29 maggio 2008

3000 case palestinesi da confiscare e demolire



Vittime e carnefice un sottile gioco fra i buoni e i cattivi. Ma, la scelta non lo decidono i popoli, ma organi potenti che prendono ordini da Dio. Mi sembra un film comico di Jerry Calà.

Attualmente ci sono 3 mila ordini israeliani di demolizione di abitazioni palestinesi in Cisgiordania, che possono essere eseguite in via immediata e senza preavviso»: così l’ultimo rapporto dell’Ufficio ONU per gli Affari Umanitari (1). Il rapporto specifica che le case da demolire sono situate nella cosiddetta «Area C», che comprende il 60% del territorio cisgiordano, e che gli isrealiani mantengono sotto il loro controllo.

Si tratta del territorio governato, si fa per dire, dal pieghevole Abu Mazen, capo di quel che resta di Fatah; ora si vede bene che Hamas ha ragione a non piegarsi a Gaza. Chi si piega paga un prezzo più alto e crudele: gli vengono distrutte le case, in un evidente sforzo di pulizia etnica accelerata.

L’intensificazione delle distruzioni coi bulldozer è segnalata dall’ONU: nei primi tre mesi del 2008 già 124 case sono state demolite, contro le 107 dello stesso periodo del 2007. In seguito a queste demolizioni, 435 palestinesi, fra cui 135 bambini, sono ridotti alla condizione di senzatetto.

Il motivo di tanta fretta feroce è chiaro: Bush, nella sua visita celebrativa in Israele, ha liquidato il processo di pace di Annapolis che non è mai veramente cominciato; e Israele apparentemente si affretta ad annettersi territori prima che entri alla Casa Bianca un nuovo presidente, onde creare il fatto compiuto. Del resto non ha mai avuto la minima intenzione di cedere un metro di terra: nella visione giudaica, è la terra data da Dio a loro soli.

L’intelligenza di tale mossa è posta in questione da William Pfaff: «L’Autorità Palestinese, realisticamente parlando, ha cessato di esistere: non è che un agente del governo israeliano. Ma adesso il problema per Israele è come sopravvivere come uno Stato singolo religiosamente diviso, metà libero e metà non-libero» (2). In che senso?

Seguiamo il ragionamento di Pfaff: «La sistematica colonizzazione israeliana dei territori palestinesi che dura da quarant’anni, e il parimenti sistematico rifiuto alla creazione di uno Stato palestinese indipendente - che non è più una prospettiva seria, come è chiaro dopo la recente visita di Bush - hanno trasformato Israele in uno Stato arabo-ebraico sotto controllo israeliano. Già l’allora primo ministro Ariel Sharon e l’attuale, Ehud Olmert, hanno messo in guardia la loro gente da questo. E’ per questo motivo che Sharon si ritirò da Gaza. Ma senza risolvere niente, perchè l’insediamento di nuove colonie ebraiche è continuato, e continua tutt’ora. Così, Israele si trova oggi ad essere una entità politica unica e mista, con una grossa minoranza palestinese per la quale è legalmente responsabile, e che presto diverrà maggioranza (per ragioni di crescita demografica), vivendo in condizioni di semi-apartheid. La difesa di un simile Stato non può essere definito di interesse strategico per l’Occidente. Difenderlo contro che cosa? Nessun Paese arabo ha interesse ad attaccarlo. La sola minaccia è quella ipotetica dell’Iran con la sua ancor più ipotetica bomba atomica. Ma perchè l’Iran dovrebbe attaccare, visto che Israele si è disfatto da solo come ‘Stato ebraico’? Israele avrà continui e gravi problemi interni di disordine e di controllo, se Hamas ed altri gruppi agiscono come movimenti di resistenza; ma nessun altro Stato estero può farci niente, nè voler farci niente. Il movimento sionista, ostinandosi a mantenere il possesso della Palestina e della popolazione palestinese conquistata nel 1967, ha distrutto lo Stato ebraico che sognava di creare».

Pfaff dimentica però che ad Israele resta ancora un modo per restare «Stato ebraico», razzialmente puro: il ricorso al genocidio, reso possibile dal silenzio complice e servile di USA ed Europa. Può Israele decidersi per il genocidio di una popolazione inerme, sotto gli occhi del mondo? Può.

E che in certi circoli ebraici ci si stia pensando, lo dimostra un articolo delirante scritto da Yezekhiel Dror sulla rivista ebraica americana Forward. Dror non è uno qualunque: professore emerito di scienze politiche all’università ebraica di Gerusalemme, membro della Commissione Winograd che indagò sulle falle dell’offensiva ebraica in Libano nel 2006, presiede il Jewish People Policy Planning Institute, il centro della strategia israeliana a lungo termine. Quando parla di «minacce all’esistenza stessa di Israele», è proprio ai palestinesi che pensa, e alla loro demografia che minaccia la purezza esclusiva dello Stato giudaico. Che cosa dice Dror?

Ecco: «In un mondo in cui l’esistenza stessa dello Stato ebraico è lungi dall’essere assicurata a lungo termine, l’imperativo di esistere dà origine inevitabilmente a difficili domande, di cui la prima è questa: quando la sopravvivenza del popolo ebraico entra in conflitto con la morale del popolo ebraico, la sua esistenza ne vale la pena? L’esistenza fisica, tendo a rispondere, deve venire prima».

«Pericoli manifesti, sia interni che esterni, minacciano l’esistenza stessa di Israele in quanto Stato ebraico. E’ verosimile che la perdita da parte dello Stato di Israele della sua natura (razziale) ebraica avrebbe l’effetto di minare l’esistenza del popolo ebraico nel suo complesso (...) Pericoli meno evidenti, ma non meno fatali, minacciano l’esistenza a lungo termine della diaspora», proclama Dror: l’argomento è evidentemente folle, dal momento che l’ebraismo è ben sopravvissuto per duemila anni in condizione di dispersione e senza lo Stato sionista.

Ma ora il pensiero paranoico giunge all’apice storico: proprio l’esistenza dello Stato ebraico di apartheid mette in pericolo lo Stato ebraico. Persino Dror lo riconosce fra le righe, perchè dice: «Dalla minaccia di un conflitto disastroso con nemici islamici come l’Iran, fino alla necessità di mantenere la distinzione fra ‘noi’ e ‘gli altri’ per limitare l’assimilazione, l’imperativo della esistenza di Israele deve servire di guida ai decisori politici».

Ed ecco dunque le conclusioni del professore: «Un popolo che è stato regolarmente perseguitato da duemila anni è moralmente giustificato, in termini di giustizia distributiva, ad essere particolarmente spietato quando si tratta di aver cura della propria esistenza, specie in materia di diritto morale - che dico, di dovere - di uccidere ed essere ucciso, se ciò è essenziale per garantire la propria esistenza, fosse pure al prezzo di altri valori e di altre persone. Allo stesso modo, i dirigenti ebraici devono sostenere le misure durissime prese contro terroristi che, potenzialmente, mettono in pericolo degli ebrei, anche al prezzo di violazioni di diritti dell’uomo e del diritto umanitario internazionale. E se la minaccia è particolarmente grave, il ricorso ad armi di distruzione di massa da parte di Israele è giustificato quando sia necessario ad assicurare la sopravvivenza dello Stato, per quanto grande sia il numero di vittime civili innocenti. Data la situazione attuale del popolo ebraico, l’imperativo di garantire la sua esistenza è un dovere morale imperativo, che supera tutti gli altri» (3).

Così, il giurista Dror ha dato al popolo eletto la scusa morale e persino giuridica per «essere particolarmente spietato», di violare i diritti umani e il diritto internazionale, di sacrificare «altre persone» in qualsiasi quantità, anche enorme, anche con armi di distruzione di massa: basta che Israele si senta «minacciato nella sua stessa esistenza». E ciò, soggettivamente.

Perchè una mente sana, ossia non fanaticamente ebraica, potrebbe obiettare come William Pfaff che lo Stato ebraico non è minacciato che ipoteticamente, come qualunque altro Stato, dall’esterno. E semmai, è minacciato da se stesso: dal suo terrore dell’assimilazione nella comune umanità che lo obbliga a separare «noi» e «gli altri», e nello stesso tempo dalla sua ingorda pretesa di occupare terre altrui con una popolazione non ebraica.

Ma è appunto questo assurdo - la pretesa di mantenere una condizione logicamente ed esistenzialmente impossibile - che Dror sente come «minaccia all’esistenza di Israele», il che è giusto. Ma per Dror e gli ebrei come lui, la minaccia sta nei palestinesi. Non per il fatto che i palestinesi resistano con violenza all’occupazione (non certo quelli di Cisgiordania, sottomessi e controllati, privi persino di quel fantasma di capacità offensiva che sono i razzi Kassam), no; i palestinesi, anche inoffensivi, sono una minaccia all’esistenza di Israele come Stato ebraico per il puro fatto di esistere. E’ quello che i sionisti, da Jabotinski a Ben Gurion a Sharon, hanno sempre pensato; ora, con Dror, lo dicono apertamente.

I palestinesi ci minacciano nella nostra esistenza, perchè esistono. La «soluzione» viene da sè.

M. Blondet

Bush sull'Iraq ha ingannato gli Usa


Quando i vari blogger portavano avanti articoli che affermavano che la guerra in Iraq era solo un pretesto, quell'informazione non valeva nulla. Adesso che tutti lo dicono, anche il vice di Bush, allora diventa materiale per un libro, forse per un best-seller. Ma come siamo messi con l'informazione? Chi giudica Chi?

WASHINGTON (Stati Uniti) - Le motivazioni per muovere guerra all'Iraq furono un colossale inganno ordito da Karl Rove, da Dick Cheney e dalla Cia con la compiacenza - o quantomeno il silenzio - di George W. Bush e Condoleezza Rice. Ad affermarlo è Scott McClellan, ex capo ufficio stampa della Casa Bianca, un uomo che per sei anni ha vissuto all'interno di quelli che oggi chiama «meccanismo di propaganda».

LE ACCUSE - Nel libro intitolato Cosa è successo: all'interno della Casa Bianca di Bush e della cultura washingtoniana dell'inganno, McClellan non risparmia nessuno: accusa Rove, l'ex stratega di Bush, di avergli mentito sulla vicenda della fuga di notizie dalla Cia; la Rice di essere sorda alle critiche e Cheney di essere «il mago» che manovra la politica da dietro le quinte senza lasciare tracce. L'ex portavoce della Casa Bianca non arriva fino ad accusare Bush di aver volutamente mentito sulle vere ragioni per invadere l'Iraq, ma afferma che lu e il suo staff oscurarono la verità e fecero in modo che «la crisi fosse gestita così da far apparire la guerra come l'unica opzione praticabile». Quella messa in piedi dalla Casa Bianca nell'estate del 2000, aggiunge McClellan, fu una «campagna di propaganda politica» mirata a «manipolare le fonti alle quali attinge l'opinione pubblica» e a «minimizzare le reali ragioni della guerra».


IL RIMPASTO E L'ADDIO - McClellan lasciò la Casa Bianca il 19 aprile del 2006 dopo che il nuovo capo di gabinetto Joshua Bolten, avviò un radicale rimpasto di cui fece le spese anche Karl Rove. «Ammiro ancora Bush» scrive McClellan nelle 341 pagine del libro, anticipato dal Washington Post, «ma lui e i suoi consiglieri hanno confuso la propaganda con l'onestà e il candore necessari a costruire e mantenere il supporto dell'opinione pubblica in tempo di guerra. Da questo punto di vista Bush è stato terribilmente malconsigliato, specie per quanto riguarda la sicurezza nazionale».

STAFF NEL MIRINO - L'ex capo ufficio stampa ha anche accusato lo staff della Casa Bianca di aver gestito in maniera disastrosa la comunicazione durante la devastazione portata dall'uragano Katrina nel 2005. «Per tutta la prima settimana non hanno fatto altro che negare» scrive McClellan, «così uno dei più gravi disastri della storia del nostro Paese è diventato il più grave disastro della presidenza Bush».

La svolta ecologista dei Rockefeller



Neva, pronipote del mitico John D., presenta una mozione agli azionisti della Corporation

«Exxon cambi rotta sull'ambiente»

L'appuntamento è per mercoledì prossimo a Dallas, dove si terrà l'annuale assemblea degli azionisti della multinazionale petrolifera più ricca del mondo che è anche l'unica a non fingere nemmeno d'interessarsi alla crisi ecologica in corso. Anzi, com'è noto, Exxon si batte da anni con ogni mezzo, legale e illegale, per annacquare gli studi sul cambiamento climatico e tenere lontana qualunque normativa che possa imporre dei limiti alle emissioni inquinanti.

Ora però qualcosa potrebbe cambiare: con una mossa senza precedenti gli eredi del fondatore hanno organizzato una cordata per costringere l'azienda a impegnarsi contro dl'effetto serra e nelle energie rinnovabili. L'insurrezione, guidata da Neva Goodwin Rockefeller, pronipote del fondatore e stimata economista, vuole la testa dell'attuale presidente Rex Tillerton e una totale inversione di rotta: a fronte degli enormi profitti che Exxon sta intascando grazie all'aumento del prezzo del petrolio, secondo Neva la corporation deve aiutare i poveri, cercare fonti alternative di energia e tutelare l'ambiente anche - o soprattutto - per non restare tagliata fuori dal business ecologico, l'unico che sembra avere un futuro.

Quella dei Rockefeller è una saga che va avanti da un secolo e mezzo fornendo materiale per film, romanzi e perfino fumetti, come si evince dal successo di un certo John D. Rockerduck, nemico storico di Paperon De Paperoni che deve il suo nome a John D. (sta per Davison) Rockefeller mitico fondatore della Standard Oil, praticamente la madre di tutte le corporation petrolifere e non. Tanto per far capire quanto il fondatore abbia influenzato l'immaginario degli americani, basti pensare che quando Disney lanciò il nuovo personaggio la Standard Oil aveva chiuso i battenti già da cinquant'anni, e non certo perché gli affari andavano male.
Al contrario, quando la Corte Suprema degli Stati Uniti ordinò ai dirigenti di smembrare la compagnia, nel 1911, Rockefeller controllava il 64% del mercato: un monopolio decisamente illegale secondo le leggi statunitensi. Dalla Standard Oil nacquero ben 34 compagnie, alcune ancora vive e vegete come Continental Oil (ribattezzata Conoco), Standard of Indiana (poi Amoco), Standard of California (poi Chevron), Standard of New York poi Mobil) e infine Standard of New Jersey, (ribattezzata Esso e poi Exxon). Quest'ultima, certamente la più potente, nel 2007 ha realizzato profitti per 40 miliardi di dollari.
Sono decenni che i discendenti del fondatore non mettono bocca nelle decisioni del management e tengono lontane dai riflettori le loro proverbiali liti.

Ora però, sull'onda dell'impegno di Neva, le nuove leve hanno deciso di farsi sentire e accusano l'attuale gestione di ignorare la volontà degli azionisti e di non pensare minimamente al futuro del pianeta. Mercoledì a Dallas i "cugini" - come sono chiamati dalla stampa - presenteranno cinque mozioni per chiedere il totale cambiamento della politica aziendale e le sosterranno anche contro il parere del patriarca David (92 anni), ex presidente della Chase Manhattan e fiero oppositore dei capitalisti «attivisti» che considera semplicemente dei pazzi. Sul fronte opposto c'è Peter M. O'Neil, uno dei cugini, che ha irritato particolarmente gli anziani rompendo l'antica vocazione familiare all'omertà e prestandosi a fare da testimonial della fronda sui media. Una battaglia campale, dunque, che tiene l'industria e la finanza statunitensi con il fiato sospeso anche perché i Rockefeller sono sempre stati notoriamente molto litigiosi ed è già una notizia il fatto che abbiano fatto fronte comune contro quelle che considerano «la cecità e l'ingordigia della Exxon».

Per quanto la battaglia sembri impari, visto che attualmente la famiglia detiene una percentuale molto piccola di quote azionarie, i Rockefeller hanno sempre avuto grandi ambizioni. Non a caso Peter Johnson, lo storico della dinastia, sospetta che il loro obiettivo sia di riformare non solo la Exxon ma l'intera industria petrolifera. «E' gente con un impegno ambientale e sociale preciso» ha spiegato al Corriere della Sera «Mirano alla riduzione delle emissioni di gas nel mondo e al sostegno delle comunità meno abbienti». Dalla loro i cugini hanno il sostegno di un'opinione pubblica sempre più preoccupata dagli effetti del riscaldamento globale e sempre più arrabbiata per gli aumenti del prezzo del greggio, che si traducono in profitti da record per le compagnie.

Naturalmente Rex Tillerton non ha nessuna intenzione di cedere: «Siamo un'azienda petrolifera e petrolchimica e tale resteremo. Il nostro bilancio dimostra che abbiamo ragione». Le trattative con i rivoltosi - in corso dal 2004 - sono arrivate a un punto morto quando il management ha rifiutato ogni proposta di compromesso. Si è arrivati così alle quattro mozioni: tre che riguardano gli investimenti nell'energia rinnovabile - che altre aziende, come Chevron o BP, fanno massicciamente - e una quarta ben più radicale per ottenere la nomina di un presidente indipendente. Secondo Tillerton la rivoluzione dei Rockefeller è destinata a fallire «perché non hanno nemmeno l'1% delle azioni». Ma Peter O' Neill ribatte che il pacchetto azionario della dinastia è «difficile a calcolarsi perché messo in vari trust» ma è certamente superiore alla quota indicata e che comunque molti azionisti si sono schierati con i cugini proprio perché infastiditi dalla totale cecità degli attuali dirigenti sulle questioni ambientali. Secondo il Wall Street Journal, la fronda ambientalista avrebbe il consenso del 40% degli azionisti. Anche perchè, se così non fosse, difficilmente i rivoltosi sarebbero usciti allo scoperto.
di Sabina Morandi

29 maggio 2008

3000 case palestinesi da confiscare e demolire



Vittime e carnefice un sottile gioco fra i buoni e i cattivi. Ma, la scelta non lo decidono i popoli, ma organi potenti che prendono ordini da Dio. Mi sembra un film comico di Jerry Calà.

Attualmente ci sono 3 mila ordini israeliani di demolizione di abitazioni palestinesi in Cisgiordania, che possono essere eseguite in via immediata e senza preavviso»: così l’ultimo rapporto dell’Ufficio ONU per gli Affari Umanitari (1). Il rapporto specifica che le case da demolire sono situate nella cosiddetta «Area C», che comprende il 60% del territorio cisgiordano, e che gli isrealiani mantengono sotto il loro controllo.

Si tratta del territorio governato, si fa per dire, dal pieghevole Abu Mazen, capo di quel che resta di Fatah; ora si vede bene che Hamas ha ragione a non piegarsi a Gaza. Chi si piega paga un prezzo più alto e crudele: gli vengono distrutte le case, in un evidente sforzo di pulizia etnica accelerata.

L’intensificazione delle distruzioni coi bulldozer è segnalata dall’ONU: nei primi tre mesi del 2008 già 124 case sono state demolite, contro le 107 dello stesso periodo del 2007. In seguito a queste demolizioni, 435 palestinesi, fra cui 135 bambini, sono ridotti alla condizione di senzatetto.

Il motivo di tanta fretta feroce è chiaro: Bush, nella sua visita celebrativa in Israele, ha liquidato il processo di pace di Annapolis che non è mai veramente cominciato; e Israele apparentemente si affretta ad annettersi territori prima che entri alla Casa Bianca un nuovo presidente, onde creare il fatto compiuto. Del resto non ha mai avuto la minima intenzione di cedere un metro di terra: nella visione giudaica, è la terra data da Dio a loro soli.

L’intelligenza di tale mossa è posta in questione da William Pfaff: «L’Autorità Palestinese, realisticamente parlando, ha cessato di esistere: non è che un agente del governo israeliano. Ma adesso il problema per Israele è come sopravvivere come uno Stato singolo religiosamente diviso, metà libero e metà non-libero» (2). In che senso?

Seguiamo il ragionamento di Pfaff: «La sistematica colonizzazione israeliana dei territori palestinesi che dura da quarant’anni, e il parimenti sistematico rifiuto alla creazione di uno Stato palestinese indipendente - che non è più una prospettiva seria, come è chiaro dopo la recente visita di Bush - hanno trasformato Israele in uno Stato arabo-ebraico sotto controllo israeliano. Già l’allora primo ministro Ariel Sharon e l’attuale, Ehud Olmert, hanno messo in guardia la loro gente da questo. E’ per questo motivo che Sharon si ritirò da Gaza. Ma senza risolvere niente, perchè l’insediamento di nuove colonie ebraiche è continuato, e continua tutt’ora. Così, Israele si trova oggi ad essere una entità politica unica e mista, con una grossa minoranza palestinese per la quale è legalmente responsabile, e che presto diverrà maggioranza (per ragioni di crescita demografica), vivendo in condizioni di semi-apartheid. La difesa di un simile Stato non può essere definito di interesse strategico per l’Occidente. Difenderlo contro che cosa? Nessun Paese arabo ha interesse ad attaccarlo. La sola minaccia è quella ipotetica dell’Iran con la sua ancor più ipotetica bomba atomica. Ma perchè l’Iran dovrebbe attaccare, visto che Israele si è disfatto da solo come ‘Stato ebraico’? Israele avrà continui e gravi problemi interni di disordine e di controllo, se Hamas ed altri gruppi agiscono come movimenti di resistenza; ma nessun altro Stato estero può farci niente, nè voler farci niente. Il movimento sionista, ostinandosi a mantenere il possesso della Palestina e della popolazione palestinese conquistata nel 1967, ha distrutto lo Stato ebraico che sognava di creare».

Pfaff dimentica però che ad Israele resta ancora un modo per restare «Stato ebraico», razzialmente puro: il ricorso al genocidio, reso possibile dal silenzio complice e servile di USA ed Europa. Può Israele decidersi per il genocidio di una popolazione inerme, sotto gli occhi del mondo? Può.

E che in certi circoli ebraici ci si stia pensando, lo dimostra un articolo delirante scritto da Yezekhiel Dror sulla rivista ebraica americana Forward. Dror non è uno qualunque: professore emerito di scienze politiche all’università ebraica di Gerusalemme, membro della Commissione Winograd che indagò sulle falle dell’offensiva ebraica in Libano nel 2006, presiede il Jewish People Policy Planning Institute, il centro della strategia israeliana a lungo termine. Quando parla di «minacce all’esistenza stessa di Israele», è proprio ai palestinesi che pensa, e alla loro demografia che minaccia la purezza esclusiva dello Stato giudaico. Che cosa dice Dror?

Ecco: «In un mondo in cui l’esistenza stessa dello Stato ebraico è lungi dall’essere assicurata a lungo termine, l’imperativo di esistere dà origine inevitabilmente a difficili domande, di cui la prima è questa: quando la sopravvivenza del popolo ebraico entra in conflitto con la morale del popolo ebraico, la sua esistenza ne vale la pena? L’esistenza fisica, tendo a rispondere, deve venire prima».

«Pericoli manifesti, sia interni che esterni, minacciano l’esistenza stessa di Israele in quanto Stato ebraico. E’ verosimile che la perdita da parte dello Stato di Israele della sua natura (razziale) ebraica avrebbe l’effetto di minare l’esistenza del popolo ebraico nel suo complesso (...) Pericoli meno evidenti, ma non meno fatali, minacciano l’esistenza a lungo termine della diaspora», proclama Dror: l’argomento è evidentemente folle, dal momento che l’ebraismo è ben sopravvissuto per duemila anni in condizione di dispersione e senza lo Stato sionista.

Ma ora il pensiero paranoico giunge all’apice storico: proprio l’esistenza dello Stato ebraico di apartheid mette in pericolo lo Stato ebraico. Persino Dror lo riconosce fra le righe, perchè dice: «Dalla minaccia di un conflitto disastroso con nemici islamici come l’Iran, fino alla necessità di mantenere la distinzione fra ‘noi’ e ‘gli altri’ per limitare l’assimilazione, l’imperativo della esistenza di Israele deve servire di guida ai decisori politici».

Ed ecco dunque le conclusioni del professore: «Un popolo che è stato regolarmente perseguitato da duemila anni è moralmente giustificato, in termini di giustizia distributiva, ad essere particolarmente spietato quando si tratta di aver cura della propria esistenza, specie in materia di diritto morale - che dico, di dovere - di uccidere ed essere ucciso, se ciò è essenziale per garantire la propria esistenza, fosse pure al prezzo di altri valori e di altre persone. Allo stesso modo, i dirigenti ebraici devono sostenere le misure durissime prese contro terroristi che, potenzialmente, mettono in pericolo degli ebrei, anche al prezzo di violazioni di diritti dell’uomo e del diritto umanitario internazionale. E se la minaccia è particolarmente grave, il ricorso ad armi di distruzione di massa da parte di Israele è giustificato quando sia necessario ad assicurare la sopravvivenza dello Stato, per quanto grande sia il numero di vittime civili innocenti. Data la situazione attuale del popolo ebraico, l’imperativo di garantire la sua esistenza è un dovere morale imperativo, che supera tutti gli altri» (3).

Così, il giurista Dror ha dato al popolo eletto la scusa morale e persino giuridica per «essere particolarmente spietato», di violare i diritti umani e il diritto internazionale, di sacrificare «altre persone» in qualsiasi quantità, anche enorme, anche con armi di distruzione di massa: basta che Israele si senta «minacciato nella sua stessa esistenza». E ciò, soggettivamente.

Perchè una mente sana, ossia non fanaticamente ebraica, potrebbe obiettare come William Pfaff che lo Stato ebraico non è minacciato che ipoteticamente, come qualunque altro Stato, dall’esterno. E semmai, è minacciato da se stesso: dal suo terrore dell’assimilazione nella comune umanità che lo obbliga a separare «noi» e «gli altri», e nello stesso tempo dalla sua ingorda pretesa di occupare terre altrui con una popolazione non ebraica.

Ma è appunto questo assurdo - la pretesa di mantenere una condizione logicamente ed esistenzialmente impossibile - che Dror sente come «minaccia all’esistenza di Israele», il che è giusto. Ma per Dror e gli ebrei come lui, la minaccia sta nei palestinesi. Non per il fatto che i palestinesi resistano con violenza all’occupazione (non certo quelli di Cisgiordania, sottomessi e controllati, privi persino di quel fantasma di capacità offensiva che sono i razzi Kassam), no; i palestinesi, anche inoffensivi, sono una minaccia all’esistenza di Israele come Stato ebraico per il puro fatto di esistere. E’ quello che i sionisti, da Jabotinski a Ben Gurion a Sharon, hanno sempre pensato; ora, con Dror, lo dicono apertamente.

I palestinesi ci minacciano nella nostra esistenza, perchè esistono. La «soluzione» viene da sè.

M. Blondet

Bush sull'Iraq ha ingannato gli Usa


Quando i vari blogger portavano avanti articoli che affermavano che la guerra in Iraq era solo un pretesto, quell'informazione non valeva nulla. Adesso che tutti lo dicono, anche il vice di Bush, allora diventa materiale per un libro, forse per un best-seller. Ma come siamo messi con l'informazione? Chi giudica Chi?

WASHINGTON (Stati Uniti) - Le motivazioni per muovere guerra all'Iraq furono un colossale inganno ordito da Karl Rove, da Dick Cheney e dalla Cia con la compiacenza - o quantomeno il silenzio - di George W. Bush e Condoleezza Rice. Ad affermarlo è Scott McClellan, ex capo ufficio stampa della Casa Bianca, un uomo che per sei anni ha vissuto all'interno di quelli che oggi chiama «meccanismo di propaganda».

LE ACCUSE - Nel libro intitolato Cosa è successo: all'interno della Casa Bianca di Bush e della cultura washingtoniana dell'inganno, McClellan non risparmia nessuno: accusa Rove, l'ex stratega di Bush, di avergli mentito sulla vicenda della fuga di notizie dalla Cia; la Rice di essere sorda alle critiche e Cheney di essere «il mago» che manovra la politica da dietro le quinte senza lasciare tracce. L'ex portavoce della Casa Bianca non arriva fino ad accusare Bush di aver volutamente mentito sulle vere ragioni per invadere l'Iraq, ma afferma che lu e il suo staff oscurarono la verità e fecero in modo che «la crisi fosse gestita così da far apparire la guerra come l'unica opzione praticabile». Quella messa in piedi dalla Casa Bianca nell'estate del 2000, aggiunge McClellan, fu una «campagna di propaganda politica» mirata a «manipolare le fonti alle quali attinge l'opinione pubblica» e a «minimizzare le reali ragioni della guerra».


IL RIMPASTO E L'ADDIO - McClellan lasciò la Casa Bianca il 19 aprile del 2006 dopo che il nuovo capo di gabinetto Joshua Bolten, avviò un radicale rimpasto di cui fece le spese anche Karl Rove. «Ammiro ancora Bush» scrive McClellan nelle 341 pagine del libro, anticipato dal Washington Post, «ma lui e i suoi consiglieri hanno confuso la propaganda con l'onestà e il candore necessari a costruire e mantenere il supporto dell'opinione pubblica in tempo di guerra. Da questo punto di vista Bush è stato terribilmente malconsigliato, specie per quanto riguarda la sicurezza nazionale».

STAFF NEL MIRINO - L'ex capo ufficio stampa ha anche accusato lo staff della Casa Bianca di aver gestito in maniera disastrosa la comunicazione durante la devastazione portata dall'uragano Katrina nel 2005. «Per tutta la prima settimana non hanno fatto altro che negare» scrive McClellan, «così uno dei più gravi disastri della storia del nostro Paese è diventato il più grave disastro della presidenza Bush».

La svolta ecologista dei Rockefeller



Neva, pronipote del mitico John D., presenta una mozione agli azionisti della Corporation

«Exxon cambi rotta sull'ambiente»

L'appuntamento è per mercoledì prossimo a Dallas, dove si terrà l'annuale assemblea degli azionisti della multinazionale petrolifera più ricca del mondo che è anche l'unica a non fingere nemmeno d'interessarsi alla crisi ecologica in corso. Anzi, com'è noto, Exxon si batte da anni con ogni mezzo, legale e illegale, per annacquare gli studi sul cambiamento climatico e tenere lontana qualunque normativa che possa imporre dei limiti alle emissioni inquinanti.

Ora però qualcosa potrebbe cambiare: con una mossa senza precedenti gli eredi del fondatore hanno organizzato una cordata per costringere l'azienda a impegnarsi contro dl'effetto serra e nelle energie rinnovabili. L'insurrezione, guidata da Neva Goodwin Rockefeller, pronipote del fondatore e stimata economista, vuole la testa dell'attuale presidente Rex Tillerton e una totale inversione di rotta: a fronte degli enormi profitti che Exxon sta intascando grazie all'aumento del prezzo del petrolio, secondo Neva la corporation deve aiutare i poveri, cercare fonti alternative di energia e tutelare l'ambiente anche - o soprattutto - per non restare tagliata fuori dal business ecologico, l'unico che sembra avere un futuro.

Quella dei Rockefeller è una saga che va avanti da un secolo e mezzo fornendo materiale per film, romanzi e perfino fumetti, come si evince dal successo di un certo John D. Rockerduck, nemico storico di Paperon De Paperoni che deve il suo nome a John D. (sta per Davison) Rockefeller mitico fondatore della Standard Oil, praticamente la madre di tutte le corporation petrolifere e non. Tanto per far capire quanto il fondatore abbia influenzato l'immaginario degli americani, basti pensare che quando Disney lanciò il nuovo personaggio la Standard Oil aveva chiuso i battenti già da cinquant'anni, e non certo perché gli affari andavano male.
Al contrario, quando la Corte Suprema degli Stati Uniti ordinò ai dirigenti di smembrare la compagnia, nel 1911, Rockefeller controllava il 64% del mercato: un monopolio decisamente illegale secondo le leggi statunitensi. Dalla Standard Oil nacquero ben 34 compagnie, alcune ancora vive e vegete come Continental Oil (ribattezzata Conoco), Standard of Indiana (poi Amoco), Standard of California (poi Chevron), Standard of New York poi Mobil) e infine Standard of New Jersey, (ribattezzata Esso e poi Exxon). Quest'ultima, certamente la più potente, nel 2007 ha realizzato profitti per 40 miliardi di dollari.
Sono decenni che i discendenti del fondatore non mettono bocca nelle decisioni del management e tengono lontane dai riflettori le loro proverbiali liti.

Ora però, sull'onda dell'impegno di Neva, le nuove leve hanno deciso di farsi sentire e accusano l'attuale gestione di ignorare la volontà degli azionisti e di non pensare minimamente al futuro del pianeta. Mercoledì a Dallas i "cugini" - come sono chiamati dalla stampa - presenteranno cinque mozioni per chiedere il totale cambiamento della politica aziendale e le sosterranno anche contro il parere del patriarca David (92 anni), ex presidente della Chase Manhattan e fiero oppositore dei capitalisti «attivisti» che considera semplicemente dei pazzi. Sul fronte opposto c'è Peter M. O'Neil, uno dei cugini, che ha irritato particolarmente gli anziani rompendo l'antica vocazione familiare all'omertà e prestandosi a fare da testimonial della fronda sui media. Una battaglia campale, dunque, che tiene l'industria e la finanza statunitensi con il fiato sospeso anche perché i Rockefeller sono sempre stati notoriamente molto litigiosi ed è già una notizia il fatto che abbiano fatto fronte comune contro quelle che considerano «la cecità e l'ingordigia della Exxon».

Per quanto la battaglia sembri impari, visto che attualmente la famiglia detiene una percentuale molto piccola di quote azionarie, i Rockefeller hanno sempre avuto grandi ambizioni. Non a caso Peter Johnson, lo storico della dinastia, sospetta che il loro obiettivo sia di riformare non solo la Exxon ma l'intera industria petrolifera. «E' gente con un impegno ambientale e sociale preciso» ha spiegato al Corriere della Sera «Mirano alla riduzione delle emissioni di gas nel mondo e al sostegno delle comunità meno abbienti». Dalla loro i cugini hanno il sostegno di un'opinione pubblica sempre più preoccupata dagli effetti del riscaldamento globale e sempre più arrabbiata per gli aumenti del prezzo del greggio, che si traducono in profitti da record per le compagnie.

Naturalmente Rex Tillerton non ha nessuna intenzione di cedere: «Siamo un'azienda petrolifera e petrolchimica e tale resteremo. Il nostro bilancio dimostra che abbiamo ragione». Le trattative con i rivoltosi - in corso dal 2004 - sono arrivate a un punto morto quando il management ha rifiutato ogni proposta di compromesso. Si è arrivati così alle quattro mozioni: tre che riguardano gli investimenti nell'energia rinnovabile - che altre aziende, come Chevron o BP, fanno massicciamente - e una quarta ben più radicale per ottenere la nomina di un presidente indipendente. Secondo Tillerton la rivoluzione dei Rockefeller è destinata a fallire «perché non hanno nemmeno l'1% delle azioni». Ma Peter O' Neill ribatte che il pacchetto azionario della dinastia è «difficile a calcolarsi perché messo in vari trust» ma è certamente superiore alla quota indicata e che comunque molti azionisti si sono schierati con i cugini proprio perché infastiditi dalla totale cecità degli attuali dirigenti sulle questioni ambientali. Secondo il Wall Street Journal, la fronda ambientalista avrebbe il consenso del 40% degli azionisti. Anche perchè, se così non fosse, difficilmente i rivoltosi sarebbero usciti allo scoperto.
di Sabina Morandi