15 febbraio 2009

Il fuoco consuma un grattacielo ma l'edificio non crolla

Fiamme gigantesche riempiono tutti i 44 piani dell'edifico, ma questo rimane su, mentre poche fiamme in solo 8 piani del WTC7 hanno fatto crollare il grattacielo in soli 7 secondi, quell'11 settembre. Come può spiegarsi ciò alla luce del "nuovo fenomeno" indicato dal NIST?

Un violento fuoco ha intaccato oggi, a Beijing, tutti i 44 piani di un grattacielo, scagliando nell'aria fiamme alte quasi dieci metri, ma diversamente dal WTC-7, di analoghe dimensioni e che subì piccoli incendi limitati a soli 8 piani, l'edificio in Cina non è crollato.

"Il fuoco bruciava dal piano terra su fino all'ultimo piano, le fiamme si riflettevano nei vetri della facciata della torre della principale Tv via cavo, vicino all'hotel ed al centro culturale," riferisce il New York Times .

" Il complesso di 241 stanze dell'Hotel Mandarin incluso nell'edificio, doveva aprire quest'anno. Le fiamme sono scoppiate verso le 7 e 45 del mattino ed in 20 minuti il fuoco aveva invaso tutto l'edificio, che domina quella parte della città."

" Centinaia di mezzi dei vigili del fuoco e della polizia hanno impedito qualsiasi accesso all'edificio - che era predisposto per ospitare un hotel di lusso di prossima apertura nel 2009 - mentre fiamme lunghe fino a 10 metri si stagliavano nell'aria," questo aggiunge il The London Times .

Paragoniamo le immagini del WTC-7 con quelle del fuoco del grattacielo di Beijing. Osservate che il grattacielo di Beijing sembra inclinato, ma ciò dipende dall'insolita architettura del suo progetto - infatti non ha patito alcun tipo di distorsione o crollo.


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WTC 7
Quale di questi due edifici apparirebbe, sia ad un osservatore razionale che ad uno schizzato, come quello con più probabilità di crollare? Eppure quello che è crollato sulle sue fondamenta, in 7 secondi, l'11 settembre, è stato il WTC-7. Il grattacielo di Beijing, benchè esposto agli attacchi del fuoco, è rimasto in piedi. E questo, gli "smascheratori" come lo spiegano? Com'è che l'"espansione termica", quel "fenomeno" appena inventato dal NIST non si applica al grattacielo di Beijing? Può il fuoco avere proprietà diverse negli USA che in Cina? Può comportarsi in modi che variano a seconda della nazione nella quale si trova?
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Ricordiamoci che il WTC7 era stato strutturalmente rinforzato ed aveva patito incendi limitati e solo su otto piani. Davanti a questi avvenimenti di Beijing, il fulcro della spiegazione del NIST - cioè che un "evento straordinario" chiamato "espansione termica" fosse la causa dell'improvviso crollo totale del WTC-7 - risulta un chiaro imbroglio soprattutto se si considera l'innumerevole quantità di edifici che hanno subito dei considerevoli incendi nella maggior parte dei loro piani e sono rimasti su, mentre il WTC-7 ha subito solo piccoli incendi in una manciata di piani.

L'incendio del grattacielo di Beijing fornisce una prova ancora più confrontabile per smascherare il monolitico imbroglio secondo il quale il fuoco da solo possa danneggiare al punto da far crollare degli edifici come se implodessero, e fornisce ancora più consistenza alle argomentazioni in base alle quali sia il WTC-7 che le torri gemelle siano state distrutte con esplosioni che sono state viste ed udite da dozzine di testimoni che si trovavano a "ground zero" [ che in italiano andrebbe tradotto con : "punto di origine" o "centro del bersaglio", ndt, ... ].
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Ma prendiamo in considerazione un altro esempio, il palazzo Windsor a Madrid , un grattacielo di 32 piani diventato un inferno per quasi 24 ore prima che le squadre antincendio riuscissero a spegnere le fiamme. Benchè l'edificio fosse stato costruito con colonne di uno spessore solo frazione dello spessore delle colonne delle torri gemelle, così come mancavano totalmente di sistemi antincendio, solo la cima è leggermente crollata mentre l'integrità della struttura nel complesso è rimasta decisamente intatta.

Confrontiamo le immagini dell'incendio al palazzo Windsor con quelle del WTC-7 e delle torri gemelle.

L'incendio al grattacielo di Beijing è un promemoria nudo e crudo e se togliamo di torno quel sospetto, programmato ed incomprensibile delirio del NIST, c'è un fatto solo che rimane abbondantemente chiaro: gli incendi negli uffici - anche quelli del tipo "inferno di fuoco" - non fanno implodere su se stessi e crollare i moderni edifici, tale risultato può essere ottenuto solo con esplosivi piazzati allo scopo.

L'incendio Windsor, l'incendio Beijing e molti altri a venire, sottolineano dolorosamente la terribile verità che l'unico modo col quale il WTC-7 e le torri gemelle potessero crollare così come sono crollate è per mezzo di demolizioni controllate.

Paul Joseph Watson

L'intera strategia del salvataggio economico è inadeguata?

data
La recessione americana sta entrando nel suo secondo anno, e la situazione sta solamente peggiorando. La speranza che il Presidente Obama sia in grado di tirarci fuori dai guai è affievolita dal fatto che la distribuzione di centinaia di miliardi di dollari alle banche non è riuscita a rimetterle in sesto, e nemmeno a ridare vita al flusso dell’erogazione dei prestiti.

Ogni giorno ci fornisce una prova ulteriore che le perdite sono superiori a quanto ci si aspettasse e che ci sarà bisogno di sempre più denaro.

Alla fine viene posta la domanda: forse tutta l’intera strategia è inadeguata? Forse quello di cui c’è bisogno è un ripensamento sostanziale. La strategia Paulson-Bernanke-Geithner era basata sulla constatazione che il mantenimento del flusso del credito fosse essenziale per l’economia. Ma era anche basata sull’incapacità di comprendere alcuni dei mutamenti fondamentali nel nostro settore finanziario avvenuti dalla Grande Depressione, addirittura negli ultimi vent’anni.


A seguito: “Il salvataggio bancario di Obama: esiste un’alternativa – risposta a Joseph Stiglitz” (Richard Cook, Globalresearch);

Per qualche tempo c’è stata la speranza sarebbe bastato abbassare a sufficienza i tassi di interesse, inondando l’economia di denaro; ma settantacinque anni fa, Keynes spiegava perché, in una flessione analoga a questa, la politica monetaria è probabilmente inefficace, un’azione di scarsissimo effetto.

Poi c’è stata la speranza che se il governo fosse stato pronto ad aiutare le banche con sufficiente denaro – e per sufficiente s’intende molto – la fiducia sarebbe stata ristabilita, e con il ristabilimento della fiducia i prezzi dei beni sarebbero aumentati e si sarebbe ristabilita l’erogazione dei prestiti.

La cosa straordinaria è che il Segretario al Tesoro dell’amministrazione Bush Henry Paulson e i suoi compari non avevano capito che le banche avevano erogato dei pessimi prestiti e si erano impegnate in giochi d’azzardo sconsiderati. C’era stata una bolla, e la bolla era esplosa. Nessuna discussione potrebbe cambiare questo dato di fatto. E’ diventato ben presto chiaro che non sarebbe bastato dire che eravamo pronti a spendere il denaro. In realtà, dovevamo convogliarlo nelle banche. E la questione era in che modo. Innanzitutto, gli artefici del salvataggio sostenevano (con una fiducia completa e assoluta) che il miglior modo di farlo era di comprare i beni tossici (questo termine peggiorativo non piaceva a coloro che lavoravano nel settore finanziario, e quindi utilizzavano il termine “beni in difficoltà”) – i beni che chiunque nel settore privato avrebbe tenuto a debita distanza con un bastone.

Avrebbe dovuto essere ovvio che questo non poteva essere fatto in maniera rapida e ci vollero diverse settimane per far apparire chiaro questo schiacciante dato di fatto. Inoltre, c’era un problema fondamentale: quanto valutare i beni. E se li avessimo valutati correttamente, era evidente che ci sarebbe stato ancora un enorme buco nei bilanci delle banche, ostacolando la loro possibilità di erogare prestiti.

Poi arrivò l’idea dell’iniezione di capitali, senza condizioni accessorie, in modo che mentre noi versavamo denaro nelle banche, queste lo versavano ai loro dirigenti sotto forma di bonus, e agli azionisti sotto forma di dividendi. Parte del denaro rimasto è stato utilizzato per acquistare altre banche – per portare avanti obiettivi strategici per i quali non potevano trovare finanziamenti privati. L’ultima cosa a cui pensavano era quella di ricominciare ad erogare prestiti. Il problema di fondo è semplice: anche nei tempi d’oro della finanza, c’era un divario abissale tra i compensi privati e i profitti sociali. I manager bancari hanno portato a casa enormi stipendi, anche se, negli ultimi cinque anni, gli utili netti delle banche sono stati (in totale) negativi.

E i profitti sociali sono stati addirittura inferiori – ci si attendeva che il settore finanziario distribuisse il rischio di capitale e di gestione, e non ha fatto bene nessuna delle due cose. La nostra economia sta pagando il prezzo di questi fallimenti – per la bellezza di centinaia di miliardi di dollari.

Ma questo problema sempre presente è ora peggiorato. In effetti, i contribuenti americani sono i principali finanziatori delle banche. In alcuni casi, il valore delle nostre iniezioni di capitali, di fideiussioni e di altre forme di assistenza schiacciano il valore del contributo di capitali del settore “privato”. Eppure non abbiamo voce in capitolo su come vengono gestite le banche.

Questo ci aiuta a capire il motivo del perché le banche non abbiano ancora ripreso ad erogare prestiti. Mettetevi nei panni di un manager bancario che cerca di uscire da questo guaio. In questa congiuntura, nonostante le massicce iniezioni di denaro da parte del governo, vede ridursi il suo capitale. Le banche – che si vantavano di essere i gestori dei rischi – alla fine, e un po’ troppo tardi – sembrano aver riconosciuto il rischio che hanno corso negli ultimi cinque anni. Utilizzare la leva, o il prendere a prestito, frutta grossi rendimenti quando le cose vanno bene, ma quando le cose si fanno spiacevoli, è una ricetta per il disastro. Non è stato un fatto insolito per banche di investimento “far leva” su se stesse prendendo a prestito somme di denaro pari a 25 o 30 volte il loro capitale.

Con una leva di “appena” 25 a 1, una diminuzione del 4 per cento dei prezzi dei beni travolge il capitale netto di una banca – e abbiamo assistito a diminuzioni molto più pesanti nei prezzi dei beni. Altri 20 miliardi di dollari messi in una banca con 2.000 miliardi di beni saranno spazzati via con una diminuzione di appena l’1 per cento dei prezzi dei beni. Che senso ha?

Sembra che alcuni dei nostri funzionari governativi alla fine abbiano trovato il tempo di fare un po’ di calcoli aritmetici. E allora se ne sono usciti con un’altra strategia: “assicureremo” le banche, cioè toglieremo loro la parte negativa di rischio.

Il problema è simile all’iniziativa “contanti in cambio di spazzatura”: come possiamo determinare il prezzo giusto per l'assicurazione? Quasi sicuramente, se addebitiamo il prezzo giusto questi istituti falliscono. Avranno bisogno di massicce iniezioni di capitali e di assicurazioni.

Esiste una leggera variante al tema, molto simile alla proposta originaria di Paulson: acquistare i beni tossici, ma questa volta, non su una base di uno a uno, ma in blocco. Di nuovo, il problema è: come valutiamo le notevoli quantità di rifiuti tossici che eliminiamo dalle banche? Il sospetto è che le banche abbiano una risposta semplice: non preoccupatevi dei dettagli, dateci soltanto una bella manciata di contanti.

Questa variante aggiunge un’altra complicazione al genere di alchimia finanziaria che ha messo nei guai il paese. Per qualche motivo è emersa l’idea che spostando i beni e mettendo quelli tossici in una banca aggregante gestita dal governo, le cose miglioreranno.

La spiegazione logica è che il governo è migliore nel collocare la spazzatura mentre il settore privato è migliore nell’erogare prestiti? I risultati ottenuti dal nostro sistema finanziario nel valutare il merito del credito – dimostrato non solo da questo salvataggio, ma dai ripetuti salvataggi avvenuti nel corso degli ultimi 25 anni – forniscono prove poco convincenti.

Ma anche se dovessimo fare tutto questo – con rischi incerti per il nostro futuro debito nazionale – non c’è ancora nessuna garanzia di una ripresa dell’erogazione dei prestiti. Il fatto è che ci troviamo in una recessione , e i rischi sono alti in una recessione. Essendosi già scottati una volta, molti banchieri se ne stanno alla larga dal fuoco.

Inoltre, la maggior parte dei problemi che colpiscono il settore finanziario sono molto più penetranti. General Motors e GE sono entrambi entrati nel business finanziario e tutti e due hanno mostrato che le banche non hanno il monopolio della cattiva gestione dei rischi.

Più di una banca potrebbe decidere che la miglior strategia è quella conservativa: tenere da parte i propri contanti, aspettare finché le cose non si sistemino, sperare di essere tra le poche banche sopravvissute e quindi iniziare ad erogare prestiti. Naturalmente, se tutte le banche ragionassero così, la recessione sarebbe più lunga e più grave di quanto altrimenti non sarebbe.

Qual è l’alternativa? La Svezia (e diversi altri paesi) hanno mostrato che esiste un’alternativa – il governo acquisisce quelle banche che non riescono a raccogliere capitali sufficienti attraverso fonti private per sopravvivere senza un aiuto del governo.

E’ una pratica corrente chiudere le banche che non rispondono ai requisiti di base sui capitali, ma noi siamo stati quasi certamente troppo benevoli nell’applicare quei requisiti (c’è stata troppo poca trasparenza in questo e in altri aspetti dell’intervento del governo nel sistema finanziario).

Sicuramente gli azionisti e gli obbligazionisti ci rimetteranno ma i loro guadagni nel regime attuale arrivano a spese dei contribuenti. Negli anni buoni, erano ricompensati per aver corso dei rischi. La proprietà non può essere una scommessa unilaterale.

Naturalmente la maggior parte dei dipendenti rimarranno dove sono, e persino buona parte del management. E allora qual è la differenza? La differenza è che ora gli incentivi delle banche possono essere allineati meglio con quelli del paese. Ed è nell’interesse nazionale che venga ripresa una cauta erogazione dei prestiti.

Esistono diversi altri notevoli vantaggi. Uno dei problemi oggi è che le banche potenzialmente sono debitrici l’una con l’altra di ingenti somme di denaro (attraverso i complessi derivati). Con il governo che possiede molte banche, la verifica di quegli obblighi (“tirarli fuori dalla rete”, in gergo) sarà molto più semplice.

Inevitabilmente, i contribuenti americani pagheranno quasi completamente il conto del fallimento delle banche. E la domanda che ci si pone davanti è: fino a che punto partecipiamo nel rialzo degli utili?

Alla fine l’economia americana si riprenderà. Alla fine il nostro settore finanziario sarà di nuovo in funzione, e redditizio, con la speranza che concentri maggiormente la propria attenzione sul fare quello che ci si attende che faccia. Quando le cose cambieranno, potremo privatizzare ancora una volta la banche che ora sono fallite, e i profitti che ne ricaveremo potranno essere di aiuto nella svalutazione dell’enorme aumento del debito nazionale che è stato causato dai nostri mercati finanziari.

Ci stiamo muovendo in acque non autorizzate. Nessuno può essere sicuro che funzionerà. Ma i princìpi economici di vecchia data possono aiutare a guidarci. Gli incentivi contano. La posizione fiscale di lungo periodo degli Stati Uniti conta. Ed è importante riprendere il prima possibile una cauta erogazione dei prestiti.

Buona parte dei metodi al momento in discussione per far quadrare il cerchio non riusciranno nel loro intento. Esiste un’alternativa e dovremmo iniziare a considerarla.

Joseph Stiglitz, vincitore del Premio Nobel, è docente di economia alla Columbia University.

“L’eroe di Davos”

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Non c’è oggi in Istanbul una strada che non sia addobbata da una bandiera palestinese o uno striscione che inneggi al boicottaggio dei prodotti israeliani o condanni l’operazione contro Gaza. Nei centri culturali, nelle moschee e nelle scuole si raccolgono aiuti per la popolazione di Gaza. Durante i giorni di guerra, il governo turco più volte ha denunciato le operazioni militari come inumane e sproporzionate. Non ci sono state azioni diplomatiche o commerciali, però, forse nessuno ad Ankara si aspettava che sarebbe durata così tanto.

Molti si chiedevano come è possibile che dinnanzi ad un paese così piccolo come Israele nessuno alzasse la voce. Beh questo avveniva fino a ieri. In uno dei dibattiti del World Economic Forum di Davos, si parlava della questione palestinese. Quattro i partecipanti: il presidente della Lega Araba, Ban Ki-mun, Shimon Peres e il Primo Ministro turco Erdogan. Peres con grande presunzione ha difeso l’operazione israeliana, ha denunciato l’incapacità delle autorità palestinesi, ed ha elencato le azioni di assistenza umanitaria israeliana nei confronti degli affamati palestinesi. Erdogan non ha resistito e dopo 25 minuti di discorso di Peres (avrebbe dovuto parlare solo 12 minuti come gli altri) ha iniziato dicendo: “Io vorrei dire solo due parole. Il sesto [in realtà è il quinto] comandamento dice ‘Non uccidere’. In questo caso si uccide. In secondo luogo, questo è molto interessante: Gilad Atzmon, dice ‘siamo davanti ad un caso che supera di molto la barbarie’, questo è un ebreo! Un professore di Oxford in relazioni internazionali e allo stesso tempo un ufficiale delle forze armate israeliane dice...” a questo punto il moderatore cerca in tutti modi di fermare Erdogan e non si capisce il resto della frase. Ma si può chiaramente intendere che stava condannando energicamente Israele.

Si capisce molto bene quello che fa dopo il Primo Ministro. Lamentandosi che Peres ha avuto l’opportunità di parlare a lungo (la stessa cosa che non gli è stata riconosciuta) afferma che non verrà mai più a Davos, perchè “voi non ci fate parlare!”. Poi si è alzato e se n’è andato. In altre affermazioni riportate dalla stampa turca Erdogan sembra aver affermato contro la scortesia del moderatore “io non sono un capo tribù, ma sono il Primo Ministro della Turchia!”.

Beh, al suo ritorno veloce in patria Erdogan non era solo il Primo Ministro della Turchia, ma un eroe nazionale. “Un leader mondiale” come inneggiavano gli striscioni che accoglievano poche ore dopo il Primo Ministro all’aeroporto di Istanbul seguito in diretta su tutti i canali televisivi. Beh le tipografie hanno aperto a tarda notte per stampare quegli striscioni. Ma forse hanno chiuso un epoca.

C’era una volta, infatti, una Turchia disinteressata a quello che avveniva nel Medio Oriente e molto fredda davanti alla questione palestinese. Oggi, però, la Turchia vuole giocare un ruolo più importante nell’area. Sappiamo che sta giocando da mediatore per stabilizzare le relazioni tra Siria e Israele. Con non poca dose di nazionalismo, vuole diventare il leader economico e politico del Medio Oriente.

Il quotidiano arabo al-Quds al-Arabi questa mattina si chiede perchè Amru Musa—presidente della Lega Araba e, in passato, ministro degli esteri egiziano—si sia alzato per salutare e ringraziare Erdogan che in collera ha lasciato il Forum, ma non se ne sia andato anche lui. Invece di tornare al suo posto, visto che rappresentava i paesi arabi, avrebbe dovuto anche lui risentirsi delle parole di Peres. Se questa è la leadership dei paesi arabi, forse la Turchia veramente sta per diventare il leader della regione. Intanto, è un giorno di gloria nazionale qui ad Istanbul.
di Ahmed Guida

15 febbraio 2009

Il fuoco consuma un grattacielo ma l'edificio non crolla

Fiamme gigantesche riempiono tutti i 44 piani dell'edifico, ma questo rimane su, mentre poche fiamme in solo 8 piani del WTC7 hanno fatto crollare il grattacielo in soli 7 secondi, quell'11 settembre. Come può spiegarsi ciò alla luce del "nuovo fenomeno" indicato dal NIST?

Un violento fuoco ha intaccato oggi, a Beijing, tutti i 44 piani di un grattacielo, scagliando nell'aria fiamme alte quasi dieci metri, ma diversamente dal WTC-7, di analoghe dimensioni e che subì piccoli incendi limitati a soli 8 piani, l'edificio in Cina non è crollato.

"Il fuoco bruciava dal piano terra su fino all'ultimo piano, le fiamme si riflettevano nei vetri della facciata della torre della principale Tv via cavo, vicino all'hotel ed al centro culturale," riferisce il New York Times .

" Il complesso di 241 stanze dell'Hotel Mandarin incluso nell'edificio, doveva aprire quest'anno. Le fiamme sono scoppiate verso le 7 e 45 del mattino ed in 20 minuti il fuoco aveva invaso tutto l'edificio, che domina quella parte della città."

" Centinaia di mezzi dei vigili del fuoco e della polizia hanno impedito qualsiasi accesso all'edificio - che era predisposto per ospitare un hotel di lusso di prossima apertura nel 2009 - mentre fiamme lunghe fino a 10 metri si stagliavano nell'aria," questo aggiunge il The London Times .

Paragoniamo le immagini del WTC-7 con quelle del fuoco del grattacielo di Beijing. Osservate che il grattacielo di Beijing sembra inclinato, ma ciò dipende dall'insolita architettura del suo progetto - infatti non ha patito alcun tipo di distorsione o crollo.


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WTC 7
Quale di questi due edifici apparirebbe, sia ad un osservatore razionale che ad uno schizzato, come quello con più probabilità di crollare? Eppure quello che è crollato sulle sue fondamenta, in 7 secondi, l'11 settembre, è stato il WTC-7. Il grattacielo di Beijing, benchè esposto agli attacchi del fuoco, è rimasto in piedi. E questo, gli "smascheratori" come lo spiegano? Com'è che l'"espansione termica", quel "fenomeno" appena inventato dal NIST non si applica al grattacielo di Beijing? Può il fuoco avere proprietà diverse negli USA che in Cina? Può comportarsi in modi che variano a seconda della nazione nella quale si trova?
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Ricordiamoci che il WTC7 era stato strutturalmente rinforzato ed aveva patito incendi limitati e solo su otto piani. Davanti a questi avvenimenti di Beijing, il fulcro della spiegazione del NIST - cioè che un "evento straordinario" chiamato "espansione termica" fosse la causa dell'improvviso crollo totale del WTC-7 - risulta un chiaro imbroglio soprattutto se si considera l'innumerevole quantità di edifici che hanno subito dei considerevoli incendi nella maggior parte dei loro piani e sono rimasti su, mentre il WTC-7 ha subito solo piccoli incendi in una manciata di piani.

L'incendio del grattacielo di Beijing fornisce una prova ancora più confrontabile per smascherare il monolitico imbroglio secondo il quale il fuoco da solo possa danneggiare al punto da far crollare degli edifici come se implodessero, e fornisce ancora più consistenza alle argomentazioni in base alle quali sia il WTC-7 che le torri gemelle siano state distrutte con esplosioni che sono state viste ed udite da dozzine di testimoni che si trovavano a "ground zero" [ che in italiano andrebbe tradotto con : "punto di origine" o "centro del bersaglio", ndt, ... ].
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Ma prendiamo in considerazione un altro esempio, il palazzo Windsor a Madrid , un grattacielo di 32 piani diventato un inferno per quasi 24 ore prima che le squadre antincendio riuscissero a spegnere le fiamme. Benchè l'edificio fosse stato costruito con colonne di uno spessore solo frazione dello spessore delle colonne delle torri gemelle, così come mancavano totalmente di sistemi antincendio, solo la cima è leggermente crollata mentre l'integrità della struttura nel complesso è rimasta decisamente intatta.

Confrontiamo le immagini dell'incendio al palazzo Windsor con quelle del WTC-7 e delle torri gemelle.

L'incendio al grattacielo di Beijing è un promemoria nudo e crudo e se togliamo di torno quel sospetto, programmato ed incomprensibile delirio del NIST, c'è un fatto solo che rimane abbondantemente chiaro: gli incendi negli uffici - anche quelli del tipo "inferno di fuoco" - non fanno implodere su se stessi e crollare i moderni edifici, tale risultato può essere ottenuto solo con esplosivi piazzati allo scopo.

L'incendio Windsor, l'incendio Beijing e molti altri a venire, sottolineano dolorosamente la terribile verità che l'unico modo col quale il WTC-7 e le torri gemelle potessero crollare così come sono crollate è per mezzo di demolizioni controllate.

Paul Joseph Watson

L'intera strategia del salvataggio economico è inadeguata?

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La recessione americana sta entrando nel suo secondo anno, e la situazione sta solamente peggiorando. La speranza che il Presidente Obama sia in grado di tirarci fuori dai guai è affievolita dal fatto che la distribuzione di centinaia di miliardi di dollari alle banche non è riuscita a rimetterle in sesto, e nemmeno a ridare vita al flusso dell’erogazione dei prestiti.

Ogni giorno ci fornisce una prova ulteriore che le perdite sono superiori a quanto ci si aspettasse e che ci sarà bisogno di sempre più denaro.

Alla fine viene posta la domanda: forse tutta l’intera strategia è inadeguata? Forse quello di cui c’è bisogno è un ripensamento sostanziale. La strategia Paulson-Bernanke-Geithner era basata sulla constatazione che il mantenimento del flusso del credito fosse essenziale per l’economia. Ma era anche basata sull’incapacità di comprendere alcuni dei mutamenti fondamentali nel nostro settore finanziario avvenuti dalla Grande Depressione, addirittura negli ultimi vent’anni.


A seguito: “Il salvataggio bancario di Obama: esiste un’alternativa – risposta a Joseph Stiglitz” (Richard Cook, Globalresearch);

Per qualche tempo c’è stata la speranza sarebbe bastato abbassare a sufficienza i tassi di interesse, inondando l’economia di denaro; ma settantacinque anni fa, Keynes spiegava perché, in una flessione analoga a questa, la politica monetaria è probabilmente inefficace, un’azione di scarsissimo effetto.

Poi c’è stata la speranza che se il governo fosse stato pronto ad aiutare le banche con sufficiente denaro – e per sufficiente s’intende molto – la fiducia sarebbe stata ristabilita, e con il ristabilimento della fiducia i prezzi dei beni sarebbero aumentati e si sarebbe ristabilita l’erogazione dei prestiti.

La cosa straordinaria è che il Segretario al Tesoro dell’amministrazione Bush Henry Paulson e i suoi compari non avevano capito che le banche avevano erogato dei pessimi prestiti e si erano impegnate in giochi d’azzardo sconsiderati. C’era stata una bolla, e la bolla era esplosa. Nessuna discussione potrebbe cambiare questo dato di fatto. E’ diventato ben presto chiaro che non sarebbe bastato dire che eravamo pronti a spendere il denaro. In realtà, dovevamo convogliarlo nelle banche. E la questione era in che modo. Innanzitutto, gli artefici del salvataggio sostenevano (con una fiducia completa e assoluta) che il miglior modo di farlo era di comprare i beni tossici (questo termine peggiorativo non piaceva a coloro che lavoravano nel settore finanziario, e quindi utilizzavano il termine “beni in difficoltà”) – i beni che chiunque nel settore privato avrebbe tenuto a debita distanza con un bastone.

Avrebbe dovuto essere ovvio che questo non poteva essere fatto in maniera rapida e ci vollero diverse settimane per far apparire chiaro questo schiacciante dato di fatto. Inoltre, c’era un problema fondamentale: quanto valutare i beni. E se li avessimo valutati correttamente, era evidente che ci sarebbe stato ancora un enorme buco nei bilanci delle banche, ostacolando la loro possibilità di erogare prestiti.

Poi arrivò l’idea dell’iniezione di capitali, senza condizioni accessorie, in modo che mentre noi versavamo denaro nelle banche, queste lo versavano ai loro dirigenti sotto forma di bonus, e agli azionisti sotto forma di dividendi. Parte del denaro rimasto è stato utilizzato per acquistare altre banche – per portare avanti obiettivi strategici per i quali non potevano trovare finanziamenti privati. L’ultima cosa a cui pensavano era quella di ricominciare ad erogare prestiti. Il problema di fondo è semplice: anche nei tempi d’oro della finanza, c’era un divario abissale tra i compensi privati e i profitti sociali. I manager bancari hanno portato a casa enormi stipendi, anche se, negli ultimi cinque anni, gli utili netti delle banche sono stati (in totale) negativi.

E i profitti sociali sono stati addirittura inferiori – ci si attendeva che il settore finanziario distribuisse il rischio di capitale e di gestione, e non ha fatto bene nessuna delle due cose. La nostra economia sta pagando il prezzo di questi fallimenti – per la bellezza di centinaia di miliardi di dollari.

Ma questo problema sempre presente è ora peggiorato. In effetti, i contribuenti americani sono i principali finanziatori delle banche. In alcuni casi, il valore delle nostre iniezioni di capitali, di fideiussioni e di altre forme di assistenza schiacciano il valore del contributo di capitali del settore “privato”. Eppure non abbiamo voce in capitolo su come vengono gestite le banche.

Questo ci aiuta a capire il motivo del perché le banche non abbiano ancora ripreso ad erogare prestiti. Mettetevi nei panni di un manager bancario che cerca di uscire da questo guaio. In questa congiuntura, nonostante le massicce iniezioni di denaro da parte del governo, vede ridursi il suo capitale. Le banche – che si vantavano di essere i gestori dei rischi – alla fine, e un po’ troppo tardi – sembrano aver riconosciuto il rischio che hanno corso negli ultimi cinque anni. Utilizzare la leva, o il prendere a prestito, frutta grossi rendimenti quando le cose vanno bene, ma quando le cose si fanno spiacevoli, è una ricetta per il disastro. Non è stato un fatto insolito per banche di investimento “far leva” su se stesse prendendo a prestito somme di denaro pari a 25 o 30 volte il loro capitale.

Con una leva di “appena” 25 a 1, una diminuzione del 4 per cento dei prezzi dei beni travolge il capitale netto di una banca – e abbiamo assistito a diminuzioni molto più pesanti nei prezzi dei beni. Altri 20 miliardi di dollari messi in una banca con 2.000 miliardi di beni saranno spazzati via con una diminuzione di appena l’1 per cento dei prezzi dei beni. Che senso ha?

Sembra che alcuni dei nostri funzionari governativi alla fine abbiano trovato il tempo di fare un po’ di calcoli aritmetici. E allora se ne sono usciti con un’altra strategia: “assicureremo” le banche, cioè toglieremo loro la parte negativa di rischio.

Il problema è simile all’iniziativa “contanti in cambio di spazzatura”: come possiamo determinare il prezzo giusto per l'assicurazione? Quasi sicuramente, se addebitiamo il prezzo giusto questi istituti falliscono. Avranno bisogno di massicce iniezioni di capitali e di assicurazioni.

Esiste una leggera variante al tema, molto simile alla proposta originaria di Paulson: acquistare i beni tossici, ma questa volta, non su una base di uno a uno, ma in blocco. Di nuovo, il problema è: come valutiamo le notevoli quantità di rifiuti tossici che eliminiamo dalle banche? Il sospetto è che le banche abbiano una risposta semplice: non preoccupatevi dei dettagli, dateci soltanto una bella manciata di contanti.

Questa variante aggiunge un’altra complicazione al genere di alchimia finanziaria che ha messo nei guai il paese. Per qualche motivo è emersa l’idea che spostando i beni e mettendo quelli tossici in una banca aggregante gestita dal governo, le cose miglioreranno.

La spiegazione logica è che il governo è migliore nel collocare la spazzatura mentre il settore privato è migliore nell’erogare prestiti? I risultati ottenuti dal nostro sistema finanziario nel valutare il merito del credito – dimostrato non solo da questo salvataggio, ma dai ripetuti salvataggi avvenuti nel corso degli ultimi 25 anni – forniscono prove poco convincenti.

Ma anche se dovessimo fare tutto questo – con rischi incerti per il nostro futuro debito nazionale – non c’è ancora nessuna garanzia di una ripresa dell’erogazione dei prestiti. Il fatto è che ci troviamo in una recessione , e i rischi sono alti in una recessione. Essendosi già scottati una volta, molti banchieri se ne stanno alla larga dal fuoco.

Inoltre, la maggior parte dei problemi che colpiscono il settore finanziario sono molto più penetranti. General Motors e GE sono entrambi entrati nel business finanziario e tutti e due hanno mostrato che le banche non hanno il monopolio della cattiva gestione dei rischi.

Più di una banca potrebbe decidere che la miglior strategia è quella conservativa: tenere da parte i propri contanti, aspettare finché le cose non si sistemino, sperare di essere tra le poche banche sopravvissute e quindi iniziare ad erogare prestiti. Naturalmente, se tutte le banche ragionassero così, la recessione sarebbe più lunga e più grave di quanto altrimenti non sarebbe.

Qual è l’alternativa? La Svezia (e diversi altri paesi) hanno mostrato che esiste un’alternativa – il governo acquisisce quelle banche che non riescono a raccogliere capitali sufficienti attraverso fonti private per sopravvivere senza un aiuto del governo.

E’ una pratica corrente chiudere le banche che non rispondono ai requisiti di base sui capitali, ma noi siamo stati quasi certamente troppo benevoli nell’applicare quei requisiti (c’è stata troppo poca trasparenza in questo e in altri aspetti dell’intervento del governo nel sistema finanziario).

Sicuramente gli azionisti e gli obbligazionisti ci rimetteranno ma i loro guadagni nel regime attuale arrivano a spese dei contribuenti. Negli anni buoni, erano ricompensati per aver corso dei rischi. La proprietà non può essere una scommessa unilaterale.

Naturalmente la maggior parte dei dipendenti rimarranno dove sono, e persino buona parte del management. E allora qual è la differenza? La differenza è che ora gli incentivi delle banche possono essere allineati meglio con quelli del paese. Ed è nell’interesse nazionale che venga ripresa una cauta erogazione dei prestiti.

Esistono diversi altri notevoli vantaggi. Uno dei problemi oggi è che le banche potenzialmente sono debitrici l’una con l’altra di ingenti somme di denaro (attraverso i complessi derivati). Con il governo che possiede molte banche, la verifica di quegli obblighi (“tirarli fuori dalla rete”, in gergo) sarà molto più semplice.

Inevitabilmente, i contribuenti americani pagheranno quasi completamente il conto del fallimento delle banche. E la domanda che ci si pone davanti è: fino a che punto partecipiamo nel rialzo degli utili?

Alla fine l’economia americana si riprenderà. Alla fine il nostro settore finanziario sarà di nuovo in funzione, e redditizio, con la speranza che concentri maggiormente la propria attenzione sul fare quello che ci si attende che faccia. Quando le cose cambieranno, potremo privatizzare ancora una volta la banche che ora sono fallite, e i profitti che ne ricaveremo potranno essere di aiuto nella svalutazione dell’enorme aumento del debito nazionale che è stato causato dai nostri mercati finanziari.

Ci stiamo muovendo in acque non autorizzate. Nessuno può essere sicuro che funzionerà. Ma i princìpi economici di vecchia data possono aiutare a guidarci. Gli incentivi contano. La posizione fiscale di lungo periodo degli Stati Uniti conta. Ed è importante riprendere il prima possibile una cauta erogazione dei prestiti.

Buona parte dei metodi al momento in discussione per far quadrare il cerchio non riusciranno nel loro intento. Esiste un’alternativa e dovremmo iniziare a considerarla.

Joseph Stiglitz, vincitore del Premio Nobel, è docente di economia alla Columbia University.

“L’eroe di Davos”

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Non c’è oggi in Istanbul una strada che non sia addobbata da una bandiera palestinese o uno striscione che inneggi al boicottaggio dei prodotti israeliani o condanni l’operazione contro Gaza. Nei centri culturali, nelle moschee e nelle scuole si raccolgono aiuti per la popolazione di Gaza. Durante i giorni di guerra, il governo turco più volte ha denunciato le operazioni militari come inumane e sproporzionate. Non ci sono state azioni diplomatiche o commerciali, però, forse nessuno ad Ankara si aspettava che sarebbe durata così tanto.

Molti si chiedevano come è possibile che dinnanzi ad un paese così piccolo come Israele nessuno alzasse la voce. Beh questo avveniva fino a ieri. In uno dei dibattiti del World Economic Forum di Davos, si parlava della questione palestinese. Quattro i partecipanti: il presidente della Lega Araba, Ban Ki-mun, Shimon Peres e il Primo Ministro turco Erdogan. Peres con grande presunzione ha difeso l’operazione israeliana, ha denunciato l’incapacità delle autorità palestinesi, ed ha elencato le azioni di assistenza umanitaria israeliana nei confronti degli affamati palestinesi. Erdogan non ha resistito e dopo 25 minuti di discorso di Peres (avrebbe dovuto parlare solo 12 minuti come gli altri) ha iniziato dicendo: “Io vorrei dire solo due parole. Il sesto [in realtà è il quinto] comandamento dice ‘Non uccidere’. In questo caso si uccide. In secondo luogo, questo è molto interessante: Gilad Atzmon, dice ‘siamo davanti ad un caso che supera di molto la barbarie’, questo è un ebreo! Un professore di Oxford in relazioni internazionali e allo stesso tempo un ufficiale delle forze armate israeliane dice...” a questo punto il moderatore cerca in tutti modi di fermare Erdogan e non si capisce il resto della frase. Ma si può chiaramente intendere che stava condannando energicamente Israele.

Si capisce molto bene quello che fa dopo il Primo Ministro. Lamentandosi che Peres ha avuto l’opportunità di parlare a lungo (la stessa cosa che non gli è stata riconosciuta) afferma che non verrà mai più a Davos, perchè “voi non ci fate parlare!”. Poi si è alzato e se n’è andato. In altre affermazioni riportate dalla stampa turca Erdogan sembra aver affermato contro la scortesia del moderatore “io non sono un capo tribù, ma sono il Primo Ministro della Turchia!”.

Beh, al suo ritorno veloce in patria Erdogan non era solo il Primo Ministro della Turchia, ma un eroe nazionale. “Un leader mondiale” come inneggiavano gli striscioni che accoglievano poche ore dopo il Primo Ministro all’aeroporto di Istanbul seguito in diretta su tutti i canali televisivi. Beh le tipografie hanno aperto a tarda notte per stampare quegli striscioni. Ma forse hanno chiuso un epoca.

C’era una volta, infatti, una Turchia disinteressata a quello che avveniva nel Medio Oriente e molto fredda davanti alla questione palestinese. Oggi, però, la Turchia vuole giocare un ruolo più importante nell’area. Sappiamo che sta giocando da mediatore per stabilizzare le relazioni tra Siria e Israele. Con non poca dose di nazionalismo, vuole diventare il leader economico e politico del Medio Oriente.

Il quotidiano arabo al-Quds al-Arabi questa mattina si chiede perchè Amru Musa—presidente della Lega Araba e, in passato, ministro degli esteri egiziano—si sia alzato per salutare e ringraziare Erdogan che in collera ha lasciato il Forum, ma non se ne sia andato anche lui. Invece di tornare al suo posto, visto che rappresentava i paesi arabi, avrebbe dovuto anche lui risentirsi delle parole di Peres. Se questa è la leadership dei paesi arabi, forse la Turchia veramente sta per diventare il leader della regione. Intanto, è un giorno di gloria nazionale qui ad Istanbul.
di Ahmed Guida