19 giugno 2008

Robin Tax? Per essere efficace deve puntare sulle royalties



C'era una volta Enrico Mattei che conquistò la fiducia dei paesi produttori denunciando lo sfruttamento delle Sette sorelle. Quel 15% di royalties (i diritti che si pagano sulle licenze di estrazione) che vi danno i giganti del petrolio - disse ai produttori - è un insulto. E per dimostrare che i suoi strali contro le «reminescenze imperialistiche e colonialistiche» della politica energetica, come scrisse nel '58, non erano soltanto parole, mise sul piatto ben altre percentuali e, soprattutto, un modo diverso di fare affari tanto che oggi le compagnie non riescono a imporre contratti di quel genere nemmeno in Iraq. In Venezuela, Equador e Bolivia si ridiscutono i contratti per portarli oltre la vetta del 50%: le compagnie - anche l'Eni di Mattei - piangono, minacciano ma alla fine firmano perché i margini di guadagno restano altissimi e tali resteranno, visto il progressivo esaurimento di una risorsa non rinnovabile per definizione. La cosa strana è che per sfruttare i giacimenti italiani, poca cosa se paragonati a quelli venezuelani o iracheni ma fra i primi in Europa, alle compagnie sia consentito quello che non possono pretendere nemmeno a Baghdad, di pagare cioè un miserissimo 7% allo Stato, fra altro azionista di una delle compagnie in questione, l'Eni del succitato Mattei.

L'inganno della Robin Hood tax sta tutto qui, e chi non propone di mettere mano alle royalties sulle licenze d'estrazione, sta semplicemente facendo un po' di scena. A sostenere la necessità di questa misura è Luigi De Paoli, esperto di politica energetica della Bocconi intervistato da Elena Comelli su CorriereEconomia : «E' su questo punto che il nuovo governo potrebbe andare a incidere, se volesse introdurre un sistema di profit sharing sulle rendite petrolifere. Una Robin Hood Tax, intesa come tassa sui profitti dei petrolieri, invece, mi sembra difficilmente praticabile, se non altro dal punto di vista tecnico-fiscale». Del resto un progetto di questo genere era già stato formulato alla fine del 2005 da una commissione di esperti convocata dai ministeri dell'Industria e del Tesoro, quando il primo governo Berlusconi si era trovato di fronte a una prima impennata delle quotazioni del greggio, passate in poco tempo da 40 a 70 dollari al barile. Il suggerimento di De Paoli, fatto proprio dalla commissione, fu infatti proprio quello di aumentare le royalties sui giacimenti italiani dal 7 al 25%. Poi cambiò il governo e non se ne fece niente.

Oggi, con i nuovi aumenti da record, l'applicazione di quel progetto potrebbe portare nelle casse dello Stato un gettito superiore al miliardo di euro l'anno sull'estrazione di petrolio e di quasi due miliardi per il gas. «Tre miliardi di euro non risolverebbero tutti i problemi delle fasce di popolazione meno abbienti - ammette De Paoli - ma almeno avrebbero il vantaggio di equiparare il sistema italiano a quello di altri paesi produttori, coinvolgendo tutte le compagnie petrolifere che operano sul nostro territorio, dall'Eni alla Shell o alla Total, senza urtare troppo la suscettibilità di nessuno». Insomma, una maggiorazione straordinaria dell'imposta sugli utili delle imprese andrebbe a colpire praticamente solo l'Eni, con il rischio di far crollare il titolo, e finirebbe per ridurre i dividendi anche al Tesoro che si porta a casa il 30% dei profitti come principale azionista.

Del resto è risaputo che la maggior parte dei profitti le compagnie petrolifere li ricavano su quello che si chiama l'upstream - ovvero l'esplorazione e la produzione - e molto meno dal downstream - ovvero la raffinazione e la distribuzione. Nel primo caso, con il petrolio estratto a 5-10 dollari al barile e poi rivenduto a 140 sui mercati internazionali, il profitto è enorme. Nel secondo caso invece stiamo parlando di un'attività industriale come un'altra, con margini piuttosto risicati. Colpire la raffinazione equivale ad aumentare le tasse sui carburanti, già molto alte, e certo non darebbe alcun sollievo ai consumatori. Solo aumentando le royalties sulle licenze d'estrazione - e ovviamente non consentendo alle compagnie di rifarsi sui consumatori - si può davvero cominciare a ridistribuire gli enormi introiti del settore petrolifero come stanno facendo in America Latina. Ma per imboccare questa strada c'è una condizione obbligata: risolvere il paradosso del controllore-controllato, cioè di uno Stato che è anche azionista, attraverso appunto il ministero del Tesoro. Come azionista di maggioranza lo Stato guadagna dall'impennata del greggio esattamente come, per esempio, guadagna quando la sua compagnia risparmia sull'efficienza energetica e tarda a rammodernare le proprie decrepite raffinerie. Come gestore dei soldi dei contribuenti, però, lo Stato sarà poi costretto a pagare le salatissime multe comminate da Bruxelles per non avere rispettato gli impegni di Kyoto, visto che le vecchie raffinerie inquinano parecchio. Insomma, che la (mano) destra cominci a interessarsi a cosa fa la sinistra, altrimenti è solo teatro populista.
di S. Morandi

18 giugno 2008

Il monopolio invisibile


Non è solo l’autorevole TechCrunch, che nella tecnologia americana è un punto di riferimento, ad avere dubbi sulla “Yahoogle”. Cioè l’accordo con Google, che segue alla rottura con Microsoft da parte di Yahoo!, e che lega il “primo nome di internet” a un contratto pubblicitario da 800 milioni di dollari e a una partnership vincolante per il futuro. Dubbi che dovrebbero prendere anche chi è molto lontano dalla California, da internet e dal business. Dubbi che dovebbero prendere anche il singolo utente della rete.

Cosa dice Arrington?
Cosa dice Michael Arrington, fondatore di Techcrunch? Dice: “Abbiamo sostenuto che un mercato competitivo della ricerca è importante per la salute della rete internet”. Sì, è gergale, non si capisce cosa Arrington intenda se uno non sta proprio dentro tutti i discorsi sulla rete. Il guaio delle questioni internet è che si presentano avvolte dentro questo involucro di tecnicismo, che non si scioglie certo se poi uno usa termini come “grande fratello” e “controllo totale”. E però poi del controllo del mercato della conoscenza nel mondo si tratta. Della “tua” conoscenza, dei tuoi occhi e dei tuoi processi di apprendimento, informazione, espressione. Di cose molto poco tecniche.

La posta in gioco
Perché Bill Gates voleva Yahoo? Perché nel campo della pubblicità online, che cresce a ritmi sconosciuti per gli altri media, che risentono molto più duramente del ciclo economico, sta costituendosi un polo unico e predominante: quello di Google. Su cosa è fondato questo potere? Sul fatto che la ricerca è diventata per la mente delle persone ciò che la metropolitana è per i loro corpi. Il veicolo insostituibile per portare se stessi da una attività vitale all’altra. Leggere notizie, comprare viaggi o libri, comunicare con le persone e - scusate se è poco - lavorare. Tutto ciò si fa oggi con la ricerca che conferisce all’individuo il senso di un nuovo potere, proprio e personale, contrapposto alle tradizionali agenzie della conoscenza - dai giornali alla scuola.

Lo sposamento conoscitivo.
C’è chi ha parlato di uno spostamento dei paradigmi conoscitivi, di una nuova antropologia, e non è andato lontano da ciò che sta avvenendo. Tanti anni fa, agli albori di internet, gli scettici chiedevano agli entusiasti: ma chi paga Internet? Ora la domanda ha una risposta: paga l’umanità che vi è presente, che respira l’aria della conoscenza e spende il denaro della propria attenzione. Quel “denaro” si concretizza nella pubblicità. La linfa vitale che dai giornali, dalle radio e televisioni va spostandosi verso la rete. Lì ci sono gli occhi e le teste. Questo voleva Bill Gates: partecipare, come già fa, del grande business della conoscenza e della pubblicità mettendo le sue aziende e i suoi software che studiano il consumatore al posto degli altri. Ha fallito. E capire perché serve a capire di cosa preoccuparsi.

La sensazione di invincibilità
Aggiudicarsi parte di quella torta richiede potenza tecnologica e grandi disponibilità di denaro. Le ha Microsoft? Sì, le ha. E allora perché ha perso? Ci sono le ragioni contingenti del denaro, forse, ma Arrington spiega quale danno devastante abbiano subito gli azionisti di Yahoo! col salto dell’accordo. E allora bisogna considerare questa sensazione di invincibilità che oggi Google trasmette all’intero mondo internet. La sensazione di avere insieme gli algoritmi giusti e la filosofia migliore per il mondo di domani. Il management di Yahoo! aveva poche certezze, una però sopravviveva: nel caso di “merge” con Microsoft il gigante avrebbe cominciato subito a digerirli e annullarli. Con Google tutti pensano di essere saliti sul carro del vincitore mantenendo intatta, anzi potenziata, la propria libertà.

Come la vede il signor X, l’ideologia-Google
Dal punto di vista delle persone che usano internet, il fatto che Google “attacchi” i diversi business della conoscenza è una buona notizia. Molti in internet pensano di sapere di più perché con la ricerca possono verificare che un giornalista ha scritto un’inesattezza oppure possono costruirsi il proprio menù di informazione, saltando la gerarchia conoscitiva data dai giornali. Nel senso di onnipotenza che viene sentito come proprio dagli utenti del web, c’è molta ideologia-Google.

Ed è un fatto che l’entità creata da Brin e Page non venga avvertita con quel senso di oppressione autoritaria che si riservava alla Ibm o alla Microsoft (ve lo ricordate lo spot di Apple del 1984 con il Grande Fratello che viene distrutto dal martello della ragazza liberatrice?). Ora il Grande Fratello è arrivato, è invisibile e funziona bene. Soprattutto ti dà in cambio molto, non l’illusione ma l’esercizio reale di un potere. Il Grande Fratello non solo ti ama, ma ti vuole indipendente perchè ti conosce. Che dietro di questa conoscenza ci siano alcune pratiche assai dubbie, al “cittadino della rete” non interessa nulla. E’ affare di chi il danno lo subisce. Ma si sbaglia.

Qualche esempio in forma di domanda al cittadino elettronico:
1) Il meccanismo con il quale Google vende la propria pubblicità, quella in forma di risultati di ricerca, è opaco. Nessuno sa quanti altri concorrenti ci siano in quel momento, come tutti pensano e pochi dicono: questo danneggia solo chi la pubblicità la paga o anche chi la riceve?

2) La pubblicità “profilata” (una indubitabile comodità) arriva perfino nelle mail private: è un argomento che dovrebbe turbare prima il cittadino elettronico che i dinosauri dei media. O no?

3) Se Google arriverà - e l’accordo di ieri è un passo in questo senso - a dettare regole, condizioni e prezzi della pubblicità online, questo sarà un vantaggio o uno svantaggio per il cittadino elettronico? In altre parole: ci guadagni da un monopolio?

Si potrebbe andare avanti a lungo, per esempio sulla correttezza delle pratiche di Google verso chi produce e veicola contenuto editoriale, ma non aiuterebbe e permetterebbe a chi non è d’accordo di dire che questo è solo il lamento di chi si sente minacciato. Di certo c’è che queste pratiche godono oggi di un consenso generalizzato nel popolo della rete. Contro questo nuovo conformismo c’è chi ha scelto la strada dell’apocalisse, come Andrew Keen, nel suo “The cult of amateur“, ovvero “come internet sta distruggendo la nostra industria e la cultura”. Altri, gli editori del Belgio, hanno pensato di far causa a Google per il servizio di Google News: si sentivano derubati. E’ come far causa all’energia elettrica. Non c’è un tribunale o un’autorità che possa decidere contro il Monopolio Invisibile. C’è la coscienza della gente. Che al momento manca, anzi va dalla parte sbagliata.

by Repubblica.it

Nucleare ? Scelta antieconomica e pericolosa


Il "ritorno del nucleare", con tanto di ambientalisti pentiti (pardon, con tanto di ambientalisti che hanno cambiato idea), è una sciagura quasi unicamente italiana - le maggiori potenze dell'occidente sviluppato, e non solo, hanno smesso da un pezzo di progettare e costruire nuove centrali ad uranio, e investono in altre risorse energetiche. Ecco un dato quasi del tutto trascurato dalla discussione, chiamiamola così, di queste settimane. Che anche per questo ha un taglio e un valore fortemente simbolico - culturale, nel senso lato del termine. Di questo, e delle ragioni di merito per le quali, a più di vent'anni di distanza da Chernobyl, non c'è nessuna ragione valida (scusate il voluto bisticcio linguistico), per rilanciare l'uso del nucleare, abbiamo parlato con Marcello Cini. Un intellettuale che sa di scienza, di non neutralità della scienza e di politica. Un antinuclearista non pentito, oltre che un difensore attivo della laicità.


Il No al nucleare, per quasi vent'anni, è stato largamente egemone nel Paese e nella cultura di sinistra - quantomeno nella sua componente meno "sviluppista" e meno scientista. Oggi non è più così. Come mai, secondo te, la proposta del nuovo governo di centrodestra, ottiene in fondo un consenso così largo, e molto "trasversale"?
Perché questa proposta è parte integrante dell'egemonia attuale, profonda, della destra. E' frutto del clima politico e culturale che stiamo vivendo - che stiamo cioè subendo, come ha ampiamente analizzato Bertinotti nella "giornata di studio" che la rivista "Alternative per il socialismo" ha dedicato, venerdì scorso, alle ragioni della sconfitta. La destra, questa volta,ha vinto anche perché ha "convinto": i suoi valori, i suoi paradigmi, il suo linguaggio, la sua idea di società non hanno trovato - specificamente nell'ultima campagna elettorale - una opposizione (o un'alternativa) davvero reali e convincenti. Così, il nucleare ritorna in campo, insieme al Ponte di Messina, alle Grandi Opere, a tutto ciò che allude ad un modello di sviluppo falsamente "moderno" ed efficiente, per ragioni altamente simboliche.

Più simboliche che economiche? Non c'è dunque, dietro il piano Scajola, un interesse diretto dei "poteri forti"a investire nell'energia nucleare?
Mah, a parte il fatto che il piano Scajola ancora non è davvero noto, il nucleare non è certo un settore che garantisce alti livelli di redditività o di profitto: ha costi enormi, sia di progettazione che di costruzione, oltre che di mantenimento (e di smantellamento), ha bisogno di misure di sicurezza straordinarie, ha una fonte di approvigiomento, l'uranio, che è "finita" quasi quanto il petrolio. Voglio dire che questa scelta del governo (e di parte dell'opposizione) non si spiega attraverso un "classico" paradigma di tipo economicistico (anche se poi, naturalmente, se si procederà alla costruzione di nuove centrali, i soldi, tanti soldi, circoleranno). Il fatto è che questa destra non è riducibile ad un'opzione puramente neo-liberista, "capitalistica", all'equazione libero mercatointeressi diretti di classe della borghesia: essa, quasi al contrario, tende ad attingere a piene mani nelle casse dello Stato, ovvero nelle tasche dei cittadini, inseguendo mega-progetti sostanzialmente irrazionali e improduttivi, colludendo con la componente più speculativa - mafiosa - della borghesia italiana. Da questo punto di vista, il caso del nucleare è esemplare. Ancora non è detto che esso si farà davvero - le centrali così dette di "quarta generazione", quelle che dovrebbero aver risolto tutti i problemi della sicurezza, ci saranno, se ci saranno, tra venti, venticinque anni, non prima. Ma sicuramente nel frattempo l'Enel metterà le mani sulle centrali dell'Est (a proposito, le più vecchie, le meno sicure…). Nel frattempo, verranno investite risorse pubbliche molto ingenti nella "preparazione" e negli studi, a favore di comitati, corti di tecnici, consulenti, e via dicendo. Una pioggia di laute prebende a gruppi ben determinati, che non farà fare a questo Paese alcun vero passo in avanti. Ma anche il simbolo di una scienza e di una tecnologia elitarie: nelle mani dei "pochi che sanno", contro la moltitudine che è tagliata fuori, non sa, non può controllare nulla.

Si dice che le energie alternative, le fonti rinnovabili, non sarebbero comunque in grado di risolvere il problema del fabbisogno energetico. E che dunque serve, come minimo, un mix - nucleare e solare, nucleare ed eolico. E' vero?
No che non è vero. Implicitamente o esplicitamente, il riferimento è sempre quello del modello di sviluppo che si vuole perseguire - che cosa produrre, quanto e come produrlo, quanto e come consumare. L'argomento che citavi, e che viene citato molto spesso, non è solo di tipo "contabile": in realtà, è l'indizio più chiaro della pigrizia della borghesia italiana, della sua inesistenza imprenditoriale. Non c'è oggi, in questo paese, nessun imprenditore che abbia il coraggio di investire sul serio nel campo delle energie alternative, cioè rinnovabili. Così come non c'è un politico che abbia capito la portata del problema - a differenza di quello che accade nei principali paesi d'Europa, come la Germania. E' chiaro come il sole che il solare, l'eolico e il fotovoltaico costituiscono una soluzione di valore crescente man mano che diventano l'investimento privilegiato, man mano che che nella società si afferma la centralità economico-politica e culturale delle energie rinnovabili. E che, viceversa, se si opta per una tecnologia costosissima, e di retroguardia, come il nucleare, il gatto non fa che mordersi la coda.

Riassumendo: il nucleare è, prima di tutto, una scelta miope. Succhia risorse colossali, blocca l'obiettivo vero, le energie rinnovabili, non risolve i problemi, né a lungo né a medio termine. E la sicurezza? La ragione per la quale forse ancora molte persone non si fidano di una centrale atomica?
Guarda che, secondo me, quello della "non sicurezza" è un argomento relativo (a parte il fatto che, siccome viviamo in Italia, mi sembra lecito mettere nel conto non l'"insicurezza" in sé e per sé delle centrali di Scajola, ma l'inaffidabilità dei nostri sistemi di controllo, a differenza di quelli tedeschi o francesi). E' dimostrato, cioè che le centrali nucleari possono essere ben protette e relativamente "sicure", ancorché non sia stato risolta, a tutt'oggi, la questione dello smaltimento delle scorie. La domanda è: a quale prezzo? Con quali costi? E parlo sia dal punto di vista economico che da quello della democrazia. Se una delle ragioni più frequentemente addotte a favore del nucleare, almeno qui da noi, è la necessità di risparmiare sui costi attuali, non è difficile capire che, fatti tutti i conti, sono proprio i conti a non tornare. Insomma, l'energia nucleare "sicura" è costosissima - basti vedere quanto costa chiudere una centrale, quando ha finito il suo percorso di vita. Ma la sicurezza richiesta ha anche un costo politico: militarizzata o no che sia, una centrale nucleare configura una struttura autoritaria. Diventa il simbolo di una società in cui, come già dicevo, nessuno può mettere bocca sulle grandi scelte - nessuno può prender parola, discutere, partecipare, a parte l'oligarchia di coloro che conoscono e gestiscono. In questo senso, il modello di sviluppo fondato sull'energia nucleare è davvero una revanche sul Sessantotto. La restaurazione dell'ordine che quel movimento ha combattuto, con qualche successo anche duraturo. L'idea che la società è rigidamente divisa in classi, quelle dominanti e quelle subalterne - e i diritti, quando e se ci sono, sono mere elargizioni, e il controllo sociale e di massa è obliterato. Foucault, in fondo, aveva già detto tutto. Sì, stiamo davvero andando verso un regime - per quanto "leggero" esso sia…

di Rina Gagliardi

19 giugno 2008

Robin Tax? Per essere efficace deve puntare sulle royalties



C'era una volta Enrico Mattei che conquistò la fiducia dei paesi produttori denunciando lo sfruttamento delle Sette sorelle. Quel 15% di royalties (i diritti che si pagano sulle licenze di estrazione) che vi danno i giganti del petrolio - disse ai produttori - è un insulto. E per dimostrare che i suoi strali contro le «reminescenze imperialistiche e colonialistiche» della politica energetica, come scrisse nel '58, non erano soltanto parole, mise sul piatto ben altre percentuali e, soprattutto, un modo diverso di fare affari tanto che oggi le compagnie non riescono a imporre contratti di quel genere nemmeno in Iraq. In Venezuela, Equador e Bolivia si ridiscutono i contratti per portarli oltre la vetta del 50%: le compagnie - anche l'Eni di Mattei - piangono, minacciano ma alla fine firmano perché i margini di guadagno restano altissimi e tali resteranno, visto il progressivo esaurimento di una risorsa non rinnovabile per definizione. La cosa strana è che per sfruttare i giacimenti italiani, poca cosa se paragonati a quelli venezuelani o iracheni ma fra i primi in Europa, alle compagnie sia consentito quello che non possono pretendere nemmeno a Baghdad, di pagare cioè un miserissimo 7% allo Stato, fra altro azionista di una delle compagnie in questione, l'Eni del succitato Mattei.

L'inganno della Robin Hood tax sta tutto qui, e chi non propone di mettere mano alle royalties sulle licenze d'estrazione, sta semplicemente facendo un po' di scena. A sostenere la necessità di questa misura è Luigi De Paoli, esperto di politica energetica della Bocconi intervistato da Elena Comelli su CorriereEconomia : «E' su questo punto che il nuovo governo potrebbe andare a incidere, se volesse introdurre un sistema di profit sharing sulle rendite petrolifere. Una Robin Hood Tax, intesa come tassa sui profitti dei petrolieri, invece, mi sembra difficilmente praticabile, se non altro dal punto di vista tecnico-fiscale». Del resto un progetto di questo genere era già stato formulato alla fine del 2005 da una commissione di esperti convocata dai ministeri dell'Industria e del Tesoro, quando il primo governo Berlusconi si era trovato di fronte a una prima impennata delle quotazioni del greggio, passate in poco tempo da 40 a 70 dollari al barile. Il suggerimento di De Paoli, fatto proprio dalla commissione, fu infatti proprio quello di aumentare le royalties sui giacimenti italiani dal 7 al 25%. Poi cambiò il governo e non se ne fece niente.

Oggi, con i nuovi aumenti da record, l'applicazione di quel progetto potrebbe portare nelle casse dello Stato un gettito superiore al miliardo di euro l'anno sull'estrazione di petrolio e di quasi due miliardi per il gas. «Tre miliardi di euro non risolverebbero tutti i problemi delle fasce di popolazione meno abbienti - ammette De Paoli - ma almeno avrebbero il vantaggio di equiparare il sistema italiano a quello di altri paesi produttori, coinvolgendo tutte le compagnie petrolifere che operano sul nostro territorio, dall'Eni alla Shell o alla Total, senza urtare troppo la suscettibilità di nessuno». Insomma, una maggiorazione straordinaria dell'imposta sugli utili delle imprese andrebbe a colpire praticamente solo l'Eni, con il rischio di far crollare il titolo, e finirebbe per ridurre i dividendi anche al Tesoro che si porta a casa il 30% dei profitti come principale azionista.

Del resto è risaputo che la maggior parte dei profitti le compagnie petrolifere li ricavano su quello che si chiama l'upstream - ovvero l'esplorazione e la produzione - e molto meno dal downstream - ovvero la raffinazione e la distribuzione. Nel primo caso, con il petrolio estratto a 5-10 dollari al barile e poi rivenduto a 140 sui mercati internazionali, il profitto è enorme. Nel secondo caso invece stiamo parlando di un'attività industriale come un'altra, con margini piuttosto risicati. Colpire la raffinazione equivale ad aumentare le tasse sui carburanti, già molto alte, e certo non darebbe alcun sollievo ai consumatori. Solo aumentando le royalties sulle licenze d'estrazione - e ovviamente non consentendo alle compagnie di rifarsi sui consumatori - si può davvero cominciare a ridistribuire gli enormi introiti del settore petrolifero come stanno facendo in America Latina. Ma per imboccare questa strada c'è una condizione obbligata: risolvere il paradosso del controllore-controllato, cioè di uno Stato che è anche azionista, attraverso appunto il ministero del Tesoro. Come azionista di maggioranza lo Stato guadagna dall'impennata del greggio esattamente come, per esempio, guadagna quando la sua compagnia risparmia sull'efficienza energetica e tarda a rammodernare le proprie decrepite raffinerie. Come gestore dei soldi dei contribuenti, però, lo Stato sarà poi costretto a pagare le salatissime multe comminate da Bruxelles per non avere rispettato gli impegni di Kyoto, visto che le vecchie raffinerie inquinano parecchio. Insomma, che la (mano) destra cominci a interessarsi a cosa fa la sinistra, altrimenti è solo teatro populista.
di S. Morandi

18 giugno 2008

Il monopolio invisibile


Non è solo l’autorevole TechCrunch, che nella tecnologia americana è un punto di riferimento, ad avere dubbi sulla “Yahoogle”. Cioè l’accordo con Google, che segue alla rottura con Microsoft da parte di Yahoo!, e che lega il “primo nome di internet” a un contratto pubblicitario da 800 milioni di dollari e a una partnership vincolante per il futuro. Dubbi che dovrebbero prendere anche chi è molto lontano dalla California, da internet e dal business. Dubbi che dovebbero prendere anche il singolo utente della rete.

Cosa dice Arrington?
Cosa dice Michael Arrington, fondatore di Techcrunch? Dice: “Abbiamo sostenuto che un mercato competitivo della ricerca è importante per la salute della rete internet”. Sì, è gergale, non si capisce cosa Arrington intenda se uno non sta proprio dentro tutti i discorsi sulla rete. Il guaio delle questioni internet è che si presentano avvolte dentro questo involucro di tecnicismo, che non si scioglie certo se poi uno usa termini come “grande fratello” e “controllo totale”. E però poi del controllo del mercato della conoscenza nel mondo si tratta. Della “tua” conoscenza, dei tuoi occhi e dei tuoi processi di apprendimento, informazione, espressione. Di cose molto poco tecniche.

La posta in gioco
Perché Bill Gates voleva Yahoo? Perché nel campo della pubblicità online, che cresce a ritmi sconosciuti per gli altri media, che risentono molto più duramente del ciclo economico, sta costituendosi un polo unico e predominante: quello di Google. Su cosa è fondato questo potere? Sul fatto che la ricerca è diventata per la mente delle persone ciò che la metropolitana è per i loro corpi. Il veicolo insostituibile per portare se stessi da una attività vitale all’altra. Leggere notizie, comprare viaggi o libri, comunicare con le persone e - scusate se è poco - lavorare. Tutto ciò si fa oggi con la ricerca che conferisce all’individuo il senso di un nuovo potere, proprio e personale, contrapposto alle tradizionali agenzie della conoscenza - dai giornali alla scuola.

Lo sposamento conoscitivo.
C’è chi ha parlato di uno spostamento dei paradigmi conoscitivi, di una nuova antropologia, e non è andato lontano da ciò che sta avvenendo. Tanti anni fa, agli albori di internet, gli scettici chiedevano agli entusiasti: ma chi paga Internet? Ora la domanda ha una risposta: paga l’umanità che vi è presente, che respira l’aria della conoscenza e spende il denaro della propria attenzione. Quel “denaro” si concretizza nella pubblicità. La linfa vitale che dai giornali, dalle radio e televisioni va spostandosi verso la rete. Lì ci sono gli occhi e le teste. Questo voleva Bill Gates: partecipare, come già fa, del grande business della conoscenza e della pubblicità mettendo le sue aziende e i suoi software che studiano il consumatore al posto degli altri. Ha fallito. E capire perché serve a capire di cosa preoccuparsi.

La sensazione di invincibilità
Aggiudicarsi parte di quella torta richiede potenza tecnologica e grandi disponibilità di denaro. Le ha Microsoft? Sì, le ha. E allora perché ha perso? Ci sono le ragioni contingenti del denaro, forse, ma Arrington spiega quale danno devastante abbiano subito gli azionisti di Yahoo! col salto dell’accordo. E allora bisogna considerare questa sensazione di invincibilità che oggi Google trasmette all’intero mondo internet. La sensazione di avere insieme gli algoritmi giusti e la filosofia migliore per il mondo di domani. Il management di Yahoo! aveva poche certezze, una però sopravviveva: nel caso di “merge” con Microsoft il gigante avrebbe cominciato subito a digerirli e annullarli. Con Google tutti pensano di essere saliti sul carro del vincitore mantenendo intatta, anzi potenziata, la propria libertà.

Come la vede il signor X, l’ideologia-Google
Dal punto di vista delle persone che usano internet, il fatto che Google “attacchi” i diversi business della conoscenza è una buona notizia. Molti in internet pensano di sapere di più perché con la ricerca possono verificare che un giornalista ha scritto un’inesattezza oppure possono costruirsi il proprio menù di informazione, saltando la gerarchia conoscitiva data dai giornali. Nel senso di onnipotenza che viene sentito come proprio dagli utenti del web, c’è molta ideologia-Google.

Ed è un fatto che l’entità creata da Brin e Page non venga avvertita con quel senso di oppressione autoritaria che si riservava alla Ibm o alla Microsoft (ve lo ricordate lo spot di Apple del 1984 con il Grande Fratello che viene distrutto dal martello della ragazza liberatrice?). Ora il Grande Fratello è arrivato, è invisibile e funziona bene. Soprattutto ti dà in cambio molto, non l’illusione ma l’esercizio reale di un potere. Il Grande Fratello non solo ti ama, ma ti vuole indipendente perchè ti conosce. Che dietro di questa conoscenza ci siano alcune pratiche assai dubbie, al “cittadino della rete” non interessa nulla. E’ affare di chi il danno lo subisce. Ma si sbaglia.

Qualche esempio in forma di domanda al cittadino elettronico:
1) Il meccanismo con il quale Google vende la propria pubblicità, quella in forma di risultati di ricerca, è opaco. Nessuno sa quanti altri concorrenti ci siano in quel momento, come tutti pensano e pochi dicono: questo danneggia solo chi la pubblicità la paga o anche chi la riceve?

2) La pubblicità “profilata” (una indubitabile comodità) arriva perfino nelle mail private: è un argomento che dovrebbe turbare prima il cittadino elettronico che i dinosauri dei media. O no?

3) Se Google arriverà - e l’accordo di ieri è un passo in questo senso - a dettare regole, condizioni e prezzi della pubblicità online, questo sarà un vantaggio o uno svantaggio per il cittadino elettronico? In altre parole: ci guadagni da un monopolio?

Si potrebbe andare avanti a lungo, per esempio sulla correttezza delle pratiche di Google verso chi produce e veicola contenuto editoriale, ma non aiuterebbe e permetterebbe a chi non è d’accordo di dire che questo è solo il lamento di chi si sente minacciato. Di certo c’è che queste pratiche godono oggi di un consenso generalizzato nel popolo della rete. Contro questo nuovo conformismo c’è chi ha scelto la strada dell’apocalisse, come Andrew Keen, nel suo “The cult of amateur“, ovvero “come internet sta distruggendo la nostra industria e la cultura”. Altri, gli editori del Belgio, hanno pensato di far causa a Google per il servizio di Google News: si sentivano derubati. E’ come far causa all’energia elettrica. Non c’è un tribunale o un’autorità che possa decidere contro il Monopolio Invisibile. C’è la coscienza della gente. Che al momento manca, anzi va dalla parte sbagliata.

by Repubblica.it

Nucleare ? Scelta antieconomica e pericolosa


Il "ritorno del nucleare", con tanto di ambientalisti pentiti (pardon, con tanto di ambientalisti che hanno cambiato idea), è una sciagura quasi unicamente italiana - le maggiori potenze dell'occidente sviluppato, e non solo, hanno smesso da un pezzo di progettare e costruire nuove centrali ad uranio, e investono in altre risorse energetiche. Ecco un dato quasi del tutto trascurato dalla discussione, chiamiamola così, di queste settimane. Che anche per questo ha un taglio e un valore fortemente simbolico - culturale, nel senso lato del termine. Di questo, e delle ragioni di merito per le quali, a più di vent'anni di distanza da Chernobyl, non c'è nessuna ragione valida (scusate il voluto bisticcio linguistico), per rilanciare l'uso del nucleare, abbiamo parlato con Marcello Cini. Un intellettuale che sa di scienza, di non neutralità della scienza e di politica. Un antinuclearista non pentito, oltre che un difensore attivo della laicità.


Il No al nucleare, per quasi vent'anni, è stato largamente egemone nel Paese e nella cultura di sinistra - quantomeno nella sua componente meno "sviluppista" e meno scientista. Oggi non è più così. Come mai, secondo te, la proposta del nuovo governo di centrodestra, ottiene in fondo un consenso così largo, e molto "trasversale"?
Perché questa proposta è parte integrante dell'egemonia attuale, profonda, della destra. E' frutto del clima politico e culturale che stiamo vivendo - che stiamo cioè subendo, come ha ampiamente analizzato Bertinotti nella "giornata di studio" che la rivista "Alternative per il socialismo" ha dedicato, venerdì scorso, alle ragioni della sconfitta. La destra, questa volta,ha vinto anche perché ha "convinto": i suoi valori, i suoi paradigmi, il suo linguaggio, la sua idea di società non hanno trovato - specificamente nell'ultima campagna elettorale - una opposizione (o un'alternativa) davvero reali e convincenti. Così, il nucleare ritorna in campo, insieme al Ponte di Messina, alle Grandi Opere, a tutto ciò che allude ad un modello di sviluppo falsamente "moderno" ed efficiente, per ragioni altamente simboliche.

Più simboliche che economiche? Non c'è dunque, dietro il piano Scajola, un interesse diretto dei "poteri forti"a investire nell'energia nucleare?
Mah, a parte il fatto che il piano Scajola ancora non è davvero noto, il nucleare non è certo un settore che garantisce alti livelli di redditività o di profitto: ha costi enormi, sia di progettazione che di costruzione, oltre che di mantenimento (e di smantellamento), ha bisogno di misure di sicurezza straordinarie, ha una fonte di approvigiomento, l'uranio, che è "finita" quasi quanto il petrolio. Voglio dire che questa scelta del governo (e di parte dell'opposizione) non si spiega attraverso un "classico" paradigma di tipo economicistico (anche se poi, naturalmente, se si procederà alla costruzione di nuove centrali, i soldi, tanti soldi, circoleranno). Il fatto è che questa destra non è riducibile ad un'opzione puramente neo-liberista, "capitalistica", all'equazione libero mercatointeressi diretti di classe della borghesia: essa, quasi al contrario, tende ad attingere a piene mani nelle casse dello Stato, ovvero nelle tasche dei cittadini, inseguendo mega-progetti sostanzialmente irrazionali e improduttivi, colludendo con la componente più speculativa - mafiosa - della borghesia italiana. Da questo punto di vista, il caso del nucleare è esemplare. Ancora non è detto che esso si farà davvero - le centrali così dette di "quarta generazione", quelle che dovrebbero aver risolto tutti i problemi della sicurezza, ci saranno, se ci saranno, tra venti, venticinque anni, non prima. Ma sicuramente nel frattempo l'Enel metterà le mani sulle centrali dell'Est (a proposito, le più vecchie, le meno sicure…). Nel frattempo, verranno investite risorse pubbliche molto ingenti nella "preparazione" e negli studi, a favore di comitati, corti di tecnici, consulenti, e via dicendo. Una pioggia di laute prebende a gruppi ben determinati, che non farà fare a questo Paese alcun vero passo in avanti. Ma anche il simbolo di una scienza e di una tecnologia elitarie: nelle mani dei "pochi che sanno", contro la moltitudine che è tagliata fuori, non sa, non può controllare nulla.

Si dice che le energie alternative, le fonti rinnovabili, non sarebbero comunque in grado di risolvere il problema del fabbisogno energetico. E che dunque serve, come minimo, un mix - nucleare e solare, nucleare ed eolico. E' vero?
No che non è vero. Implicitamente o esplicitamente, il riferimento è sempre quello del modello di sviluppo che si vuole perseguire - che cosa produrre, quanto e come produrlo, quanto e come consumare. L'argomento che citavi, e che viene citato molto spesso, non è solo di tipo "contabile": in realtà, è l'indizio più chiaro della pigrizia della borghesia italiana, della sua inesistenza imprenditoriale. Non c'è oggi, in questo paese, nessun imprenditore che abbia il coraggio di investire sul serio nel campo delle energie alternative, cioè rinnovabili. Così come non c'è un politico che abbia capito la portata del problema - a differenza di quello che accade nei principali paesi d'Europa, come la Germania. E' chiaro come il sole che il solare, l'eolico e il fotovoltaico costituiscono una soluzione di valore crescente man mano che diventano l'investimento privilegiato, man mano che che nella società si afferma la centralità economico-politica e culturale delle energie rinnovabili. E che, viceversa, se si opta per una tecnologia costosissima, e di retroguardia, come il nucleare, il gatto non fa che mordersi la coda.

Riassumendo: il nucleare è, prima di tutto, una scelta miope. Succhia risorse colossali, blocca l'obiettivo vero, le energie rinnovabili, non risolve i problemi, né a lungo né a medio termine. E la sicurezza? La ragione per la quale forse ancora molte persone non si fidano di una centrale atomica?
Guarda che, secondo me, quello della "non sicurezza" è un argomento relativo (a parte il fatto che, siccome viviamo in Italia, mi sembra lecito mettere nel conto non l'"insicurezza" in sé e per sé delle centrali di Scajola, ma l'inaffidabilità dei nostri sistemi di controllo, a differenza di quelli tedeschi o francesi). E' dimostrato, cioè che le centrali nucleari possono essere ben protette e relativamente "sicure", ancorché non sia stato risolta, a tutt'oggi, la questione dello smaltimento delle scorie. La domanda è: a quale prezzo? Con quali costi? E parlo sia dal punto di vista economico che da quello della democrazia. Se una delle ragioni più frequentemente addotte a favore del nucleare, almeno qui da noi, è la necessità di risparmiare sui costi attuali, non è difficile capire che, fatti tutti i conti, sono proprio i conti a non tornare. Insomma, l'energia nucleare "sicura" è costosissima - basti vedere quanto costa chiudere una centrale, quando ha finito il suo percorso di vita. Ma la sicurezza richiesta ha anche un costo politico: militarizzata o no che sia, una centrale nucleare configura una struttura autoritaria. Diventa il simbolo di una società in cui, come già dicevo, nessuno può mettere bocca sulle grandi scelte - nessuno può prender parola, discutere, partecipare, a parte l'oligarchia di coloro che conoscono e gestiscono. In questo senso, il modello di sviluppo fondato sull'energia nucleare è davvero una revanche sul Sessantotto. La restaurazione dell'ordine che quel movimento ha combattuto, con qualche successo anche duraturo. L'idea che la società è rigidamente divisa in classi, quelle dominanti e quelle subalterne - e i diritti, quando e se ci sono, sono mere elargizioni, e il controllo sociale e di massa è obliterato. Foucault, in fondo, aveva già detto tutto. Sì, stiamo davvero andando verso un regime - per quanto "leggero" esso sia…

di Rina Gagliardi