20 marzo 2009

Perchè la banca d'Italia è fallita



(Scrivo questo articolo perché ne prenda visione la commissione voluta dal Ministro dell'Economia Tremonti, istituita per elaborare e proporre nuove regole da presentare al G20 di aprile 2009)

Abuso della credulità popolare e appropriazione indebita del potere d'acquisto, reati contro il patrimonio ed una catena margherita di frodi ai danni del pubblico sono solo alcune delle peculiarietà del nostro sistema bancario attuale (1) basato sul "miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci" che deriva dal meccanismo truffaldino della riserva frazionaria. Ne ho parlato diffusamente nei miei libri (2) ed in precedenti articoli (3) ma qui aggiungerò alcune considerazioni inedite. Il rischio fondamentale che sta correndo il sistema è che il pubblico si accorga che sta giocando una partita a poker dove un baro, il sistema bancario, viene sponsorizzato ad oltranza dallo stato. Questo trascinerà nel baratro ambedue, lasciando al popolo sovrano le macerie. Vediamo di ricapitolare, senza ri-capitolare - possibilmente.

Fin dall'inizio nel 1860 la banca centrale, che all'epoca si chiamava Banca Nazionale, barava nell'emissione delle banconote emettendone quattro volte la riserva aurea che aveva in deposito. Il rapporto era quindi uno a quattro e se tutti avessero chiesto la conversione delle banconote in oro, il sistema sarebbe subito fallito e non ci troveremmo nella condizione attuale. Invece, grazie ad una serie di artifici ed alla collusione di alcuni politici e statali, il sistema prosperò e siamo arrivati ad un rapporto attuale ufficiale di uno a cinquanta. Questo rapporto si è poi diluito ancor più col sistema dei derivati, ma per ora limitiamoci al "cinquantato credito". Un cinquantato credito non più verso una riserva aurea di cui si è appropriata di fatto la Banca d'Italia dopo il 1973, alla fine degli accordi Smithsoniani, ma verso la base monetaria creata dalle monete metalliche statali più le banconote private della BCE. Spiegherò il sistema illustrando un grave fraintendimento della criminologia contemporanea: il cosiddetto Schema Ponzi.

Lo "Schema Ponzi rivisitato"

In criminologia si fa riferimento allo Schema Ponzi per indicare una truffa in cui si raccolgono soldi promettendo dividendi elevati, dividendi che vengono prelevati direttamente dai nuovi aderenti allo schema secondo un sistema piramidale. Il sistema crolla quando finiscono i nuovi arrivati e diventa impossibile pagare ulteriormente i dividendi. Per questo è essenziale l'immigrazione continua di nuovi lavoratori, che pagano nuovi contributi, per mantenere in piedi lo Schema Ponzi del sistema pensionistico italiano, ma questo è un altro discorso... In realtà Carlo Ponzi negli anni venti del secolo scorso si era messo semplicemente d'accordo con un banchiere che praticava la riserva frazionaria, all'epoca al 10%. Ovvero, per ogni 100 dollari che Ponzi versava, il banchiere ne creava novecento e gliene ritornava 100 per pagare gli interessi. Cinquanta venivano distribuiti ai partecipanti allo schema e 50 se li teneva Ponzi. Al banchiere rimanevano 800 da prestare e reincassare, oltre agli interessi, tramite il "meccanismo del riflusso" - ovvero, incassando le rate ripagate periodicamente dai prestatari ed appropriandosene, proprio come fanno ancor oggi le banche. Così si spiega facilmente perché, anche quando ormai i quotidiani avevano montato uno scandalo descrivendo però il sistema come, appunto, uno Schema Ponzi tradizionale, la società di Ponzi riusciva ancora senza problema a rimborsare i clienti sia del capitale che degli interessi. Nel "vero" schema Ponzi, chi ci rimetteva erano le altre banche concorrenti che non partecipavano allo schema: mancando dei versamenti della moneta-base della clientela di Ponzi, non potevano innescare l'appropriazione indebita attraverso la moltiplicazione frazionaria. Bastava che si mettessero d'accordo tra banche, come fanno oggi attraverso la partecipazione in Bankitalia, per spartirsi proporzionalmente il malloppo, e tutto sarebbe andato a meraviglia...o quasi. Fino a quando cioè, come sta accadendo ora, una gran parte della popolazione si accorge del trucco. E' proprio perché i criminologi non sanno del reale funzionamento dello Schema Ponzi originale che diventa difficile individuare tutti quei crimini collegati a quel sistema. Per questo i magistrati non capiscono che le centrali internazionali del clearing interbancario, non sono altro che delle megalavanderie dei profitti dello "Schema Ponzi rivisitato". Tutto il denaro del riflusso bancario viene riciclato e lavato attraverso queste centrali di compensazione, attraverso migliaia conti "non pubblicati", come nel caso di Clearstream scoperto dal giornalista francese Denis Robert (4). Senza l'appropriazione indebita effettuata attraverso la privatizzazione della rendita monetaria, parecchie belle fortune sarebbero davvero inspiegabili...

Facciamo giustizia

La moneta emessa dalla privata Banca Centrale Europea (BCE) pesca nel potere d'acquisto di tutta la comunità europea, costretta ad accettarla perché "a corso legale", in realtà "corso forzoso". E questo è il primo 100% di valore che si paga in modo invisibile. Di più, quando lo stato ha bisogno di soldi, emette titoli di debito AL VALORE NOMINALE della moneta anziché sostenerne semplicemente le spese di emissione, come invece fa per le monetine metalliche. La BCE però nel bilancio occulta la rendita monetaria effettiva mettendola al passivo, sicché il cosiddetto signoraggio - come inteso da Bankitalia - risulta la differenza tra il falso passivo ed i titoli più i guadagni realizzati dalla banca centrale attraverso altre speculazioni e manipolazioni del mercato, messi all'attivo. La rendita monetaria quindi, illecita soprattutto perché privata e non incamerata come tassa di stato, viene chiamata signoraggio e la Banca d'Italia non ha nessuna intenzione di restituirla (5). Alla luce di quanto è emerso, è triste notare che il governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, ha addirittura citato in giudizio il giornalista Ugo Gaudenzi che aveva osato chiamarlo "criminale". Draghi farebbe bene a ricordarsi le lezioni del suo professore Federico Caffè, che non era certo a favore di un sistema truffaldino destinato ad arricchire una "èlite di nati stanchi" - per non dir di peggio! - negando di fatto, alla popolazione la redistribuzione della ricchezza. Questa però la chiamerei meglio: "bancarotta morale". Invece di lottare disperatamente per rimandare l'inevitabile, consiglio a Draghi un ravvedimento operoso. Segua l'esempio del Prof. Nino Galloni, altro allievo di Caffè, e scriva libri per educare i giovani, piuttosto.
La magistratura in generale non può fornire una soluzione alla truffa dell'emissione monetaria a doppio debito dei cittadini, più gli interessi. Lo ha dimostrato una sentenza recente a sezioni riunite della Cassazione (6). Va anche notato che i magistrati vengono pagati dalla Tesoreria dello Stato, gestita misteriosamente dal 1907 dalla Banca d'Italia, senza regolare gara d'appalto ma attraverso un "tacito" rinnovo ventennale... Mi pare evidente che c'è un pauroso conflitto d'interessi incestuoso per cui codesti magistrati andrebbero automaticamente esonerati dalle cause che riguardano cittadini e banche. Per quanto se ne sa, solo il procuratore generale Bruno Tarquini, ormai a riposo, si è occupato dello scandalo monetario nel suo libro istruttivo "La banca, la moneta e l'usura - La Costituzione tradita", ControCorrente Edizioni, 2001. Un questore che aveva avviato una causa giudiziaria in merito, Arrigo Molinari, venne assassinato a coltellate poco prima della convocazione in Tribunale (27 settembre 2005)... La polizia europea antifrode - OLAF - se ne è lavata le mani nel 2005 (7). Lo stato occulta la piena verità sulle politiche monetarie attraverso il segreto di stato imposto per legge (8), in barba alla cosiddetta "trasparenza". Il nuovo statuto regionale federale lombardo (9) addirittura, travalicando le intenzioni della Costituzione nell'articolo sul referendum abrogativo, all'art. 50 paragrafo 2 recita: Non è ammessa l’iniziativa popolare in materia statutaria, elettorale, finanziaria, tributaria, di bilancio, di ratifica di accordi con Stati esteri e di intese con enti territoriali interni ad altro Stato o con altre Regioni.

Siamo quindi in un vuoto che potrà essere colmato attualmente solo attraverso l'istituzione di uno strumento quasi-monetario pubblico (10), e/o attraverso l'istituzione di giurie popolari, come nel caso della Corte d'Assise Speciale che giudicò i gerarchi fascisti nel dopoguerra, che facciano emergere i reati facendo piena luce (11), o, in caso estremo, attraverso l'insorgenza e la rivoluzione, come nell'America del 1776. Da notare, per finire, che la situazione del debito italiana è simile a quella della Francia del 1780, dove più della metà delle entrate andavano a servire il debito pubblico. Fu un fattore scatenante della rivoluzione francese del 1789...

A voi la scelta.
Marco Saba


Note:

1) Per capire bene la somma di illegalità e mostruosità giuridiche nella gestione attuale del sistema del credito, dal punto di vista del diritto romano, è necessario ed opportuno leggere il testo del Prof. Jesus Huerta De Soto "Money, Bank Credit, and Economic Cycles". liberamente scaricabile da internet:
http://mises.org/books/desoto.pdf

2) "Bankenstein", ed. Nexus (2006), e "O la banca o la vita", Arianna Editrice (2008).

3) L'ultimo è "Salvataggio bancario, un brutto scherzo goliardico", Rinascita, 5 marzo 2009.

4) "Soldi - Il libro nero della finanza internazionale", di Denis Robert e Ernest Backes, Nuovi Mondi Media, 2004

5) Scrive la Banca d'Italia sul suo sito, in data 2 agosto 2006, ovvero sotto al governatorato di Mario Draghi: "Alla luce delle superiori considerazioni questo Istituto respingerà ogni ulteriore richiesta di pagamento di quote del reddito da signoraggio e far valere la decisione delle Sezioni Unite in ogni procedimento giurisdizionale allo stato pendente o che in futuro dovesse essere instaurato nei suoi confronti."
http://www.bancaditalia.it/bancomonete/signoraggio/signoraggio_ss_uu_comunicazione.pdf

6) Cass., sez. I, 21 giugno 2002, n. 9080 e Cass.16751/06, 21 luglio 2006.

7) Polizia Europea Antifrode OLAF: Non siamo competenti per indagini relative a presunte frodi connesse al fenomeno del cosiddetto "signoraggio" - 9 settembre 2005
http://studimonetari.org/articoli/olafesignoraggio.html

8) Il decreto n. 561 del 13 ottobre 1995, pubblicato sulla "Gazzetta Ufficiale" n. 302 del 29 dicembre 1995.

9) http://www.parlamentiregionali.it/dbdata/documenti
/%5B482bef087b02c%5Dlombardia_14.05.08_IIlettura.pdf

10) Come proposto nel disegno di legge regionale sui Buoni Regionali di Solidarietà:
http://studimonetari.org/propostaleggeregionalebrs.pdf

11) Si tratterebbe di giudicare circa 320.000 bancari, evidenziando quei casi in cui si può dimostrare l'elemento psicologico del reato. I dirigenti e la direzione strategica delle banche sono quelli che rischiano di più, assieme ai dipendenti Bankitalia.

19 marzo 2009

L'ICI sui panneli fotovoltaici

schema-impianto-fotovoltaico

Subdola mossa della lobby nuclearista!
Spaventati dal fatto che molti grossi industriali incominciano ad investire
nelle rinnovabili (Morati, Brachetti Peretti, Maccaferri, Burani,ecc. ecc.) e
non si sognano di investire un euro sul nucleare, per prevenire una situazione
di fatto in cui sarebbe chiaro che le rinnovabili sono in grado di soddisfare
la maggior richiesta di energia, e quindi rendere inutili il ricorso alla
energia atomica, ecco spuntare una tassa di ispirazione governativa, che vuole
far pagare l’ICI alle aziende che con i pannelli solari producono elettricità.
A giudizio degli industriali organizzati nell’ “Assosolare” la imposta
metterebbe a rischio lo sviluppo del settore, cresciuto del 500% nell’ultimo
anno, e con una prospettiva di installare nel 2009 una potenza di 250
Megawatt.
Se si pensa che questa quota di energia è producibile ogni anno, e con
opportuni incentivi può essere aumentata senza limiti, si può capire che fra
dieci e più anni, quando sarebbero pronte le centrali nucleari tanto care a
Berlusconi e a Scaiola, queste resterebbero ferme perché la produzione di
energia da fonti innovabili sarebbe sufficiente al fabbisogno italiano.
Può essere utile ricordare che mister Buffet, uno dei più ricchi capitalisti
americani, spese recentemente milioni di dollari per fare una inchiesta
industriale sul nucleare e verificare se tale iniziativa poteva essere
conveniente. La riposta, data da uno studio indipendente, fu negativa, e,
malgrado la spesa fatta, Buffet non investì un dollaro in quella avventura.
Appare sconcertante la decisione del governo, mascherato dietro l’Agenzia per
il territorio (ente pubblico collegato al ministero dell’economia e delle
finanze, che si è inventato l’ipotetica tassa sui pannelli), contro un settore
che è aumentato del 500% in un solo anno.
Il secondo governo Berlusconi ebbe la splendida idea di far fuori Rubbia dall’
Enea, invece di dargli tutti i poteri per trasformare quell’istituto e
cominciare a costruire le centrali solari termodinamiche, di sua invenzione,
che altri paesi oggi stanno già ultimando.
La destra ostacola ottusamente lo sviluppo del settore rinnovabile, cerca di
impedirne la crescita, intralciando quello che dovrebbe essere un libero
mercato, colpendo anche industriali del settore, per avvantaggiare una
tecnologia superata, pericolosa, non rinnovabile in quanto l’uranio è in
esaurimento, e i cui costi non sono nemmeno quantificabili poiché il costo
maggiore del nucleare è quello che viene dopo i 40 anni di esercizio, ossia lo
smantellamento e la messa in sicurezza delle scorie. Operazione che in Italia
non è stata ancora compiuta per le centrali nucleari dismesse, a oltre 20 anni
dalla chiusura, voluta dal referendum.


di Paolo De Gregorio

18 marzo 2009

L'esempio nei giornali della Casta. Yesman

yesmanNon ci sono martiri, né eroi in questa storia. E non c’è nemmeno un Humphrey Bogart che dica: “E’ la stampa, bellezza”.
Ci sono soltanto giornali e giornalisti. Fatti della vita, che spesso sono fatti scandalosi, e modi diversi di raccontarli. Poteri forti e uomini deboli.

Come forse qualcuno già sa, per il mio giornale, il Corriere della Sera, mi sono occupato per quasi due anni delle inchieste Poseidone, Why Not e Toghe Lucane dell’ex pm di Catanzaro, Luigi de Magistris, e delle disavventure, chiamiamole così, di Clementina Forleo, da quando l’ex gip di Milano ha cominciato a occuparsi delle scalate bancarie illegali Unipol-Bnl-Antoveneta-Rcs.

Su queste cose... e su altre molto simili, ho scritto anche un libro, “Roba Nostra” (il Saggiatore), in cui si narra di una Nuova Tangentopoli italiana: il primo punto fermo sul quale si basa questa riflessione.

Molti, a destra e a sinistra, naturalmente interessati a smontare sia il contenuto di queste inchieste, senza conoscerle né discuterle, sia l’idea stessa che possa esserci una Nuova Tangentopoli hanno di volta in volta cercato di liquidare le une e l’altra.
Come un rigurgito di giustizialismo, come l’irresistibile mania di protagonismo dei soliti magistrati in cerca di autore, o come l’insopprimibile desiderio di riattivare quel circolo (definito sarcasticamente anche circo) mediatico-giudiziario che porta certe notizie fin sui giornali (ma guarda un po’).
Insomma, tutto l’armamentario propagandistico che di fronte a un problema serio sposta sempre il problema un po’ più in là per parlar d’altro e rovesciare le parti.

Così il problema, il “caso”, per tornare a noi, sono diventati de Magistris e Forleo.
Sapete tutti com’è andata a finire. Forleo e de Magistris trasferiti con motivazioni risibili, pretestuose, addirittura inesistenti e le loro inchieste fatte a pezzi.
Anche se alcuni mesi dopo la loro defenestrazione e l’uscita di “Roba Nostra” sono stati in molti, a destra e a sinistra, a riconoscere come stanno realmente le cose.

Due persone, in modo particolare. L’ex presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, e Primo Greganti, sì, proprio l’uomo del “conto Gabbietta” e delle tangenti rosse. Entrambi, Ciampi e Greganti, hanno detto la stessa cosa: oggi non è “come”, ma è “peggio” di Tangentopoli ‘92.
Se la nuova Tangentopoli è più grave della vecchia, allora si capisce meglio perché scriverne e parlarne in tv e sui giornali è cosa molto, molto più difficile di quanto non lo fosse nel ‘92.

E non solo perché è cambiata l’aria, o perché ci sono dentro tutti (anche allora c’erano dentro tutti, ma alcuni hanno pagato e altri no), quanto perché questa Tangentopoli è davvero “nuova”: innanzi tutto è, al tempo stesso, più semplice e più raffinata nei meccanismi; poi, è più remunerativa e più nascosta; infine è di una trasversalità perfetta, in alcuni casi sembra studiata a tavolino affinché i suoi protagonisti “simul stabunt, simul cadent”.

Per questa ragione, nessuno di noi (pochi) giornalisti che avevamo deciso di scrivere ciò che sapevamo si è mai illuso che il giorno dopo avrebbe continuato a scrivere sull’argomento.
In questi ultimi due anni però, bene o male, ci siamo riusciti. Con prezzi alti, in termini di costi umani e professionali, ma ci siamo riusciti.
Abbiamo scritto di questa Nuova Tangentopoli nonostante non operassimo in “pool”, come facevano i cronisti ai tempi di Mani Pulite, ma fossimo altrettanti cercatori di notizie “maledetti e solitari”.

E nonostante tutti quei “colleghi” che, pur avendo le nostre stesse notizie, sceglievano di non pubblicarle, di non battersi all’interno dei rispettivi giornali per pubblicarle, o addirittura facessero a gara per “smentire” quelle notizie prima ancora di venirne a conoscenza e di verificarle.

Per questa “presenza” del Corriere della Sera sulle inchieste più delicate del Paese, nell’estate del 2007, i magistrati di Matera indagati in Toghe Lucane mi hanno accusato (assieme ad altri quattro giornalisti e a un capitano dei carabinieri) di “associazione a delinquere finalizzata alla diffamazione a mezzo stampa”, un reato inedito e delirante, per il quale sono ancora indagato.

Le indagini a nostro carico sono state prorogate quattro volte.
Ma per questa vicenda nessuna presa di posizione “garantista” da parte dei commentatori un tanto al chilo della “libera stampa”.
Per questa vergogna, nemmeno un decimo dell’attenzione riservata da stampa e tv per le proroghe d’indagine, naturalmente subito condannate, decise nelle vicende abruzzesi, campane, toscane, in cui sono indagati politici e imprenditori, cioè i principali protagonisti di ogni tangentopoli che si rispetti.

Con l’imputazione di “associazione a delinquere eccetera”, i magistrati di Matera mi hanno intercettato e hanno ascoltato tutto ciò che dicevo con i miei colleghi e con il mio direttore, e hanno intercettato – meglio sarebbe dire: spiato –, anche l’ufficiale dei carabinieri e il pm de Magistris che parlavano delle indagini su quei magistrati indagati. I quali si sono trasformati d’autorità in indagatori dei loro indagatori (una vera e propria anticipazione, quasi un esperimento, di quanto avverrà a dicembre 2008, nella cosiddetta “guerra” tra le procure di Salerno e Catanzaro).

Quando accadde tutto questo, che se non è un vero e proprio golpe giudiziario molto vi somiglia, tra i pochi a capire cosa stesse succedendo e cosa ci stessero combinando – come giornale e come informazione libera, intendo –, fu proprio Paolo Mieli.

L’ho scritto anche in “Roba Nostra”, in un momento non sospetto. Quindi il valore di questa testimonianza è doppio.

Mi disse Mieli: “La cosa più grave, più terribile che possano fare a uno di noi, a un giornalista, è questa. Intercettarlo e metterlo sotto controllo in questo modo. Dopo di che, possono solo sparargli”.

Io lamentai il silenzio degli altri giornalisti. Ma capii che anche il direttore del mio giornale era sotto tiro e sotto pressione come me, a causa di quelle inchieste raccontate dal Corriere, e uscii dalla sua stanza forte di una convinzione: che “l’intesa” con un direttore che rischiava di suo facendomi scrivere certe cose valesse molto di più di scontate dichiarazioni di solidarietà dei “colleghi” e della “categoria” (che in ogni caso non ci sono state).
Insomma, la migliore dimostrazione che non fossi solo e che non rischiassi l’isolamento era nel fatto che i miei articoli su quelle vicende, che ormai erano diventate il più grave scandalo giudiziario dal dopoguerra, potessero continuare a essere pubblicati.

Invece, il 3 dicembre scorso, dopo un mio articolo ricco di nomi eccellenti sulle perquisizioni e sui sequestri ordinati dai magistrati di Salerno nei confronti dei magistrati di Catanzaro, sono stato improvvisamente “rimosso” da quel servizio.
Stop. Basta. Senz’alcuna motivazione.
E da quel momento non posso più scrivere di Salerno, Catanzaro, Poseidone, Why Not, Toghe Lucane.
Ma come, lo stesso Mieli che fino a quel momento si era fatto “garante” della mia libertà e quindi della mia incolumità, proprio lui dice basta? Articoli fatti male? Tutt’altro. Qualche grave “scivolone” su un fatto, su una circostanza di rilievo, su un dettaglio? Nemmeno.

Dopo, molti giorni dopo, nel mio giornale circolerà voce che ero stato rimosso perché ero “indagato”. Un tentativo debole di dare una motivazione alla mia rimozione.

Ma anche un tentativo maldestro, perché non specificava che ero, e sono, indagato per quella acrobazia giuridica definita “associazione a delinquere finalizzata alla diffamazione a mezzo stampa”, elaborata strumentalmente dalla procura di Matera. Avrebbe dovuto scattare come un sol uomo, la “categoria”, di fronte a un fatto così grave e così palesemente fuori dalle regole del diritto. Per difendere me, ma soprattutto per difendere il principio di libertà e indipendenza dell’informazione. E invece eccola pronta a farne un motivo di autogiustificazione della propria condotta.

Ma poi, cosa c’entra Matera con la cosiddetta “guerra” tra le procure di Salerno e Catanzaro, che stavo seguendo?
E in ogni caso, cosa c’entra accampare questa motivazione balorda basata su una figura di reato balorda, a sua volta basata sull’assenza di qualsivoglia processo o sentenza che abbia definito diffamatori i miei articoli?
Articoli che, al contrario, in questi due anni hanno trovato via via conferma negli sviluppi delle indagini. Articoli che in diversi casi sono stati inchieste giornalistiche dalle quali – dopo – sono scaturite inchieste giudiziarie.

Ancora. Si può davvero credere che siccome un giornalista viene querelato da un cittadino, o peggio da un indagato, debba per ciò stesso smettere di occuparsi dei fatti che coinvolgono quel cittadino o quell’indagato?
Se siamo a questo punto, allora chiunque (ma già siamo su questa strada) userebbe la querela (e ormai anche la citazione al risarcimento danni) proprio per centrare l’obiettivo di togliersi (o far togliere) dai piedi il giornalista “indesiderato”.
Come del resto è stato fatto per il pm Luigi de Magistris, quando ha iscritto tra gli indagati Clemente Mastella.
Qual è stata l’abnormità logica, prima che giuridica, concepita in quel caso per trasferire de Magistris? Si è detto: un pm che indaghi sul ministro si mette in una posizione di conflitto di interessi con il ministro indagato …

Ne consegue, quindi, che non si può indagare un ministro (nemmeno quando quel ministro, come nel caso di Mastella, era indagato per fatti risalenti al periodo in cui era senatore). Ma per favore!

La verità è che io dovevo smettere di occuparmi di ciò che avevo seguito per due anni per una ragione molto semplice. Una ragione che trascende i direttori di testata. In Italia, poi, li sopravanza di parecchie lunghezze, non c’è gara.
Ed è la ragione della forza.
La forza dei poteri forti, che si sono sentiti in pericolo per le inchieste di magistrati che svolgevano il proprio compito di servitori dello Stato senza accucciarsi sotto l’ala protettiva dei politici e dei magistrati come loro. Ma, al contrario, hanno messo sotto accusa proprio i magistrati, come mai era stato fatto prima, facendo emergere un dato sconvolgente, che nessun procedimento disciplinare e nessun trasferimento potranno mai fiaccare.

Questa storia, che non ha martiri e non ha eroi, è, pensateci bene, anche una storia di trasferimenti decisi da altrettanti poteri forti: la magistratura ha trasferito Forleo da Milano a Cremona e de Magistris da Catanzaro a Napoli, il Vaticano ha fatto cambiare aria al vescovo di Locri, monsignor Giancarlo Bregantini, mandandolo a Campobasso, l’Arma dei carabinieri ha trasferito nelle Marche il capitano Pasquale Zacheo, braccio destro di de Magistris in Basilicata, la procura generale di Catanzaro (quella che secondo i magistrati di Salerno ha avocato illegittimamente l’inchiesta Why Not) ha sollevato dall’incarico il consulente informatico del pm de Magistris, Gioacchino Genchi.

Mancava un giornalista. E’ toccato a me.
I poteri forti, dicevamo. Tra questi, vi è senz’altro la magistratura.
Ma cosa fa paura davvero in tutta questa storia? Qual è la novità indicibile? Eccola. Partendo dalla Calabria e dalla Lucania, su su per l’Italia intera, stava venendo fuori ciò che in fondo tutti pensavano ma non osavano confessare nemmeno a se stessi.

E cioè che non c’è mafia e non c’è tangentopoli e non c’è corruzione e non c’è sistema di malaffare che regga e prosperi, come purtroppo accade in Italia, se non ci sono interi pezzi di magistratura, soprattutto ai livelli direttivi, che garantiscono e coprono questo sistema di nefandezze e in moltissimi casi vi partecipano a pieno titolo.

E’ stata la prima volta che un potere forte come la magistratura si è trovata a doversi confrontare non con il problema di alcune “mele marce” al suo interno, ma con una realtà ben più estesa e radicata, che minacciava, partendo da Toghe Lucane, di provocare uno sconquassante effetto domino per “il sistema”.

Ecco dunque spiegata la corsa del ceto politico – ma non era l’avversario “storico” della magistratura? – a difendere i magistrati inquisiti per reati gravissimi e a garantirli nei loro posti e nelle loro funzioni. Mentre, insieme con il Csm e l’Anm, preparava il rogo per tutti i magistrati liberi, appassionati al loro lavoro, pronti a fare il proprio dovere, impartendo così una durissima lezione, che fosse d’esempio per tutti gli altri, ai due giudici “senza partito”, le pietre dello scandalo Clementina Forleo e Luigi de Magistris.

Il potere forte “magistratura”, per esempio, prima ancora che il potere forte “politica”, non gradisce che si dica, e infatti non lo dice nessuno, che nel Palazzo di giustizia di Milano è rimasta chiusa nei cassetti per due mesi la risposta della giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato riguardante l’iscrizione del senatore Nicola Latorre sul registro degli indagati (sempre per la vicenda delle scalate bancarie).

Siamo nella primavera-estate 2008. Il caso doveva essere trattato dal giudice competente, che era ancora il gip Clementina Forleo.
Invece le carte, regolarmente trasmesse dal Senato il 29 maggio al presidente del tribunale di Milano, Livia Pomodoro, sono state tenute letteralmente nascoste negli uffici del Palazzo di giustizia fino al 29 luglio.
Fino a quando cioè la Forleo, per un piccolo incidente domestico, ha dovuto ricorrere a qualche giorno di congedo per malattia.
Appena la Forleo va in malattia, con la motivazione della “urgenza a provvedere” (l’urgenza? due mesi dopo?) le carte vengono tirate fuori e assegnate ad altro gip, Pietro Gamacchio.
Il quale “in tempo reale” studia un processo complesso, che non conosce, e il primo agosto (il giorno prima del rientro della Forleo) rinnova la richiesta di autorizzazione all’iscrizione del parlamentare nel registro degli indagati.

Dov’è l’inghippo? Nel fatto che a quel punto la procura di Milano poteva tranquillamente iscrivere Latorre nel registro degli indagati (e così D’Alema e gli altri parlamentari, perché la Camera dei deputati aveva già dato il nulla osta, affermando che non era necessaria l’autorizzazione del Parlamento).
Ma non lo ha fatto. Grazie al gip Gamacchio. Infatti, in un caso del genere, dice la legge, il giudice “può” (può, non deve) rinnovare la richiesta di autorizzazione. Se Gamacchio non avesse fatto ciò che con ogni probabilità non avrebbe fatto la Forleo (qualora le avessero trasmesso gli atti che le spettava avere), a quest’ora le cose starebbero diversamente.
Non ci sarebbero state tutte le danze inutili tra Roma e Strasburgo, tra parlamento italiano ed europeo, e Latorre, D’Alema e gli altri telefonisti, a loro garanzia si capisce, come per ogni altro cittadino, risulterebbero iscritti nel registro degli indagati.

Ma questo, in Italia, non si può dire. Non si può dire che il “caimano” Berlusconi, bene o male, nelle aule di giustizia ci è entrato (giustamente) affinché alcuni processi a suo carico fossero celebrati. Mentre per il “caimano” D’Alema (e compagni) non ci può essere nemmeno la semplice iscrizione in un registro degli indagati.

Ognuno a questo punto tragga le conclusioni che vuole, anche quelli ancora convinti che la logica del “meno peggio” sia opportuna o necessaria. Per la cronaca, resta l’esito finale: Forleo trasferita e Gamacchio promosso a presidente di sezione.

Queste cose, per chi volesse conoscerne tutti i passaggi e i dettagli, sono state da me già scritte in una nota (“Su Forleo e de Magistris è calato il silenzio totale”) pubblicata non sul giornale per il quale lavoro, bensì sul blog del giudice Felice Lima, “Uguale per tutti”.
Quella nota è stata poi ripresa da “Dagospia” e ora è anche sul mio blog, carlovulpio.it.

“Ne dobbiamo scrivere in rete, quasi fossimo esuli o clandestini”, così concludevo quella ricostruzione, che in qualunque altro Paese “a democrazia occidentale” avrebbe trovato almeno un giornale o una tv disposti a parlarne.

Forse adesso si comprende meglio perché non è il 3 dicembre, non è la mia “rimozione” dai fatti di Catanzaro il cuore del problema.

Quell’episodio è solo l’acme di una patologia. Di un sistema malato. In cui vi sono poteri forti non controllati né temperati da necessari contrappesi, tra i quali – essenziale, vitale – l’informazione. Che invece è fatta da “uomini deboli”, i giornalisti, una categoria che non c’è.

Per i giornalisti, o per la maggior parte di loro, l’idea che l’informazione sia prima di tutto un mezzo per difendere e garantire la democrazia è un’idea superata, o peggio, inservibile per far carriera e per scalare posizioni di potere.
Se non fosse così, se fosse vero il contrario, non sarebbe passata sotto silenzio la intimidazione messa in atto da magistrati inquisiti che intercettano un intero giornale per sapere come ragionano i suoi giornalisti e per conoscere in anticipo cosa pubblicheranno.
Se non fosse così, quei magistrati inquisiti e coloro che li hanno sostenuti, a tutti i livelli istituzionali, si sarebbero ben guardati dall’attuare l’azione eversiva di spiare i magistrati che indagano su di loro.

Su questo, non c’è stata ancora una sola procura della Repubblica che abbia aperto un’inchiesta. Mentre il sistema dell’informazione si è ben guardato dal trattare l’argomento.
Ma il silenziatore non ha funzionato. Non può più funzionare. Perché c’è un mondo reale, ormai, fatto di persone reali, che utilizzano lo strumento virtuale della Rete e che si parlano, si informano, si confrontano. E’ molto difficile ingannarle.

E infatti, che questa mia “rimozione” dal “caso Catanzaro” non fosse solo un deprecabile episodio, ma il sintomo di una malattia ben più grave, che va ben oltre la mia persona e il mio lavoro, lo hanno capito subito qualche milione di frequentatori della Rete. Associazioni, singoli individui, blog noti come quelli di Beppe Grillo e di MicroMega, o meno noti (elencarli tutti non si può), e finanche un migliaio di giornalisti (ebbene sì, ce ne sono ancora) che hanno firmato un documento senza sbavature “corporativistiche”.

Tutto questo ha un valore ancora più grande se pensiamo che negli altri Paesi occidentali, a cominciare dagli Stati Uniti, esiste una più o meno profonda convinzione che la stampa debba essere libera e indipendente. Mentre in Italia libertà di espressione e di informazione (sia come diritto a informare, sia come diritto a essere informati) sono ormai considerati beni di lusso, o armi improprie. O entrambe le cose.

E quindi vanno tenute sotto controllo.
Ecco, appunto, il controllo. Come si fa a controllare, a purgare, a troncare e a sopire, a narcotizzare, a seppellire? E qual è la “linea rossa” oltre la quale scatta il controllo e, zac, la tagliola si chiude?
Rispondere a queste domande sembra facile.
Si dirà: ci sono tanti modi per modificare un articolo, o per censurarne le parti più scomode.

Si potrebbe cominciare da quel “taglia e cuci” praticato all’insaputa dell’autore da tempo immemore in tutte le redazioni, magari in nome della esiguità dello spazio, e si potrebbe finire con il pressing e con le “raccomandazioni” di un caporedattore, o di un membro della direzione, o del direttore in persona: raccomandazioni che in certi casi sono più cogenti di quelle emanate dalla Unione europea …
Ma tagliare brutalmente un articolo è ormai considerato un modo primitivo di raggiungere l’obiettivo.

Mentre il pressing e la “raccomandazione”, oltre a scoprire i giochi, possono creare antipatici incidenti diplomatici.
E allora come si fa? Non si fa.
Siamo in una nuova era, ormai. Nella quale, l’Uomo Nuovo – immaginiamolo come la creatura di Aldous Huxley trasferita in tutti i mezzi di comunicazione di massa – è uno Yes Man perfetto.

Ecco, i giornalisti oggi sembrano dei replicanti, altrettanti Yes Men pronti a ubbidire.
Ma la grandezza di questa ultima fase dell’evoluzione della specie è nel fatto che costoro ubbidiscono senza nemmeno attendere gli ordini.
Che, attenzione, non sono sempre e necessariamente gli ordini di un Altro. Sono, ormai, gli ordini che lo Yes Man ha imparato a impartire a se stesso.
Se non lo facesse si sentirebbe perduto.
Oltre ogni autocensura, dunque, che pure si pensava fosse il massimo stadio del controllo della stampa “libera”. Poteri forti e uomini deboli, affinché il controllo totale delle notizie e delle loro chiavi di lettura sia sempre più efficace.

La perfezione però si raggiunge quando il controllo si evolve in riflesso condizionato. La tomba di ogni senso critico. I cani di Pavlov.
Se invece il meccanismo dell’autoimposizione non dovesse funzionare per una ragione qualsiasi, scatta il sistema d’allarme tradizionale. La catena di sant’Antonio delle telefonate. Da un giornalista all’altro, come dal brigadiere al maresciallo al colonnello, fino al generale e oltre.
E naturalmente anche in senso contrario, poiché non si telefona mica soltanto “dal” giornale (o dalla tv). Si telefona anche “al” giornale (o alla tv). E le telefonate da un Palazzo all’altro non sono mica soltanto chiamate urbane, è ovvio.
“E’ la stampa, bellezza”.

Sollevarne uno per far sentire sollevati tutti gli altri. Ma non dura, vedrete.

di Carlo vulpio

20 marzo 2009

Perchè la banca d'Italia è fallita



(Scrivo questo articolo perché ne prenda visione la commissione voluta dal Ministro dell'Economia Tremonti, istituita per elaborare e proporre nuove regole da presentare al G20 di aprile 2009)

Abuso della credulità popolare e appropriazione indebita del potere d'acquisto, reati contro il patrimonio ed una catena margherita di frodi ai danni del pubblico sono solo alcune delle peculiarietà del nostro sistema bancario attuale (1) basato sul "miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci" che deriva dal meccanismo truffaldino della riserva frazionaria. Ne ho parlato diffusamente nei miei libri (2) ed in precedenti articoli (3) ma qui aggiungerò alcune considerazioni inedite. Il rischio fondamentale che sta correndo il sistema è che il pubblico si accorga che sta giocando una partita a poker dove un baro, il sistema bancario, viene sponsorizzato ad oltranza dallo stato. Questo trascinerà nel baratro ambedue, lasciando al popolo sovrano le macerie. Vediamo di ricapitolare, senza ri-capitolare - possibilmente.

Fin dall'inizio nel 1860 la banca centrale, che all'epoca si chiamava Banca Nazionale, barava nell'emissione delle banconote emettendone quattro volte la riserva aurea che aveva in deposito. Il rapporto era quindi uno a quattro e se tutti avessero chiesto la conversione delle banconote in oro, il sistema sarebbe subito fallito e non ci troveremmo nella condizione attuale. Invece, grazie ad una serie di artifici ed alla collusione di alcuni politici e statali, il sistema prosperò e siamo arrivati ad un rapporto attuale ufficiale di uno a cinquanta. Questo rapporto si è poi diluito ancor più col sistema dei derivati, ma per ora limitiamoci al "cinquantato credito". Un cinquantato credito non più verso una riserva aurea di cui si è appropriata di fatto la Banca d'Italia dopo il 1973, alla fine degli accordi Smithsoniani, ma verso la base monetaria creata dalle monete metalliche statali più le banconote private della BCE. Spiegherò il sistema illustrando un grave fraintendimento della criminologia contemporanea: il cosiddetto Schema Ponzi.

Lo "Schema Ponzi rivisitato"

In criminologia si fa riferimento allo Schema Ponzi per indicare una truffa in cui si raccolgono soldi promettendo dividendi elevati, dividendi che vengono prelevati direttamente dai nuovi aderenti allo schema secondo un sistema piramidale. Il sistema crolla quando finiscono i nuovi arrivati e diventa impossibile pagare ulteriormente i dividendi. Per questo è essenziale l'immigrazione continua di nuovi lavoratori, che pagano nuovi contributi, per mantenere in piedi lo Schema Ponzi del sistema pensionistico italiano, ma questo è un altro discorso... In realtà Carlo Ponzi negli anni venti del secolo scorso si era messo semplicemente d'accordo con un banchiere che praticava la riserva frazionaria, all'epoca al 10%. Ovvero, per ogni 100 dollari che Ponzi versava, il banchiere ne creava novecento e gliene ritornava 100 per pagare gli interessi. Cinquanta venivano distribuiti ai partecipanti allo schema e 50 se li teneva Ponzi. Al banchiere rimanevano 800 da prestare e reincassare, oltre agli interessi, tramite il "meccanismo del riflusso" - ovvero, incassando le rate ripagate periodicamente dai prestatari ed appropriandosene, proprio come fanno ancor oggi le banche. Così si spiega facilmente perché, anche quando ormai i quotidiani avevano montato uno scandalo descrivendo però il sistema come, appunto, uno Schema Ponzi tradizionale, la società di Ponzi riusciva ancora senza problema a rimborsare i clienti sia del capitale che degli interessi. Nel "vero" schema Ponzi, chi ci rimetteva erano le altre banche concorrenti che non partecipavano allo schema: mancando dei versamenti della moneta-base della clientela di Ponzi, non potevano innescare l'appropriazione indebita attraverso la moltiplicazione frazionaria. Bastava che si mettessero d'accordo tra banche, come fanno oggi attraverso la partecipazione in Bankitalia, per spartirsi proporzionalmente il malloppo, e tutto sarebbe andato a meraviglia...o quasi. Fino a quando cioè, come sta accadendo ora, una gran parte della popolazione si accorge del trucco. E' proprio perché i criminologi non sanno del reale funzionamento dello Schema Ponzi originale che diventa difficile individuare tutti quei crimini collegati a quel sistema. Per questo i magistrati non capiscono che le centrali internazionali del clearing interbancario, non sono altro che delle megalavanderie dei profitti dello "Schema Ponzi rivisitato". Tutto il denaro del riflusso bancario viene riciclato e lavato attraverso queste centrali di compensazione, attraverso migliaia conti "non pubblicati", come nel caso di Clearstream scoperto dal giornalista francese Denis Robert (4). Senza l'appropriazione indebita effettuata attraverso la privatizzazione della rendita monetaria, parecchie belle fortune sarebbero davvero inspiegabili...

Facciamo giustizia

La moneta emessa dalla privata Banca Centrale Europea (BCE) pesca nel potere d'acquisto di tutta la comunità europea, costretta ad accettarla perché "a corso legale", in realtà "corso forzoso". E questo è il primo 100% di valore che si paga in modo invisibile. Di più, quando lo stato ha bisogno di soldi, emette titoli di debito AL VALORE NOMINALE della moneta anziché sostenerne semplicemente le spese di emissione, come invece fa per le monetine metalliche. La BCE però nel bilancio occulta la rendita monetaria effettiva mettendola al passivo, sicché il cosiddetto signoraggio - come inteso da Bankitalia - risulta la differenza tra il falso passivo ed i titoli più i guadagni realizzati dalla banca centrale attraverso altre speculazioni e manipolazioni del mercato, messi all'attivo. La rendita monetaria quindi, illecita soprattutto perché privata e non incamerata come tassa di stato, viene chiamata signoraggio e la Banca d'Italia non ha nessuna intenzione di restituirla (5). Alla luce di quanto è emerso, è triste notare che il governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, ha addirittura citato in giudizio il giornalista Ugo Gaudenzi che aveva osato chiamarlo "criminale". Draghi farebbe bene a ricordarsi le lezioni del suo professore Federico Caffè, che non era certo a favore di un sistema truffaldino destinato ad arricchire una "èlite di nati stanchi" - per non dir di peggio! - negando di fatto, alla popolazione la redistribuzione della ricchezza. Questa però la chiamerei meglio: "bancarotta morale". Invece di lottare disperatamente per rimandare l'inevitabile, consiglio a Draghi un ravvedimento operoso. Segua l'esempio del Prof. Nino Galloni, altro allievo di Caffè, e scriva libri per educare i giovani, piuttosto.
La magistratura in generale non può fornire una soluzione alla truffa dell'emissione monetaria a doppio debito dei cittadini, più gli interessi. Lo ha dimostrato una sentenza recente a sezioni riunite della Cassazione (6). Va anche notato che i magistrati vengono pagati dalla Tesoreria dello Stato, gestita misteriosamente dal 1907 dalla Banca d'Italia, senza regolare gara d'appalto ma attraverso un "tacito" rinnovo ventennale... Mi pare evidente che c'è un pauroso conflitto d'interessi incestuoso per cui codesti magistrati andrebbero automaticamente esonerati dalle cause che riguardano cittadini e banche. Per quanto se ne sa, solo il procuratore generale Bruno Tarquini, ormai a riposo, si è occupato dello scandalo monetario nel suo libro istruttivo "La banca, la moneta e l'usura - La Costituzione tradita", ControCorrente Edizioni, 2001. Un questore che aveva avviato una causa giudiziaria in merito, Arrigo Molinari, venne assassinato a coltellate poco prima della convocazione in Tribunale (27 settembre 2005)... La polizia europea antifrode - OLAF - se ne è lavata le mani nel 2005 (7). Lo stato occulta la piena verità sulle politiche monetarie attraverso il segreto di stato imposto per legge (8), in barba alla cosiddetta "trasparenza". Il nuovo statuto regionale federale lombardo (9) addirittura, travalicando le intenzioni della Costituzione nell'articolo sul referendum abrogativo, all'art. 50 paragrafo 2 recita: Non è ammessa l’iniziativa popolare in materia statutaria, elettorale, finanziaria, tributaria, di bilancio, di ratifica di accordi con Stati esteri e di intese con enti territoriali interni ad altro Stato o con altre Regioni.

Siamo quindi in un vuoto che potrà essere colmato attualmente solo attraverso l'istituzione di uno strumento quasi-monetario pubblico (10), e/o attraverso l'istituzione di giurie popolari, come nel caso della Corte d'Assise Speciale che giudicò i gerarchi fascisti nel dopoguerra, che facciano emergere i reati facendo piena luce (11), o, in caso estremo, attraverso l'insorgenza e la rivoluzione, come nell'America del 1776. Da notare, per finire, che la situazione del debito italiana è simile a quella della Francia del 1780, dove più della metà delle entrate andavano a servire il debito pubblico. Fu un fattore scatenante della rivoluzione francese del 1789...

A voi la scelta.
Marco Saba


Note:

1) Per capire bene la somma di illegalità e mostruosità giuridiche nella gestione attuale del sistema del credito, dal punto di vista del diritto romano, è necessario ed opportuno leggere il testo del Prof. Jesus Huerta De Soto "Money, Bank Credit, and Economic Cycles". liberamente scaricabile da internet:
http://mises.org/books/desoto.pdf

2) "Bankenstein", ed. Nexus (2006), e "O la banca o la vita", Arianna Editrice (2008).

3) L'ultimo è "Salvataggio bancario, un brutto scherzo goliardico", Rinascita, 5 marzo 2009.

4) "Soldi - Il libro nero della finanza internazionale", di Denis Robert e Ernest Backes, Nuovi Mondi Media, 2004

5) Scrive la Banca d'Italia sul suo sito, in data 2 agosto 2006, ovvero sotto al governatorato di Mario Draghi: "Alla luce delle superiori considerazioni questo Istituto respingerà ogni ulteriore richiesta di pagamento di quote del reddito da signoraggio e far valere la decisione delle Sezioni Unite in ogni procedimento giurisdizionale allo stato pendente o che in futuro dovesse essere instaurato nei suoi confronti."
http://www.bancaditalia.it/bancomonete/signoraggio/signoraggio_ss_uu_comunicazione.pdf

6) Cass., sez. I, 21 giugno 2002, n. 9080 e Cass.16751/06, 21 luglio 2006.

7) Polizia Europea Antifrode OLAF: Non siamo competenti per indagini relative a presunte frodi connesse al fenomeno del cosiddetto "signoraggio" - 9 settembre 2005
http://studimonetari.org/articoli/olafesignoraggio.html

8) Il decreto n. 561 del 13 ottobre 1995, pubblicato sulla "Gazzetta Ufficiale" n. 302 del 29 dicembre 1995.

9) http://www.parlamentiregionali.it/dbdata/documenti
/%5B482bef087b02c%5Dlombardia_14.05.08_IIlettura.pdf

10) Come proposto nel disegno di legge regionale sui Buoni Regionali di Solidarietà:
http://studimonetari.org/propostaleggeregionalebrs.pdf

11) Si tratterebbe di giudicare circa 320.000 bancari, evidenziando quei casi in cui si può dimostrare l'elemento psicologico del reato. I dirigenti e la direzione strategica delle banche sono quelli che rischiano di più, assieme ai dipendenti Bankitalia.

19 marzo 2009

L'ICI sui panneli fotovoltaici

schema-impianto-fotovoltaico

Subdola mossa della lobby nuclearista!
Spaventati dal fatto che molti grossi industriali incominciano ad investire
nelle rinnovabili (Morati, Brachetti Peretti, Maccaferri, Burani,ecc. ecc.) e
non si sognano di investire un euro sul nucleare, per prevenire una situazione
di fatto in cui sarebbe chiaro che le rinnovabili sono in grado di soddisfare
la maggior richiesta di energia, e quindi rendere inutili il ricorso alla
energia atomica, ecco spuntare una tassa di ispirazione governativa, che vuole
far pagare l’ICI alle aziende che con i pannelli solari producono elettricità.
A giudizio degli industriali organizzati nell’ “Assosolare” la imposta
metterebbe a rischio lo sviluppo del settore, cresciuto del 500% nell’ultimo
anno, e con una prospettiva di installare nel 2009 una potenza di 250
Megawatt.
Se si pensa che questa quota di energia è producibile ogni anno, e con
opportuni incentivi può essere aumentata senza limiti, si può capire che fra
dieci e più anni, quando sarebbero pronte le centrali nucleari tanto care a
Berlusconi e a Scaiola, queste resterebbero ferme perché la produzione di
energia da fonti innovabili sarebbe sufficiente al fabbisogno italiano.
Può essere utile ricordare che mister Buffet, uno dei più ricchi capitalisti
americani, spese recentemente milioni di dollari per fare una inchiesta
industriale sul nucleare e verificare se tale iniziativa poteva essere
conveniente. La riposta, data da uno studio indipendente, fu negativa, e,
malgrado la spesa fatta, Buffet non investì un dollaro in quella avventura.
Appare sconcertante la decisione del governo, mascherato dietro l’Agenzia per
il territorio (ente pubblico collegato al ministero dell’economia e delle
finanze, che si è inventato l’ipotetica tassa sui pannelli), contro un settore
che è aumentato del 500% in un solo anno.
Il secondo governo Berlusconi ebbe la splendida idea di far fuori Rubbia dall’
Enea, invece di dargli tutti i poteri per trasformare quell’istituto e
cominciare a costruire le centrali solari termodinamiche, di sua invenzione,
che altri paesi oggi stanno già ultimando.
La destra ostacola ottusamente lo sviluppo del settore rinnovabile, cerca di
impedirne la crescita, intralciando quello che dovrebbe essere un libero
mercato, colpendo anche industriali del settore, per avvantaggiare una
tecnologia superata, pericolosa, non rinnovabile in quanto l’uranio è in
esaurimento, e i cui costi non sono nemmeno quantificabili poiché il costo
maggiore del nucleare è quello che viene dopo i 40 anni di esercizio, ossia lo
smantellamento e la messa in sicurezza delle scorie. Operazione che in Italia
non è stata ancora compiuta per le centrali nucleari dismesse, a oltre 20 anni
dalla chiusura, voluta dal referendum.


di Paolo De Gregorio

18 marzo 2009

L'esempio nei giornali della Casta. Yesman

yesmanNon ci sono martiri, né eroi in questa storia. E non c’è nemmeno un Humphrey Bogart che dica: “E’ la stampa, bellezza”.
Ci sono soltanto giornali e giornalisti. Fatti della vita, che spesso sono fatti scandalosi, e modi diversi di raccontarli. Poteri forti e uomini deboli.

Come forse qualcuno già sa, per il mio giornale, il Corriere della Sera, mi sono occupato per quasi due anni delle inchieste Poseidone, Why Not e Toghe Lucane dell’ex pm di Catanzaro, Luigi de Magistris, e delle disavventure, chiamiamole così, di Clementina Forleo, da quando l’ex gip di Milano ha cominciato a occuparsi delle scalate bancarie illegali Unipol-Bnl-Antoveneta-Rcs.

Su queste cose... e su altre molto simili, ho scritto anche un libro, “Roba Nostra” (il Saggiatore), in cui si narra di una Nuova Tangentopoli italiana: il primo punto fermo sul quale si basa questa riflessione.

Molti, a destra e a sinistra, naturalmente interessati a smontare sia il contenuto di queste inchieste, senza conoscerle né discuterle, sia l’idea stessa che possa esserci una Nuova Tangentopoli hanno di volta in volta cercato di liquidare le une e l’altra.
Come un rigurgito di giustizialismo, come l’irresistibile mania di protagonismo dei soliti magistrati in cerca di autore, o come l’insopprimibile desiderio di riattivare quel circolo (definito sarcasticamente anche circo) mediatico-giudiziario che porta certe notizie fin sui giornali (ma guarda un po’).
Insomma, tutto l’armamentario propagandistico che di fronte a un problema serio sposta sempre il problema un po’ più in là per parlar d’altro e rovesciare le parti.

Così il problema, il “caso”, per tornare a noi, sono diventati de Magistris e Forleo.
Sapete tutti com’è andata a finire. Forleo e de Magistris trasferiti con motivazioni risibili, pretestuose, addirittura inesistenti e le loro inchieste fatte a pezzi.
Anche se alcuni mesi dopo la loro defenestrazione e l’uscita di “Roba Nostra” sono stati in molti, a destra e a sinistra, a riconoscere come stanno realmente le cose.

Due persone, in modo particolare. L’ex presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, e Primo Greganti, sì, proprio l’uomo del “conto Gabbietta” e delle tangenti rosse. Entrambi, Ciampi e Greganti, hanno detto la stessa cosa: oggi non è “come”, ma è “peggio” di Tangentopoli ‘92.
Se la nuova Tangentopoli è più grave della vecchia, allora si capisce meglio perché scriverne e parlarne in tv e sui giornali è cosa molto, molto più difficile di quanto non lo fosse nel ‘92.

E non solo perché è cambiata l’aria, o perché ci sono dentro tutti (anche allora c’erano dentro tutti, ma alcuni hanno pagato e altri no), quanto perché questa Tangentopoli è davvero “nuova”: innanzi tutto è, al tempo stesso, più semplice e più raffinata nei meccanismi; poi, è più remunerativa e più nascosta; infine è di una trasversalità perfetta, in alcuni casi sembra studiata a tavolino affinché i suoi protagonisti “simul stabunt, simul cadent”.

Per questa ragione, nessuno di noi (pochi) giornalisti che avevamo deciso di scrivere ciò che sapevamo si è mai illuso che il giorno dopo avrebbe continuato a scrivere sull’argomento.
In questi ultimi due anni però, bene o male, ci siamo riusciti. Con prezzi alti, in termini di costi umani e professionali, ma ci siamo riusciti.
Abbiamo scritto di questa Nuova Tangentopoli nonostante non operassimo in “pool”, come facevano i cronisti ai tempi di Mani Pulite, ma fossimo altrettanti cercatori di notizie “maledetti e solitari”.

E nonostante tutti quei “colleghi” che, pur avendo le nostre stesse notizie, sceglievano di non pubblicarle, di non battersi all’interno dei rispettivi giornali per pubblicarle, o addirittura facessero a gara per “smentire” quelle notizie prima ancora di venirne a conoscenza e di verificarle.

Per questa “presenza” del Corriere della Sera sulle inchieste più delicate del Paese, nell’estate del 2007, i magistrati di Matera indagati in Toghe Lucane mi hanno accusato (assieme ad altri quattro giornalisti e a un capitano dei carabinieri) di “associazione a delinquere finalizzata alla diffamazione a mezzo stampa”, un reato inedito e delirante, per il quale sono ancora indagato.

Le indagini a nostro carico sono state prorogate quattro volte.
Ma per questa vicenda nessuna presa di posizione “garantista” da parte dei commentatori un tanto al chilo della “libera stampa”.
Per questa vergogna, nemmeno un decimo dell’attenzione riservata da stampa e tv per le proroghe d’indagine, naturalmente subito condannate, decise nelle vicende abruzzesi, campane, toscane, in cui sono indagati politici e imprenditori, cioè i principali protagonisti di ogni tangentopoli che si rispetti.

Con l’imputazione di “associazione a delinquere eccetera”, i magistrati di Matera mi hanno intercettato e hanno ascoltato tutto ciò che dicevo con i miei colleghi e con il mio direttore, e hanno intercettato – meglio sarebbe dire: spiato –, anche l’ufficiale dei carabinieri e il pm de Magistris che parlavano delle indagini su quei magistrati indagati. I quali si sono trasformati d’autorità in indagatori dei loro indagatori (una vera e propria anticipazione, quasi un esperimento, di quanto avverrà a dicembre 2008, nella cosiddetta “guerra” tra le procure di Salerno e Catanzaro).

Quando accadde tutto questo, che se non è un vero e proprio golpe giudiziario molto vi somiglia, tra i pochi a capire cosa stesse succedendo e cosa ci stessero combinando – come giornale e come informazione libera, intendo –, fu proprio Paolo Mieli.

L’ho scritto anche in “Roba Nostra”, in un momento non sospetto. Quindi il valore di questa testimonianza è doppio.

Mi disse Mieli: “La cosa più grave, più terribile che possano fare a uno di noi, a un giornalista, è questa. Intercettarlo e metterlo sotto controllo in questo modo. Dopo di che, possono solo sparargli”.

Io lamentai il silenzio degli altri giornalisti. Ma capii che anche il direttore del mio giornale era sotto tiro e sotto pressione come me, a causa di quelle inchieste raccontate dal Corriere, e uscii dalla sua stanza forte di una convinzione: che “l’intesa” con un direttore che rischiava di suo facendomi scrivere certe cose valesse molto di più di scontate dichiarazioni di solidarietà dei “colleghi” e della “categoria” (che in ogni caso non ci sono state).
Insomma, la migliore dimostrazione che non fossi solo e che non rischiassi l’isolamento era nel fatto che i miei articoli su quelle vicende, che ormai erano diventate il più grave scandalo giudiziario dal dopoguerra, potessero continuare a essere pubblicati.

Invece, il 3 dicembre scorso, dopo un mio articolo ricco di nomi eccellenti sulle perquisizioni e sui sequestri ordinati dai magistrati di Salerno nei confronti dei magistrati di Catanzaro, sono stato improvvisamente “rimosso” da quel servizio.
Stop. Basta. Senz’alcuna motivazione.
E da quel momento non posso più scrivere di Salerno, Catanzaro, Poseidone, Why Not, Toghe Lucane.
Ma come, lo stesso Mieli che fino a quel momento si era fatto “garante” della mia libertà e quindi della mia incolumità, proprio lui dice basta? Articoli fatti male? Tutt’altro. Qualche grave “scivolone” su un fatto, su una circostanza di rilievo, su un dettaglio? Nemmeno.

Dopo, molti giorni dopo, nel mio giornale circolerà voce che ero stato rimosso perché ero “indagato”. Un tentativo debole di dare una motivazione alla mia rimozione.

Ma anche un tentativo maldestro, perché non specificava che ero, e sono, indagato per quella acrobazia giuridica definita “associazione a delinquere finalizzata alla diffamazione a mezzo stampa”, elaborata strumentalmente dalla procura di Matera. Avrebbe dovuto scattare come un sol uomo, la “categoria”, di fronte a un fatto così grave e così palesemente fuori dalle regole del diritto. Per difendere me, ma soprattutto per difendere il principio di libertà e indipendenza dell’informazione. E invece eccola pronta a farne un motivo di autogiustificazione della propria condotta.

Ma poi, cosa c’entra Matera con la cosiddetta “guerra” tra le procure di Salerno e Catanzaro, che stavo seguendo?
E in ogni caso, cosa c’entra accampare questa motivazione balorda basata su una figura di reato balorda, a sua volta basata sull’assenza di qualsivoglia processo o sentenza che abbia definito diffamatori i miei articoli?
Articoli che, al contrario, in questi due anni hanno trovato via via conferma negli sviluppi delle indagini. Articoli che in diversi casi sono stati inchieste giornalistiche dalle quali – dopo – sono scaturite inchieste giudiziarie.

Ancora. Si può davvero credere che siccome un giornalista viene querelato da un cittadino, o peggio da un indagato, debba per ciò stesso smettere di occuparsi dei fatti che coinvolgono quel cittadino o quell’indagato?
Se siamo a questo punto, allora chiunque (ma già siamo su questa strada) userebbe la querela (e ormai anche la citazione al risarcimento danni) proprio per centrare l’obiettivo di togliersi (o far togliere) dai piedi il giornalista “indesiderato”.
Come del resto è stato fatto per il pm Luigi de Magistris, quando ha iscritto tra gli indagati Clemente Mastella.
Qual è stata l’abnormità logica, prima che giuridica, concepita in quel caso per trasferire de Magistris? Si è detto: un pm che indaghi sul ministro si mette in una posizione di conflitto di interessi con il ministro indagato …

Ne consegue, quindi, che non si può indagare un ministro (nemmeno quando quel ministro, come nel caso di Mastella, era indagato per fatti risalenti al periodo in cui era senatore). Ma per favore!

La verità è che io dovevo smettere di occuparmi di ciò che avevo seguito per due anni per una ragione molto semplice. Una ragione che trascende i direttori di testata. In Italia, poi, li sopravanza di parecchie lunghezze, non c’è gara.
Ed è la ragione della forza.
La forza dei poteri forti, che si sono sentiti in pericolo per le inchieste di magistrati che svolgevano il proprio compito di servitori dello Stato senza accucciarsi sotto l’ala protettiva dei politici e dei magistrati come loro. Ma, al contrario, hanno messo sotto accusa proprio i magistrati, come mai era stato fatto prima, facendo emergere un dato sconvolgente, che nessun procedimento disciplinare e nessun trasferimento potranno mai fiaccare.

Questa storia, che non ha martiri e non ha eroi, è, pensateci bene, anche una storia di trasferimenti decisi da altrettanti poteri forti: la magistratura ha trasferito Forleo da Milano a Cremona e de Magistris da Catanzaro a Napoli, il Vaticano ha fatto cambiare aria al vescovo di Locri, monsignor Giancarlo Bregantini, mandandolo a Campobasso, l’Arma dei carabinieri ha trasferito nelle Marche il capitano Pasquale Zacheo, braccio destro di de Magistris in Basilicata, la procura generale di Catanzaro (quella che secondo i magistrati di Salerno ha avocato illegittimamente l’inchiesta Why Not) ha sollevato dall’incarico il consulente informatico del pm de Magistris, Gioacchino Genchi.

Mancava un giornalista. E’ toccato a me.
I poteri forti, dicevamo. Tra questi, vi è senz’altro la magistratura.
Ma cosa fa paura davvero in tutta questa storia? Qual è la novità indicibile? Eccola. Partendo dalla Calabria e dalla Lucania, su su per l’Italia intera, stava venendo fuori ciò che in fondo tutti pensavano ma non osavano confessare nemmeno a se stessi.

E cioè che non c’è mafia e non c’è tangentopoli e non c’è corruzione e non c’è sistema di malaffare che regga e prosperi, come purtroppo accade in Italia, se non ci sono interi pezzi di magistratura, soprattutto ai livelli direttivi, che garantiscono e coprono questo sistema di nefandezze e in moltissimi casi vi partecipano a pieno titolo.

E’ stata la prima volta che un potere forte come la magistratura si è trovata a doversi confrontare non con il problema di alcune “mele marce” al suo interno, ma con una realtà ben più estesa e radicata, che minacciava, partendo da Toghe Lucane, di provocare uno sconquassante effetto domino per “il sistema”.

Ecco dunque spiegata la corsa del ceto politico – ma non era l’avversario “storico” della magistratura? – a difendere i magistrati inquisiti per reati gravissimi e a garantirli nei loro posti e nelle loro funzioni. Mentre, insieme con il Csm e l’Anm, preparava il rogo per tutti i magistrati liberi, appassionati al loro lavoro, pronti a fare il proprio dovere, impartendo così una durissima lezione, che fosse d’esempio per tutti gli altri, ai due giudici “senza partito”, le pietre dello scandalo Clementina Forleo e Luigi de Magistris.

Il potere forte “magistratura”, per esempio, prima ancora che il potere forte “politica”, non gradisce che si dica, e infatti non lo dice nessuno, che nel Palazzo di giustizia di Milano è rimasta chiusa nei cassetti per due mesi la risposta della giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato riguardante l’iscrizione del senatore Nicola Latorre sul registro degli indagati (sempre per la vicenda delle scalate bancarie).

Siamo nella primavera-estate 2008. Il caso doveva essere trattato dal giudice competente, che era ancora il gip Clementina Forleo.
Invece le carte, regolarmente trasmesse dal Senato il 29 maggio al presidente del tribunale di Milano, Livia Pomodoro, sono state tenute letteralmente nascoste negli uffici del Palazzo di giustizia fino al 29 luglio.
Fino a quando cioè la Forleo, per un piccolo incidente domestico, ha dovuto ricorrere a qualche giorno di congedo per malattia.
Appena la Forleo va in malattia, con la motivazione della “urgenza a provvedere” (l’urgenza? due mesi dopo?) le carte vengono tirate fuori e assegnate ad altro gip, Pietro Gamacchio.
Il quale “in tempo reale” studia un processo complesso, che non conosce, e il primo agosto (il giorno prima del rientro della Forleo) rinnova la richiesta di autorizzazione all’iscrizione del parlamentare nel registro degli indagati.

Dov’è l’inghippo? Nel fatto che a quel punto la procura di Milano poteva tranquillamente iscrivere Latorre nel registro degli indagati (e così D’Alema e gli altri parlamentari, perché la Camera dei deputati aveva già dato il nulla osta, affermando che non era necessaria l’autorizzazione del Parlamento).
Ma non lo ha fatto. Grazie al gip Gamacchio. Infatti, in un caso del genere, dice la legge, il giudice “può” (può, non deve) rinnovare la richiesta di autorizzazione. Se Gamacchio non avesse fatto ciò che con ogni probabilità non avrebbe fatto la Forleo (qualora le avessero trasmesso gli atti che le spettava avere), a quest’ora le cose starebbero diversamente.
Non ci sarebbero state tutte le danze inutili tra Roma e Strasburgo, tra parlamento italiano ed europeo, e Latorre, D’Alema e gli altri telefonisti, a loro garanzia si capisce, come per ogni altro cittadino, risulterebbero iscritti nel registro degli indagati.

Ma questo, in Italia, non si può dire. Non si può dire che il “caimano” Berlusconi, bene o male, nelle aule di giustizia ci è entrato (giustamente) affinché alcuni processi a suo carico fossero celebrati. Mentre per il “caimano” D’Alema (e compagni) non ci può essere nemmeno la semplice iscrizione in un registro degli indagati.

Ognuno a questo punto tragga le conclusioni che vuole, anche quelli ancora convinti che la logica del “meno peggio” sia opportuna o necessaria. Per la cronaca, resta l’esito finale: Forleo trasferita e Gamacchio promosso a presidente di sezione.

Queste cose, per chi volesse conoscerne tutti i passaggi e i dettagli, sono state da me già scritte in una nota (“Su Forleo e de Magistris è calato il silenzio totale”) pubblicata non sul giornale per il quale lavoro, bensì sul blog del giudice Felice Lima, “Uguale per tutti”.
Quella nota è stata poi ripresa da “Dagospia” e ora è anche sul mio blog, carlovulpio.it.

“Ne dobbiamo scrivere in rete, quasi fossimo esuli o clandestini”, così concludevo quella ricostruzione, che in qualunque altro Paese “a democrazia occidentale” avrebbe trovato almeno un giornale o una tv disposti a parlarne.

Forse adesso si comprende meglio perché non è il 3 dicembre, non è la mia “rimozione” dai fatti di Catanzaro il cuore del problema.

Quell’episodio è solo l’acme di una patologia. Di un sistema malato. In cui vi sono poteri forti non controllati né temperati da necessari contrappesi, tra i quali – essenziale, vitale – l’informazione. Che invece è fatta da “uomini deboli”, i giornalisti, una categoria che non c’è.

Per i giornalisti, o per la maggior parte di loro, l’idea che l’informazione sia prima di tutto un mezzo per difendere e garantire la democrazia è un’idea superata, o peggio, inservibile per far carriera e per scalare posizioni di potere.
Se non fosse così, se fosse vero il contrario, non sarebbe passata sotto silenzio la intimidazione messa in atto da magistrati inquisiti che intercettano un intero giornale per sapere come ragionano i suoi giornalisti e per conoscere in anticipo cosa pubblicheranno.
Se non fosse così, quei magistrati inquisiti e coloro che li hanno sostenuti, a tutti i livelli istituzionali, si sarebbero ben guardati dall’attuare l’azione eversiva di spiare i magistrati che indagano su di loro.

Su questo, non c’è stata ancora una sola procura della Repubblica che abbia aperto un’inchiesta. Mentre il sistema dell’informazione si è ben guardato dal trattare l’argomento.
Ma il silenziatore non ha funzionato. Non può più funzionare. Perché c’è un mondo reale, ormai, fatto di persone reali, che utilizzano lo strumento virtuale della Rete e che si parlano, si informano, si confrontano. E’ molto difficile ingannarle.

E infatti, che questa mia “rimozione” dal “caso Catanzaro” non fosse solo un deprecabile episodio, ma il sintomo di una malattia ben più grave, che va ben oltre la mia persona e il mio lavoro, lo hanno capito subito qualche milione di frequentatori della Rete. Associazioni, singoli individui, blog noti come quelli di Beppe Grillo e di MicroMega, o meno noti (elencarli tutti non si può), e finanche un migliaio di giornalisti (ebbene sì, ce ne sono ancora) che hanno firmato un documento senza sbavature “corporativistiche”.

Tutto questo ha un valore ancora più grande se pensiamo che negli altri Paesi occidentali, a cominciare dagli Stati Uniti, esiste una più o meno profonda convinzione che la stampa debba essere libera e indipendente. Mentre in Italia libertà di espressione e di informazione (sia come diritto a informare, sia come diritto a essere informati) sono ormai considerati beni di lusso, o armi improprie. O entrambe le cose.

E quindi vanno tenute sotto controllo.
Ecco, appunto, il controllo. Come si fa a controllare, a purgare, a troncare e a sopire, a narcotizzare, a seppellire? E qual è la “linea rossa” oltre la quale scatta il controllo e, zac, la tagliola si chiude?
Rispondere a queste domande sembra facile.
Si dirà: ci sono tanti modi per modificare un articolo, o per censurarne le parti più scomode.

Si potrebbe cominciare da quel “taglia e cuci” praticato all’insaputa dell’autore da tempo immemore in tutte le redazioni, magari in nome della esiguità dello spazio, e si potrebbe finire con il pressing e con le “raccomandazioni” di un caporedattore, o di un membro della direzione, o del direttore in persona: raccomandazioni che in certi casi sono più cogenti di quelle emanate dalla Unione europea …
Ma tagliare brutalmente un articolo è ormai considerato un modo primitivo di raggiungere l’obiettivo.

Mentre il pressing e la “raccomandazione”, oltre a scoprire i giochi, possono creare antipatici incidenti diplomatici.
E allora come si fa? Non si fa.
Siamo in una nuova era, ormai. Nella quale, l’Uomo Nuovo – immaginiamolo come la creatura di Aldous Huxley trasferita in tutti i mezzi di comunicazione di massa – è uno Yes Man perfetto.

Ecco, i giornalisti oggi sembrano dei replicanti, altrettanti Yes Men pronti a ubbidire.
Ma la grandezza di questa ultima fase dell’evoluzione della specie è nel fatto che costoro ubbidiscono senza nemmeno attendere gli ordini.
Che, attenzione, non sono sempre e necessariamente gli ordini di un Altro. Sono, ormai, gli ordini che lo Yes Man ha imparato a impartire a se stesso.
Se non lo facesse si sentirebbe perduto.
Oltre ogni autocensura, dunque, che pure si pensava fosse il massimo stadio del controllo della stampa “libera”. Poteri forti e uomini deboli, affinché il controllo totale delle notizie e delle loro chiavi di lettura sia sempre più efficace.

La perfezione però si raggiunge quando il controllo si evolve in riflesso condizionato. La tomba di ogni senso critico. I cani di Pavlov.
Se invece il meccanismo dell’autoimposizione non dovesse funzionare per una ragione qualsiasi, scatta il sistema d’allarme tradizionale. La catena di sant’Antonio delle telefonate. Da un giornalista all’altro, come dal brigadiere al maresciallo al colonnello, fino al generale e oltre.
E naturalmente anche in senso contrario, poiché non si telefona mica soltanto “dal” giornale (o dalla tv). Si telefona anche “al” giornale (o alla tv). E le telefonate da un Palazzo all’altro non sono mica soltanto chiamate urbane, è ovvio.
“E’ la stampa, bellezza”.

Sollevarne uno per far sentire sollevati tutti gli altri. Ma non dura, vedrete.

di Carlo vulpio