29 settembre 2007

Blog: i nuovi MEDIA


«Qualcuno doveva alzarsi a dire che la democrazia non può sopravvivere con queste interferenze delle corporation e del governo sui mezzi di informazione»: si è vantato così Dan Rather, il celebre anchorman, davanti a Larry King, l'altro celeberrimo anchorman.Poi,Rupert Murdoch da anni avverte i suoi compari editori che la rete sta demolendo i media classici e la loro presunta autorevolezza.
L'ha fatto nel 2005 in modo molto esplicito : «Io sono cresciuto in un mondo informativo altamente centralizzato, dove le notizie erano strettamente controllate da pochi direttori, che ci dicevano cosa potevamo e dovevamo sapere. Le mie due figlie giovani, sono nate nel mondo digitale.
Noi che siamo in posizione di determinare come le informazioni vengono confezionate e diffuse, in questo mondo digitale siamo immigrati freschi. Ci dobbiamo 'sforzare' di applicare la mentalità digitale … dobbiamo capire che la prossima generazione, che ha accesso alle notizie, siano dai giornali o da altra fonte, hanno un diverso criterio di aspettative sul tipo di informazione da cercare, e sul come le ottengono, e da chi».
«Non s'affidano più a una figura divina di informatore; e per estendere l'immagine religiosa, non vogliono più le notizie presentate come vangelo. Anzi, vogliono le notizie a loro richiesta. Vogliono il controllo sui loro media, non esserne controllati».
E citava i sondaggi: «I consumatori (sic) fra i 18 e i 34 anni usano sempre più il web come mezzo di comunicazione per i loro consumi. … il 44% degli interrogati hanno detto di usare un portale almeno una volta al giorno per avere informazioni giornalistiche, contro solo un 19% che compra e legge ogni giorno un quotidiano. Ancor più sinistramente, una proiezione a tre anni mostra che ad usare internet per informarsi saranno il 39%, e quelli che si aspettano di comprare di più i giornali solo l'8%».
Murdoch diamone atto, non fa la solita lagna.
Non dice che quello di internet è un giornalismo «secondario» in quanto parassistario dei MSM. Non parla di complottisti marginali.
Non fa la lezione: notizie incontrollate e «non bilanciate» o «di parte», dove «i fatti non sono separati dalle opinioni».
Non dice: giornalismo di bassa qualità.
Forse perché sa cosa pensare della qualità dei media «autorevoli»: e basta leggere un pezzo di Magdi Allam, che costa a Il Corriere 22 mila euro mensili, per capirlo.
E basta considerare che il 98% delle notizie pubblicate dai grandi media sono prese pari pari da tre agenzie internazionali, senza alcun controllo delle fonti, a scatola chiusa.
Di parte, poi, lo sono tutti, e ancor più quelli che si danno l'aria di «oggettivi».
Già da come presentano i «fatti» si intuisce che ci mettono, surrettiziamente, la «opinione» autorizzata.
Vecchi trucchi che non incantano più.

La vera differenza è più cruciale: che internet è gratis, e che non ci si guadagna: né i giornalisti, né gli editori né la pubblicità.
Così accade già, in America, che bravi giornalisti professionali lavorano per i media mainstream per lo stipendio, poi tengono i blog dove si sfogano, e rivelano per niente quello che non hanno potuto dire nella sfera della libertà vigilata.
E allora, dove è più probabile trovare le notizie di cui fidarsi?
Là dove si scrive per carriera e stipendio, o dove si scrive per sfogarsi e liberarsi la coscienza, gratis?
Ciò nuocerà a noi giornalisti come casta pagata benino (o troppo bene, Allam), ma è un ritorno - tramite il mezzo elettronico - al giornalismo delle origini.
Quello che c'era prima che i giornali e le TV diventassero veicoli servili della pubblicità (il più sporco e irresponsabile dei poteri forti); quello di cui si ha un'idea quando si vede, in certi vecchi western, il direttore di giornalini che si chiamavano «Pomona Telegraph» o «Kentuky Current» che, con la visiera e le mezze maniche, non solo li scriveva, ma li stampava da solo alla vecchia macchina piana, aiutato da ragazzini che gli portavano le notizie e poi distribuivano il fogliaccio macchiato di inchiostro grasso.
Un giornalismo pieno di impurità, gridato, platealmente di parte, soggetto a querele, diffamatorio e ricattatorio: ma svolgeva la funzione che il giornalismo MSM non svolge più.
La funzione originaria, che giustifica il giornalismo: essere il modesto ausiliario della democrazia.
Era «di parte» perché questo serve agli elettori: in ogni questione politica, sentire «l'altra parte», cosa ha da obbiettare l'altra campana, e poi decidere col voto quale «parte» favorire, dato che le scelte politiche sono tutte discutibili, ognuna ha - oltre ai pro - anche dei contro, di cui è bene essere informati.
E non disturbava questa funzione essenziale il fatto che quel giornalismo fosse «esagerato», che fosse più alla Beppe Grillo che alla Angelo Panebianco o alla Paolo Mieli.
L'esagerazione serviva a sottolineare, era il suo stile.
Così in internet.
L'irriverenza, il tono incazzato, la selezione platealmente di parte sono il suo stile: il lettore si abitua a fare la tara, è bene che sia così.
Sono i siti compassati, ufficiali, ufficiosi, della Fiat o della Presidenza del Consiglio, a suscitare il sospetto.
Il lettore è autorizzato a sospettare di noi quando diverremo così.
E il sito di Grillo, se mai diverrà così, sarà abbandonato.
Ma per intanto anche noi, nel nostro piccolo, siamo qui con le mezze maniche nere, e il portacenere pieno di cicche (nelle redazioni MSM è vietato fumare) a lavorare gratis.
E se siamo grati a Grillo e lo diciamo, non è perché lui poi ci darà una mazzetta o una inserzione pubblicitaria.
Non è una garanzia?
Stiamo lavorando anche per i bravi giornalisti che sono nei grandi media.
La rete ha dato coraggio a Dan Rather: «Qualcuno doveva pur alzarsi a dire che la democrazia non sopravvive con questa interferenza delle corporations e del governo».

fonte:Maurizio Blondet

Quando le parole uccidono



L’informazione, qualsiasi informazione, quando è confezionata all’interno di un media, è simile a un missile che parte dalla rampa di lancio. Ma l’informazione è sempre più spesso un missile senza guida. Può deviare il proprio percorso, raggiungendo obiettivi non previsti. Nessuno è realmente a conoscenza di chi lo intercetterà e degli effetti che produrrà. L’informazione ha tuttavia un grande alibi: il diritto di cronaca. Il resto sono solo effetti collaterali, come la morte di un ragazzo di 28 anni. Si chiamava Alberto Mercuriali abitava a Castrocaro Terme, località dell’Appennino forlivese, nota per le gare canore delle “Voci nuove”. Poco più di 5mila abitanti. Dove tutti conoscono tutti.
Alberto Mercuriali è un ragazzo mite, forse un po’ introverso, laureato in agronomia. Giovedì 5 luglio, i carabinieri lo notano mentre fuma uno spinello all’esterno di un bar. Addosso ha anche un piccolo quantitativo di hashish, pari a un paio di ‘canne’. Racconta di aver fatto una ragazzata. E poi è incensurato. Ma i carabinieri non si convincono e nella perquisizione a casa trovano altri 50 grammi nascosti fra le pagine di un libro dal titolo “Il regno dell’ombra”. Scatta la denuncia per detenzione di sostanze stupefacenti per fini di spaccio. Sull’operazione, sabato 7 luglio, i carabinieri fanno una conferenza stampa. Domenica 8 luglio Alberto finisce, pur senza la citazione del nome, sulle prime pagine dei giornali locali. E’ una notizia a cui nessun giornalista, in una grande città, avrebbe dedicato più di qualche riga. Ma nell’assolata calura estiva, quando c’è ben poco da raccontare, per i tre giornali a diffusione provinciale la notizia è ghiotta “imbottito di droga:insospettabile agronomo smascherato dai carabinieri…” Con tanto di maxi-foto dei due militari che mostrano il libro dove Alberto teneva i 50 grammi di hashish. Quella domenica il telefono di Alberto ha cominciato a squillare, squillare, squillare. Anche senza il nome citato sui giornali, non ci vuole molto a individuare in lui, “l’agronomo 28enne del paese”. Lunedì 8 luglio Alberto si uccide con il gas di scarico della propria auto. Oggi, a distanza di mesi, c’è un intero paese che ancora si interroga su quella morte assurda. Da un balcone sventola un lenzuolo con scritto “Stop alle notizie che uccidono”. Da un’altra finestra “Io non credo più ai giornali, in memoria di Alberto”. Gli amici non si danno pace per quella morte di “uno che non aveva un nemico e che invece è stato descritto come un narcotrafficante” ed il suo miglior amico, Raffaele annota come “Alberto teneva molto al nome della famiglia, al cognome che portava”.
Il 17 luglio viene organizzata una fiaccolata in memoria di Alberto. Vi partecipano circa 800 persone. Ma sui tre quotidiani non vi è una riga di questa forte protesta promossa dagli amici di Alberto. Il sistema della comunicazione si chiude a riccio. Non accetta di salire sul banco degli imputati anche quando un intero paese esprime fisicamente la propria protesta (se non il proprio disprezzo). Il 10 settembre viene convocata un’ affollatissima assemblea cittadina, nel salone delle Terme di Castrocaro, con il presidente dell’Ordine dei giornalisti dell’Emilia Romagna Gerardo Bombonato, il cappellano del carcere don Dario Ciani e don Andrea Gallo di Genova. Dalla rabbia si riesce - con fatica- a passare alla riflessione sul ruolo dell’informazione, all’ importanza che assume nella società moderna. E soprattutto si sottolinea la delicatezza e l’immensa responsabilità dell’informazione. Concorrenza, fretta, voglia di scoop, voglia di stupire non sono giustificazioni accettabili per i relatori, per gli amici di Alberto, per la tanta gente in sala e, sicuramente, per tutte le persone di buonsenso. Viene aperto un blog all’indirizzo http://amicidialberto.blogspot.com/. che si apre con un appello “In memoria di Alberto” sottoscritto da oltre 600 persone. L’appello inizia con la frase “Un articolo può cambiare la vita di un ragazzo. Un giornalista ha cambiato la vita di un ragazzo”.
Maledetto, bellissimo mestiere, alla ricerca quotidiana di ‘mostri da sbattere in prima pagina’, sempre forte coi deboli e debole coi forti, terribilmente incapace di leggere la fragilità degli uomini e soprattutto di chiedere “perdono”.
di Giorgio Tonelli

28 settembre 2007

Mastella: non farà la fine di Craxi, ma di M. Antonietta?


Devo ribadire che Mastella mi fa veramente pena, no ad invidia pretestuosa.
Non si rende conto che, adesso ha veramente stufato. Non è possibile che vada cercando alibi e onorabilità utilizzando la tv di mediaset per spiegare le sue ragioni. Lui, come i suoi giornalisti o il suo direttore di rete appartengono alla casta.
Come brucia sapere che qualsiasi mezzo di distrazione di massa che si usa non si è credibili. Il suo dicastero spartiacque della legalità non gli appartiene.
Non può svolgere il suo dovere d’ufficio, perché è sospetto.
Macchia con la sua natura sospetta le istituzioni.
E’ proprio questo il punto: Mastella non ha l’autorità morale per coprire il ministero della Giustizia.
Sotto di lui, quella diventa «giustizia» tra virgolette; e lui non può trasferire magistrati magari meritevoli di trasferimento.
Capite?
Il danno inflitto è molto superiore a qualunque mazzetta o tangente.
E’ per questo che le istituzioni sono corrotte.
La Casta ha consumato tutta la sua autorità morale.
Mastella, semplicemente, dovrebbe dare le dimissioni.
Come Visco, abusivista edilizio per la sua villa, e come gli altri.
Non lo faranno mai spontaneamente.
Resteranno lì a far marcire le istituzioni nostre, a succhiarci il sangue, ad accusarci di evasione mentre ci impoveriamo.
Come si fa?
Bisogna forzarli.
Per questo, bisogna anzitutto - anche come cattolici, credo - capire che il male che fanno a noi è molto peggio del male che possiamo fare a loro: distruggono i nostri figli, il loro futuro.
Bisogna tener fermo che la «legalità» corrente non ha più «legittimità», e che la legittimità va ricostituita.
E adesso, forse, c’è un’occasione per cambiare ciò che deve essere cambiato, e la dà l’indignazione collettiva.
Se la Casta ha davvero fatto sparire 98 miliardi di euro in tassazioni dovute per le slot machines, il danno che ci infligge come contribuenti, e che infligge allo Stato, è immensamente superiore ai loro emolumenti: questi disonesti incompetenti (disonesti «perché» incompetenti) hanno fatto sparire quasi tre Finanziarie, roba con cui potevano ridurre durevolmente il debito pubblico e gli interessi che paghiamo su di esso.
Ma come indignare la gente parlando di debito pubblico, di 98 miliardi di euro?
L’indignazione ha bisogno di una faccia e di un nome: e allora, dàgli a Mastella.

29 settembre 2007

Blog: i nuovi MEDIA


«Qualcuno doveva alzarsi a dire che la democrazia non può sopravvivere con queste interferenze delle corporation e del governo sui mezzi di informazione»: si è vantato così Dan Rather, il celebre anchorman, davanti a Larry King, l'altro celeberrimo anchorman.Poi,Rupert Murdoch da anni avverte i suoi compari editori che la rete sta demolendo i media classici e la loro presunta autorevolezza.
L'ha fatto nel 2005 in modo molto esplicito : «Io sono cresciuto in un mondo informativo altamente centralizzato, dove le notizie erano strettamente controllate da pochi direttori, che ci dicevano cosa potevamo e dovevamo sapere. Le mie due figlie giovani, sono nate nel mondo digitale.
Noi che siamo in posizione di determinare come le informazioni vengono confezionate e diffuse, in questo mondo digitale siamo immigrati freschi. Ci dobbiamo 'sforzare' di applicare la mentalità digitale … dobbiamo capire che la prossima generazione, che ha accesso alle notizie, siano dai giornali o da altra fonte, hanno un diverso criterio di aspettative sul tipo di informazione da cercare, e sul come le ottengono, e da chi».
«Non s'affidano più a una figura divina di informatore; e per estendere l'immagine religiosa, non vogliono più le notizie presentate come vangelo. Anzi, vogliono le notizie a loro richiesta. Vogliono il controllo sui loro media, non esserne controllati».
E citava i sondaggi: «I consumatori (sic) fra i 18 e i 34 anni usano sempre più il web come mezzo di comunicazione per i loro consumi. … il 44% degli interrogati hanno detto di usare un portale almeno una volta al giorno per avere informazioni giornalistiche, contro solo un 19% che compra e legge ogni giorno un quotidiano. Ancor più sinistramente, una proiezione a tre anni mostra che ad usare internet per informarsi saranno il 39%, e quelli che si aspettano di comprare di più i giornali solo l'8%».
Murdoch diamone atto, non fa la solita lagna.
Non dice che quello di internet è un giornalismo «secondario» in quanto parassistario dei MSM. Non parla di complottisti marginali.
Non fa la lezione: notizie incontrollate e «non bilanciate» o «di parte», dove «i fatti non sono separati dalle opinioni».
Non dice: giornalismo di bassa qualità.
Forse perché sa cosa pensare della qualità dei media «autorevoli»: e basta leggere un pezzo di Magdi Allam, che costa a Il Corriere 22 mila euro mensili, per capirlo.
E basta considerare che il 98% delle notizie pubblicate dai grandi media sono prese pari pari da tre agenzie internazionali, senza alcun controllo delle fonti, a scatola chiusa.
Di parte, poi, lo sono tutti, e ancor più quelli che si danno l'aria di «oggettivi».
Già da come presentano i «fatti» si intuisce che ci mettono, surrettiziamente, la «opinione» autorizzata.
Vecchi trucchi che non incantano più.

La vera differenza è più cruciale: che internet è gratis, e che non ci si guadagna: né i giornalisti, né gli editori né la pubblicità.
Così accade già, in America, che bravi giornalisti professionali lavorano per i media mainstream per lo stipendio, poi tengono i blog dove si sfogano, e rivelano per niente quello che non hanno potuto dire nella sfera della libertà vigilata.
E allora, dove è più probabile trovare le notizie di cui fidarsi?
Là dove si scrive per carriera e stipendio, o dove si scrive per sfogarsi e liberarsi la coscienza, gratis?
Ciò nuocerà a noi giornalisti come casta pagata benino (o troppo bene, Allam), ma è un ritorno - tramite il mezzo elettronico - al giornalismo delle origini.
Quello che c'era prima che i giornali e le TV diventassero veicoli servili della pubblicità (il più sporco e irresponsabile dei poteri forti); quello di cui si ha un'idea quando si vede, in certi vecchi western, il direttore di giornalini che si chiamavano «Pomona Telegraph» o «Kentuky Current» che, con la visiera e le mezze maniche, non solo li scriveva, ma li stampava da solo alla vecchia macchina piana, aiutato da ragazzini che gli portavano le notizie e poi distribuivano il fogliaccio macchiato di inchiostro grasso.
Un giornalismo pieno di impurità, gridato, platealmente di parte, soggetto a querele, diffamatorio e ricattatorio: ma svolgeva la funzione che il giornalismo MSM non svolge più.
La funzione originaria, che giustifica il giornalismo: essere il modesto ausiliario della democrazia.
Era «di parte» perché questo serve agli elettori: in ogni questione politica, sentire «l'altra parte», cosa ha da obbiettare l'altra campana, e poi decidere col voto quale «parte» favorire, dato che le scelte politiche sono tutte discutibili, ognuna ha - oltre ai pro - anche dei contro, di cui è bene essere informati.
E non disturbava questa funzione essenziale il fatto che quel giornalismo fosse «esagerato», che fosse più alla Beppe Grillo che alla Angelo Panebianco o alla Paolo Mieli.
L'esagerazione serviva a sottolineare, era il suo stile.
Così in internet.
L'irriverenza, il tono incazzato, la selezione platealmente di parte sono il suo stile: il lettore si abitua a fare la tara, è bene che sia così.
Sono i siti compassati, ufficiali, ufficiosi, della Fiat o della Presidenza del Consiglio, a suscitare il sospetto.
Il lettore è autorizzato a sospettare di noi quando diverremo così.
E il sito di Grillo, se mai diverrà così, sarà abbandonato.
Ma per intanto anche noi, nel nostro piccolo, siamo qui con le mezze maniche nere, e il portacenere pieno di cicche (nelle redazioni MSM è vietato fumare) a lavorare gratis.
E se siamo grati a Grillo e lo diciamo, non è perché lui poi ci darà una mazzetta o una inserzione pubblicitaria.
Non è una garanzia?
Stiamo lavorando anche per i bravi giornalisti che sono nei grandi media.
La rete ha dato coraggio a Dan Rather: «Qualcuno doveva pur alzarsi a dire che la democrazia non sopravvive con questa interferenza delle corporations e del governo».

fonte:Maurizio Blondet

Quando le parole uccidono



L’informazione, qualsiasi informazione, quando è confezionata all’interno di un media, è simile a un missile che parte dalla rampa di lancio. Ma l’informazione è sempre più spesso un missile senza guida. Può deviare il proprio percorso, raggiungendo obiettivi non previsti. Nessuno è realmente a conoscenza di chi lo intercetterà e degli effetti che produrrà. L’informazione ha tuttavia un grande alibi: il diritto di cronaca. Il resto sono solo effetti collaterali, come la morte di un ragazzo di 28 anni. Si chiamava Alberto Mercuriali abitava a Castrocaro Terme, località dell’Appennino forlivese, nota per le gare canore delle “Voci nuove”. Poco più di 5mila abitanti. Dove tutti conoscono tutti.
Alberto Mercuriali è un ragazzo mite, forse un po’ introverso, laureato in agronomia. Giovedì 5 luglio, i carabinieri lo notano mentre fuma uno spinello all’esterno di un bar. Addosso ha anche un piccolo quantitativo di hashish, pari a un paio di ‘canne’. Racconta di aver fatto una ragazzata. E poi è incensurato. Ma i carabinieri non si convincono e nella perquisizione a casa trovano altri 50 grammi nascosti fra le pagine di un libro dal titolo “Il regno dell’ombra”. Scatta la denuncia per detenzione di sostanze stupefacenti per fini di spaccio. Sull’operazione, sabato 7 luglio, i carabinieri fanno una conferenza stampa. Domenica 8 luglio Alberto finisce, pur senza la citazione del nome, sulle prime pagine dei giornali locali. E’ una notizia a cui nessun giornalista, in una grande città, avrebbe dedicato più di qualche riga. Ma nell’assolata calura estiva, quando c’è ben poco da raccontare, per i tre giornali a diffusione provinciale la notizia è ghiotta “imbottito di droga:insospettabile agronomo smascherato dai carabinieri…” Con tanto di maxi-foto dei due militari che mostrano il libro dove Alberto teneva i 50 grammi di hashish. Quella domenica il telefono di Alberto ha cominciato a squillare, squillare, squillare. Anche senza il nome citato sui giornali, non ci vuole molto a individuare in lui, “l’agronomo 28enne del paese”. Lunedì 8 luglio Alberto si uccide con il gas di scarico della propria auto. Oggi, a distanza di mesi, c’è un intero paese che ancora si interroga su quella morte assurda. Da un balcone sventola un lenzuolo con scritto “Stop alle notizie che uccidono”. Da un’altra finestra “Io non credo più ai giornali, in memoria di Alberto”. Gli amici non si danno pace per quella morte di “uno che non aveva un nemico e che invece è stato descritto come un narcotrafficante” ed il suo miglior amico, Raffaele annota come “Alberto teneva molto al nome della famiglia, al cognome che portava”.
Il 17 luglio viene organizzata una fiaccolata in memoria di Alberto. Vi partecipano circa 800 persone. Ma sui tre quotidiani non vi è una riga di questa forte protesta promossa dagli amici di Alberto. Il sistema della comunicazione si chiude a riccio. Non accetta di salire sul banco degli imputati anche quando un intero paese esprime fisicamente la propria protesta (se non il proprio disprezzo). Il 10 settembre viene convocata un’ affollatissima assemblea cittadina, nel salone delle Terme di Castrocaro, con il presidente dell’Ordine dei giornalisti dell’Emilia Romagna Gerardo Bombonato, il cappellano del carcere don Dario Ciani e don Andrea Gallo di Genova. Dalla rabbia si riesce - con fatica- a passare alla riflessione sul ruolo dell’informazione, all’ importanza che assume nella società moderna. E soprattutto si sottolinea la delicatezza e l’immensa responsabilità dell’informazione. Concorrenza, fretta, voglia di scoop, voglia di stupire non sono giustificazioni accettabili per i relatori, per gli amici di Alberto, per la tanta gente in sala e, sicuramente, per tutte le persone di buonsenso. Viene aperto un blog all’indirizzo http://amicidialberto.blogspot.com/. che si apre con un appello “In memoria di Alberto” sottoscritto da oltre 600 persone. L’appello inizia con la frase “Un articolo può cambiare la vita di un ragazzo. Un giornalista ha cambiato la vita di un ragazzo”.
Maledetto, bellissimo mestiere, alla ricerca quotidiana di ‘mostri da sbattere in prima pagina’, sempre forte coi deboli e debole coi forti, terribilmente incapace di leggere la fragilità degli uomini e soprattutto di chiedere “perdono”.
di Giorgio Tonelli

28 settembre 2007

Mastella: non farà la fine di Craxi, ma di M. Antonietta?


Devo ribadire che Mastella mi fa veramente pena, no ad invidia pretestuosa.
Non si rende conto che, adesso ha veramente stufato. Non è possibile che vada cercando alibi e onorabilità utilizzando la tv di mediaset per spiegare le sue ragioni. Lui, come i suoi giornalisti o il suo direttore di rete appartengono alla casta.
Come brucia sapere che qualsiasi mezzo di distrazione di massa che si usa non si è credibili. Il suo dicastero spartiacque della legalità non gli appartiene.
Non può svolgere il suo dovere d’ufficio, perché è sospetto.
Macchia con la sua natura sospetta le istituzioni.
E’ proprio questo il punto: Mastella non ha l’autorità morale per coprire il ministero della Giustizia.
Sotto di lui, quella diventa «giustizia» tra virgolette; e lui non può trasferire magistrati magari meritevoli di trasferimento.
Capite?
Il danno inflitto è molto superiore a qualunque mazzetta o tangente.
E’ per questo che le istituzioni sono corrotte.
La Casta ha consumato tutta la sua autorità morale.
Mastella, semplicemente, dovrebbe dare le dimissioni.
Come Visco, abusivista edilizio per la sua villa, e come gli altri.
Non lo faranno mai spontaneamente.
Resteranno lì a far marcire le istituzioni nostre, a succhiarci il sangue, ad accusarci di evasione mentre ci impoveriamo.
Come si fa?
Bisogna forzarli.
Per questo, bisogna anzitutto - anche come cattolici, credo - capire che il male che fanno a noi è molto peggio del male che possiamo fare a loro: distruggono i nostri figli, il loro futuro.
Bisogna tener fermo che la «legalità» corrente non ha più «legittimità», e che la legittimità va ricostituita.
E adesso, forse, c’è un’occasione per cambiare ciò che deve essere cambiato, e la dà l’indignazione collettiva.
Se la Casta ha davvero fatto sparire 98 miliardi di euro in tassazioni dovute per le slot machines, il danno che ci infligge come contribuenti, e che infligge allo Stato, è immensamente superiore ai loro emolumenti: questi disonesti incompetenti (disonesti «perché» incompetenti) hanno fatto sparire quasi tre Finanziarie, roba con cui potevano ridurre durevolmente il debito pubblico e gli interessi che paghiamo su di esso.
Ma come indignare la gente parlando di debito pubblico, di 98 miliardi di euro?
L’indignazione ha bisogno di una faccia e di un nome: e allora, dàgli a Mastella.