19 giugno 2008

Robin Tax? Per essere efficace deve puntare sulle royalties



C'era una volta Enrico Mattei che conquistò la fiducia dei paesi produttori denunciando lo sfruttamento delle Sette sorelle. Quel 15% di royalties (i diritti che si pagano sulle licenze di estrazione) che vi danno i giganti del petrolio - disse ai produttori - è un insulto. E per dimostrare che i suoi strali contro le «reminescenze imperialistiche e colonialistiche» della politica energetica, come scrisse nel '58, non erano soltanto parole, mise sul piatto ben altre percentuali e, soprattutto, un modo diverso di fare affari tanto che oggi le compagnie non riescono a imporre contratti di quel genere nemmeno in Iraq. In Venezuela, Equador e Bolivia si ridiscutono i contratti per portarli oltre la vetta del 50%: le compagnie - anche l'Eni di Mattei - piangono, minacciano ma alla fine firmano perché i margini di guadagno restano altissimi e tali resteranno, visto il progressivo esaurimento di una risorsa non rinnovabile per definizione. La cosa strana è che per sfruttare i giacimenti italiani, poca cosa se paragonati a quelli venezuelani o iracheni ma fra i primi in Europa, alle compagnie sia consentito quello che non possono pretendere nemmeno a Baghdad, di pagare cioè un miserissimo 7% allo Stato, fra altro azionista di una delle compagnie in questione, l'Eni del succitato Mattei.

L'inganno della Robin Hood tax sta tutto qui, e chi non propone di mettere mano alle royalties sulle licenze d'estrazione, sta semplicemente facendo un po' di scena. A sostenere la necessità di questa misura è Luigi De Paoli, esperto di politica energetica della Bocconi intervistato da Elena Comelli su CorriereEconomia : «E' su questo punto che il nuovo governo potrebbe andare a incidere, se volesse introdurre un sistema di profit sharing sulle rendite petrolifere. Una Robin Hood Tax, intesa come tassa sui profitti dei petrolieri, invece, mi sembra difficilmente praticabile, se non altro dal punto di vista tecnico-fiscale». Del resto un progetto di questo genere era già stato formulato alla fine del 2005 da una commissione di esperti convocata dai ministeri dell'Industria e del Tesoro, quando il primo governo Berlusconi si era trovato di fronte a una prima impennata delle quotazioni del greggio, passate in poco tempo da 40 a 70 dollari al barile. Il suggerimento di De Paoli, fatto proprio dalla commissione, fu infatti proprio quello di aumentare le royalties sui giacimenti italiani dal 7 al 25%. Poi cambiò il governo e non se ne fece niente.

Oggi, con i nuovi aumenti da record, l'applicazione di quel progetto potrebbe portare nelle casse dello Stato un gettito superiore al miliardo di euro l'anno sull'estrazione di petrolio e di quasi due miliardi per il gas. «Tre miliardi di euro non risolverebbero tutti i problemi delle fasce di popolazione meno abbienti - ammette De Paoli - ma almeno avrebbero il vantaggio di equiparare il sistema italiano a quello di altri paesi produttori, coinvolgendo tutte le compagnie petrolifere che operano sul nostro territorio, dall'Eni alla Shell o alla Total, senza urtare troppo la suscettibilità di nessuno». Insomma, una maggiorazione straordinaria dell'imposta sugli utili delle imprese andrebbe a colpire praticamente solo l'Eni, con il rischio di far crollare il titolo, e finirebbe per ridurre i dividendi anche al Tesoro che si porta a casa il 30% dei profitti come principale azionista.

Del resto è risaputo che la maggior parte dei profitti le compagnie petrolifere li ricavano su quello che si chiama l'upstream - ovvero l'esplorazione e la produzione - e molto meno dal downstream - ovvero la raffinazione e la distribuzione. Nel primo caso, con il petrolio estratto a 5-10 dollari al barile e poi rivenduto a 140 sui mercati internazionali, il profitto è enorme. Nel secondo caso invece stiamo parlando di un'attività industriale come un'altra, con margini piuttosto risicati. Colpire la raffinazione equivale ad aumentare le tasse sui carburanti, già molto alte, e certo non darebbe alcun sollievo ai consumatori. Solo aumentando le royalties sulle licenze d'estrazione - e ovviamente non consentendo alle compagnie di rifarsi sui consumatori - si può davvero cominciare a ridistribuire gli enormi introiti del settore petrolifero come stanno facendo in America Latina. Ma per imboccare questa strada c'è una condizione obbligata: risolvere il paradosso del controllore-controllato, cioè di uno Stato che è anche azionista, attraverso appunto il ministero del Tesoro. Come azionista di maggioranza lo Stato guadagna dall'impennata del greggio esattamente come, per esempio, guadagna quando la sua compagnia risparmia sull'efficienza energetica e tarda a rammodernare le proprie decrepite raffinerie. Come gestore dei soldi dei contribuenti, però, lo Stato sarà poi costretto a pagare le salatissime multe comminate da Bruxelles per non avere rispettato gli impegni di Kyoto, visto che le vecchie raffinerie inquinano parecchio. Insomma, che la (mano) destra cominci a interessarsi a cosa fa la sinistra, altrimenti è solo teatro populista.
di S. Morandi

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19 giugno 2008

Robin Tax? Per essere efficace deve puntare sulle royalties



C'era una volta Enrico Mattei che conquistò la fiducia dei paesi produttori denunciando lo sfruttamento delle Sette sorelle. Quel 15% di royalties (i diritti che si pagano sulle licenze di estrazione) che vi danno i giganti del petrolio - disse ai produttori - è un insulto. E per dimostrare che i suoi strali contro le «reminescenze imperialistiche e colonialistiche» della politica energetica, come scrisse nel '58, non erano soltanto parole, mise sul piatto ben altre percentuali e, soprattutto, un modo diverso di fare affari tanto che oggi le compagnie non riescono a imporre contratti di quel genere nemmeno in Iraq. In Venezuela, Equador e Bolivia si ridiscutono i contratti per portarli oltre la vetta del 50%: le compagnie - anche l'Eni di Mattei - piangono, minacciano ma alla fine firmano perché i margini di guadagno restano altissimi e tali resteranno, visto il progressivo esaurimento di una risorsa non rinnovabile per definizione. La cosa strana è che per sfruttare i giacimenti italiani, poca cosa se paragonati a quelli venezuelani o iracheni ma fra i primi in Europa, alle compagnie sia consentito quello che non possono pretendere nemmeno a Baghdad, di pagare cioè un miserissimo 7% allo Stato, fra altro azionista di una delle compagnie in questione, l'Eni del succitato Mattei.

L'inganno della Robin Hood tax sta tutto qui, e chi non propone di mettere mano alle royalties sulle licenze d'estrazione, sta semplicemente facendo un po' di scena. A sostenere la necessità di questa misura è Luigi De Paoli, esperto di politica energetica della Bocconi intervistato da Elena Comelli su CorriereEconomia : «E' su questo punto che il nuovo governo potrebbe andare a incidere, se volesse introdurre un sistema di profit sharing sulle rendite petrolifere. Una Robin Hood Tax, intesa come tassa sui profitti dei petrolieri, invece, mi sembra difficilmente praticabile, se non altro dal punto di vista tecnico-fiscale». Del resto un progetto di questo genere era già stato formulato alla fine del 2005 da una commissione di esperti convocata dai ministeri dell'Industria e del Tesoro, quando il primo governo Berlusconi si era trovato di fronte a una prima impennata delle quotazioni del greggio, passate in poco tempo da 40 a 70 dollari al barile. Il suggerimento di De Paoli, fatto proprio dalla commissione, fu infatti proprio quello di aumentare le royalties sui giacimenti italiani dal 7 al 25%. Poi cambiò il governo e non se ne fece niente.

Oggi, con i nuovi aumenti da record, l'applicazione di quel progetto potrebbe portare nelle casse dello Stato un gettito superiore al miliardo di euro l'anno sull'estrazione di petrolio e di quasi due miliardi per il gas. «Tre miliardi di euro non risolverebbero tutti i problemi delle fasce di popolazione meno abbienti - ammette De Paoli - ma almeno avrebbero il vantaggio di equiparare il sistema italiano a quello di altri paesi produttori, coinvolgendo tutte le compagnie petrolifere che operano sul nostro territorio, dall'Eni alla Shell o alla Total, senza urtare troppo la suscettibilità di nessuno». Insomma, una maggiorazione straordinaria dell'imposta sugli utili delle imprese andrebbe a colpire praticamente solo l'Eni, con il rischio di far crollare il titolo, e finirebbe per ridurre i dividendi anche al Tesoro che si porta a casa il 30% dei profitti come principale azionista.

Del resto è risaputo che la maggior parte dei profitti le compagnie petrolifere li ricavano su quello che si chiama l'upstream - ovvero l'esplorazione e la produzione - e molto meno dal downstream - ovvero la raffinazione e la distribuzione. Nel primo caso, con il petrolio estratto a 5-10 dollari al barile e poi rivenduto a 140 sui mercati internazionali, il profitto è enorme. Nel secondo caso invece stiamo parlando di un'attività industriale come un'altra, con margini piuttosto risicati. Colpire la raffinazione equivale ad aumentare le tasse sui carburanti, già molto alte, e certo non darebbe alcun sollievo ai consumatori. Solo aumentando le royalties sulle licenze d'estrazione - e ovviamente non consentendo alle compagnie di rifarsi sui consumatori - si può davvero cominciare a ridistribuire gli enormi introiti del settore petrolifero come stanno facendo in America Latina. Ma per imboccare questa strada c'è una condizione obbligata: risolvere il paradosso del controllore-controllato, cioè di uno Stato che è anche azionista, attraverso appunto il ministero del Tesoro. Come azionista di maggioranza lo Stato guadagna dall'impennata del greggio esattamente come, per esempio, guadagna quando la sua compagnia risparmia sull'efficienza energetica e tarda a rammodernare le proprie decrepite raffinerie. Come gestore dei soldi dei contribuenti, però, lo Stato sarà poi costretto a pagare le salatissime multe comminate da Bruxelles per non avere rispettato gli impegni di Kyoto, visto che le vecchie raffinerie inquinano parecchio. Insomma, che la (mano) destra cominci a interessarsi a cosa fa la sinistra, altrimenti è solo teatro populista.
di S. Morandi

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