25 marzo 2009

Segnali di implosione



Settembre del 2008 ha segnato un punto di inflessione nel processo di recessione che veniva ingrandendosi negli Stati Uniti durante lo stesso anno: è crollato il sistema finanziario e la recessione ha iniziato a espandersi rapidamente nel mondo al medesimo tempo in cui si evidenziavano sintomi molto chiari di uno scivolamento globale verso la depressione, la cui “esistenza” è iniziata ad essere ammessa solo a inizio 2009. Ora stiamo assistendo ad un concatenarsi internazionale di tracolli finanziari e della produzione accompagnati da un senso di pessimismo ed impotenza delle più alte élite dirigenti, davanti alla possibilità di un collasso generale.

Le dichiarazioni di George Soros e Paul Volcker all’Università di Columbia del 21 febbraio 2009, delineano una radicale rottura (1), di molto superiore a quella che predisse due anni fa Alan Greenspan, quando annunciò la possibilità che gli Stati Uniti entrassero in recessione. Volcker ha ammesso che questa crisi è di molto superiore a quella del 1929, questa stessa cosa significa la mancanza di riferimenti nella storia del capitalismo, l’impossibilità di fare confronti con crisi anteriori e anche, (principalmente) la mancanza di rimedi conosciuti.

Perchè il 1929 e la depressione che seguirono vengono associati all’esito dell’applicazione della teoria keynesiana e all’intervento massicio dello Stato come salvatore ultimo del capitalismo, e quello a cui stiamo assistendo è la più grande inefficienza da parte degli stati per superare la crisi. In realtà la valanga di denaro che lanciano sui mercati soccorrendo banche e alcune grandi imprese, non solo non blocca il disastro in corso, ma sta creando le condizioni per una catastrofe inflazionaria, prossima
bolla speculativa.

Implosione capitalista?

Da parte sua George Soros ha confermato l’evidente: il sistema finanziario si è disintegrato, a questo aggiunge che ci sono similitudini tra la situazione attuale e il crollo dell’Unione Sovietica. Quali sono queste similitudini? Come sappiamo il sistema sovietico cominciò a incrinarsi a fine anni ’80 per disintegrarsi completamente nel 1991. La causa è stata attribuita allo sgretolarsi della sua struttura burocratica rendendoli in principio intrasferibile al capitalismo che ospita una vasta burocrazia anche se non egemonica come fu nel caso sovietico. Esiste un processo, una malattia, che non è solamente esclusiva dei regimi burocratici e che si è sviluppata nel capitalismo come nelle precedenti civiltà: si tratta della ipertrofia parassita che saccheggia le forze produttive fino al punto che il sistema rimane paralizzato e non può più riprodursi, rimanendo soffocato dal proprio marciume. Durante il XX secolo il capitalismo incentivò strutture parassite come il militarismo e soprattutto le deformazioni finanziarie che segnarono la sua cultura, il suo sviluppo tecnologico, i suoi sistemi di potere. Gli ultimi 30 anni hanno visto un'accelerazione del processo abbellito dai discorsi di riconversione neoliberale, di regno assoluto del mercato, che hanno raggiunto il loro apice durante l’ultimo lustro del XX secolo, in piena espansione della bolla borsistica e quando il potere militare degli Stati Uniti sembrava imbattibile.

Però, nella prima decade del secolo XXI, il sistema è iniziato a crollare, l’Impero si è impantanato in due guerre coloniali, la sua economia si è deteriorata velocemente e le bolle di ogni genere (immobiliaria, commerciale, di indebitamento, etc) si sono sparse per il pianeta. Il capitalismo finanziario era entrato in una vertiginosa fase di espansione che ha schiacciato con il suo peso ogni forma economica e politica, nel 2008 il gruppo dei sette (G7) disponeva di risorse fiscali per un 10 miliardi di dollari contro un 600 miliardi di dollari in
prodotti finanziari derivati registrati nella Banca di Basilea, ai quali bisogna aggiungere secondo alcuni esperti, la massa speculativa globale che supera attualmente i 1.000 miliardi di dollari (circa 20 volte il Prodotto Interno Lordo Mondiale - PIL).

Quella montagna finanziaria non è una realtà separata e indipendente dalla cosiddetta economia reale o produttiva. Fu generata dalla dinamica dell’insieme del sistema capitalista, per il bisogno di rendimento delle imprese globali, per il bisogno di finanziamento degli stati. Non è una rete di speculatori autistici lanciati verso un'avventura di autosviluppo suicida, bensì l'espressione radicalmente irrazionale di una civiltà in decadenza (tanto a livello produttivo, come politico, culturale, ambientale, energetico, etc). Da più di quattro decenni il capitalismo globale del G7 sopporta una crisi cronica di surplus di produzione, accumulando capacità produttiva davanti ad una domanda che cresceva si, ma sempre meno. La droga finanziaria è stata un salvagente che ha migliorato i benefici spingendo il consumo nei paesi ricchi, anche se, a lungo termine, avvelenando completamente il sistema.

E' diventato di moda attribuire la crisi agli speculatori finanziari e secondo quello che ci spiegano alti dirigenti politici e mediatici, le turbolenze arriveranno alla fine solo quando “l’economia reale” imporrá la sua cultura produttiva sottomettendo alle regole del buon capitalismo le reti finanziarie oggi fuori controllo. Comunque a metá del decennio attuale negli Stati Uniti più del 40% dei benefici delle grandi corporazioni provenivano da negoziazioni finanziarie (2), in Europa la situazione era simile. In Cina, nel momento di maggior auge speculativo (fine del 2007) solo la bolla borsistica muoveva fondi quasi equivalenti al valore del Prodotto Interno Lordo (3) alimentati da impresari privati e pubblici, alti burocrati, professionisti, etc. Quindi non si tratta di due attivitá, una reale e l’altra finanziaria, nettamente differenziate, bensì di un solo insieme eterogeneo e reale di affari. È quell'insieme che si sta velocemente sgonfiando ora, implodendo dopo essere arrivato al suo massimo livello di espansione possibile nelle condizioni storiche concrete del mondo attuale. Sotto l'apparenza imposta dai mezzi globali di comunicazione di un'implosione finanziaria che colpisce negativamente l'insieme delle attività economiche, quasi come una pioggia tossica che attacca le verdi praterie, appare la realtà del sistema economico globale come totalità che si contrae in maniera caotica.

Segnali

Le dichiarazioni di George Soros e di Paul Volcker furono fatte pochi giorni prima che il governo rendesse pubbliche le cifre ufficiali della caduta del Prodotto Interno Lordo dell’ultimo trimestre del 2008 rispetto allo stesso del 2007. La prima stima ufficiale aveva fissato la caduta in un 3,8% che risultò essere una grande menzogna, perchè ora risulta che la contrazione è arrivata al 6,2% (4): questa già non è recessione, bensì depressione. Il Giappone, da parte sua, per lo stesso periodo ha avuto una decrescita del suo PIL nell’ordine del 12% e nel gennaio 2009 le sue esportazioni sono cadute di un 45% se paragonate col gennaio 2008 (5). In Europa la situazione è uguale o forse peggiore, a seguito del crollo finanziario dell’Islanda, la minaccia di fallimento economico di vari paesi dell’Europa dell’Est, come la Polonia, Ungheria, Ucrania, Lettonia, Lituania, etc, minaccia in maniera diretta le banche creditrici svizzere e austriache, che potrebbero sprofondare come l’Islanda. In tutto questo, i grandi paesi industrializzati come Germania, Inghilterra o Francia vanno passando dalla recessione alla depressione. Le previsioni riguardanti la Cina, annunciano per il 2009 una riduzione del tasso di crescita della metá rispetto a quello del 2008. Le sue esportazioni in gennaio 2009 sono state inferiori del 17,5% rispetto quelle di gennaio 2008 (6). Questa brusca frenata del centro vitale del sitema economico non ha prospettive di recupero mentre si è in depressione globale, pertanto il suo ritmo di crescita continuerà a scendere.

Che Soros e Volcker parlino di una prospettiva di collasso del sistema economico mondiale non significa che essa si debba produrre in maniera inevitabile, anche perchè dopo tutto una delle principali caratteristiche della decadenza di una civiltà, come quella che stiamo vivendo, è l’esistenza di una profonda crisi nella percezione della realtà da parte delle élite dominanti, anche se l'accumulazione di dati economici negativi e le proiezioni realistiche per i prossimi mesi, ci stanno indicando che la gran catastrofe annunciata ha buone probabilità di realizzarsi. A questa conclusione contribuisce l’impotenza accertata dei presunti “organi di controllo” del sistema (governi, banche centrali, FMI, etc) e la rigidezza politica dell’Impero. Aver ampliato lo scenario di guerra in Afghanistan preserva il potere del
complesso militare-industriale, gigante parassita, il cui costo reale (qualcosa come un miliardo di dollari) equivale all’80% del deficit fiscale degli Stati Uniti.

Disintegrazione, implosione, suddivisione.

La disintegrazione-implosione del sistema non significa che esso si trasformerà in un'unione di sottoinsiemi capitalisti o blocchi regionali più o meno forti, dei quali qualcuno prospero e altri declinanti (l’unipolarità americana convertendosi in multipolarità, si suddivide organizzatamente attorno a nuovi o vecchi poli capitalisti). L’economia mondiale altamente globalizzata, dalla forma di un denso groviglio di scambi produttivi, commerciali e finanziari, penetra profondamente nelle “struttura nazionali”. Investimenti e dipendenze commerciali la vincolano in maniera diretta o indiretta ai nuclei decisivi del sistema globale.

In termini generali per un paese o una regione la rottura dai suoi lacci globali o un suo significativo indebolimento implicano un'enorme rottura interna, la scomparsa di settori economici decisivi con le conseguenze sociali e politiche che da ciò ne derivano.

In più il sistema globale fino ad ora era organizzato in modo gerarchico tanto nel suo aspetto economico come in quello politico-militare (unipolarismo) risultato della fine della Guerra Fredda e della trasformazione degli Stati Uniti nei padroni del pianeta, non solo nello spazio di concentrazione delle decisioni commerciali e finanziarie – cosa che accadeva già da più di sei decenni - ma anche a riguardo delle grandi decisioni politiche.

Il crollo dei paesi facenti parte al G7, in piena depressione economica internazionale, funge da detonatore per una catena di crisi globali (economiche, politiche, sociali, etc) di intensitá crescente.

Recentemente
Zbigniew Brzezinski ha messo da parte le sue riflessioni a riguardo della politica internazionale per avvisarci a riguardo di possibili inasprimenti dei conflitti sociali negli Stati Uniti, che secondo lui potrebbero degenerare in violenti scontri (8). Da parte sua e secondo una prospettiva ideologica opposta, Michael Klare ci ha delineato la mappa delle proteste popolari che hanno attraversato tutti i continenti, paesi ricchi e poveri, dal Nord al Sud, iniziate nel 2008 come conseguenza della crisi alimentare, prima nei paesi periferici, che ora però inizia ad espandersi globalmente come risposta all’aggravarsi della depressione economica (9). Il moltiplicarsi delle difficoltà nella governabilità ci aspetta da qui a breve.

L'ipotesi di implosione capitalista apre lo spazio per la riflessione e l'azione intorno all'orizzonte postcapitalista dove si mischiano vecchie e nuove idee, illusioni fallite e lungo apprendistato democratico del secolo XX, con freni conservatori che legittimano tentativi neocapitalisti e visioni rinnovate del mondo incoraggiate da grandi innovazioni sociali.

L’agonia della moderna borghesia con le sue barbarie senili, la rottura dei blocchi ideologici, delle strutture oppressive, ci dà speranza in una rigenerazione umana delle relazioni sociali.


di Jorge Beinstein

24 marzo 2009

Crisi: decrescita o guerra, a voi la scelta


Per Maurizio Pallante, fondatore del Movimento per la Decrescita Felice, la crisi e la recessione che sta colpendo le diverse nazioni del nostro pianeta ha solo due sbocchi: la decrescita felice (cosa diversa dalla recessione) o la guerra. Forse avrà torto, ma un dato fa riflettere. Dalla crisi del ’29 se ne uscì solo con la Seconda Guerra Mondiale.

Decrescita e crescita distruttiva
Ci sono due modi per uscire dalla crisi, uno è la decrescita l'altro la guerra

In questi giorni in televisione si parla incessantemente di crisi e di recessione. Per Maurizio Pallante siamo veramente in crisi o è un’invenzione mediatica?

“Siamo veramente in crisi ed è una crisi più grave di quella del ‘29 perché questa volta alla crisi economica e finanziaria si aggiunge la crisi ambientale nella sua duplice veste di esaurimento o comunque rarefazione delle risorse e incremento delle varie forme di inquinamento e dell’effetto serra”.

Dal punto di vista economico qual è il fattore di crisi reale?

“In un sistema economico fondato sulla crescita che ogni anno deve produrre sempre di più, la capacità di assorbire, di comprare tutto quello che viene prodotto, diminuisce progressivamente fino al momento in cui l’offerta supera sistematicamente la domanda. La crisi è partita in conseguenza del fatto che le banche americane hanno dato dei mutui per comprare case alle famiglie americane che non avevano soldi per poterli restituire; si sono comportati in questa maniera perché così sostenevano le industrie dell’edilizia e facevano salire una domanda che il mercato non avrebbe espresso e consentivano alle offerte di case di poter essere assorbite.

Nel momento in cui le persone che hanno avuto il mutuo non sono state più in grado di pagarlo, le banche hanno cominciato a requisire le case e a metterle sul mercato. Ma mentre nella fase precedente dando dei mutui tenevano alta la domanda e quindi anche i prezzi, nella fase successiva - vendendo le case - aumentavano l’offerta senza che ci fosse una rispettiva domanda in grado assorbirla; quindi il prezzo delle case è crollato e si è scatenata una doppia crisi: quella dell’edilizia e quella della finanza americana che si è poi estesa rapidamente a tutto il resto del mondo”.

In questa situazione molto problematica di crisi economica ed ambientale, qual è la ricetta o la proposta del Movimento per la Decrescita Felice?

“Qualcuno dice che siamo in una fase di decrescita e che quindi noi abbiamo ottenuto il nostro obiettivo. Quello che in molti non hanno ancora capito è, invece, che tra la recessione e la decrescita c’è la stessa analogia che c’è tra chi digiuna perché non ha da mangiare e chi digiuna perché vuol fare una dieta. Chi digiuna perché non ha da mangiare, non fa una libera scelta e sta peggio. In una società fondata sulla crescita della produzione, la recessione è una cosa non voluta, che peggiora tutto il quadro sociale ed economico della società.

Chi fa una dieta, invece, fa una libera scelta e lo fa per migliorare le condizioni della sua vita. La decrescita è una libera scelta di cosa produrre, di cosa non produrre più, e come produrre ciò che si decide di continuare a produrre".


Casa Bianca e burattini
La crisi è reale, per Maurizio Pallante ed è intrinseca a come è stata gestita la società della crescita

In che maniera, quindi, la decrescita può essere la via d’uscita della recessione?

“La decrescita è la diminuzione della produzione e del consumo di merci che non sono beni. Ad esempio, se si lavora per rendere una casa più efficiente, diminuisce la produzione di gasolio in più che si consuma in una cosa mal costruita che disperde. In questo modo si crea occupazione, si rilancia l’economia attraverso una riduzione dell’importazione di petrolio e il trasferimento dei soldi che si risparmiano in salari e stipendi per le persone che lavorano nelle tecnologie che consentono di risparmiare il petrolio. Se ci sono delle tecnologie che riducono il consumo di merci che non sono beni, queste tecnologie creano occupazione ,creano il denaro necessario a pagare l’occupazione con i risparmi che consentono, e riducono l’impatto ambientale.

Quindi sono una maniera intelligente e positiva per uscire dalla recessione, con un salto di qualità che migliora il mondo e fa tornare il lavoro alla sua funzione di migliorare il mondo anziché essere soltanto un’attività che da uno stipendio”.

Quindi, paradossalmente, secondo te la risposta alla recessione è la decrescita?

“Sì, questa è una delle due risposte possibili, l’altra risposta possibile è la guerra. La guerra, infatti, distruggendo delle risorse costringe a produrre delle armi e in seguito a ricostruire. Non è un caso che dall’inizio del nuovo secolo, le guerre siano aumentate, soprattutto in Iraq e in Afganistan dove si stabilisce il controllo dei flussi del petrolio e delle fonti energetiche. Quindi la decrescita non è una soluzione scontata; è una soluzione possibile, e fra le due soluzioni è quella migliore, non solo perché la guerra è il male assoluto, ma perché la decrescita consente e offre le condizioni per poter migliorare la situazione ambientale ed ecologica”.



Tu ci credi che si prenderà la via della decrescita concretamente oppure il mondo Occidentale non è ancora pronto?

“Il mondo Occidentale non ha ancora capito. Se lo avesse fatto, i vari governi non si concentrerebbero sul rilancio dell’industria automobilistica o su quello della domanda attraverso le opere pubbliche (vedi TAV, Mose o Centrali nucleari). Anche Obama, che viene tanto santificato, accanto alle fonti rinnovabili e al risparmio energetico, nella sua politica energetica prevede anche le centrali nucleari e il carbone pulito. Fa un mix di tutte queste cose

I governi, quindi, non hanno ancora capito. Coloro che fanno il discorso sulla decrescita sono pochi e non riescono ad influenzare i molti. L’unica possibilità che la situazione si sblocchi è che la crescita delle difficoltà vissute dalle persone faccia maturare rapidamente all’interno delle popolazioni l’esigenza una soluzione di carattere diverso.

Affinché da questo disagio, da questa sofferenza, maturi la convinzione che la decrescita sia la soluzione, è necessario che i gruppi che attualmente si stanno occupando di decrescita siano in grado di influenzare sempre di più l’opinione pubblica, trovino la capacità di comunicare le loro idee ad una cerchia più ampia”

Sai se fuori dall’Italia ci sono gruppi che, magari con altre etichette, stanno portando avanti una filosofia del genere, oppure quello della decrescita è un fenomeno solo italiano?

“In Italia c’è una maggiore concretezza rispetto ai cugini francesi, ma questo non dipende solo dal fatto che il movimento della decrescita felice ha fatto una scelta di concretezza. Nel nostro paese, infatti, ci troviamo in un contesto sociale molto ricco e attivo che va dai GAS (Gruppi di Acquisto Solidale), alle banche del tempo, alle botteghe del commercio equo e solidale, al volontariato. Tutti gruppi che si muovono in questa direzione e che hanno già fatto questa scelta. Il nostro movimento, quindi, ha trovato un terreno molto fertile che gli ha permesso di orientarsi verso la concretezza. In altri paesi non mi risulta che esista un fenomeno di questo genere, anche se a livello sociale le popolazioni stanno già cercando di difendersi dagli effetti della crisi attraverso forme di autoproduzione, di solidarietà reciproca. Nelle principali città degli Usa l’autoproduzione di frutta e verdura, ad esempio, ha avuto un impulsso talmente forte che nell’ultimo anno la principale società che vende i semi ha raddoppiato il fatturato. Oltre ai semi si stanno realizzando anche dei piccoli allevamenti di animali da cortile. Nei parchi di Londra che appartengono alla corona inglese, accanto ai fiori si cominciano a coltivare anche degli ortaggi in maniera biologica e c’è un invito molto forte a frequentare dei corsi di aggiornamento per queste colture di carattere biologico per tutte le persone che hanno un giardino in casa. Il 50% del cibo che viene consumato all’Avana viene autoprodotto in piccoli orti familiari.

C’è una tendenza a riscoprire dei modi tradizionali di lavorare, di produrre, di nutrirsi che sono tipici di tutte le situazioni in cui si rompe un meccanismo fondato sulla mercificazione totale e assoluta. Il fenomeno degli orti urbani ha avuto un impulso molto forte dappertutto durante la seconda guerra mondiale. In Italia il periodo dell’autarchia forzata è stato caratterizzato da un’esplosione di creatività e di autoproduzione, di innovazione e di invenzione da parte delle persone, perché le ristrettezze economiche che sono seguite le hanno costrette a riscoprire queste cose”.


Recessione americana
La crisi, per Pallante,è reale. E' cominciata negli Usa e si è poi propagata in tutto il pianeta

Spesso in Italia si tende a pensare che siamo il paese peggiore del mondo. In base a ciò che hai detto prima, però, l’Italia potrebbe rivelarsi il paese più predisposto al cambio di paradigma! È così?

“Da noi ci sono una compresenza di aspetti estremamente negativi (vedi la difficoltà delle grandi città a far partire una raccolta differenziata a causa di problemi organizzativi, ma anche comportamentali) e alcune punte che stanno dimostrando un’attenzione e una sensibilità molto forte. Credo che l’incedere della crisi faccia emergere questi esempi positivi, imitati poi da un numero sempre maggiore di persone che vedono che chi fa certe scelte di sobrietà, di autoproduzione, di rapporti positivi con gli altri, può stare meglio rispetto a chi non fa queste cose.”.

di Daniel Tarozzi

Stipendi e buon gusto



Ciò che porta una classe dirigente alla perdizione è sempre il suo distacco dalla realtà. Alla vigilia della rivoluzione francese i nobili continuavano a sfilare in carrozza fra borghesi furiosi e plebei affamati, e non si capacitavano che al loro passaggio quelli non facessero più la riverenza. Lo scandalo di oggi non è l’Obama «socialista» che strilla contro gli stipendi faraonici dei manager delle aziende affogate dai debiti. Lo scandalo sono quei manager, i quali insistono a vivere in una dimensione virtuale, come se la voracità finanziaria degli anni passati li avesse resi insensibili alle ragioni del buon senso, oltre che a quelle del buon gusto.

Lo scandalo, anzi lo scandaletto (parlando dell’Italia è inevitabile rassegnarsi al diminutivo) sono i nostri parlamentari che in tempi di cassa integrazione globale non si riducono di numero e nemmeno lo stipendio, e che volevano lo sconto pure alla buvette. Sono i vassalli e i morti di fama del Potere, che ogni sera replicano nei ristoranti romani le crapule immortalate da Dagospia, nella convinzione di essere oggetto di invidia da parte del popolo bue.

Che, per quanto bue, sta invece iniziando a disprezzarli. Mai come adesso la ricchezza andrebbe maneggiata con cura e goduta sotto traccia, senza ostentazione. Ma è un’impresa difficile per chi proprio nell’ostentazione si era abituato a trovare l’unica forma comprensibile di piacere.

Il cambio di stagione è stato repentino. Fino a un anno fa il lusso dei pochi metteva ancora le ali ai sogni dei tanti: per questo, forse, irritava di meno. I pubblicitari continuavano a raccontare mondi «esclusivi» in cui tutti potevano sperare, un giorno, di infilarsi. La ribellione contro i privilegi era già in atto, ma circoscritta alla casta parafulmine dei politici. Banchieri, manager e suffragette televisive ne erano indenni. Finché l’estate scorsa accadde un piccolo episodio che sancì l’inizio di una nuova fase. Fu la rivolta di cento turisti, a colpi di insulti e secchiate d’acqua, contro un branco di briatori (fra i quali il medesimo Briatore) che turbavano la quiete di una spiaggia sarda con il ronzio invadente dei loro gommoni. Il gavettone dei Cento. Non proprio la presa della Bastiglia, tanto più che i ribelli della Costa Smeralda erano imprenditori e professionisti, mica sanculotti. Ma quegli spruzzi e quelle urla («Ca-fo-ni! Ca-fo-ni!») contro gli esibizionisti del benessere glorificati dai mass media diventarono un emblema e forse anche un sintomo per quei pochi malati che ebbero l’intelligenza di coglierlo. La maggioranza continuò invece come se niente fosse. E continua tuttora.

Fra i politici, gli unici ad aver annusato il mutamento sono stati la Lega e Di Pietro, che vengono chiamati populisti perché hanno ancora qualche contatto con il popolo, quel nuovo proletariato che ormai si estende all’ex ceto medio degli insegnanti e degli artigiani in disgrazia. Non a caso la Lega, così poco obamiana in tante sue manifestazioni, ha obameggiato sugli stipendi dei manager di aziende aiutate dallo Stato, cercando di imporre un tetto di 350 mila euro, subito respinto perché giudicato incostituzionale (ma chissà se è costituzionale guadagnarne 600 al mese in un call center).

Il demone della demagogia è in agguato, per cui ritengo giusto precisare che la ricchezza non è un male, nemmeno in tempo di povertà. Specie se proporzionata ai meriti: non mi hanno mai indignato i guadagni di Maradona, ma quelli delle sue riserve. Il male è l’insensibilità che spesso si accompagna all’eccesso di ricchezza. È la mancanza di sobrietà e di senso del limite. Sarà vero che stiamo assistendo alla «morte del prossimo» (è il titolo di un libro dello psicoanalista Luigi Zoja), ma neppure i privilegiati possono illudersi di continuare a vivere dentro una bolla di menefreghismo senza pagarne mai le conseguenze. Se non gli stipendi, dovrebbero abbassare almeno i toni.

di Massimo Gramellini - 18/03/2009

25 marzo 2009

Segnali di implosione



Settembre del 2008 ha segnato un punto di inflessione nel processo di recessione che veniva ingrandendosi negli Stati Uniti durante lo stesso anno: è crollato il sistema finanziario e la recessione ha iniziato a espandersi rapidamente nel mondo al medesimo tempo in cui si evidenziavano sintomi molto chiari di uno scivolamento globale verso la depressione, la cui “esistenza” è iniziata ad essere ammessa solo a inizio 2009. Ora stiamo assistendo ad un concatenarsi internazionale di tracolli finanziari e della produzione accompagnati da un senso di pessimismo ed impotenza delle più alte élite dirigenti, davanti alla possibilità di un collasso generale.

Le dichiarazioni di George Soros e Paul Volcker all’Università di Columbia del 21 febbraio 2009, delineano una radicale rottura (1), di molto superiore a quella che predisse due anni fa Alan Greenspan, quando annunciò la possibilità che gli Stati Uniti entrassero in recessione. Volcker ha ammesso che questa crisi è di molto superiore a quella del 1929, questa stessa cosa significa la mancanza di riferimenti nella storia del capitalismo, l’impossibilità di fare confronti con crisi anteriori e anche, (principalmente) la mancanza di rimedi conosciuti.

Perchè il 1929 e la depressione che seguirono vengono associati all’esito dell’applicazione della teoria keynesiana e all’intervento massicio dello Stato come salvatore ultimo del capitalismo, e quello a cui stiamo assistendo è la più grande inefficienza da parte degli stati per superare la crisi. In realtà la valanga di denaro che lanciano sui mercati soccorrendo banche e alcune grandi imprese, non solo non blocca il disastro in corso, ma sta creando le condizioni per una catastrofe inflazionaria, prossima
bolla speculativa.

Implosione capitalista?

Da parte sua George Soros ha confermato l’evidente: il sistema finanziario si è disintegrato, a questo aggiunge che ci sono similitudini tra la situazione attuale e il crollo dell’Unione Sovietica. Quali sono queste similitudini? Come sappiamo il sistema sovietico cominciò a incrinarsi a fine anni ’80 per disintegrarsi completamente nel 1991. La causa è stata attribuita allo sgretolarsi della sua struttura burocratica rendendoli in principio intrasferibile al capitalismo che ospita una vasta burocrazia anche se non egemonica come fu nel caso sovietico. Esiste un processo, una malattia, che non è solamente esclusiva dei regimi burocratici e che si è sviluppata nel capitalismo come nelle precedenti civiltà: si tratta della ipertrofia parassita che saccheggia le forze produttive fino al punto che il sistema rimane paralizzato e non può più riprodursi, rimanendo soffocato dal proprio marciume. Durante il XX secolo il capitalismo incentivò strutture parassite come il militarismo e soprattutto le deformazioni finanziarie che segnarono la sua cultura, il suo sviluppo tecnologico, i suoi sistemi di potere. Gli ultimi 30 anni hanno visto un'accelerazione del processo abbellito dai discorsi di riconversione neoliberale, di regno assoluto del mercato, che hanno raggiunto il loro apice durante l’ultimo lustro del XX secolo, in piena espansione della bolla borsistica e quando il potere militare degli Stati Uniti sembrava imbattibile.

Però, nella prima decade del secolo XXI, il sistema è iniziato a crollare, l’Impero si è impantanato in due guerre coloniali, la sua economia si è deteriorata velocemente e le bolle di ogni genere (immobiliaria, commerciale, di indebitamento, etc) si sono sparse per il pianeta. Il capitalismo finanziario era entrato in una vertiginosa fase di espansione che ha schiacciato con il suo peso ogni forma economica e politica, nel 2008 il gruppo dei sette (G7) disponeva di risorse fiscali per un 10 miliardi di dollari contro un 600 miliardi di dollari in
prodotti finanziari derivati registrati nella Banca di Basilea, ai quali bisogna aggiungere secondo alcuni esperti, la massa speculativa globale che supera attualmente i 1.000 miliardi di dollari (circa 20 volte il Prodotto Interno Lordo Mondiale - PIL).

Quella montagna finanziaria non è una realtà separata e indipendente dalla cosiddetta economia reale o produttiva. Fu generata dalla dinamica dell’insieme del sistema capitalista, per il bisogno di rendimento delle imprese globali, per il bisogno di finanziamento degli stati. Non è una rete di speculatori autistici lanciati verso un'avventura di autosviluppo suicida, bensì l'espressione radicalmente irrazionale di una civiltà in decadenza (tanto a livello produttivo, come politico, culturale, ambientale, energetico, etc). Da più di quattro decenni il capitalismo globale del G7 sopporta una crisi cronica di surplus di produzione, accumulando capacità produttiva davanti ad una domanda che cresceva si, ma sempre meno. La droga finanziaria è stata un salvagente che ha migliorato i benefici spingendo il consumo nei paesi ricchi, anche se, a lungo termine, avvelenando completamente il sistema.

E' diventato di moda attribuire la crisi agli speculatori finanziari e secondo quello che ci spiegano alti dirigenti politici e mediatici, le turbolenze arriveranno alla fine solo quando “l’economia reale” imporrá la sua cultura produttiva sottomettendo alle regole del buon capitalismo le reti finanziarie oggi fuori controllo. Comunque a metá del decennio attuale negli Stati Uniti più del 40% dei benefici delle grandi corporazioni provenivano da negoziazioni finanziarie (2), in Europa la situazione era simile. In Cina, nel momento di maggior auge speculativo (fine del 2007) solo la bolla borsistica muoveva fondi quasi equivalenti al valore del Prodotto Interno Lordo (3) alimentati da impresari privati e pubblici, alti burocrati, professionisti, etc. Quindi non si tratta di due attivitá, una reale e l’altra finanziaria, nettamente differenziate, bensì di un solo insieme eterogeneo e reale di affari. È quell'insieme che si sta velocemente sgonfiando ora, implodendo dopo essere arrivato al suo massimo livello di espansione possibile nelle condizioni storiche concrete del mondo attuale. Sotto l'apparenza imposta dai mezzi globali di comunicazione di un'implosione finanziaria che colpisce negativamente l'insieme delle attività economiche, quasi come una pioggia tossica che attacca le verdi praterie, appare la realtà del sistema economico globale come totalità che si contrae in maniera caotica.

Segnali

Le dichiarazioni di George Soros e di Paul Volcker furono fatte pochi giorni prima che il governo rendesse pubbliche le cifre ufficiali della caduta del Prodotto Interno Lordo dell’ultimo trimestre del 2008 rispetto allo stesso del 2007. La prima stima ufficiale aveva fissato la caduta in un 3,8% che risultò essere una grande menzogna, perchè ora risulta che la contrazione è arrivata al 6,2% (4): questa già non è recessione, bensì depressione. Il Giappone, da parte sua, per lo stesso periodo ha avuto una decrescita del suo PIL nell’ordine del 12% e nel gennaio 2009 le sue esportazioni sono cadute di un 45% se paragonate col gennaio 2008 (5). In Europa la situazione è uguale o forse peggiore, a seguito del crollo finanziario dell’Islanda, la minaccia di fallimento economico di vari paesi dell’Europa dell’Est, come la Polonia, Ungheria, Ucrania, Lettonia, Lituania, etc, minaccia in maniera diretta le banche creditrici svizzere e austriache, che potrebbero sprofondare come l’Islanda. In tutto questo, i grandi paesi industrializzati come Germania, Inghilterra o Francia vanno passando dalla recessione alla depressione. Le previsioni riguardanti la Cina, annunciano per il 2009 una riduzione del tasso di crescita della metá rispetto a quello del 2008. Le sue esportazioni in gennaio 2009 sono state inferiori del 17,5% rispetto quelle di gennaio 2008 (6). Questa brusca frenata del centro vitale del sitema economico non ha prospettive di recupero mentre si è in depressione globale, pertanto il suo ritmo di crescita continuerà a scendere.

Che Soros e Volcker parlino di una prospettiva di collasso del sistema economico mondiale non significa che essa si debba produrre in maniera inevitabile, anche perchè dopo tutto una delle principali caratteristiche della decadenza di una civiltà, come quella che stiamo vivendo, è l’esistenza di una profonda crisi nella percezione della realtà da parte delle élite dominanti, anche se l'accumulazione di dati economici negativi e le proiezioni realistiche per i prossimi mesi, ci stanno indicando che la gran catastrofe annunciata ha buone probabilità di realizzarsi. A questa conclusione contribuisce l’impotenza accertata dei presunti “organi di controllo” del sistema (governi, banche centrali, FMI, etc) e la rigidezza politica dell’Impero. Aver ampliato lo scenario di guerra in Afghanistan preserva il potere del
complesso militare-industriale, gigante parassita, il cui costo reale (qualcosa come un miliardo di dollari) equivale all’80% del deficit fiscale degli Stati Uniti.

Disintegrazione, implosione, suddivisione.

La disintegrazione-implosione del sistema non significa che esso si trasformerà in un'unione di sottoinsiemi capitalisti o blocchi regionali più o meno forti, dei quali qualcuno prospero e altri declinanti (l’unipolarità americana convertendosi in multipolarità, si suddivide organizzatamente attorno a nuovi o vecchi poli capitalisti). L’economia mondiale altamente globalizzata, dalla forma di un denso groviglio di scambi produttivi, commerciali e finanziari, penetra profondamente nelle “struttura nazionali”. Investimenti e dipendenze commerciali la vincolano in maniera diretta o indiretta ai nuclei decisivi del sistema globale.

In termini generali per un paese o una regione la rottura dai suoi lacci globali o un suo significativo indebolimento implicano un'enorme rottura interna, la scomparsa di settori economici decisivi con le conseguenze sociali e politiche che da ciò ne derivano.

In più il sistema globale fino ad ora era organizzato in modo gerarchico tanto nel suo aspetto economico come in quello politico-militare (unipolarismo) risultato della fine della Guerra Fredda e della trasformazione degli Stati Uniti nei padroni del pianeta, non solo nello spazio di concentrazione delle decisioni commerciali e finanziarie – cosa che accadeva già da più di sei decenni - ma anche a riguardo delle grandi decisioni politiche.

Il crollo dei paesi facenti parte al G7, in piena depressione economica internazionale, funge da detonatore per una catena di crisi globali (economiche, politiche, sociali, etc) di intensitá crescente.

Recentemente
Zbigniew Brzezinski ha messo da parte le sue riflessioni a riguardo della politica internazionale per avvisarci a riguardo di possibili inasprimenti dei conflitti sociali negli Stati Uniti, che secondo lui potrebbero degenerare in violenti scontri (8). Da parte sua e secondo una prospettiva ideologica opposta, Michael Klare ci ha delineato la mappa delle proteste popolari che hanno attraversato tutti i continenti, paesi ricchi e poveri, dal Nord al Sud, iniziate nel 2008 come conseguenza della crisi alimentare, prima nei paesi periferici, che ora però inizia ad espandersi globalmente come risposta all’aggravarsi della depressione economica (9). Il moltiplicarsi delle difficoltà nella governabilità ci aspetta da qui a breve.

L'ipotesi di implosione capitalista apre lo spazio per la riflessione e l'azione intorno all'orizzonte postcapitalista dove si mischiano vecchie e nuove idee, illusioni fallite e lungo apprendistato democratico del secolo XX, con freni conservatori che legittimano tentativi neocapitalisti e visioni rinnovate del mondo incoraggiate da grandi innovazioni sociali.

L’agonia della moderna borghesia con le sue barbarie senili, la rottura dei blocchi ideologici, delle strutture oppressive, ci dà speranza in una rigenerazione umana delle relazioni sociali.


di Jorge Beinstein

24 marzo 2009

Crisi: decrescita o guerra, a voi la scelta


Per Maurizio Pallante, fondatore del Movimento per la Decrescita Felice, la crisi e la recessione che sta colpendo le diverse nazioni del nostro pianeta ha solo due sbocchi: la decrescita felice (cosa diversa dalla recessione) o la guerra. Forse avrà torto, ma un dato fa riflettere. Dalla crisi del ’29 se ne uscì solo con la Seconda Guerra Mondiale.

Decrescita e crescita distruttiva
Ci sono due modi per uscire dalla crisi, uno è la decrescita l'altro la guerra

In questi giorni in televisione si parla incessantemente di crisi e di recessione. Per Maurizio Pallante siamo veramente in crisi o è un’invenzione mediatica?

“Siamo veramente in crisi ed è una crisi più grave di quella del ‘29 perché questa volta alla crisi economica e finanziaria si aggiunge la crisi ambientale nella sua duplice veste di esaurimento o comunque rarefazione delle risorse e incremento delle varie forme di inquinamento e dell’effetto serra”.

Dal punto di vista economico qual è il fattore di crisi reale?

“In un sistema economico fondato sulla crescita che ogni anno deve produrre sempre di più, la capacità di assorbire, di comprare tutto quello che viene prodotto, diminuisce progressivamente fino al momento in cui l’offerta supera sistematicamente la domanda. La crisi è partita in conseguenza del fatto che le banche americane hanno dato dei mutui per comprare case alle famiglie americane che non avevano soldi per poterli restituire; si sono comportati in questa maniera perché così sostenevano le industrie dell’edilizia e facevano salire una domanda che il mercato non avrebbe espresso e consentivano alle offerte di case di poter essere assorbite.

Nel momento in cui le persone che hanno avuto il mutuo non sono state più in grado di pagarlo, le banche hanno cominciato a requisire le case e a metterle sul mercato. Ma mentre nella fase precedente dando dei mutui tenevano alta la domanda e quindi anche i prezzi, nella fase successiva - vendendo le case - aumentavano l’offerta senza che ci fosse una rispettiva domanda in grado assorbirla; quindi il prezzo delle case è crollato e si è scatenata una doppia crisi: quella dell’edilizia e quella della finanza americana che si è poi estesa rapidamente a tutto il resto del mondo”.

In questa situazione molto problematica di crisi economica ed ambientale, qual è la ricetta o la proposta del Movimento per la Decrescita Felice?

“Qualcuno dice che siamo in una fase di decrescita e che quindi noi abbiamo ottenuto il nostro obiettivo. Quello che in molti non hanno ancora capito è, invece, che tra la recessione e la decrescita c’è la stessa analogia che c’è tra chi digiuna perché non ha da mangiare e chi digiuna perché vuol fare una dieta. Chi digiuna perché non ha da mangiare, non fa una libera scelta e sta peggio. In una società fondata sulla crescita della produzione, la recessione è una cosa non voluta, che peggiora tutto il quadro sociale ed economico della società.

Chi fa una dieta, invece, fa una libera scelta e lo fa per migliorare le condizioni della sua vita. La decrescita è una libera scelta di cosa produrre, di cosa non produrre più, e come produrre ciò che si decide di continuare a produrre".


Casa Bianca e burattini
La crisi è reale, per Maurizio Pallante ed è intrinseca a come è stata gestita la società della crescita

In che maniera, quindi, la decrescita può essere la via d’uscita della recessione?

“La decrescita è la diminuzione della produzione e del consumo di merci che non sono beni. Ad esempio, se si lavora per rendere una casa più efficiente, diminuisce la produzione di gasolio in più che si consuma in una cosa mal costruita che disperde. In questo modo si crea occupazione, si rilancia l’economia attraverso una riduzione dell’importazione di petrolio e il trasferimento dei soldi che si risparmiano in salari e stipendi per le persone che lavorano nelle tecnologie che consentono di risparmiare il petrolio. Se ci sono delle tecnologie che riducono il consumo di merci che non sono beni, queste tecnologie creano occupazione ,creano il denaro necessario a pagare l’occupazione con i risparmi che consentono, e riducono l’impatto ambientale.

Quindi sono una maniera intelligente e positiva per uscire dalla recessione, con un salto di qualità che migliora il mondo e fa tornare il lavoro alla sua funzione di migliorare il mondo anziché essere soltanto un’attività che da uno stipendio”.

Quindi, paradossalmente, secondo te la risposta alla recessione è la decrescita?

“Sì, questa è una delle due risposte possibili, l’altra risposta possibile è la guerra. La guerra, infatti, distruggendo delle risorse costringe a produrre delle armi e in seguito a ricostruire. Non è un caso che dall’inizio del nuovo secolo, le guerre siano aumentate, soprattutto in Iraq e in Afganistan dove si stabilisce il controllo dei flussi del petrolio e delle fonti energetiche. Quindi la decrescita non è una soluzione scontata; è una soluzione possibile, e fra le due soluzioni è quella migliore, non solo perché la guerra è il male assoluto, ma perché la decrescita consente e offre le condizioni per poter migliorare la situazione ambientale ed ecologica”.



Tu ci credi che si prenderà la via della decrescita concretamente oppure il mondo Occidentale non è ancora pronto?

“Il mondo Occidentale non ha ancora capito. Se lo avesse fatto, i vari governi non si concentrerebbero sul rilancio dell’industria automobilistica o su quello della domanda attraverso le opere pubbliche (vedi TAV, Mose o Centrali nucleari). Anche Obama, che viene tanto santificato, accanto alle fonti rinnovabili e al risparmio energetico, nella sua politica energetica prevede anche le centrali nucleari e il carbone pulito. Fa un mix di tutte queste cose

I governi, quindi, non hanno ancora capito. Coloro che fanno il discorso sulla decrescita sono pochi e non riescono ad influenzare i molti. L’unica possibilità che la situazione si sblocchi è che la crescita delle difficoltà vissute dalle persone faccia maturare rapidamente all’interno delle popolazioni l’esigenza una soluzione di carattere diverso.

Affinché da questo disagio, da questa sofferenza, maturi la convinzione che la decrescita sia la soluzione, è necessario che i gruppi che attualmente si stanno occupando di decrescita siano in grado di influenzare sempre di più l’opinione pubblica, trovino la capacità di comunicare le loro idee ad una cerchia più ampia”

Sai se fuori dall’Italia ci sono gruppi che, magari con altre etichette, stanno portando avanti una filosofia del genere, oppure quello della decrescita è un fenomeno solo italiano?

“In Italia c’è una maggiore concretezza rispetto ai cugini francesi, ma questo non dipende solo dal fatto che il movimento della decrescita felice ha fatto una scelta di concretezza. Nel nostro paese, infatti, ci troviamo in un contesto sociale molto ricco e attivo che va dai GAS (Gruppi di Acquisto Solidale), alle banche del tempo, alle botteghe del commercio equo e solidale, al volontariato. Tutti gruppi che si muovono in questa direzione e che hanno già fatto questa scelta. Il nostro movimento, quindi, ha trovato un terreno molto fertile che gli ha permesso di orientarsi verso la concretezza. In altri paesi non mi risulta che esista un fenomeno di questo genere, anche se a livello sociale le popolazioni stanno già cercando di difendersi dagli effetti della crisi attraverso forme di autoproduzione, di solidarietà reciproca. Nelle principali città degli Usa l’autoproduzione di frutta e verdura, ad esempio, ha avuto un impulsso talmente forte che nell’ultimo anno la principale società che vende i semi ha raddoppiato il fatturato. Oltre ai semi si stanno realizzando anche dei piccoli allevamenti di animali da cortile. Nei parchi di Londra che appartengono alla corona inglese, accanto ai fiori si cominciano a coltivare anche degli ortaggi in maniera biologica e c’è un invito molto forte a frequentare dei corsi di aggiornamento per queste colture di carattere biologico per tutte le persone che hanno un giardino in casa. Il 50% del cibo che viene consumato all’Avana viene autoprodotto in piccoli orti familiari.

C’è una tendenza a riscoprire dei modi tradizionali di lavorare, di produrre, di nutrirsi che sono tipici di tutte le situazioni in cui si rompe un meccanismo fondato sulla mercificazione totale e assoluta. Il fenomeno degli orti urbani ha avuto un impulso molto forte dappertutto durante la seconda guerra mondiale. In Italia il periodo dell’autarchia forzata è stato caratterizzato da un’esplosione di creatività e di autoproduzione, di innovazione e di invenzione da parte delle persone, perché le ristrettezze economiche che sono seguite le hanno costrette a riscoprire queste cose”.


Recessione americana
La crisi, per Pallante,è reale. E' cominciata negli Usa e si è poi propagata in tutto il pianeta

Spesso in Italia si tende a pensare che siamo il paese peggiore del mondo. In base a ciò che hai detto prima, però, l’Italia potrebbe rivelarsi il paese più predisposto al cambio di paradigma! È così?

“Da noi ci sono una compresenza di aspetti estremamente negativi (vedi la difficoltà delle grandi città a far partire una raccolta differenziata a causa di problemi organizzativi, ma anche comportamentali) e alcune punte che stanno dimostrando un’attenzione e una sensibilità molto forte. Credo che l’incedere della crisi faccia emergere questi esempi positivi, imitati poi da un numero sempre maggiore di persone che vedono che chi fa certe scelte di sobrietà, di autoproduzione, di rapporti positivi con gli altri, può stare meglio rispetto a chi non fa queste cose.”.

di Daniel Tarozzi

Stipendi e buon gusto



Ciò che porta una classe dirigente alla perdizione è sempre il suo distacco dalla realtà. Alla vigilia della rivoluzione francese i nobili continuavano a sfilare in carrozza fra borghesi furiosi e plebei affamati, e non si capacitavano che al loro passaggio quelli non facessero più la riverenza. Lo scandalo di oggi non è l’Obama «socialista» che strilla contro gli stipendi faraonici dei manager delle aziende affogate dai debiti. Lo scandalo sono quei manager, i quali insistono a vivere in una dimensione virtuale, come se la voracità finanziaria degli anni passati li avesse resi insensibili alle ragioni del buon senso, oltre che a quelle del buon gusto.

Lo scandalo, anzi lo scandaletto (parlando dell’Italia è inevitabile rassegnarsi al diminutivo) sono i nostri parlamentari che in tempi di cassa integrazione globale non si riducono di numero e nemmeno lo stipendio, e che volevano lo sconto pure alla buvette. Sono i vassalli e i morti di fama del Potere, che ogni sera replicano nei ristoranti romani le crapule immortalate da Dagospia, nella convinzione di essere oggetto di invidia da parte del popolo bue.

Che, per quanto bue, sta invece iniziando a disprezzarli. Mai come adesso la ricchezza andrebbe maneggiata con cura e goduta sotto traccia, senza ostentazione. Ma è un’impresa difficile per chi proprio nell’ostentazione si era abituato a trovare l’unica forma comprensibile di piacere.

Il cambio di stagione è stato repentino. Fino a un anno fa il lusso dei pochi metteva ancora le ali ai sogni dei tanti: per questo, forse, irritava di meno. I pubblicitari continuavano a raccontare mondi «esclusivi» in cui tutti potevano sperare, un giorno, di infilarsi. La ribellione contro i privilegi era già in atto, ma circoscritta alla casta parafulmine dei politici. Banchieri, manager e suffragette televisive ne erano indenni. Finché l’estate scorsa accadde un piccolo episodio che sancì l’inizio di una nuova fase. Fu la rivolta di cento turisti, a colpi di insulti e secchiate d’acqua, contro un branco di briatori (fra i quali il medesimo Briatore) che turbavano la quiete di una spiaggia sarda con il ronzio invadente dei loro gommoni. Il gavettone dei Cento. Non proprio la presa della Bastiglia, tanto più che i ribelli della Costa Smeralda erano imprenditori e professionisti, mica sanculotti. Ma quegli spruzzi e quelle urla («Ca-fo-ni! Ca-fo-ni!») contro gli esibizionisti del benessere glorificati dai mass media diventarono un emblema e forse anche un sintomo per quei pochi malati che ebbero l’intelligenza di coglierlo. La maggioranza continuò invece come se niente fosse. E continua tuttora.

Fra i politici, gli unici ad aver annusato il mutamento sono stati la Lega e Di Pietro, che vengono chiamati populisti perché hanno ancora qualche contatto con il popolo, quel nuovo proletariato che ormai si estende all’ex ceto medio degli insegnanti e degli artigiani in disgrazia. Non a caso la Lega, così poco obamiana in tante sue manifestazioni, ha obameggiato sugli stipendi dei manager di aziende aiutate dallo Stato, cercando di imporre un tetto di 350 mila euro, subito respinto perché giudicato incostituzionale (ma chissà se è costituzionale guadagnarne 600 al mese in un call center).

Il demone della demagogia è in agguato, per cui ritengo giusto precisare che la ricchezza non è un male, nemmeno in tempo di povertà. Specie se proporzionata ai meriti: non mi hanno mai indignato i guadagni di Maradona, ma quelli delle sue riserve. Il male è l’insensibilità che spesso si accompagna all’eccesso di ricchezza. È la mancanza di sobrietà e di senso del limite. Sarà vero che stiamo assistendo alla «morte del prossimo» (è il titolo di un libro dello psicoanalista Luigi Zoja), ma neppure i privilegiati possono illudersi di continuare a vivere dentro una bolla di menefreghismo senza pagarne mai le conseguenze. Se non gli stipendi, dovrebbero abbassare almeno i toni.

di Massimo Gramellini - 18/03/2009