22 maggio 2008

Verso un mondo post-statunitense?


Su Il Sole 24Ore di ieri, 18.05.2008, troviamo una interessante recensione di un libro pubblicato negli Stati Uniti e intitolato The Post-American World; l’ autore è un importante giornalista: Fareed Zakaria, l’editor di Newsweek International. Il recensore, Francesco Daveri, scrive che a partire dall’inizio del nuovo millennio:
il mondo sta imparando a fare a meno dell’America, essenzialmente perché i Paesi emergenti stanno davvero emergendo dalla loro povertà. Questo è il grande cambiamento. Ci sono pochi dubbi che gli ultimi anni siano stati ricchi di episodi potenzialmente destabilizzanti. L’11 settembre e l’emergere della jihad islamica prima di tutto; ma anche il ritorno ad atteggiamenti ostili in politica internazionale della Russia, le aspirazioni nucleari dell’Iran e della Corea del Nord e il populismo di Chavez in Venezuela sono tutti elementi di un quadro di instabilità. Eppure l’economia mondiale è cresciuta da allora come mai negli ultimi trenta anni. Come mai in un mondo instabile la crescita va a gonfie vele ?"

In una fase in cui, come La Grassa da tempo ipotizza, il panorama geo-economico e politico internazionale si sta indirizzando - in maniera non lineare e con fasi di arresto e di crisi - verso una configurazione policentrica la lotta per ampliare le aree di influenza si manifesta come sviluppo diseguale che però complessivamente porta ad un ampliamento in “estensione” ed “intensione”

- anche se spesso con arretramenti e stagnazioni proprio nelle zone di più “antico” sviluppo capitalistico – del mercato mondiale (come massa di merci e di titoli e moneta finanziaria).

L’articolo continua, poi, con le seguenti osservazioni:
"Da un lato, i dati sulla frequenza dei conflitti e degli episodi di violenza indicano che in realtà il mondo di oggi non è certo più violento e conflittuale di quello di ieri.[…]anche la minaccia del fondamentalismo islamico alla stabilità mondiale va probabilmente ridimensionata. Il mondo islamico non è certo un tutt’uno, il che rende il potenziale scontro di civiltà una prospettiva più complicata di quanto descritto nei comunicati di al-Qaeda come una guerra tra Crociati e Jihadisti. Insomma, la tesi che l’America è al centro di un attacco da parte di un mondo diventato più anti-americano è difficile da suffragare."
In realtà non si tratta di valutare la quantità dei conflitti violenti e delle crisi politico-militari locali ma di considerare il livello qualitativo degli stessi e la dimensione conflittuale nel suo insieme che si muove su piani diversi, utilizzando strategie che possono manifestarsi attraverso consolidamenti, costruzione di alleanze, accordi sulle fonti energetiche, costituzione di coordinamenti tra forze militari di vari paesi per frenare l’espansionismo Nato, ecc. Ed è probabilmente vero che il mondo islamico è diviso e manca di omogeneità ma d’altra parte i poli che si vanno costituendo si muovono attorno ad esso come “luogo” strategico decisivo ma sono situati all’esterno della sua area geografica principale (la Russia slavo –ortodossa, la Cina confuciana, l’India brahmanica, il Brasile bolivariano-moderato). Ma proseguiamo ora nel riportare le parti più significative della recensione:

"Semplicemente, il mondo sta (forse) diventando post-americano. I sintomi sono tanti. Il grattacielo più alto del mondo è a Taipei. Presto ce ne sarà uno ancora più alto a Dubai. L’azienda con la più alta capitalizzazione di Borsa è a Pechino. La più grande raffineria del mondo è in costruzione in India. Il fondo di investimento con il più grande portafoglio titoli è ad Abu Dhabi. La più grande industria cinematografica è a Bollywood, non Hollywood. Il più grande casinò è a Macao, non a Las Vegas. La Mall of America in Minnesota (1), un tempo la più grande del mondo, ora non entra nella classifica delle prime dieci. E nelle classifiche più recenti, il più ricco uomo del mondo è messicano e solo due su dieci sono americani. E’ l’emergere del “resto del mondo”, un fenomeno che va ben al di là di Cina ed India e potrebbe arrivare a includere gli altri 191 Paesi del mondo. Una lista delle 25 multinazionali “emergenti” che si prevede domineranno i mercati nei prossimi anni ne include solo cinque da Cindia, quattro ciascuna dal Brasile, dal Messico, dalla Corea del Sud e da Taiwan, e una da Argentina, Sud Africa, Cile e Malesia"

Certo, i “sintomi” sopra riportati hanno la loro importanza ma per poter parlare di “declino americano” bisognerebbe anche rilevare se gli Stati Uniti stanno perdendo la supremazia nei settori più radicalmente innovativi (la Microsoft in campo informatico, ad esempio, continua a godere di una condizione di “quasi monopolio”). Prevale poi in questi discorsi una prospettiva fortemente economicistica, che deve essere decisamente superata; il ruolo di Russia, India e Cina nel panorama della conflittualità globale è, e sarà, sempre più determinato da strategie e sviluppi di tipo politico, culturale e “mulitare in senso lato” e la differenza rispetto agli altri numerosi paesi che godono di una condizione di crescita economica deve essere analizzata, secondo noi, proprio in questi termini .

Continuamo:
"Se ora i Paesi emergenti crescono rapidamente , è soprattutto perché hanno imparato bene la lezione sull’importanza di aprirsi al commercio internazionale e di lasciare che il capitale si muova liberamente tra Paesi, di controllare l’inflazione difendendo l’indipendenza delle Banche Centrali e delle altre ricette che fanno parte della scatola degli attrezzi che organizzazioni internazionali quali il Fondo monetario internazionale hanno a lungo pubblicizzato."

Sono costretto a questo punto a citare l’intervento di G. La Grassa, datato 18.05.2008 e inserito ieri nel blog, perché mi sembra rispondere in maniera diretta alle affermazioni che ho appena riportato:

" … in definitiva, la politica di un certo sistema socio-economico (che ancora, piaccia o meno, è un paese con un suo Stato) garantisce allo stesso una certa autonomia qualora coadiuvi e anzi imprima impulso alle potenzialità del suo insieme di grandi imprese in settori di carattere strategico (in genere, quelli delle più recenti ondate innovative). Quando gli economisti cianciano di libero mercato globale, fingendo che la vittoria nel conflitto si conquista tramite l’efficienza economica (il minimax) nel mero confronto tra strutture imprenditoriali, siamo in presenza di ideologi al servizio di gruppi economici che hanno interesse a porsi sotto l’ombrello della politica del sistema-paese preminente. Si tratta spesso di gruppi economici di una passata fase dell’industrializzazione, assistiti da uno Stato (e da apparati finanziari) che si sono ormai accoccolati negli spazi concessi dal suddetto sistema-paese predominante. Il liberismo è la loro ideologia poiché colora di virtù e di presunta efficienza la loro incapacità di svilupparsi nei settori della nuova fase di distruzione creatrice (usando la fraseologia schumpeteriana)."

Penso vi sia ben poco da aggiungere visto che appare evidente come in realtà sia stato proprio disobbedendo - dopo che per un lungo periodo molti paesi erano stati costretti ad accettare l’imposizione dei cosiddetti parametri di aggiustamento strutturale – alle ricette del FMI che alcuni sistemi-paese hanno potuto emergere fino al punto di riuscire ad acquisire delle proprie “aree di influenza”.

In maniera indiretta l’autore della recensione è costretto, comunque, ad ammettere che non è stato l’avvento e l’affermarsi della “globalizzazione” che ha prodotto questa nuova crescita in aree del pianeta prima situate nella cosiddetta “periferia”:

"…l’emergere del resto del mondo porta con sé anche alcuni problemi, il più rilevante dei quali è probabilmente l’affermarsi di sempre nuovi nazionalismi. Il successo economico di Paesi abituati per decenni alla stagnazione, se trasformato in nuove strategie politiche sull’arena internazionale, ne cambierà radicalmente le pretese. Come riportato da un giovane diplomatico cinese a Zakaria, “Quando ci rimproverate che, in Sudan, per avere accesso al petrolio, aiutiamo una dittatura, noi pensiamo che questo non sia molto differente dal vostro supporto alla monarchia medievale dell’Arabia Saudita. Vediamo l’ipocrisia delle vostre frasi, ma non diciamo niente. Per ora.” Fino a quando?

Al termine della recensione, l’autore della stessa ricorda come Zakaria, all’inizio del 2003, scommetteva ancora sulla persistenza per un lungo periodo storico del predominio, non solo militare ma anche economico, della superpotenza statunitense. Tirando le conclusioni egli ammette che questo libro si inserisce in un filone interpretativo che pure non dando per certo l’avvento di un “mondo post-americano” ha ormai compreso come la tendenza prevalente nella nostra epoca, in una prospettiva di fase medio-lunga è quella di una configurazione policentrica del panorama geopolitico ed economico mondiale.

(1) Il Mall of America (anche MOA, MoA, o MegaMall) è un centro commerciale che si trova nelle Twin Cities, in Minnesota. Il centro commerciale divenne il secondo centro commerciale più grande negli Stati Uniti quando aprì nel 1992; anche se non è mai stato il più grande del mondo (quando fu aperto era il secondo più grande a livello mondiale). Centri commerciale più grandi si possono trovare in Turchia (Cevahir Mall), Cina, India, Giappone, Canada (West Edmont Mall), Filippine (Mall of Asia, SM North EDSA, SM Megamall), e Malesia (Berjaya Times Square, Mid Valley Megamall). Comunque il Mall of America è il centro commerciale più visitato nel mondo con oltre 40 millioni di visitatori all'anno (circa 8 volte la popolazione del Minnesota).
by Mauro Tozzato

Quando il miraggio della crisi controllata svanisce…

Gli apprendisti stregoni sono condannati a ripetere gli stessi errori. Così, nel 2007, il tentativo delle autorità e dei grandi istituti finanziari di camuffare la crisi dei subprimes (1) che aveva tuttavia iniziato a colpire duramente i mercati in febbraio/marzo 2007 ha portato allo choc brutale e duraturo dall'estate 2007. Vivremo nelle le prossime settimane, il "remake" di questo scenario, con l'aggravarsi della crisi finanziaria dei mesi di gennaio e marzo 2008, fin dall'inizio dell'estate 2008. In questo numero 25 di "Global Europe Anticipation Bulletin" il nostro gruppo ha dunque scelto di analizzare cinque delle sette tendenze in corso che genereranno questo punto di flessione della crisi sistemica globale (le ultime due tendenze - Europa ed Asia - saranno analizzate nella GEAB N°26):

Settore immobiliare: il pavimento che sprofonda

Bolla finanziaria mondiale: Solo l'inflazione avanza

Economia US: La recessione si afferma

Disavanzi pubblici US: Il grande ritorno

Dollaro: Il balzo che non c’è

Europa:Disaccopiamento confermato - il cuore di Eurolandia resiste/Regno Unito in recessione

Asia: la prospettiva di un rallentamento brutale

Per questo formuliamo anche una serie completa di raccomandazioni strategiche ed operative per prepararsi allo choc dell'inizio dell'estate 2008

In questo comunicato pubblico, desideriamo spiegare come il periodo attuale di "euforia" degli attori contribuisce a peggiorare lo choc a venire. Così, nonostante le evidenze quotidiane della prosecuzione della crisi (perdite bancarie e continuazione del processo di deprezzamento degli attivi finanziari (2), moltiplicazione dei fallimenti di banche medie in particolare negli Stati Uniti (3), fragilità crescente delle grandi società d'assicurazione (4), prosecuzione del crollo dei prezzi del settore immobiliare (5), contaminazione dell'economia reale e delle economie fuori dagli Stati Uniti (6), prosecuzione della caduta della valuta US (7), rallentamento economico in Europa (8)...), le autorità finanziarie, le grandi banche ed i mass media internazionali hanno sostenuto che la crisi era sotto controllo. Impotenti nella realtà, questi "apprendisti stregoni" ormai sono ridotti ad utilizzare l' "arma psicologica" per provare a fermare la crisi. Ciò significa che la crisi sistemica globale ha giorni "luminosi" davanti a sè poiché non appartiene all'ambito virtuale dove sembrano eccellere banchieri centrali, banchieri d’affari e mass media finanziari. Naturalmente, le grandi banche hanno approfittato della "euforizzazione" attuale per provare a fare condividere ai più le perdite passate, e soprattutto quelle future, ancora più importanti (9), lanciando vaste operazioni di ricapitalizzazione (10).

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Immobilier américain : le plancher toujours plus bas - Evolution des prix de l'immobilier résidentiel dans les 20 plus grandes métropoles US 01/2000-02/2008 - Source : S&P Case-Shiller

Tuttavia, questa volta, ed a differenza dell'anno scorso, gli attori esitano di fronte all’inganno o lo accettano contro voglia. È, secondo LEAP/E2020, un elemento psicologico fondamentale, che non dipende dal virtualismo circostanziale. Al contrario accentuerà l'impatto della crisi quando il miraggio della "crisi controllata" si vaporizzerà all'inizio dell'estate 2008. Infatti, il sistema finanziario mondiale, ed in particolare il suo pilastro americano, gioca il tutto per tutto. Il gruppo di LEAP/E2020 non è certo che questo sia stato perfettamente capito. Ma, la credibilità della FED e delle grandi banche è oggi estremamente debole (non parliamo neppure delle autorità politiche). Gli operatori (che siano investitori individuali, semplici risparmiatori o fondi sovrani) sono diffidenti e si chiedono attualmente se non sono manipolati. Se, come pensano i nostri ricercatori, da qui ad alcune settimane, saranno obbligati a constatare che lo erano, e che la crisi lungi dall’essere sotto controllo riappare con una forza decuplicata, allora, assisteremo a veri momenti di panico, in particolare sui mercati finanziari. Poiché non c’è nulla di peggio nella psicologia di massa che la sensazione collettiva di essere stati scientemente fuorviati. Per prendere un'immagine semplice, ma che possono comprendere tutti coloro che sanno che le banche "mantengono" la grande massa degli investitori con la fiducia che questi concedono ad esse per gestire i loro investimenti, basta immaginare le conseguenze di un rifiuto improvviso dei risparmiatori nel continuare a lasciare alle banche la gestione del loro risparmio, e di esigere la liquidazione dei loro portafogli borsistici a profitto di investimenti meno rischiosi. Le conseguenze di una tale evoluzione sarebbero dell’ordine di un ribasso del 20% delle piazze finanziarie mondiali in pochi giorni. È quest'incubo che abita le banche centrali ed in particolare la Fed e la Banca d’Inghilterra (con le economie dei rispettivi paesi che sono strettamente legate al comportamento delle borse). Paradossalmente, è con il rifiuto di affrontare la crisi finanziaria direttamente che preparano uno choc ancora più forte. Poiché, contrariamente a ciò che pretendono (e forse anche che credono realmente), non ci sono più le basi per arrestare la caduta; o più esattamente, c'è una base che sprofonda ogni giorno di più (11). È abbastanza ironico dover constatare che quelli che affermavano in quest'ultimi anni che non c'erano più limiti, nessun tetto all’aumento dei profitti e dei vantaggi, ormai sono intrappolati in un processo in cui il terreno cade sempre più in basso, dove le perdite sono inconoscibili poiché sempre più importanti a causa del ribasso continuo del prezzo degli attivi di riferimento; e dove le sole cose che "sfondano il limite massimo" sono i costi dell'energia o dei prodotti alimentari. Ma, l'ironia non è la sola forza identificabile della storia? Ciò che è tragico, è che miliardi di persone sono intrappolate in essa, a cominciare dal miliardo di individui che pena ormai per comperare i prodotti alimentari quotidiani a causa dell'inflazione dei prezzi dei prodotti alimentari di base; o come le decine di milioni di acquirenti nel settore immobiliare di quest'ultimi anni negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Spagna... che si trovano con attivi in svalutazione costante; o come le decine di milioni di dipendenti, di imprenditori individuali o di personale di istituzioni pubbliche o semipubbliche che perderà il lavoro nei dodici mesi a venire.937207-1162120

Etat de l'opinion américaine sur la situation de l'économie US (12/2006 – 04/2008) - Source : Washington Post/ABC News

Bisognava salvare "il soldato Bear Stearns ", al prezzo di un lassismo finanziario senza precedenti? E' la domanda che si pongono oggi gli esperti finanziari. Come si possono salvare le decine di milioni di operatori economici sconosciuti che la crisi sta portando via? E' questa la domanda principale per i decisori politici, economici e finanziari a partire dall'estate 2008. Guradando al virtualismo circostanziale che sembra affermare che la manipolazione dell'informazione è il massimo del "know-how" in materia di potere, il nostro gruppo è piuttosto pessimista sulla capacità dei dirigenti mondiali di rispondere efficacemente alla seconda domanda. Ma in tutti i casi, è quella più importante poiché appartiene ancora al futuro, anche se i tempi diventano molto brevi. Nel prossimo numero del GEAB, quello dell'estate 2008, il nostro gruppo affronterà in dettaglio le prospettive del secondo semestre 2008 per ogni grande regione del pianeta; così come le opzioni disponibili, per regioni e per settori e categoria di attivi.
by Leap

21 maggio 2008

Rai: pozzo senza fondo


Gli addetti ai camerini son 67, gli arredatori 66, i falegnami 61 e tra consulenti musicali e scenografi fan 70, ma i parrucchieri son già 114. Non è Leporello a fare il catalogo delle conquiste di un improbabile Don Giovanni, ma è l'Espresso di questa settimana che ha dedicato un ampio servizio all'«orgia del potere» della Rai, alla madre di tutti gli sprechi. O, più semplicemente, alla relazione messa a punto dal Comitato istruttorio per l'amministrazione di Viale Mazzini e composto in formazione bipartisan da Sandro Curzi, Marco Staderini, Nino Rizzo Nervo e Giuliano Urbani.

Quante persone suggono latte dal seno di mamma Rai? Si tratta di 13.248 unità. Come gli abitanti di Portoferraio, sull'Isola d'Elba. Per la precisione 11.250 sono i dipendenti a tempo indeterminato del gruppo Rai (9.889 nella spa) e 1.998 quelli a tempo determinato. E non finisce qui: bisogna pure conteggiare circa 43mila contratti di collaborazione (come i cittadini di Rieti) e si arriva alla cifra di oltre 56mila unità. È come se tutti gli abitanti della Groenlandia o di Foligno o più che a Mantova lavorassero all'ombra del cavallo di bronzo. Ma basta guardare alle singole divisioni che i numeri, sebben più piccoli, incutono ancor più timore: la Direzione produzione Rai conta 3.851 persone, 800 in meno dell'intero gruppo Mediaset, cioè del principale concorrente che ha a libro paga 4.635 dipendenti.
«Verificare la capacità dei "capi" di governare uomini e processi produttivi», raccomandano i componenti del Comitato. Una parola. Come si fa a tagliare i rami secchi in un'azienda che, non contenta di un'orchestra sinfonica di 116 elementi, peraltro inutilizzata da anni, ne mette sotto contratto un'altra, leggera, da sedici strumentisti? Per non parlare di Bolzano e Trieste dove lavorano ben 5 annunciatori, e a Firenze addirittura un geometra.

Quando Fiat comprò l'Alfa Romeo dall'Iri si favoleggiava che ad Arese le segretarie avessero a loro volta a disposizione delle segretarie. La Rai, che sempre della famiglia Iri faceva parte, ha proseguito la tradizione: nella segreteria del consiglio di amministrazione figurano 28 elementi e 49 alla Direzione generale (compresi i distaccati verso società del gruppo). Ben 397 lavorano ai Servizi generali, 142 all'Amministrazione e 679 alle Riprese pesanti, ma deve trattarsi di una fatica di Sisifo altrimenti il numero non si giustificherebbe. Basti pensare che il Comitato istruttorio ha usato l'aggettivo: «abnorme».
Il fortunato slogan «di tutto, di più» vale anche per i giornalisti. Sono in totale 1.771. I vicedirettori sono 54, quasi cinque per ognuna delle 11 testate. Niente male, soprattutto se si pensa che realtà recenti come il canale satellitare RaiNews24 in poco più di otto anni di servizio si è espanso fino a contare 122 dipendenti dei quali 94 sono giornalisti. Peccato che la sfida con SkyTg24 non sia stata vinta. Eppure 94 giornalisti non sono pochi: sono dieci in meno del Tg5 e del Tg3. Ìmpari il confronto con Tg2 (126) e Tg1 (136).
Eppure i dati sconvolgenti sono altri come quelli che riguardano Raitalia (ex Rai International), rivolta agli italiani all'estero e diretta da Piero Badaloni: vi lavorano 152 persone in totale tra i quali 39 giornalisti assunti dei quali 22 graduati e cinque con qualifica e stipendio di vicedirettori. I generali, in questo caso, sono più dei soldati, ma è un dettaglio. «Abbassa la tua radio, per favor» cantava Rabagliati nel 1940. Alla Rai non ci pensano nemmeno: programmi, Gr e Gr Parlamento valgono 754 anime. E mercoledì scorso il direttore Antonio Caprarica ha nominato il suo ottavo «vice». Altro che abbassare il volume. D'altronde, che cosa sono 754 persone rispetto ai 1.507 addetti che lavorano per testate e centri di produzione regionali? Semplicemente la metà. Ma la Rai vanta pure un altro record: ventidue squadre di ripresa, numero che non ha pari in Europa. Eppure il 22% della produzione è affidato all'esterno.

E come se tutto questo non fosse abbastanza c'è anche il capitolo relativo ai contenziosi, spesso rappresentati da cause di lavoro: il costo medio è di 100mila euro, 150 il numero di quelle perse mediamente ogni anno che fanno ipotizzare una cifra di 15 milioni di euro devoluta tra avvocati e risarcimenti. Ma nel 2007 il gruppo Rai tutto sommato è andato bene: la perdita è stata contenuta a 5 milioni a fronte di 3 miliardi di ricavi. Al risultato ha contribuito l'aumento del canone, cioè i cittadini. Ma questa è un'altra storia.

22 maggio 2008

Verso un mondo post-statunitense?


Su Il Sole 24Ore di ieri, 18.05.2008, troviamo una interessante recensione di un libro pubblicato negli Stati Uniti e intitolato The Post-American World; l’ autore è un importante giornalista: Fareed Zakaria, l’editor di Newsweek International. Il recensore, Francesco Daveri, scrive che a partire dall’inizio del nuovo millennio:
il mondo sta imparando a fare a meno dell’America, essenzialmente perché i Paesi emergenti stanno davvero emergendo dalla loro povertà. Questo è il grande cambiamento. Ci sono pochi dubbi che gli ultimi anni siano stati ricchi di episodi potenzialmente destabilizzanti. L’11 settembre e l’emergere della jihad islamica prima di tutto; ma anche il ritorno ad atteggiamenti ostili in politica internazionale della Russia, le aspirazioni nucleari dell’Iran e della Corea del Nord e il populismo di Chavez in Venezuela sono tutti elementi di un quadro di instabilità. Eppure l’economia mondiale è cresciuta da allora come mai negli ultimi trenta anni. Come mai in un mondo instabile la crescita va a gonfie vele ?"

In una fase in cui, come La Grassa da tempo ipotizza, il panorama geo-economico e politico internazionale si sta indirizzando - in maniera non lineare e con fasi di arresto e di crisi - verso una configurazione policentrica la lotta per ampliare le aree di influenza si manifesta come sviluppo diseguale che però complessivamente porta ad un ampliamento in “estensione” ed “intensione”

- anche se spesso con arretramenti e stagnazioni proprio nelle zone di più “antico” sviluppo capitalistico – del mercato mondiale (come massa di merci e di titoli e moneta finanziaria).

L’articolo continua, poi, con le seguenti osservazioni:
"Da un lato, i dati sulla frequenza dei conflitti e degli episodi di violenza indicano che in realtà il mondo di oggi non è certo più violento e conflittuale di quello di ieri.[…]anche la minaccia del fondamentalismo islamico alla stabilità mondiale va probabilmente ridimensionata. Il mondo islamico non è certo un tutt’uno, il che rende il potenziale scontro di civiltà una prospettiva più complicata di quanto descritto nei comunicati di al-Qaeda come una guerra tra Crociati e Jihadisti. Insomma, la tesi che l’America è al centro di un attacco da parte di un mondo diventato più anti-americano è difficile da suffragare."
In realtà non si tratta di valutare la quantità dei conflitti violenti e delle crisi politico-militari locali ma di considerare il livello qualitativo degli stessi e la dimensione conflittuale nel suo insieme che si muove su piani diversi, utilizzando strategie che possono manifestarsi attraverso consolidamenti, costruzione di alleanze, accordi sulle fonti energetiche, costituzione di coordinamenti tra forze militari di vari paesi per frenare l’espansionismo Nato, ecc. Ed è probabilmente vero che il mondo islamico è diviso e manca di omogeneità ma d’altra parte i poli che si vanno costituendo si muovono attorno ad esso come “luogo” strategico decisivo ma sono situati all’esterno della sua area geografica principale (la Russia slavo –ortodossa, la Cina confuciana, l’India brahmanica, il Brasile bolivariano-moderato). Ma proseguiamo ora nel riportare le parti più significative della recensione:

"Semplicemente, il mondo sta (forse) diventando post-americano. I sintomi sono tanti. Il grattacielo più alto del mondo è a Taipei. Presto ce ne sarà uno ancora più alto a Dubai. L’azienda con la più alta capitalizzazione di Borsa è a Pechino. La più grande raffineria del mondo è in costruzione in India. Il fondo di investimento con il più grande portafoglio titoli è ad Abu Dhabi. La più grande industria cinematografica è a Bollywood, non Hollywood. Il più grande casinò è a Macao, non a Las Vegas. La Mall of America in Minnesota (1), un tempo la più grande del mondo, ora non entra nella classifica delle prime dieci. E nelle classifiche più recenti, il più ricco uomo del mondo è messicano e solo due su dieci sono americani. E’ l’emergere del “resto del mondo”, un fenomeno che va ben al di là di Cina ed India e potrebbe arrivare a includere gli altri 191 Paesi del mondo. Una lista delle 25 multinazionali “emergenti” che si prevede domineranno i mercati nei prossimi anni ne include solo cinque da Cindia, quattro ciascuna dal Brasile, dal Messico, dalla Corea del Sud e da Taiwan, e una da Argentina, Sud Africa, Cile e Malesia"

Certo, i “sintomi” sopra riportati hanno la loro importanza ma per poter parlare di “declino americano” bisognerebbe anche rilevare se gli Stati Uniti stanno perdendo la supremazia nei settori più radicalmente innovativi (la Microsoft in campo informatico, ad esempio, continua a godere di una condizione di “quasi monopolio”). Prevale poi in questi discorsi una prospettiva fortemente economicistica, che deve essere decisamente superata; il ruolo di Russia, India e Cina nel panorama della conflittualità globale è, e sarà, sempre più determinato da strategie e sviluppi di tipo politico, culturale e “mulitare in senso lato” e la differenza rispetto agli altri numerosi paesi che godono di una condizione di crescita economica deve essere analizzata, secondo noi, proprio in questi termini .

Continuamo:
"Se ora i Paesi emergenti crescono rapidamente , è soprattutto perché hanno imparato bene la lezione sull’importanza di aprirsi al commercio internazionale e di lasciare che il capitale si muova liberamente tra Paesi, di controllare l’inflazione difendendo l’indipendenza delle Banche Centrali e delle altre ricette che fanno parte della scatola degli attrezzi che organizzazioni internazionali quali il Fondo monetario internazionale hanno a lungo pubblicizzato."

Sono costretto a questo punto a citare l’intervento di G. La Grassa, datato 18.05.2008 e inserito ieri nel blog, perché mi sembra rispondere in maniera diretta alle affermazioni che ho appena riportato:

" … in definitiva, la politica di un certo sistema socio-economico (che ancora, piaccia o meno, è un paese con un suo Stato) garantisce allo stesso una certa autonomia qualora coadiuvi e anzi imprima impulso alle potenzialità del suo insieme di grandi imprese in settori di carattere strategico (in genere, quelli delle più recenti ondate innovative). Quando gli economisti cianciano di libero mercato globale, fingendo che la vittoria nel conflitto si conquista tramite l’efficienza economica (il minimax) nel mero confronto tra strutture imprenditoriali, siamo in presenza di ideologi al servizio di gruppi economici che hanno interesse a porsi sotto l’ombrello della politica del sistema-paese preminente. Si tratta spesso di gruppi economici di una passata fase dell’industrializzazione, assistiti da uno Stato (e da apparati finanziari) che si sono ormai accoccolati negli spazi concessi dal suddetto sistema-paese predominante. Il liberismo è la loro ideologia poiché colora di virtù e di presunta efficienza la loro incapacità di svilupparsi nei settori della nuova fase di distruzione creatrice (usando la fraseologia schumpeteriana)."

Penso vi sia ben poco da aggiungere visto che appare evidente come in realtà sia stato proprio disobbedendo - dopo che per un lungo periodo molti paesi erano stati costretti ad accettare l’imposizione dei cosiddetti parametri di aggiustamento strutturale – alle ricette del FMI che alcuni sistemi-paese hanno potuto emergere fino al punto di riuscire ad acquisire delle proprie “aree di influenza”.

In maniera indiretta l’autore della recensione è costretto, comunque, ad ammettere che non è stato l’avvento e l’affermarsi della “globalizzazione” che ha prodotto questa nuova crescita in aree del pianeta prima situate nella cosiddetta “periferia”:

"…l’emergere del resto del mondo porta con sé anche alcuni problemi, il più rilevante dei quali è probabilmente l’affermarsi di sempre nuovi nazionalismi. Il successo economico di Paesi abituati per decenni alla stagnazione, se trasformato in nuove strategie politiche sull’arena internazionale, ne cambierà radicalmente le pretese. Come riportato da un giovane diplomatico cinese a Zakaria, “Quando ci rimproverate che, in Sudan, per avere accesso al petrolio, aiutiamo una dittatura, noi pensiamo che questo non sia molto differente dal vostro supporto alla monarchia medievale dell’Arabia Saudita. Vediamo l’ipocrisia delle vostre frasi, ma non diciamo niente. Per ora.” Fino a quando?

Al termine della recensione, l’autore della stessa ricorda come Zakaria, all’inizio del 2003, scommetteva ancora sulla persistenza per un lungo periodo storico del predominio, non solo militare ma anche economico, della superpotenza statunitense. Tirando le conclusioni egli ammette che questo libro si inserisce in un filone interpretativo che pure non dando per certo l’avvento di un “mondo post-americano” ha ormai compreso come la tendenza prevalente nella nostra epoca, in una prospettiva di fase medio-lunga è quella di una configurazione policentrica del panorama geopolitico ed economico mondiale.

(1) Il Mall of America (anche MOA, MoA, o MegaMall) è un centro commerciale che si trova nelle Twin Cities, in Minnesota. Il centro commerciale divenne il secondo centro commerciale più grande negli Stati Uniti quando aprì nel 1992; anche se non è mai stato il più grande del mondo (quando fu aperto era il secondo più grande a livello mondiale). Centri commerciale più grandi si possono trovare in Turchia (Cevahir Mall), Cina, India, Giappone, Canada (West Edmont Mall), Filippine (Mall of Asia, SM North EDSA, SM Megamall), e Malesia (Berjaya Times Square, Mid Valley Megamall). Comunque il Mall of America è il centro commerciale più visitato nel mondo con oltre 40 millioni di visitatori all'anno (circa 8 volte la popolazione del Minnesota).
by Mauro Tozzato

Quando il miraggio della crisi controllata svanisce…

Gli apprendisti stregoni sono condannati a ripetere gli stessi errori. Così, nel 2007, il tentativo delle autorità e dei grandi istituti finanziari di camuffare la crisi dei subprimes (1) che aveva tuttavia iniziato a colpire duramente i mercati in febbraio/marzo 2007 ha portato allo choc brutale e duraturo dall'estate 2007. Vivremo nelle le prossime settimane, il "remake" di questo scenario, con l'aggravarsi della crisi finanziaria dei mesi di gennaio e marzo 2008, fin dall'inizio dell'estate 2008. In questo numero 25 di "Global Europe Anticipation Bulletin" il nostro gruppo ha dunque scelto di analizzare cinque delle sette tendenze in corso che genereranno questo punto di flessione della crisi sistemica globale (le ultime due tendenze - Europa ed Asia - saranno analizzate nella GEAB N°26):

Settore immobiliare: il pavimento che sprofonda

Bolla finanziaria mondiale: Solo l'inflazione avanza

Economia US: La recessione si afferma

Disavanzi pubblici US: Il grande ritorno

Dollaro: Il balzo che non c’è

Europa:Disaccopiamento confermato - il cuore di Eurolandia resiste/Regno Unito in recessione

Asia: la prospettiva di un rallentamento brutale

Per questo formuliamo anche una serie completa di raccomandazioni strategiche ed operative per prepararsi allo choc dell'inizio dell'estate 2008

In questo comunicato pubblico, desideriamo spiegare come il periodo attuale di "euforia" degli attori contribuisce a peggiorare lo choc a venire. Così, nonostante le evidenze quotidiane della prosecuzione della crisi (perdite bancarie e continuazione del processo di deprezzamento degli attivi finanziari (2), moltiplicazione dei fallimenti di banche medie in particolare negli Stati Uniti (3), fragilità crescente delle grandi società d'assicurazione (4), prosecuzione del crollo dei prezzi del settore immobiliare (5), contaminazione dell'economia reale e delle economie fuori dagli Stati Uniti (6), prosecuzione della caduta della valuta US (7), rallentamento economico in Europa (8)...), le autorità finanziarie, le grandi banche ed i mass media internazionali hanno sostenuto che la crisi era sotto controllo. Impotenti nella realtà, questi "apprendisti stregoni" ormai sono ridotti ad utilizzare l' "arma psicologica" per provare a fermare la crisi. Ciò significa che la crisi sistemica globale ha giorni "luminosi" davanti a sè poiché non appartiene all'ambito virtuale dove sembrano eccellere banchieri centrali, banchieri d’affari e mass media finanziari. Naturalmente, le grandi banche hanno approfittato della "euforizzazione" attuale per provare a fare condividere ai più le perdite passate, e soprattutto quelle future, ancora più importanti (9), lanciando vaste operazioni di ricapitalizzazione (10).

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Immobilier américain : le plancher toujours plus bas - Evolution des prix de l'immobilier résidentiel dans les 20 plus grandes métropoles US 01/2000-02/2008 - Source : S&P Case-Shiller

Tuttavia, questa volta, ed a differenza dell'anno scorso, gli attori esitano di fronte all’inganno o lo accettano contro voglia. È, secondo LEAP/E2020, un elemento psicologico fondamentale, che non dipende dal virtualismo circostanziale. Al contrario accentuerà l'impatto della crisi quando il miraggio della "crisi controllata" si vaporizzerà all'inizio dell'estate 2008. Infatti, il sistema finanziario mondiale, ed in particolare il suo pilastro americano, gioca il tutto per tutto. Il gruppo di LEAP/E2020 non è certo che questo sia stato perfettamente capito. Ma, la credibilità della FED e delle grandi banche è oggi estremamente debole (non parliamo neppure delle autorità politiche). Gli operatori (che siano investitori individuali, semplici risparmiatori o fondi sovrani) sono diffidenti e si chiedono attualmente se non sono manipolati. Se, come pensano i nostri ricercatori, da qui ad alcune settimane, saranno obbligati a constatare che lo erano, e che la crisi lungi dall’essere sotto controllo riappare con una forza decuplicata, allora, assisteremo a veri momenti di panico, in particolare sui mercati finanziari. Poiché non c’è nulla di peggio nella psicologia di massa che la sensazione collettiva di essere stati scientemente fuorviati. Per prendere un'immagine semplice, ma che possono comprendere tutti coloro che sanno che le banche "mantengono" la grande massa degli investitori con la fiducia che questi concedono ad esse per gestire i loro investimenti, basta immaginare le conseguenze di un rifiuto improvviso dei risparmiatori nel continuare a lasciare alle banche la gestione del loro risparmio, e di esigere la liquidazione dei loro portafogli borsistici a profitto di investimenti meno rischiosi. Le conseguenze di una tale evoluzione sarebbero dell’ordine di un ribasso del 20% delle piazze finanziarie mondiali in pochi giorni. È quest'incubo che abita le banche centrali ed in particolare la Fed e la Banca d’Inghilterra (con le economie dei rispettivi paesi che sono strettamente legate al comportamento delle borse). Paradossalmente, è con il rifiuto di affrontare la crisi finanziaria direttamente che preparano uno choc ancora più forte. Poiché, contrariamente a ciò che pretendono (e forse anche che credono realmente), non ci sono più le basi per arrestare la caduta; o più esattamente, c'è una base che sprofonda ogni giorno di più (11). È abbastanza ironico dover constatare che quelli che affermavano in quest'ultimi anni che non c'erano più limiti, nessun tetto all’aumento dei profitti e dei vantaggi, ormai sono intrappolati in un processo in cui il terreno cade sempre più in basso, dove le perdite sono inconoscibili poiché sempre più importanti a causa del ribasso continuo del prezzo degli attivi di riferimento; e dove le sole cose che "sfondano il limite massimo" sono i costi dell'energia o dei prodotti alimentari. Ma, l'ironia non è la sola forza identificabile della storia? Ciò che è tragico, è che miliardi di persone sono intrappolate in essa, a cominciare dal miliardo di individui che pena ormai per comperare i prodotti alimentari quotidiani a causa dell'inflazione dei prezzi dei prodotti alimentari di base; o come le decine di milioni di acquirenti nel settore immobiliare di quest'ultimi anni negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Spagna... che si trovano con attivi in svalutazione costante; o come le decine di milioni di dipendenti, di imprenditori individuali o di personale di istituzioni pubbliche o semipubbliche che perderà il lavoro nei dodici mesi a venire.937207-1162120

Etat de l'opinion américaine sur la situation de l'économie US (12/2006 – 04/2008) - Source : Washington Post/ABC News

Bisognava salvare "il soldato Bear Stearns ", al prezzo di un lassismo finanziario senza precedenti? E' la domanda che si pongono oggi gli esperti finanziari. Come si possono salvare le decine di milioni di operatori economici sconosciuti che la crisi sta portando via? E' questa la domanda principale per i decisori politici, economici e finanziari a partire dall'estate 2008. Guradando al virtualismo circostanziale che sembra affermare che la manipolazione dell'informazione è il massimo del "know-how" in materia di potere, il nostro gruppo è piuttosto pessimista sulla capacità dei dirigenti mondiali di rispondere efficacemente alla seconda domanda. Ma in tutti i casi, è quella più importante poiché appartiene ancora al futuro, anche se i tempi diventano molto brevi. Nel prossimo numero del GEAB, quello dell'estate 2008, il nostro gruppo affronterà in dettaglio le prospettive del secondo semestre 2008 per ogni grande regione del pianeta; così come le opzioni disponibili, per regioni e per settori e categoria di attivi.
by Leap

21 maggio 2008

Rai: pozzo senza fondo


Gli addetti ai camerini son 67, gli arredatori 66, i falegnami 61 e tra consulenti musicali e scenografi fan 70, ma i parrucchieri son già 114. Non è Leporello a fare il catalogo delle conquiste di un improbabile Don Giovanni, ma è l'Espresso di questa settimana che ha dedicato un ampio servizio all'«orgia del potere» della Rai, alla madre di tutti gli sprechi. O, più semplicemente, alla relazione messa a punto dal Comitato istruttorio per l'amministrazione di Viale Mazzini e composto in formazione bipartisan da Sandro Curzi, Marco Staderini, Nino Rizzo Nervo e Giuliano Urbani.

Quante persone suggono latte dal seno di mamma Rai? Si tratta di 13.248 unità. Come gli abitanti di Portoferraio, sull'Isola d'Elba. Per la precisione 11.250 sono i dipendenti a tempo indeterminato del gruppo Rai (9.889 nella spa) e 1.998 quelli a tempo determinato. E non finisce qui: bisogna pure conteggiare circa 43mila contratti di collaborazione (come i cittadini di Rieti) e si arriva alla cifra di oltre 56mila unità. È come se tutti gli abitanti della Groenlandia o di Foligno o più che a Mantova lavorassero all'ombra del cavallo di bronzo. Ma basta guardare alle singole divisioni che i numeri, sebben più piccoli, incutono ancor più timore: la Direzione produzione Rai conta 3.851 persone, 800 in meno dell'intero gruppo Mediaset, cioè del principale concorrente che ha a libro paga 4.635 dipendenti.
«Verificare la capacità dei "capi" di governare uomini e processi produttivi», raccomandano i componenti del Comitato. Una parola. Come si fa a tagliare i rami secchi in un'azienda che, non contenta di un'orchestra sinfonica di 116 elementi, peraltro inutilizzata da anni, ne mette sotto contratto un'altra, leggera, da sedici strumentisti? Per non parlare di Bolzano e Trieste dove lavorano ben 5 annunciatori, e a Firenze addirittura un geometra.

Quando Fiat comprò l'Alfa Romeo dall'Iri si favoleggiava che ad Arese le segretarie avessero a loro volta a disposizione delle segretarie. La Rai, che sempre della famiglia Iri faceva parte, ha proseguito la tradizione: nella segreteria del consiglio di amministrazione figurano 28 elementi e 49 alla Direzione generale (compresi i distaccati verso società del gruppo). Ben 397 lavorano ai Servizi generali, 142 all'Amministrazione e 679 alle Riprese pesanti, ma deve trattarsi di una fatica di Sisifo altrimenti il numero non si giustificherebbe. Basti pensare che il Comitato istruttorio ha usato l'aggettivo: «abnorme».
Il fortunato slogan «di tutto, di più» vale anche per i giornalisti. Sono in totale 1.771. I vicedirettori sono 54, quasi cinque per ognuna delle 11 testate. Niente male, soprattutto se si pensa che realtà recenti come il canale satellitare RaiNews24 in poco più di otto anni di servizio si è espanso fino a contare 122 dipendenti dei quali 94 sono giornalisti. Peccato che la sfida con SkyTg24 non sia stata vinta. Eppure 94 giornalisti non sono pochi: sono dieci in meno del Tg5 e del Tg3. Ìmpari il confronto con Tg2 (126) e Tg1 (136).
Eppure i dati sconvolgenti sono altri come quelli che riguardano Raitalia (ex Rai International), rivolta agli italiani all'estero e diretta da Piero Badaloni: vi lavorano 152 persone in totale tra i quali 39 giornalisti assunti dei quali 22 graduati e cinque con qualifica e stipendio di vicedirettori. I generali, in questo caso, sono più dei soldati, ma è un dettaglio. «Abbassa la tua radio, per favor» cantava Rabagliati nel 1940. Alla Rai non ci pensano nemmeno: programmi, Gr e Gr Parlamento valgono 754 anime. E mercoledì scorso il direttore Antonio Caprarica ha nominato il suo ottavo «vice». Altro che abbassare il volume. D'altronde, che cosa sono 754 persone rispetto ai 1.507 addetti che lavorano per testate e centri di produzione regionali? Semplicemente la metà. Ma la Rai vanta pure un altro record: ventidue squadre di ripresa, numero che non ha pari in Europa. Eppure il 22% della produzione è affidato all'esterno.

E come se tutto questo non fosse abbastanza c'è anche il capitolo relativo ai contenziosi, spesso rappresentati da cause di lavoro: il costo medio è di 100mila euro, 150 il numero di quelle perse mediamente ogni anno che fanno ipotizzare una cifra di 15 milioni di euro devoluta tra avvocati e risarcimenti. Ma nel 2007 il gruppo Rai tutto sommato è andato bene: la perdita è stata contenuta a 5 milioni a fronte di 3 miliardi di ricavi. Al risultato ha contribuito l'aumento del canone, cioè i cittadini. Ma questa è un'altra storia.