24 marzo 2009

Stipendi e buon gusto



Ciò che porta una classe dirigente alla perdizione è sempre il suo distacco dalla realtà. Alla vigilia della rivoluzione francese i nobili continuavano a sfilare in carrozza fra borghesi furiosi e plebei affamati, e non si capacitavano che al loro passaggio quelli non facessero più la riverenza. Lo scandalo di oggi non è l’Obama «socialista» che strilla contro gli stipendi faraonici dei manager delle aziende affogate dai debiti. Lo scandalo sono quei manager, i quali insistono a vivere in una dimensione virtuale, come se la voracità finanziaria degli anni passati li avesse resi insensibili alle ragioni del buon senso, oltre che a quelle del buon gusto.

Lo scandalo, anzi lo scandaletto (parlando dell’Italia è inevitabile rassegnarsi al diminutivo) sono i nostri parlamentari che in tempi di cassa integrazione globale non si riducono di numero e nemmeno lo stipendio, e che volevano lo sconto pure alla buvette. Sono i vassalli e i morti di fama del Potere, che ogni sera replicano nei ristoranti romani le crapule immortalate da Dagospia, nella convinzione di essere oggetto di invidia da parte del popolo bue.

Che, per quanto bue, sta invece iniziando a disprezzarli. Mai come adesso la ricchezza andrebbe maneggiata con cura e goduta sotto traccia, senza ostentazione. Ma è un’impresa difficile per chi proprio nell’ostentazione si era abituato a trovare l’unica forma comprensibile di piacere.

Il cambio di stagione è stato repentino. Fino a un anno fa il lusso dei pochi metteva ancora le ali ai sogni dei tanti: per questo, forse, irritava di meno. I pubblicitari continuavano a raccontare mondi «esclusivi» in cui tutti potevano sperare, un giorno, di infilarsi. La ribellione contro i privilegi era già in atto, ma circoscritta alla casta parafulmine dei politici. Banchieri, manager e suffragette televisive ne erano indenni. Finché l’estate scorsa accadde un piccolo episodio che sancì l’inizio di una nuova fase. Fu la rivolta di cento turisti, a colpi di insulti e secchiate d’acqua, contro un branco di briatori (fra i quali il medesimo Briatore) che turbavano la quiete di una spiaggia sarda con il ronzio invadente dei loro gommoni. Il gavettone dei Cento. Non proprio la presa della Bastiglia, tanto più che i ribelli della Costa Smeralda erano imprenditori e professionisti, mica sanculotti. Ma quegli spruzzi e quelle urla («Ca-fo-ni! Ca-fo-ni!») contro gli esibizionisti del benessere glorificati dai mass media diventarono un emblema e forse anche un sintomo per quei pochi malati che ebbero l’intelligenza di coglierlo. La maggioranza continuò invece come se niente fosse. E continua tuttora.

Fra i politici, gli unici ad aver annusato il mutamento sono stati la Lega e Di Pietro, che vengono chiamati populisti perché hanno ancora qualche contatto con il popolo, quel nuovo proletariato che ormai si estende all’ex ceto medio degli insegnanti e degli artigiani in disgrazia. Non a caso la Lega, così poco obamiana in tante sue manifestazioni, ha obameggiato sugli stipendi dei manager di aziende aiutate dallo Stato, cercando di imporre un tetto di 350 mila euro, subito respinto perché giudicato incostituzionale (ma chissà se è costituzionale guadagnarne 600 al mese in un call center).

Il demone della demagogia è in agguato, per cui ritengo giusto precisare che la ricchezza non è un male, nemmeno in tempo di povertà. Specie se proporzionata ai meriti: non mi hanno mai indignato i guadagni di Maradona, ma quelli delle sue riserve. Il male è l’insensibilità che spesso si accompagna all’eccesso di ricchezza. È la mancanza di sobrietà e di senso del limite. Sarà vero che stiamo assistendo alla «morte del prossimo» (è il titolo di un libro dello psicoanalista Luigi Zoja), ma neppure i privilegiati possono illudersi di continuare a vivere dentro una bolla di menefreghismo senza pagarne mai le conseguenze. Se non gli stipendi, dovrebbero abbassare almeno i toni.

di Massimo Gramellini - 18/03/2009

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24 marzo 2009

Stipendi e buon gusto



Ciò che porta una classe dirigente alla perdizione è sempre il suo distacco dalla realtà. Alla vigilia della rivoluzione francese i nobili continuavano a sfilare in carrozza fra borghesi furiosi e plebei affamati, e non si capacitavano che al loro passaggio quelli non facessero più la riverenza. Lo scandalo di oggi non è l’Obama «socialista» che strilla contro gli stipendi faraonici dei manager delle aziende affogate dai debiti. Lo scandalo sono quei manager, i quali insistono a vivere in una dimensione virtuale, come se la voracità finanziaria degli anni passati li avesse resi insensibili alle ragioni del buon senso, oltre che a quelle del buon gusto.

Lo scandalo, anzi lo scandaletto (parlando dell’Italia è inevitabile rassegnarsi al diminutivo) sono i nostri parlamentari che in tempi di cassa integrazione globale non si riducono di numero e nemmeno lo stipendio, e che volevano lo sconto pure alla buvette. Sono i vassalli e i morti di fama del Potere, che ogni sera replicano nei ristoranti romani le crapule immortalate da Dagospia, nella convinzione di essere oggetto di invidia da parte del popolo bue.

Che, per quanto bue, sta invece iniziando a disprezzarli. Mai come adesso la ricchezza andrebbe maneggiata con cura e goduta sotto traccia, senza ostentazione. Ma è un’impresa difficile per chi proprio nell’ostentazione si era abituato a trovare l’unica forma comprensibile di piacere.

Il cambio di stagione è stato repentino. Fino a un anno fa il lusso dei pochi metteva ancora le ali ai sogni dei tanti: per questo, forse, irritava di meno. I pubblicitari continuavano a raccontare mondi «esclusivi» in cui tutti potevano sperare, un giorno, di infilarsi. La ribellione contro i privilegi era già in atto, ma circoscritta alla casta parafulmine dei politici. Banchieri, manager e suffragette televisive ne erano indenni. Finché l’estate scorsa accadde un piccolo episodio che sancì l’inizio di una nuova fase. Fu la rivolta di cento turisti, a colpi di insulti e secchiate d’acqua, contro un branco di briatori (fra i quali il medesimo Briatore) che turbavano la quiete di una spiaggia sarda con il ronzio invadente dei loro gommoni. Il gavettone dei Cento. Non proprio la presa della Bastiglia, tanto più che i ribelli della Costa Smeralda erano imprenditori e professionisti, mica sanculotti. Ma quegli spruzzi e quelle urla («Ca-fo-ni! Ca-fo-ni!») contro gli esibizionisti del benessere glorificati dai mass media diventarono un emblema e forse anche un sintomo per quei pochi malati che ebbero l’intelligenza di coglierlo. La maggioranza continuò invece come se niente fosse. E continua tuttora.

Fra i politici, gli unici ad aver annusato il mutamento sono stati la Lega e Di Pietro, che vengono chiamati populisti perché hanno ancora qualche contatto con il popolo, quel nuovo proletariato che ormai si estende all’ex ceto medio degli insegnanti e degli artigiani in disgrazia. Non a caso la Lega, così poco obamiana in tante sue manifestazioni, ha obameggiato sugli stipendi dei manager di aziende aiutate dallo Stato, cercando di imporre un tetto di 350 mila euro, subito respinto perché giudicato incostituzionale (ma chissà se è costituzionale guadagnarne 600 al mese in un call center).

Il demone della demagogia è in agguato, per cui ritengo giusto precisare che la ricchezza non è un male, nemmeno in tempo di povertà. Specie se proporzionata ai meriti: non mi hanno mai indignato i guadagni di Maradona, ma quelli delle sue riserve. Il male è l’insensibilità che spesso si accompagna all’eccesso di ricchezza. È la mancanza di sobrietà e di senso del limite. Sarà vero che stiamo assistendo alla «morte del prossimo» (è il titolo di un libro dello psicoanalista Luigi Zoja), ma neppure i privilegiati possono illudersi di continuare a vivere dentro una bolla di menefreghismo senza pagarne mai le conseguenze. Se non gli stipendi, dovrebbero abbassare almeno i toni.

di Massimo Gramellini - 18/03/2009

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