donna, Claretta Petacci, non poteva che arrivare da Milano. Come detto pare che ci furono anche una serie di ordini contrastanti, di piani di prelevamento del Duce per consegnarlo agli Alleati, ecc., ma anche ammesso che queste storie siano veritiere, contano poco, perché quel che conta fu la decisione di portare Mussolini in un luogo segreto. Per esigenze operative, ma anche politiche, venne quindi allestita, a sera tarda del 27 aprile, una missione ufficiale del Clnai – Cvl, al fine di giustificare l’eliminazione del Duce e degli altri elementi della RSI rispetto alla Storia, a tutte le componenti della Resistenza ed agli Alleati: è da Longo incaricato il colonnello Valerio, alias Walter Audisio un ragioniere in forza come Ispettore nella segreteria del Comando del Cvl e in quelle ore addetto alla Polizia di piazza, comunista, ma rappresentativo di tutto il Comando, anche se di scarse attitudini militari. Ad Audisio viene affiancato Aldo Lampredi Guido Conti, alto dirigente del Pci, uomo di ben altro spessore politico e già agente del Komintern. A costoro è anche assegnato un plotone di 12 partigiani, prelevati da quelli delle Divisioni dell’Oltrepò e posti al comando di Alfredo Mordini Riccardo, un ex miliziano di Spagna e Francia. Audisio, a nome del Clnai, ha ufficialmente un ordine del CVL e di Cadorna: quello di recarsi a Dongo e requisire Mussolini e gli altri prigionieri e quindi tradurli a Milano. In realtà Audisio ha invece la disposizione segreta di fucilarli sul posto e portarne i cadaveri a Milano per esporli in Piazzale Loreto dove li attenderanno circa 12 postazioni dei cineoperatori americani, che saranno predisposte (essendo ben informati) dalla sera del 28 aprile, pronte ad immortalare il barbaro scempio per le loro esigenze di propaganda cinematografica. Lo scopo omicida della missione di Audisio, almeno nelle sue linee generali, sarà a conoscenza o intuito dai più importanti comandanti e dirigenti del Comando Cvl (Raffaele Cadorna, Giovanni Stucchi, Vittorio Palombo, ecc.), dei comandanti e commissari delle Divisioni dell’Oltrepò (Italo Pietra, Luchino dal Verme, Paolo Muriali, Alberto Cavallotti, ecc.) e del Comitato Insurrezionale antifascista (Sandro Pertini, Leo Valiani e Emilio Sereni) anche se poi, per opportunità politica, alcuni di costoro faranno il pesce in barile affermando di non sapere bene come stavano le cose. Resta il fatto che la missione di Audisio, per ottemperare a tutti i suoi compiti, storici e politici, oltre che militari, deve giocoforza passare per Como, in Prefettura, dove dovrà imporsi alle autorità locali (Cln) che certamente non gradiscono di vedersi sottrarre i preziosi prigionieri, quindi ai comandi di Brigata di Dongo che hanno in mano i prigionieri stessi. Una evidente lungaggine di tempi. Ed in effetti Audisio e il suo plotone viene fatto partire verso le 7 di mattina del 28 aprile (alquanto tardi), con meta Dongo, via Como, e nessuno gli dice che Mussolini a Dongo oramai non c’è più essendo stato trasferito notte tempo, perché evidentemente, nel frattempo, si stava provvedendo per Mussolini anche in diverso modo. E’ infatti ovvio che Longo, dati i necessari tempi e scopi richiesti dalla missione di Audisio e non potendosi fidare del momentaneo nascondiglio notturno del Duce, incarica anche qualcun altro ovvero spedisce a Como e poi a Bonzanigo in casa dei contadini De Maria dove sono nascosti Mussolini e la Petacci, qualche altro elemento, militarmente efficiente, affinché prenda subito in mano la situazione e la tenga sotto controllo. Se il caso lo impone, fucili immediatamente Mussolini, ma se possibile ne coordini gli eventi con la missione di Audisio in modo che questi possa poi fucilare regolarmente in tranquillità e sicurezza tutti i prigionieri, Mussolini compreso. Questo diversivo è rimasto misterioso, ma non ci sono dubbi e del resto è logico che Longo faccia questo e, come vedremo, lo dimostrerà anche il suo successivo atteggiamento. E’ difficile stabilire se gli elementi per questo secondo e segreto incarico partano da Milano o siano stati reperiti via telefono sul posto (Como), oppure ancora è questo un incarico che venne affidato segretamente allo stesso Aldo Lampredi a latere della sua missione con l’ignaro Audisio. Come sappiamo, infatti, Lampredi arrivato a Como in Prefettura con Audisio poco dopo le 8, mentre questi è alle prese con interminabili discussioni con le autorità locali, svicola e portandosi via l’automobile, l’autista e il comandante della scorta Mordini (Riccardo), va in federazione Comunista e riapparirà solo molte ore dopo a Dongo (ore 14,10) quasi in contemporanea con Audisio e il resto del plotone giunti per conto loro. Fatto sta che, tra poco prima delle 6 e le 7 della mattina del 28 aprile, erano giunti a Como, in federazione comunista dove trovasi i massimi dirigenti locali del partito (Dante Gorreri Guglielmo e Giovanni Aglietto Remo), Luigi Canali Neri e Michele Moretti Pietro i quali informarono di aver nascosto Mussolini poche ore prima e a poco più di 20 chilometri da Como. Sappiamo che a costoro venne detto che occorreva informare il partito a Milano per avere ordini, poi però non sappiamo più nulla mentre, secondo la “storica versione”, i due componenti della 52a Brigata furono tranquillamente lasciati andar via senza disposizioni (l’altro comandante non comunista, il Pier Bellini delle Stelle Pedro, lasciati Mussolini e la Petacci nella casa di Bonzanigo se ne era invece tornato, tranquillo e spensierato a Dongo). Da tanti particolari e dalla logica stessa di quegli avvenimenti, non è credibile che il Canali e il Moretti, a conoscenza del luogo dove trovasi Mussolini e in grado di arrivarci perché conosciuti dai due guardiani armati rimasti in quella casa, siano stati lasciati andar via. E’ invece logico che si fermarono in federazione ad attendere qualche “arrivo” da fuori ed è anche evidente che la direzione comunista a Milano venne in poco tempo informata della situazione. A questo punto, attenendoci ai fatti, dobbiamo sottolineare alcuni particolari importanti. 1. Longo a Milano sembra come se, da questo momento in poi, non gli interessi più il problema Mussolini. Neppure informa Audisio (quando questi alle 11 telefona dalla Prefettura di Como per lamentarsi delle resistenze e boicottaggi che ivi sta trovando) che Mussolini non si trova più a Dongo e successivamente (verso le 14, pur ignaro di che fine abbia fatto Audisio) se ne va tranquillamente ad incontrare Moscatelli arrivato a Milano con le sue divisioni della Valsesia e nel pomeriggio terrà anche un comizio in piazza Duomo. 2. Stessa cosa sembra fare il Bellini delle Stelle a Dongo: si disinteressa di Mussolini, del suo precario nascondiglio in quella casa a lui fino ad allora sconosciuta, dei due guardiani armati lasciati da ore lì dentro, di ogni imprevisto che potrebbe accadere e anche del fatto che qualcuno degli altri (i comunisti Moretti o Canali) gli possa soffiare il prezioso prigioniero. Ed analogamente si comportano Moretti e Canali visto che si vorrebbe far credere che andati via dalla federazione comunista per conto loro, arrivano spensierati a Dongo prima delle 14. Insomma se non fosse arrivato Audisio, alle 14,10 a Dongo, tra l’altro inaspettato, a reclamare i prigionieri, fino a quando tutti costoro avrebbero ignorato il “problema Mussolini” che la notte precedente pareva essere così urgente e critico? E’ evidente che a Mussolini si era già provveduto anche a prescindere dalla missione di Audisio! Abbiamo ora due importanti e decisive testimonianze: quella della signora Dorina Mazzola, all’epoca diciannovenne abitante a Bonzanigo a poco più di 100 metri da casa De Maria, e quella di Savina Santi la vedova di Guglielmo Cantoni Sandrino, il più giovane dei guardiani rimasti in casa dei De Maria. Quindi, oltre alla ricostruzione di una possibile dinamica balistica di quella fucilazione, abbiamo alcuni rilievi che è stato possibile fare sulle foto del vestiario trovato sul cadavere del Duce e su lo stivale destro con la chiusura lampo saltata. Ne risulta che il Duce venne attinto da 9 colpi sparati da almeno due tiratori, che il giaccone era privo di buchi e quindi è stato messo addosso ad un morto dopo una “finta fucilazione”, e lo stivale dx non poteva essere calzato per camminarci ed essere portati sul luogo dell’esecuzione. La signora Dorina Mazzola raccontò di aver udito, intorno alle 9 del 28 aprile, un paio di colpi di pistola provenienti da casa De Maria. Quindi vide scendere, un uomo calvo, con la sola maglietta di salute a mezze maniche, che si trascinava a piccoli e difficoltosi passetti verso il cortile dello stabile, fuori della sua portata visiva. Nel frattempo udì una donna, affacciatasi ad un finestrone della casa, strillare e chiedere aiuto, ma ricacciata dentro a viva forza, oltre a strilli e lamenti dei coniugi De Maria. Poi una sparatoria nel cortile. La Mazzola infine assistette anche, proprio dietro casa sua e intorno alle 12, all’uccisione proditoria di una giovane donna che camminava davanti ad un gruppo di partigiani e che seppe poi trattarsi di Claretta Petacci. La signora Santi invece diede altri particolari alquanto precisi: “Mussolini e la Petacci non sono stati uccisi nel pomeriggio e davanti al cancello di Villa Belmonte. Mio marito mi disse che quella mattina lui si trovava di guardia alla stanza dove c’erano i prigionieri, quando vide salire le scale Michele Moretti e altri due partigiani che non aveva mai visto né conosciuto. I tre gli ordinarono di restare sul pianerottolo fuori della stanza ed entrarono nel locale. Mio marito, restando sul pianerottolo, udì uno dei tre che diceva: “adesso vi portiamo a Dongo per fucilarvi”, e un altro gridare: “No, vi uccidiamo qui!”. Poi mio marito udì altre voci concitate, le urla della donna e colpi d’arma da fuoco..., ma non so dove li hanno uccisi con certezza, credo però che lo sappia un altra persona che ebbe la confidenza da mio marito” (per queste testimonianze vedere G. Pisanò: “Gli ultimi 5 secondi di Mussolini”, il Saggiatore 1996). Dunque ricapitolando: intorno alle 9 del mattino, mentre Audisio ignaro si trovava a litigare con quelli del Cln a Como, un paio di individui venuti da fuori, accompagnati da Michele Moretti, salirono nella stanza dove erano il Duce e la Petacci. Erano gli elementi spediti da Longo affinché prendessero sotto controllo Mussolini, se necessario lo fucilassero subito, ma preferibilmente lo gestissero in attesa che Audisio, compiute le sue incombenze, potesse fucilarlo pubblicamente. E’ chiaro che invece la rabbiosa irruzione in camera determinò la reazione di Mussolini e della Petacci e il Duce, a seguito di una colluttazione, rimase ferito al fianco e forse al braccio. Fu il medico legale Aldo Alessiani, a far notare che la distanzialità, la ravvicinatezza e l’inclinazione di alcuni colpi che avevano attinto il Duce, erano chiaramente il frutto di colpi sparati a bruciapelo durante una colluttazione. La Petacci stessa presentava sotto la palpebra dell’occhio destro una ecchimosi quale esito di un colpo preso in vita sul viso. In conseguenza di questo “imprevisto” occorso in quella stanza, Mussolini diventava chiaramente intrasportabile e impresentabile per una pubblica fucilazione in piazza. Venne quindi immediatamente ammazzato e a quanto sembra gridò in faccia ai suoi assassini “viva l’Italia!, come raccontò, con sofferta confidenza, Michele Moretti 45 anni dopo (G. Cavalleri “Ombre sul lago”, Piemme 1995). Mussolini dovette poi anche essere rivestito alla bene e meglio. Ecco perché ne risultò la inspiegabile anomalia che mentre a Dongo, Audisio pretese rabbiosamente di fucilare i prigionieri alla schiena e davanti a donne e bambini, Mussolini sembrava avere avuto la concessione di una fucilazione al petto e per giunta di nascosto da tutti. La successiva morte della Petacci, in parte accidentale (a quanto sembra venne uccisa con una raffica alle spalle tirata da un partigiano esagitato), complicò ancor più le cose. Fu quindi necessario nascondere i cadaveri nel garage dell’albergo Milano, lì vicino sulla via Albana, ed allestire poi una messa in scena con una finta fucilazione del pomeriggio davanti al cancello di Villa Belmonte (dove infatti i cadaveri apparvero già in stato di rigidità cadaverica indice di una morte precedente di alcune ore) per aggiustare, in qualche modo, tutta la vicenda. Si predisposero le cose per la sceneggiata, allestendo qualche piccolo posto di blocco e spedendo i pochi abitanti del circondario sulla sottostante provinciale, con la falsa voce sparsa in giro che nel primo pomeriggio vi sarebbe passato Mussolini prigioniero. Tutti fatti oggi accertati. Tutto questo è rimasto in buona parte e per anni imperscrutabile, non solo perché venne difeso sul posto con l’imposizione minacciosa di un silenzio richiesto a tutti i residenti di quelle parti, ma anche perché questo “diversivo”, in parte, venne coperto da una finta “fucilazione” davanti al cancello di Villa Belmonte alle 16,10, udita da molti. Nella esaltazione di quelle ore eccezionali, nella ridda di voci incontrollate che presero a girare, si creò una suggestione collettiva. Resta purtroppo ancora misterioso il nome di coloro (almeno due) che uccisero vigliaccamente Mussolini in quel cortile della casa. Di sicuro c’era Michele Moretti, ma non sappiamo se ha sparato e se potesse esserci anche Aldo Lampredi, che come abbiamo visto era svicolato da Audisio a Como, ma non è detto che poté arrivare in tempo (in pratica Mussolini venne ucciso in un orario che oscilla tra poco dopo le 9 e poco prima della 10). Certo è che Lampredi arrivò comunque in mattinata a Bonzanigo e dovette caricarsi l’onere della sceneggiata pomeridiana (in collaborazione con Audisio), trovando per di più il cadavere inaspettato della Petacci. Disse significativamente l’ex direttore dell’Unità nel ’44 ed esponente comunista Celeste Negarville: “Con la Petacci Lampredi non c’entra. La Petacci è stata uccisa altrove. Lampredi si trovò un cadavere in più, che non era nel conto” (M. Caprara: “Quando le botteghe erano oscure”, Il Saggiatore 1997). Oppure fecero tutto elementi reperiti nel comasco, se non nella stessa federazione del Pci di Como, oppure, ipotizzò lo storico Renzo De Felice “un gruppo di comunisti milanesi”, o ancora come raccontò in televisione pochi anni addietro Francesco Cossiga, che evidentemente aveva raccolto confidenze: “un dirigente comunista milanese fatto poi espatriare dal Pci in sud America”. Certamente non c’era Walter Audisio. Scrisse Sandro Pertini nel 1975 al regista Carlo Lizzani autore del film “Mussolini ultimo atto” che tanto aveva contribuito al diffondersi della “vulgata”: “...e poi non fu Audisio a eseguire la “sentenza”, ma questo non si deve dire oggi” (C. Lizzani: “Il mio lungo viaggio nel secolo breve”, Einaudi 2007). Più di questo, al momento, non è possibile attestare con un minimo di concretezza.



di: Maurizio Barozzi


27 agosto 2010

Come i ricchi speculatori traggono profitto dai disastri



Le calamità naturali danno ad alcuni capitalisti l’opportunità di trarre massimi profitti dalla carenza di beni alimentari

Quando la terra cuoce, i mercati vanno a fuoco.

Il caldo intenso e la più rigida siccità degli ultimi cent’anni hanno bruciato una enorme fetta di terra coltivabile in Russia che va dal Mar Nero alla Siberia, distruggendo la raccolta di grano e portando il governo di Medvedev a bloccare le esportazioni nel tentativo di assicurare le scorte.

Come conseguenza, i prezzi sono lievitati dappertutto nel resto del mondo. In Europa sono aumentati dell’80% nelle scorse sei settimane, mentre i mercati del grano a Chicago hanno visto un aumento del 25% in una settimana. Chi ha comprato il grano a prezzo fissato in anticipo ha incassato una fortuna, mentre i contadini in Russia si trovano davanti alla prospettiva di impoverimento e disperazione.

I paesi importatori e le multinazionali di beni alimentari si sono rivolti agli Stati Uniti, Australia, Argentina e alla UE. Il Financial Times commenta: “C'è abbastanza stock per coprire il buco ma manca un cuscino di sicurezza. In altre parole, le condizioni climatiche da qui alla raccolta di dicembre dovranno essere perfette”.

I consumatori devono aspettarsi di pagare di più per il pane e altri beni essenziali entro la fine dell’anno. In seguito, se il tempo non migliora, pagheranno molto di più.

Continua il FT: “I dirigenti delle aziende agricole e gli analisti dicono che la crisi probabilmente accelererà il consolidamento dell’agricoltura russa, permettendo alle grandi aziende di colpire i piccoli agricoltori che combattono”.

Per ogni cento milioni di perdenti nella lotteria dell’economia globale, c'è sempre qualche migliaio di vincitori. Uno dei più grandi a vincere recentemente è stato l’affarista londinese Anthony Ward.

Nell’ottobre del 2009 ha iniziato a stipulare contratti per iniziare la distribuzione del cacao del mese scorso. Cinque settimane fa, il suo hedge fund, Armajaro, ha preso in consegna 240,100 tonnellate, circa il 7% della produzione annuale mondiale. L’effetto è stato l’aumento dei prezzi ai livelli più alti da 30 anni, con enormi profitti per il signor Ward e i suoi investitori.

Le pagine finanziarie suggeriscono che i profitti potranno lievitare verso cime vertiginose se in Ottobre il raccolto della Costa d’Avorio andrà male così come sperano gli affaristi. In quel caso, i prezzi nel paese crolleranno – verso lo zero, secondo un commentatore – creando le condizioni per un altro lucrativo accaparramento di terre.

La Banca Mondiale affermava nei primi giorni di Agosto che “gli investitori mirano ai paesi con leggi deboli, comprano terre coltivabili a prezzi ridotti e non mantengono le promesse fatte”. Circa 124 milioni di acri di terreni coltivabili appartengono agli hedge funds.

Gli hedge funds – “macchine designate per saccheggiare navi naufragate”, secondo la memorabile definizione di un banchiere – si sono rivolti al settore del cibo, dei terreni coltivabili e delle ricchezze minerali del sud del mondo dal momento che le ricche risorse del settore immobiliare si sono prosciugate.

Il secondo più grande hedge fund del mondo, Paulson and Co., ha guadagnato miliardi scommettendo sul collasso del mercato dei subprime negli Stati Uniti. Quando il collasso è avvenuto, buttando fuori casa centinaia di migliaia di famiglie, il capo del fund, John Paulson, ha personalmente guadagnato 3.3 miliardi di dollari. Ora è accreditato come il quarantacinquesimo uomo più ricco al mondo.

Al lato di Paulson, in modo discreto, si trova l’azienda di trasporti di beni Glencore, che fa affari con terreni, grano, zucchero, zinco, gas naturale, ecc., e opera in tutto il pianeta. Anch’essa è nata dal crollo immobiliare in modo prepotente e l’anno scorso ha avuto un utile netto di 2.8 miliardi di dollari dalle sue nuove operazioni.

I prodotti delle aziende agricole di proprietà delle banche e degli hedge funds non sono destinati alle popolazioni locali ma ai mercati internazionali.

A questo fine, l’azienda londinese Central African Mining and Exploration, per esempio, ha appena acquistato 75,000 acri di terra fertile nel Mozambico per creare biocombustibile da esportare. La popolazione locale aveva capito che la terra doveva essere data o concessa in prestito a mille famiglie di coltivatori dislocate dopo che il parco nazionale era stato costituito con l’obiettivo di attrarre turisti.

Un rappresentante del governo spiega che quella gente era “confusa”. Senza dubbio.

Ciò che colpisce di queste operazioni – ce ne sono a centinaia – è l’impatto che possono avere sulla vita quotidiana di un vasto numero di persone, pur rimanendo virtualmente anonime e rimanere totalmente esenti da responsabilità.

L’idea che il profitto è l’unica cosa che conta quando si parla di produzione di alimenti potrà sembrare distorta e perfino immorale. Ma è strettamente in linea con l’etica dell’economia di mercato. Quando una piccola parte del mondo degli affari ha espresso il proprio malcontento per la monopolizzazione del mercato del cacao da parte di Anthony Ward, il Financial Times è corso in suo aiuto con un energico editoriale in cui si metteva in evidenza che egli “non ha infranto alcuna legge”.

Certamente non l’ha fatto. Sono le stesse leggi a truccare il gioco, è lo stesso sistema a generare le ingiustizie.

Titolo originale: "Fat cats profiting off disaster "

Fonte: http://www.belfasttelegraph.co.uk


di Eamonn McCann -

26 agosto 2010

Un Paese a sovranità limitata






Nonostante l’invidiabile posizione geografica e a dispetto dei caratteri che ne costituiscono la struttura morfologica, attualmente l’Italia non possiede una dottrina geopolitica.

Ciò è dovuto principalmente ai tre seguenti elementi: a) l’appartenenza dell’Italia alla sfera d’influenza statunitense (il cosiddetto sistema occidentale); b) la profonda crisi dell’identità nazionale; c) la scarsa cultura geopolitica delle sue classi dirigenti.

Il primo elemento, oltre a limitare la sovranità dello Stato italiano in molteplici ambiti, da quello militare a quello della politica estera, tanto per citare i più rilevanti per l’aspetto geopolitico, ne condiziona la politica e l’economia interne, le scelte strategiche in materia di energia, ricerca tecnologica e realizzazione di grandi infrastrutture e, non da ultimo, ne vincola persino le politiche nazionali di contrasto alla criminalità organizzata. L’Italia repubblicana, a causa delle note conseguenze del trattato di pace del 1947 ed anche in virtù dell’ambiguità ideologica del proprio dettato costituzionale, per il quale la sovranità apparterebbe ad una entità socioeconomica e culturale, peraltro mutevole e vagamente omogenea, il popolo, e non ad un soggetto politico ben definito come lo Stato (1), ha seguito la regola aurea del “realismo collaborazionista o claudicante”, ovverosia la rinuncia alla responsabilità di dirigere il proprio destino (2). Tale abdicazione situa l’Italia nella condizione di “subordinazione passiva” e lega le sue scelte strategiche alla “buona volontà dello Stato subordinante” (3).

Il secondo elemento inficia uno dei fattori necessari per la definizione di una coerente dottrina geopolitica. La crisi dell’identità italiana è dovuta a cause complesse che risalgono alla mal riuscita combinazione delle varie ideologie nazionali (di ispirazione cattolica, monarchica, liberale, socialista e laico-massonica) che hanno sostenuto il processo di unificazione dell’Italia, l’edificazione dello Stato unitario e, dopo la parentesi fascista, la realizzazione dell’attuale assetto repubblicano. La crisi dell’identità nazionale è dovuta, inoltre, anche alla mal digerita esperienza fascista e al trauma della perdita della guerra. La retorica romantica dello stato-nazione, il mito della nazione e, successivamente, quelli della resistenza e della “liberazione” non hanno reso certamente un buon servizio agli interessi dell’Italia, che, a centocinquanta anni dalla sua unificazione, è ancora alla ricerca della propria identità nazionale.

Il terzo elemento, infine, in parte ricollegabile per motivi storici ai precedenti, non permette di collocare la questione delle direttrici geopolitiche dell’Italia tra le priorità dell’agenda nazionale.

Eppure una sorta di geopolitica – o meglio una politica estera basata essenzialmente sulla collocazione geografica – rispondente agli interessi nazionali, e dunque eccentrica rispetto alle indicazioni statunitensi, esclusivamente dirette ad assicurare a Washington l’egemonia nel Mediterraneo, è stata presente nelle alterne vicende della Repubblica italiana. In particolare, l’attenzione di uomini di governo come Moro, Andreotti, Craxi come anche di importanti commis d’État come Mattei rivolta ai Paesi del Nordafrica e a quelli del Vicino e Medio Oriente, seppur limitata ai rapporti di “buon vicinato” e di “coprosperità”, era decisamente conforme non solo alla posizione geografica dell’Italia nel Mediterraneo, ma anche funzionale sia ad una potenziale, futura ed augurabile emancipazione dell’Italia democratica dalla tutela nordamericana, sia al ruolo regionale che Roma avrebbe potuto esercitare anche nell’ambito del rigido sistema bipolare. Tali iniziative avrebbero potuto ben costituire la base per definire le linee strategiche di quello che l’argentino Marcelo Gullo ha chiamato, nell’ambito dello studio della costruzione del potere delle nazioni, “realismo liberazionista”, e far transitare, pertanto, l’Italia dalla “subordinazione passiva” alla “subordinazione attiva”: uno stadio decisivo per ottenere alcuni spazi di autonomia nell’agone internazionale.

Il fallimento della modesta politica mediterranea dell’Italia repubblicana è da ascrivere, oltre che alle interferenze statunitensi, alla natura episodica con cui è stata esercitata e all’atteggiamento contrario e ostativo dei gruppi di pressione interni più filoamericani e prosionisti. Con la fine del bipolarismo e della cosiddetta Prima repubblica, però, le iniziative sopra esposte, dirette a ricavare un pur limitata autonomia delle politica estera italiana, sono decisamente sfumate.

Oggi l’Italia, quale paese euromediterraneo subordinato agli interessi statunitensi, si trova in una situazione molto delicata, giacché oltre a risentire, in quanto membro dell’Unione Europea e della NATO, delle tensioni tra gli USA e la Russia presenti nell’Europa continentale, in particolare in quella centrorientale (vedi la questione polacca per quanto concerne la “sicurezza”, oppure quella energetica), subisce soprattutto i contraccolpi delle politiche vicino e mediorientali di Washington. Inoltre, la soggezione dell’Italia agli USA, che – occorre ribadirlo – si esprime attraverso una evidente limitazione della sovranità dello Stato italiano, esalta i caratteri di fragilità tipici delle aree peninsulari (tensione tra la parte continentale, seppur limitata nel caso dell’Italia, e quelle più propriamente peninsulare ed insulare), aumenta le spinte centrifughe, rendendo difficoltosa persino la gestione della normale amministrazione dello Stato.

Militarmente occupata dagli USA – nell’ambito dell’“alleanza” atlantica – con oltre cento basi (4), priva di risorse energetiche adeguate, economicamente fragile e socialmente instabile per la continua erosione dell’ormai agonizzante “stato sociale”, l’Italia non possiede gradi di libertà tali da permetterle di valorizzare il suo potenziale geopolitico e geostrategico nelle sue naturali direttrici costituite dal Mediterraneo e dall’area adriatico-balcanico-danubiana, se non nel contesto delle strategie d’oltreatlantico, a esclusivo beneficio, dunque, degli interessi extranazionali ed extracontinentali.

Le opportunità per l’Italia di ricavarsi un proprio ruolo geopolitico risultano dunque esterne alla volontà di Roma; esse risiedono nelle ricadute che l’attuale evoluzione dello scenario mondiale – ormai multipolare – provoca nel bacino mediterraneo e nell’area continentale europea. I grandi rivolgimenti geopolitici in atto, determinati principalmente dalla Russia, infatti, potrebbero esaltare la funzione strategica dell’Italia nel Mediterraneo proprio nell’ambito dell’assetto e del consolidamento del nuovo sistema multipolare e della potenziale integrazione eurasiatica.

Occorre, infatti, tener presente che la strutturazione di questo nuovo sistema geopolitico multipolare passa, per ovvie ragioni, attraverso il processo di disarticolazione o ridimensionamento di quello “occidentale” a guida nordamericana, a partire dalle sue periferie. Queste ultime sono costituite, considerando la massa euroafroasiatica, dalla penisola europea, dal bacino mediterraneo e dall’arco insulare giapponese.





Russia e Turchia: i due poli geopolitici



I recenti mutamenti del quadro geopolitico globale hanno prodotto alcuni fattori che potrebbero dunque facilitare lo “svincolamento” di gran parte dei paesi che costituisco il cosiddetto sistema occidentale dalla tutela dell’”amico americano”. Ciò metterebbe potenzialmente Roma in grado di attivare una propria dottrina geopolitica coerente col nuovo contesto mondiale.

Come noto, la riaffermazione della Russia a livello mondiale ed il protagonismo della Cina e dell’India hanno provocato un riassestamento delle relazioni tra le maggiori potenze e posto le premesse per la costituzione di un nuovo ordinamento, basato su unità geopolitiche continentali a partire, non da rapporti di forza militare, ma da intese strategiche. Tali mutamenti si registrano anche nella parte meridionale dell’emisfero orientale, l’ormai ex cortile di casa degli USA, ove i rapporti di Brasile, Argentina e Venezuela con le potenze eurasiatiche sopra citate hanno fornito nuovo slancio alle ipotesi dell’unità continentale sudamericana. Relativamente all’area mediterranea, il principale tra questi nuovi fattori geopolitici è costituito dall’inversione di tendenza impressa da Ankara alle sue ultime politiche vicino e mediorientali. Lo strappo di Ankara da Washington e Tel Aviv potrebbe assumere, nel medio periodo, una valenza geopolitica di vasta portata ai fini della costituzione di uno spazio geopolitico eurasiatico integrato, giacché rappresenta un primo atto concreto sul quale è possibile innescare il processo di disarticolazione (o di limitazione) del sistema occidentale a partire dal bacino mediterraneo.

Date le condizioni attuali, i poli geopolitici sui quali un’Italia realmente intenzionata ad emanciparsi dalla tutela nordamericana dovrebbe far perno sono rappresentati proprio dalla Turchia e dalla Russia. Un allineamento di Roma alle indicazioni turche in materia di politica vicinorientale fornirebbe all’Italia la necessaria credibilità, pesantemente offuscata dalle sue vassallatiche relazioni con Washington, per imprimere un senso geopolitico alla stanca politica di cooperazione che da anni la Farnesina intrattiene con la sponda sud del Mediterraneo ed il Vicino Oriente. La metterebbe, inoltre, insieme (e grazie) all’alleato turco, nelle condizioni, se non proprio di denunciare il patto atlantico, almeno in quelle necessarie per rinegoziare l’oneroso e avvilente impegno in seno all’Alleanza, e per prospettare, simultaneamente, la riconversione dei siti militari presidiati dalla NATO in basi utili alla sicurezza del Mediterraneo. L’Italia e la Turchia, insieme agli altri paesi rivieraschi del Mediterraneo, potrebbero in tal caso realizzare un sistema di difesa integrato sull’esempio dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (OTSC).

Nell’attuazione di questa “exit strategy” dai vincoli statunitensi, sopra sinteticamente abbozzata, Roma troverebbe validi sostegni, oltre che ad Ankara, anche a Tripoli, Damasco e Teheran e, ovviamente, Mosca. Quest’ultima, peraltro, sosterrebbe certamente Roma nella uscita dall’orbita nordamericana, favorendo la sua naturale proiezione geopolitica nella direttrice adriatico-balcanico-danubiana nel quadro, ovviamente, di un’intesa italo-turco-russa costruita sui comuni interessi nel cosiddetto Mediterraneo allargato (costituito dai mari Mediterraneo, Nero, Caspio).

di Tiberio Graziani

24 agosto 2010

La morte di Mussolini


Su queste pagine, nel corso di circa due anni, abbiamo condotto una lunga controinchiesta su la morte di Mussolini, nella quale crediamo di aver dimostrato con fondate deduzioni, testimonianze attendibili e alcuni elementi oggettivi, che la “storica versione” ovvero la “vulgata” tramandata da Walter Audisio e dal Pci (fucilazione di Mussolini e la Petacci alle 16,10 del 28 aprile 1945 davanti al cancello di Villa Belmonte in Giulino di Mezzegra) è inattendibile. Il nostro, tutto sommato, non è stato un compito difficile, viste le contraddizioni e le assurdità che quella versione presentava e che già erano state denunciate da valenti storici, molto prima di noi. Quello che invece, non abbiamo fatto è il fornire una nostra ricostruzione, una nostra ipotesi su come possa essersi svolta quella misteriosa uccisione, anche se abbiamo sempre intercalato nei nostri articoli di controinformazione alcune ipotesi alternative ai fatti esaminati. Non lo abbiamo fatto in quanto, non essendo disponibili prove concrete e riscontri verificabili, la nostra “ipotesi alternativa” sarebbe rimasta come tale. Conclusa ora la nostra controinchiesta (circa 22 articoli), vogliamo addentrarci, pur con un certo disincanto e per linee generali, a fornire una nostra ricostruzione su come in realtà potrebbe essere andata quella storia. Lo faremo sintetizzando al massimo tutta la vicenda e astenendoci dal presentare le opportune dimostrazioni di quanto andiamo sostenendo, perché lo spazio concessoci non lo consente, ma chi ha seguito i nostri articoli saprà trovare i vari riferimenti. Come noto il pomeriggio del 27 aprile 1945 a Milano giunse la notizia che Mussolini era stato catturato e si trovava a Dongo nelle mani del comando della 52esima Brigata Garibaldi “Luigi Clerici”, uno sparuto gruppetto di partigiani che agiva nell’alto Lago, vale a dire: Pier Bellini delle Stelle Pedro, vanitoso comandante ad interim della 52esima Brigata, ex ufficiale dell’esercito badogliano, senese di nobili origini e di tendenze non comuniste; quindi Michele Moretti Pietro Gatti, un fedele comunista di vecchia data, commissario politico della Brigata; ed infine Luigi Canali Neri, un comunista idealista, atipico per quel partito e ultimamente caduto in disgrazia con il partito e con il comando Lombardo delle Brigate, tanto da essere stato condannato a morte, anche se poi la condanna era rimasta sospesa. Il Canali, ex comandante della 52esima Brigata ed ora con l’anomalo grado di capo di Stato Maggiore della stessa (conferitogli per non dover ricambiare tutti i gradi già in essere) era apparso a Dongo proprio quel pomeriggio a cattura del Duce avvenuta. In quelle zone del comasco, a parte alcune basi dei servizi anglo americani, le uniche strutture con un minimo di efficienza erano gli spezzoni della Guardia di Finanza e le cellule del partito comunista. E’ infatti dal brigadiere della G. d. F. Antonio Scappin Carlo, che da Gera Lario arrivò tra le 17 e le 18 la notizia della cattura al colonnello Alfredo Malgeri della G. d. F., e sicuramente in qualche modo arrivò alla direzione del Pci. Verso sera giunse poi la notizia del trasferimento di Mussolini, in una casermetta della G. d. F. di Germasino, pochi chilometri sopra Dongo. Quel che traspare dalla cronaca di quegli avvenimenti riportati con versioni eterogenee, contraddittorie ed edulcorate, che per la loro inaffidabilità noi aggireremo basandoci esclusivamente su fatti e conseguenze accertate, è che questa vicenda venne subito presa in mano da Luigi Longo, vice comandante del Cvl, comandante delle Brigate Garibaldi, membro del Clnai e massimo dirigente del Pci nel nord Italia. Il comandante, ma più che altro nominale, del Cvl (la struttura militare della Resistenza) è il generale Raffaele Cadorna. Era comunque auspicato da molti che Mussolini venisse eliminato alla svelta e Luigi Longo non soltanto era favorevole a una sbrigativa uccisione per convinzione di partito e personale, ma egli interpretava in Italia anche la volontà di Stalin, senza la quale il Pci non muoveva foglia, ed è inoltre oramai appurato che il Pci aveva con le “intelligence” inglesi un rapporto di stretta collaborazione (continuato da Togliatti e Churchill anche nel dopoguerra) come si evince anche dal libro del comunista Maurizio Valenzi, ebreo italo tunisino, futuro senatore del Pci e sindaco di Napoli: “Confesso che mi sono divertito”, Pironti editore 2007, laddove ricorda quando venne spedito a Napoli, prima ancora dell’arrivo di Togliatti a Salerno, a organizzare le strutture comuniste e tutta la situazione logistica e finanziaria venne organizzata dal servizio segreto inglese. Come sappiamo, sovietici e inglesi erano i più interessati alla eliminazione immediata del Duce, ma anche gli americani, che apparentemente dicevano di volerlo catturare vivo, sottobanco invece diedero opportune e segrete disposizioni alle loro missioni, per lasciarlo eliminare. Lo storico Renzo De Felice, in Rosso & Nero, Baldini & Castoldi editori 1995, afferma: “Fu molto facile per gli inglesi evitare (...) che gli americani mettessero le mani sul Duce. Fecero tutto i partigiani. Ma fu un agente dei servizi inglesi, italiano di origine, che li esortò a far presto a chiudere in fretta la partita”. Anche un altro storico, Alessandro De Felice, ha rivelato una fugace confidenza da lui ricevuta dall’allora senatore Leo Valiani che gli raccontò, pregandolo poi di non farne menzione: “La morte di Mussolini deve rimanere un mistero. Ed è meglio che sia così…, Londra ha suonato la musica, ed il Pci è andato a tempo!”. Oggi, che sappiamo il Valiani, aver avuto un ruolo, oltre che nel Clnai, anche nel Soe (il servizio segreto inglese) a cui collaborava, le sue parole assumono una certa importanza. In tutta la zona del comasco, comunque, agiscono gruppi che, dato il momento, risultano incontrollabili, mentre Mussolini è nelle mani del comando della 52esima Brigata Garibaldi dell’alto Lario, composto da elementi eterogenei e non tutti comunisti, stessa cosa per il Cln di Como. Inoltre sulle tracce di Mussolini sono lanciati gli Alleati, in particolare gli americani i quali dicono di voler catturare il Duce vivo anche se, segretamente, fanno in modo che ciò non avvenga, ma questo non è noto e poi, nonostante ciò, è probabile che se per qualche motivo una loro missione dovesse capitare sul Duce, questi verrebbe requisito e non passato per le armi. Del resto il governo del Sud e di conseguenza le strutture del Clnai e del Cvl, in ottemperanza agli accordi armistiziali sottoscritti, dovrebbe consegnare Mussolini vivo agli Alleati. Da qui tutta una serie di ordini e atteggiamenti contraddittori, che a Milano ci narrano di pareri discordi, di fantasiosi piani di salvataggio del Duce, ecc. A nostro avviso fu tutto un gioco delle parti, perché alla fin fine anche Cadorna e tutti gli altri furono concordi nel lasciar fare a Longo. Per Longo però c’è anche il problema di presentare tutte le uccisioni in un certo modo, storicamente accettabile per l’agiografia resistenziale, coinvolgendo nelle fucilazioni, quale “giustizia in nome del popolo italiano”, tutte le componenti della Resistenza, in modo da farle digerire agli Alleati e poi pesare nelle alchimie politiche e governative post liberazione (come in effetti accadde). Per prima cosa viene disposto di mettere Mussolini in un posto segreto e più sicuro. La disposizione sarà realizzata sul posto, grazie al Canali Neri (che ne consiglia il luogo), al Bellini Pedro e il Moretti Pietro, che portano il Duce in casa dei contadini De Maria a Bonzanigo, ma questa decisione così importante e delicata visto il caos di quelle ore, e con la quale si decise anche di aggiungere a Mussolini una donna, Claretta Petacci, non poteva che arrivare da Milano. Come detto pare che ci furono anche una serie di ordini contrastanti, di piani di prelevamento del Duce per consegnarlo agli Alleati, ecc., ma anche ammesso che queste storie siano veritiere, contano poco, perché quel che conta fu la decisione di portare Mussolini in un luogo segreto. Per esigenze operative, ma anche politiche, venne quindi allestita, a sera tarda del 27 aprile, una missione ufficiale del Clnai – Cvl, al fine di giustificare l’eliminazione del Duce e degli altri elementi della RSI rispetto alla Storia, a tutte le componenti della Resistenza ed agli Alleati: è da Longo incaricato il colonnello Valerio, alias Walter Audisio un ragioniere in forza come Ispettore nella segreteria del Comando del Cvl e in quelle ore addetto alla Polizia di piazza, comunista, ma rappresentativo di tutto il Comando, anche se di scarse attitudini militari. Ad Audisio viene affiancato Aldo Lampredi Guido Conti, alto dirigente del Pci, uomo di ben altro spessore politico e già agente del Komintern. A costoro è anche assegnato un plotone di 12 partigiani, prelevati da quelli delle Divisioni dell’Oltrepò e posti al comando di Alfredo Mordini Riccardo, un ex miliziano di Spagna e Francia. Audisio, a nome del Clnai, ha ufficialmente un ordine del CVL e di Cadorna: quello di recarsi a Dongo e requisire Mussolini e gli altri prigionieri e quindi tradurli a Milano. In realtà Audisio ha invece la disposizione segreta di fucilarli sul posto e portarne i cadaveri a Milano per esporli in Piazzale Loreto dove li attenderanno circa 12 postazioni dei cineoperatori americani, che saranno predisposte (essendo ben informati) dalla sera del 28 aprile, pronte ad immortalare il barbaro scempio per le loro esigenze di propaganda cinematografica. Lo scopo omicida della missione di Audisio, almeno nelle sue linee generali, sarà a conoscenza o intuito dai più importanti comandanti e dirigenti del Comando Cvl (Raffaele Cadorna, Giovanni Stucchi, Vittorio Palombo, ecc.), dei comandanti e commissari delle Divisioni dell’Oltrepò (Italo Pietra, Luchino dal Verme, Paolo Muriali, Alberto Cavallotti, ecc.) e del Comitato Insurrezionale antifascista (Sandro Pertini, Leo Valiani e Emilio Sereni) anche se poi, per opportunità politica, alcuni di costoro faranno il pesce in barile affermando di non sapere bene come stavano le cose. Resta il fatto che la missione di Audisio, per ottemperare a tutti i suoi compiti, storici e politici, oltre che militari, deve giocoforza passare per Como, in Prefettura, dove dovrà imporsi alle autorità locali (Cln) che certamente non gradiscono di vedersi sottrarre i preziosi prigionieri, quindi ai comandi di Brigata di Dongo che hanno in mano i prigionieri stessi. Una evidente lungaggine di tempi. Ed in effetti Audisio e il suo plotone viene fatto partire verso le 7 di mattina del 28 aprile (alquanto tardi), con meta Dongo, via Como, e nessuno gli dice che Mussolini a Dongo oramai non c’è più essendo stato trasferito notte tempo, perché evidentemente, nel frattempo, si stava provvedendo per Mussolini anche in diverso modo. E’ infatti ovvio che Longo, dati i necessari tempi e scopi richiesti dalla missione di Audisio e non potendosi fidare del momentaneo nascondiglio notturno del Duce, incarica anche qualcun altro ovvero spedisce a Como e poi a Bonzanigo in casa dei contadini De Maria dove sono nascosti Mussolini e la Petacci, qualche altro elemento, militarmente efficiente, affinché prenda subito in mano la situazione e la tenga sotto controllo. Se il caso lo impone, fucili immediatamente Mussolini, ma se possibile ne coordini gli eventi con la missione di Audisio in modo che questi possa poi fucilare regolarmente in tranquillità e sicurezza tutti i prigionieri, Mussolini compreso. Questo diversivo è rimasto misterioso, ma non ci sono dubbi e del resto è logico che Longo faccia questo e, come vedremo, lo dimostrerà anche il suo successivo atteggiamento. E’ difficile stabilire se gli elementi per questo secondo e segreto incarico partano da Milano o siano stati reperiti via telefono sul posto (Como), oppure ancora è questo un incarico che venne affidato segretamente allo stesso Aldo Lampredi a latere della sua missione con l’ignaro Audisio. Come sappiamo, infatti, Lampredi arrivato a Como in Prefettura con Audisio poco dopo le 8, mentre questi è alle prese con interminabili discussioni con le autorità locali, svicola e portandosi via l’automobile, l’autista e il comandante della scorta Mordini (Riccardo), va in federazione Comunista e riapparirà solo molte ore dopo a Dongo (ore 14,10) quasi in contemporanea con Audisio e il resto del plotone giunti per conto loro. Fatto sta che, tra poco prima delle 6 e le 7 della mattina del 28 aprile, erano giunti a Como, in federazione comunista dove trovasi i massimi dirigenti locali del partito (Dante Gorreri Guglielmo e Giovanni Aglietto Remo), Luigi Canali Neri e Michele Moretti Pietro i quali informarono di aver nascosto Mussolini poche ore prima e a poco più di 20 chilometri da Como. Sappiamo che a costoro venne detto che occorreva informare il partito a Milano per avere ordini, poi però non sappiamo più nulla mentre, secondo la “storica versione”, i due componenti della 52a Brigata furono tranquillamente lasciati andar via senza disposizioni (l’altro comandante non comunista, il Pier Bellini delle Stelle Pedro, lasciati Mussolini e la Petacci nella casa di Bonzanigo se ne era invece tornato, tranquillo e spensierato a Dongo). Da tanti particolari e dalla logica stessa di quegli avvenimenti, non è credibile che il Canali e il Moretti, a conoscenza del luogo dove trovasi Mussolini e in grado di arrivarci perché conosciuti dai due guardiani armati rimasti in quella casa, siano stati lasciati andar via. E’ invece logico che si fermarono in federazione ad attendere qualche “arrivo” da fuori ed è anche evidente che la direzione comunista a Milano venne in poco tempo informata della situazione. A questo punto, attenendoci ai fatti, dobbiamo sottolineare alcuni particolari importanti. 1. Longo a Milano sembra come se, da questo momento in poi, non gli interessi più il problema Mussolini. Neppure informa Audisio (quando questi alle 11 telefona dalla Prefettura di Como per lamentarsi delle resistenze e boicottaggi che ivi sta trovando) che Mussolini non si trova più a Dongo e successivamente (verso le 14, pur ignaro di che fine abbia fatto Audisio) se ne va tranquillamente ad incontrare Moscatelli arrivato a Milano con le sue divisioni della Valsesia e nel pomeriggio terrà anche un comizio in piazza Duomo. 2. Stessa cosa sembra fare il Bellini delle Stelle a Dongo: si disinteressa di Mussolini, del suo precario nascondiglio in quella casa a lui fino ad allora sconosciuta, dei due guardiani armati lasciati da ore lì dentro, di ogni imprevisto che potrebbe accadere e anche del fatto che qualcuno degli altri (i comunisti Moretti o Canali) gli possa soffiare il prezioso prigioniero. Ed analogamente si comportano Moretti e Canali visto che si vorrebbe far credere che andati via dalla federazione comunista per conto loro, arrivano spensierati a Dongo prima delle 14. Insomma se non fosse arrivato Audisio, alle 14,10 a Dongo, tra l’altro inaspettato, a reclamare i prigionieri, fino a quando tutti costoro avrebbero ignorato il “problema Mussolini” che la notte precedente pareva essere così urgente e critico? E’ evidente che a Mussolini si era già provveduto anche a prescindere dalla missione di Audisio! Abbiamo ora due importanti e decisive testimonianze: quella della signora Dorina Mazzola, all’epoca diciannovenne abitante a Bonzanigo a poco più di 100 metri da casa De Maria, e quella di Savina Santi la vedova di Guglielmo Cantoni Sandrino, il più giovane dei guardiani rimasti in casa dei De Maria. Quindi, oltre alla ricostruzione di una possibile dinamica balistica di quella fucilazione, abbiamo alcuni rilievi che è stato possibile fare sulle foto del vestiario trovato sul cadavere del Duce e su lo stivale destro con la chiusura lampo saltata. Ne risulta che il Duce venne attinto da 9 colpi sparati da almeno due tiratori, che il giaccone era privo di buchi e quindi è stato messo addosso ad un morto dopo una “finta fucilazione”, e lo stivale dx non poteva essere calzato per camminarci ed essere portati sul luogo dell’esecuzione. La signora Dorina Mazzola raccontò di aver udito, intorno alle 9 del 28 aprile, un paio di colpi di pistola provenienti da casa De Maria. Quindi vide scendere, un uomo calvo, con la sola maglietta di salute a mezze maniche, che si trascinava a piccoli e difficoltosi passetti verso il cortile dello stabile, fuori della sua portata visiva. Nel frattempo udì una donna, affacciatasi ad un finestrone della casa, strillare e chiedere aiuto, ma ricacciata dentro a viva forza, oltre a strilli e lamenti dei coniugi De Maria. Poi una sparatoria nel cortile. La Mazzola infine assistette anche, proprio dietro casa sua e intorno alle 12, all’uccisione proditoria di una giovane donna che camminava davanti ad un gruppo di partigiani e che seppe poi trattarsi di Claretta Petacci. La signora Santi invece diede altri particolari alquanto precisi: “Mussolini e la Petacci non sono stati uccisi nel pomeriggio e davanti al cancello di Villa Belmonte. Mio marito mi disse che quella mattina lui si trovava di guardia alla stanza dove c’erano i prigionieri, quando vide salire le scale Michele Moretti e altri due partigiani che non aveva mai visto né conosciuto. I tre gli ordinarono di restare sul pianerottolo fuori della stanza ed entrarono nel locale. Mio marito, restando sul pianerottolo, udì uno dei tre che diceva: “adesso vi portiamo a Dongo per fucilarvi”, e un altro gridare: “No, vi uccidiamo qui!”. Poi mio marito udì altre voci concitate, le urla della donna e colpi d’arma da fuoco..., ma non so dove li hanno uccisi con certezza, credo però che lo sappia un altra persona che ebbe la confidenza da mio marito” (per queste testimonianze vedere G. Pisanò: “Gli ultimi 5 secondi di Mussolini”, il Saggiatore 1996). Dunque ricapitolando: intorno alle 9 del mattino, mentre Audisio ignaro si trovava a litigare con quelli del Cln a Como, un paio di individui venuti da fuori, accompagnati da Michele Moretti, salirono nella stanza dove erano il Duce e la Petacci. Erano gli elementi spediti da Longo affinché prendessero sotto controllo Mussolini, se necessario lo fucilassero subito, ma preferibilmente lo gestissero in attesa che Audisio, compiute le sue incombenze, potesse fucilarlo pubblicamente. E’ chiaro che invece la rabbiosa irruzione in camera determinò la reazione di Mussolini e della Petacci e il Duce, a seguito di una colluttazione, rimase ferito al fianco e forse al braccio. Fu il medico legale Aldo Alessiani, a far notare che la distanzialità, la ravvicinatezza e l’inclinazione di alcuni colpi che avevano attinto il Duce, erano chiaramente il frutto di colpi sparati a bruciapelo durante una colluttazione. La Petacci stessa presentava sotto la palpebra dell’occhio destro una ecchimosi quale esito di un colpo preso in vita sul viso. In conseguenza di questo “imprevisto” occorso in quella stanza, Mussolini diventava chiaramente intrasportabile e impresentabile per una pubblica fucilazione in piazza. Venne quindi immediatamente ammazzato e a quanto sembra gridò in faccia ai suoi assassini “viva l’Italia!, come raccontò, con sofferta confidenza, Michele Moretti 45 anni dopo (G. Cavalleri “Ombre sul lago”, Piemme 1995). Mussolini dovette poi anche essere rivestito alla bene e meglio. Ecco perché ne risultò la inspiegabile anomalia che mentre a Dongo, Audisio pretese rabbiosamente di fucilare i prigionieri alla schiena e davanti a donne e bambini, Mussolini sembrava avere avuto la concessione di una fucilazione al petto e per giunta di nascosto da tutti. La successiva morte della Petacci, in parte accidentale (a quanto sembra venne uccisa con una raffica alle spalle tirata da un partigiano esagitato), complicò ancor più le cose. Fu quindi necessario nascondere i cadaveri nel garage dell’albergo Milano, lì vicino sulla via Albana, ed allestire poi una messa in scena con una finta fucilazione del pomeriggio davanti al cancello di Villa Belmonte (dove infatti i cadaveri apparvero già in stato di rigidità cadaverica indice di una morte precedente di alcune ore) per aggiustare, in qualche modo, tutta la vicenda. Si predisposero le cose per la sceneggiata, allestendo qualche piccolo posto di blocco e spedendo i pochi abitanti del circondario sulla sottostante provinciale, con la falsa voce sparsa in giro che nel primo pomeriggio vi sarebbe passato Mussolini prigioniero. Tutti fatti oggi accertati. Tutto questo è rimasto in buona parte e per anni imperscrutabile, non solo perché venne difeso sul posto con l’imposizione minacciosa di un silenzio richiesto a tutti i residenti di quelle parti, ma anche perché questo “diversivo”, in parte, venne coperto da una finta “fucilazione” davanti al cancello di Villa Belmonte alle 16,10, udita da molti. Nella esaltazione di quelle ore eccezionali, nella ridda di voci incontrollate che presero a girare, si creò una suggestione collettiva. Resta purtroppo ancora misterioso il nome di coloro (almeno due) che uccisero vigliaccamente Mussolini in quel cortile della casa. Di sicuro c’era Michele Moretti, ma non sappiamo se ha sparato e se potesse esserci anche Aldo Lampredi, che come abbiamo visto era svicolato da Audisio a Como, ma non è detto che poté arrivare in tempo (in pratica Mussolini venne ucciso in un orario che oscilla tra poco dopo le 9 e poco prima della 10). Certo è che Lampredi arrivò comunque in mattinata a Bonzanigo e dovette caricarsi l’onere della sceneggiata pomeridiana (in collaborazione con Audisio), trovando per di più il cadavere inaspettato della Petacci. Disse significativamente l’ex direttore dell’Unità nel ’44 ed esponente comunista Celeste Negarville: “Con la Petacci Lampredi non c’entra. La Petacci è stata uccisa altrove. Lampredi si trovò un cadavere in più, che non era nel conto” (M. Caprara: “Quando le botteghe erano oscure”, Il Saggiatore 1997). Oppure fecero tutto elementi reperiti nel comasco, se non nella stessa federazione del Pci di Como, oppure, ipotizzò lo storico Renzo De Felice “un gruppo di comunisti milanesi”, o ancora come raccontò in televisione pochi anni addietro Francesco Cossiga, che evidentemente aveva raccolto confidenze: “un dirigente comunista milanese fatto poi espatriare dal Pci in sud America”. Certamente non c’era Walter Audisio. Scrisse Sandro Pertini nel 1975 al regista Carlo Lizzani autore del film “Mussolini ultimo atto” che tanto aveva contribuito al diffondersi della “vulgata”: “...e poi non fu Audisio a eseguire la “sentenza”, ma questo non si deve dire oggi” (C. Lizzani: “Il mio lungo viaggio nel secolo breve”, Einaudi 2007). Più di questo, al momento, non è possibile attestare con un minimo di concretezza.



di: Maurizio Barozzi