13 settembre 2009

Il "compagno Tremonti" e la "sinistra finanziaria"


Vent’anni di politica di destra del centrosinistra, a favore delle privatizzazioni e del grande capitale finanziario

Le nuove tendenze sociali e economiche insorte dopo la svolta dei primi
anni Novanta – privatizzazioni, lavoro precario, pensioni, effetti dell’euro – e
la “finanziarizzazione” dell’economia (rapporto 10 a 1 col capitale produttivo
alla svolta del secolo) con tutte le sue conseguenze sul mondo della
produzione, lavoratori dipendenti compresi: sono questi i due momenti
chiave su cui misurare la politica del centrosinistra, per cercare di capire cosa
ancora nell’odierna opposizione sopravvive del suo essere “di sinistra”.
Un discorso eccezionale e coraggioso,
quello del ministro dell’economia, interprete di una diffusa tradizione della
“destra sociale”: sia per quel riferimento alla compartecipazione dei lavoratori
agli utili aziendali – che comunque simboleggia il nodo strategico della
possibile alleanza fra ceti produttivi: per inciso, tema-slogan già caro, sia pure
con altre configurazioni, al vecchio PCI di Togliatti – sia per il giudizio netto
sulla differenza fra la politica di Roosevelt post-29 – un debito pubblico, ha
detto Tremonti, per dar soldi e lavoro al popolo 1- e quella dei loro falsi
imitatori odierni: un debito pubblico per sanare e ingrassare le banche, le
principali responsabili della crisi planetaria odierna. Come si legge ne Il Capitale: “il capitale esiste come
capitale, nel movimento reale, non nel processo di circolazione ma soltanto
nel processo di produzione, nel processo di sfruttamento della forza-lavoro”.
Come dire, George Soros, i grandi finanzieri come lui e le grandi banche non
sono veri capitalisti, nei quali individuare una contraddizione se non
“principale” comunque forte con la classe dei salariati: la vera e unica
controparte del “proletariato” - cioè a dire delle forze produttive che,
entrando in conflitto con i rapporti di produzione, aprono la strada alla
“rivoluzione” - sono i capitalisti industriali.
La breve citazione di Marx prima
riportata ha delle conseguenze paradossali per quel che riguarda la
capacità di incidenza e la funzione storica effettive dei capitalisti mercantili,
bancari e finanziari: infatti, poiché dogma vuole che il capitale “vero” sia solo
quello produttivo, che cioè il plusvalore abbia una origine solo nella sfera
della produzione, ecco che il commerciante – anche il grande commerciante -
è una sorta di salariato del capitalista industriale, un suo “commesso” (sic 3)
incaricato semplicemente di completare e riavviare il cerchio del ciclo
produttivo con la vendita della merce e il suo pagamento al produttore 4.
Ed ecco che anche banchieri e finanzieri – “il capitale per il
commercio di denaro” – assumono una funzione solo “tecnica”,
completamente subalterna a quella del capitale industriale sia dal
punto di vista economico sia da quello storico. Nella quarta
sezione del III Libro de Il Capitale, Marx descrive il “capitale per il
commercio di denaro” come mera “parte del capitale industriale”
che da questo “si stacca” per eseguire “operazioni monetarie per
tutta la classe dei capitalisti industriali”: il capitale finanziario è
cioè solo “capitale industriale … che esce dal processo di
produzione”: esso perciò “rappresenta un costo di circolazione,
ma non crea valore” ed è manovrato da una “categoria speciale di
agenti o di capitalisti” che agisce “per tutta la classe di
capitalisti”. Il capitale finanziario non è un possibile
concorrente e avversario di quello produttivo industriale come alcune volte
appare nella realtà storica (vedi la dialettica forte oggi fra imprese e banche),
ma una sua articolazione interna, tanto che i suoi protagonisti vengono ridotti
ne Il Capitale se non proprio a commessi (come nel caso del capitale
mercantile), comunque a suoi “agenti”. Il passaggio cruciale sta nel citato
“costo di circolazione” (una banca in effetti ha i suoi costi) ma esso
meriterebbe una definizione più precisa: quale “costo”? Quale interesse sul
denaro? Chi lo determina? Perché se banchieri e finanzieri sono “agenti” del

3 Per Marx il “capitale commerciale” ha la funzione di “semplice commesso del produttore” (Libro III, I, p.
329)
4 “… nel processo di circolazione non viene creato alcun valore, quindi alcun plusvalore … Se in conseguenza
della vendita della merce prodotta viene realizzato un plusvalore, ciò avviene perché tale plusvalore si trovava
già fin da prima in essa contenuto” (Ivi, p. 339).

E’ proprio così? La marginalizzazione del capitale bancario e
finanziario era assolutamente tale ed evidente nell’Ottocento, almeno fino alla
morte dell’autore de il Capitale, nel 1883?
Eccoci dunque al secondo corno del problema: in verità, contro il Marx
dogmatico de Il Capitale (fino all’incompiutezza dell’opera, “rattoppata” qui e
là dal buon Engels) emerge dalla sua vastissima produzione un Marx diverso,
giovane, lettore acuto e “immediato” (senza pretese cioè da filosofo della
storia) della realtà che lo circondava. Come quello che descrive, una ventina
di anni prima della stesura del primo libro della principale opera marxiana
(1867), “Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1950”:
“Dopo la rivoluzione di luglio il banchiere liberale Laffitte,
accompagnando il suo compare, il duca di Orléans, in trionfo all'Hôtel de
Ville, lasciava cadere queste parole: "D'ora innanzi regneranno i banchieri".
Laffitte aveva tradito il segreto della rivoluzione.
Sotto Luigi Filippo non era la borghesia francese che regnava, ma una
frazione di essa: banchieri, re della Borsa, re delle ferrovie, proprietari di
foreste, e una parte della proprietà fondiaria rappattumata con essi;
insomma la cosiddetta aristocrazia della finanza. Parigi era inondata di libelli – La Dynastie Rothschild … Les juifs,
rois de l’èpoque – nei quali il dominio dell’aristocrazia finanziaria, veniva,
con maggiore o minor spirito, denunciato e stigmatizzato” 5
Andiamo dritti alle questioni che suscita questo scritto di Marx, antologia di
articoli per la Neue Rheinische Zeitung:
Prima questione, il paradigma marxiano è qui rovesciato rispetto a
quello de Il Capitale: ne Il Capitale la contraddizione principale è fra classe
operaia e capitalisti industriali, e anzi Marx, come più tardi Hilferding –
diversamente da un altro classico della saggistica sull’Imperialismo, Hobson -
teorizza in qualche pagina della sua principale opera, una funzione addirittura
anticapitalista del capitale finanziario, potenziale artefice della “soppressione
del modo di produzione capitalistico nell’ambito dello stesso modo di
produzione capitalistico … una contraddizione che si distrugge da se stessa,
che prima facie si presenta come un semplice momento di transizione verso
una nuova forma di produzione” 6. Dunque l’ “aristocrazia finanziaria”
poteva diventare compagna di strada del progetto rivoluzionario, così come
oggi il popperiano George Soros sarebbe il levatore mondiale della
rivoluzione: invero non più rossa e proletaria, ma piuttosto globalcapitalista e
arancione o verde. “Rivoluzioni” che non a caso attraggono molto i tragici
residui “marxisti” del postbipolarismo in Italia e in Occidente.
Un Marx che faceva del capitale finanziario il protagonista
della Politica e della Storia della Francia di Filippo II, e che per
questa sua lettura ricorda quel che avrebbe scritto nel 1902 John Atkinson
Hobson in uno scritto – Imperialism: a Study – che, nonostante la matrice
culturale diversa del suo autore, fa parte anch’esso della tradizione di
pensiero marxista:
“Questi grandi interessi finanziari … formano il nucleo centrale del
capitalismo internazionale. 8 Leggi il testo della relazione nel link sul sito
9 Claudio Moffa, Quale identità comunista?, L’Ernesto, pp. 15-16 (vedi il link sul sito), IV, n. 8, ottobre 1996.

variegata diaspora post 1998 ma semmai – se la ricognizione dei “paradisi
fiscali” dovesse diventare una costante, e se tutte le parole dette si
trasformeranno in fatti – Tremonti e … il G8-G20, che hanno posto il
problema di regole da imporre alla globalizzazione finanziaria, e del
necessario primato dei Governi – cioè della Politica – sulle Banche e sul
capitale finanziario transnazionale. Senza il quale i fondamenti della
democrazia, cioè del governo del popolo, sono minacciati in tutto il mondo.
E’ vero, dietro tutto questo potrebbero esserci solo esigenze di
imbellettamento dei “potenti” della Terra di fronte agli effetti della crisi
economica mondiale. Ma potrebbe esserci anche dell’altro: ad
esempio l’esperienza diffusa di una Politica che ha perso ogni
autonomia a fronte del ricatto dei sempre più potenti mass media,
i quali eccezioni a parte, e in particolare nella loro versione
“progressista”, sono un articolazione fondamentale del potere del
capitale finanziario; e ci potrebbe essere, in tempi recentissimi, la
colossale truffa di Madoff ai danni del mondo intero correligionari
compresi. Se si applicasse la “lente di Marx” (del 1848) alla fase
postbipolare in Italia e nel mondo …
Seconda questione, dunque: il valore euristico del paradigma de Le lotte
di classe in Francia per la comprensione della storia, la storia attuale.
Lasciamo infatti perdere l’Ottocento nel corso del quale comunque, anche
prima della svolta di fine secolo tratteggiata da Engels nella prefazione al III

10 James Petras
11 La Casa Bianca su Soros: “conta come uno Stato”, il Corriere della Sera 19 gennaio 1995: “Lavorare con
Soros è come lavorare con un’entità amica, alleata indipendente, se non con uno Stato – dice Strobe
Talbotto, sottosegretario di Stato americano, il numero due della politica estera di Clinton – Noi cerchiamo
di sincronizzare il nostro approccio ai Paesi ex comunisti con la Germania, la Francia, la Gran Bretagna. E
con George Soros”

Libro de Il Capitale da lui “corretto” e pubblicato nel 1894, “pare” che il
capitale finanziario e bancario abbia avuto un ruolo determinante in eventi e
fenomeni cruciali dell’epoca: la sconfitta di Napoleone, la conquista
dell’Algeria del 1830, la costruzione del Canale di Suez con la sua funzione
geopolitica centrale per tutta l’ “età dell’imperialismo”; l’acquisto delle azioni
del Canale, grazie a un prestito dei Rothchilds alla Corona inglese, mediatore
Disraeli, al khedivé d’Egitto; il meccanismo dell’indebitamento finanziario
come chiave principale di intervento del colonialismo europeo anche nel resto
del Nordafrica; lo scramble for Africa; e per finire la conquista della Libia con
l’intervento del Banco di Roma.
Lasciamo perdere tutto questo: proviamo invece ad applicare il Marx
del 1848 a fatti, problemi, fenomeni degli ultimi vent’anni. La
prima domanda è: chi determina oggi gli eventi cruciali del
pianeta? Quale capitale pretende di fare e in buona parte fa la
Storia all’alba del nuovo secolo? Quale capitale è protagonista
delle terribili guerre che hanno assassinato la Jugoslavia e l‘Iraq?
La risposta dei maghi zurlì dell’ economia “marxista” è che
capitale finanziario, bancario e industriale sono fusi in un unicum
inscindibile, alibi per disinteressarsi (e restare al servizio sia pure
indiretto) del capitale finanziario e bancario: e se i fatti (il conflitto in
Confindustria, lo scontro Berlusconi- De Benedetti 12, la dialettica banche
piccola e media industria, il controllo finanziario di molti paesi ex socialisti)
dimostrano il contrario, gli stessi fatti vengono trasformati con un colpo di
bacchetta magica in “parole”, o in contraddizione secondaria del “blocco
borghese”, o in semplice “vetrina”, come da battuta militante bernocchiano
alla manifestazione contro il G8 aquilano: “er Gi-otto è ‘na vetrina, volemo
vedé le case”.
La constatazione è duplice: primo, è proprio il
capitale-gruzzolo, il capitale che nasce e si sviluppa nel cielo della
speculazione, che è cioè massa di denaro liquido enorme e libera proprio
perché non costretta a essere impiegata nei macchinari e nel salari della “sfera
della produzione”: è proprio questo capitale marginalizzato da Marx nel III
Libro, ad avere la possibilità di determinare gli eventi cruciali della storia del
mondo. Non si può dire che quella valigetta – come quelle dispensate a re e
12 Uno scontro del quale un trafiletto di una quindicina d’anni fa su La Stampa, p. 2, da un significato
simbolico per due concezioni (radicalmente?) diverse del capitalismo e del connesso “rischio
imprenditoriali”. E’ capace di finanziare persino la “giustizia internazionale”, come nel
caso del Tribunale per il Ruanda la cui Procura (l’accusa cioè) gode di
contributi sostanziosi della Fondazione Rockfeller e (di nuovo) di George
Soros. Già
Hobson ricordava il ruolo determinante della stampa nel provocare le guerre
della sua epoca, la classica età dell’imperialismo secondo titolo di un libro di
Fieldhouse. Ma agli inizi del ‘900 i quotidiani erano fogli per piccole élités:
oggi ci sono tutte le tecnologie della multimedialità, grande strumento di
liberazione e comunicazione ma anche di propaganda e di omologazione al
“pensiero unico” sull’Islam e sulla “democrazia”.
Le riforme economiche e sociali del centrosinistra
post-tangentopoli: ma che sinistra è?
La “sinistra finanziaria”, a costo del suo snaturamento 15, non “vede” o non
vuole vedere questa dimensione del conflitto economico in Italia e nel mondo,
l’importanza cioè del problema banche e finanza negli equilibri sociali e di
reddito anche per i lavoratori salariati e stipendiati: i moderati perché

15 Giulio Tremonti, L' imposta progressiva? un mito " reazionario". necessario il passaggio dalle tasse sulle persone a quelle sulle cose, Corriere
della Sera, 26 aprile 1994

subalterni nei fatti alla catena mediatica di Repubblica. A quale miseria si è ridotto certo
marxleninismo del Terzo millennio! 16

16 Dopo aver scritto queste righe polemiche sul “marxleninismo” attiale, leggo un articolo di Leonardo Mazzei
del Campo antimperialista sulla competizione economica e geopolitica fra gli oleodotti South Stream e
Nabucco, che si conclude con il riconoscimento della serietà della contraddizione e delle scelte (obbligate?)
del governo Berlusconi ad Ankara, e dunque con la sconfessione di quella che lui stesso definisce
interpretazione gossipara della vicenda: vale a dire, udite udite, uno scambio fra “bionde” russe e South
Stream, con Putin che incassa l’opzione pro-Gazprom e il Berlusca che fa il pieno di escort per le sue ville. E’
veramente pazzesco! Lo spazio che Mazzei dedica a questa ipotesi “interpretativa” potrebbe indicare un mio
eccessivo pessimismo sullo stato di salute della sinistra marxisteggiante in Italia, e invece ne è la conferma:
un’area fino in fondo succube del giornale-serva del progressismo italiano. Ci vorrebbe ancora molto spazio per una analisi completa: ma si può
dire telegraficamente, credo, che non c’è stata controriforma a danno
del mondo del lavoro, dell’occupazione e della lotta al precariato,
della sicurezza nei luoghi di lavoro, delle privatizzazioni che non
porti l’imprimatur del centrosinistra post-bipolare e postcomunista.
Lo jus primae noctis della mattanza della classe operaia italiana
e del mondo del lavoro dipendente è stato esercitato, di tappa in tappa, dai
vari don Rodrigo del centrosinistra. Fa in effetti sorridere vedere Franceschini in mezzo ai precari della scuola,
quando si pensa che nel 1993 era stato il governo Amato a privatizzare
l’impiego pubblico e nel 1997 il governo Prodi e il suo ministro Treu a
codificare il “lavoro interinale”. Solo Berlusconi è l’ostacolo per la cultura
chic dell’Italia “progressista”? Nel 1997 è mancato loro il là di un appello
redatto dal loro giornale-partito? Non sanno pensare da soli?
La cronologia secca delle leggi, decreti legge e decreti legislativi
mostra con ogni evidenza che è stata la sinistra finanziaria a
distruggere in pochi anni il patrimonio costruito in decenni di lotte
parlamentari e di piazza della sinistra, nel quale peraltro (vedi il
caso dell’Agip e della Banca d’Italia) erano stati opportunamente
conservate alcune misure e istituti di epoca fascista: 2 giugno 1992, è
nato da poco il governo Amato, incontro sul panfilo reale Britannia fra
finanzieri, banchieri e managers italiani inglesi e di altri paesi europei, per
delineare la strategia delle privatizzazioni delle economie europee; 18 luglio
(ancora governo Amato) un DPR codifica definitivamente l’autonomia del
Governatore della Banca d’Italia dal Ministero del Tesoro, che non può
intervenire per co-definire il tasso di sconto; 31 luglio, il golpe notturno delle
privatizzazioni degli Enti pubblici, dopo la campagna della Repubblica contro
i “boiardi”, dove assieme all’acqua sporca degli enti parassitari si svendono
anche gioielli dell’industria: ENEL e ENI, IRI. Sempre nel 1993, il nuovo
governo Ciampi dispone la separazione di Agip e Snam dall’ENI spa e la
dismissione delle partecipazioni del Tesoro dall’Agip, Ina, Enel, e dalle
banche IMI, Commerciale e Credito italiano. 1997, le già ricordate
privatizzazioni di enti culturali da parte di Prodi, e il pacchetto Treu sul lavoro
interinale con la legge 196 del 24 giugno.
Poi un secondo provvedimento cruciale: poi, il 17 maggio il governo
D’Alema permette anche alle fondazioni bancarie di diventare azioniste della
Banca d’Italia, che si trasforma così completamente in un ente di fatto
privatistico, i cui azionisti saranno occultati all’opinione pubblica fino a che
una inchiesta di Famiglia cristiana del 2004, non svela gli altarini: più
dell’84 per cento del capitale della Banca “di stato” è in mano a privati! La
filosofia che sta dietro questo smantellamento della peraltro moderata
strutturazione del sistema bancario italiano, oggetto di campagne durissime
da parte della stampa della sinistra finanziaria – vedi l’assalto del Corriere di
Mieli al cattolico Fazio nel 2005, mentre stava per andare in porto una legge
destinata a riportare in mano pubblica il capitale della BdI - è la solita solfa
dell’ “autonomia”. E’ lo stesso leitmotiv utilizzato per la riforma Berlinguer
dell’Università (altra perla del centrosinistra, a cui Moratti e Gelmini hanno
portato qualche miglioramento in positivo): anche l’ “autonomia” degli Atenei
è solo presunta, ed è un modo per “liberare” l’autorità e il bilancio centrale
dello Stato dal costituzionale obbligo del finanziamento dell’Istruzione
pubblica, abbandonando le Università o al degrado e al declino, o alla
sottomissione al capitale privato e a gruppi di potere più o meno massonici. Il
tutto mentre la vera autonomia degli Atenei – intesa come autonomia del
corpo docente e dei propri organi di rappresentanza collegiale - rischia di
venire cancellata progressivamente.
Rispetto alla deriva liberista e antioperaia di tutti i governi del
centrosinistra dagli anni Novanta ad oggi, Berlusconi e il centrodestra o
hanno ereditato i “frutti” per loro più comoda gestione magari evitando di
prendere necessari provvedimenti (come il blocco-controllo dei prezzi dopo il
disastroso cambio dell’euro ad opera di Prodi) oppure hanno cercato di porre
qualche piccolo o meno piccolo rimedio a vantaggio del mondo del lavoro e
dei cittadini. Cerca solo lo scontro frontale, nato sul
nulla, cioè sulla vicenda delle escort, in un momento in cui il governo stava
mostrando le sue effettive capacità di risolvere alcuni problemi chiave del
paese, dall’immondizia a Napoli al terremoto d’Abruzzo.
Alle spalle
della vostra “rivoluzione” ci sarebbe il capitalista De Benedetti: con le sue
profezie recenti sulle “spese proletarie” nei supermarket, con i suoi passati
licenziamenti all’Olivetti, 2-3000 operai in un sol colpo, e con la vicenda SME
emblema della svendita del patrimonio pubblico al capitale privato. La prima
Tangentopoli è stata esaltata dalla sinistra estrema (tranne piccole, marginali,
inutili eccezioni) poi è arrivata la riflessione e il quasi pentimento vista la
macchina delle privatizzazioni e del maggioritario messe in moto dalla
“rivoluzione” dipietrista.

di Claudio Moffa

12 settembre 2009

Il picco dell'acqua

Picco acqua
Le risorse idriche si stanno esaurendo. E' il picco dell'acqua
La lasciamo scorrere distrattamente dai rubinetti, eppure l’acqua si sta esaurendo. Mentre il mondo discute del picco del petrolio, il Pacific Institute della California, nel volume The World’s Water introduce, per la prima volta nella storia, il concetto di “peak water”.

Il volume 2008-2009 del rapporto biennale evidenzia che l’inquinamento, l’abuso e la cattiva gestione delle risorse idriche minacciano la produttività economica, la salute umana, gli ecosistemi e la sopravvivenza stessa.

Il testo, che peraltro presenta una serie di dati sulla disponibilità di acqua nelle varie parti del mondo, offre, in un capitolo, una valutazione della difficile situazione idrica della Cina, dovuta al suo rapido sviluppo. Non è ancora possibile prevedere se questo Paese arriverà ad una catastrofe ma è necessario comprendere che esiste un limite alla disponibilità di acqua. Alcune zone si stanno già avvicinando ai limiti sostenibili di estrazione e uso delle risorse idriche. Conoscere gli effetti che il superamento di tali limiti comporta per la produzione di alimenti, per il benessere economico e per l’ambiente, può aiutare a sviluppare nuove modalità di gestione e di utilizzo di acqua. Nel testo, quindi, vengono illustrate le strategie, le tecnologie e le modalità che le città possono adottare per soddisfare la crescente domanda di acqua.

Peter Gleick
Peter Gleick, direttore del Pacific Institute of California

Come sottolinea nella prefazione al volume Malin Falkenmark, professore del Stockolm International Water Institute e del Stockolm Resilience Center, in molti paesi la percezione della sicurezza dell’acqua sta iniziando a dissolversi.

Allarmante è il fatto che per la prima volta si parli di “picco dell’acqua”: il mondo ha consumato più della metà dell’acqua disponibile ed il rischio è quello che in futuro scoppino altre guerre per l’approvvigionamento di tale risorsa, come è già avvenuto in passato.

“C’è tanta acqua nel pianeta ma stiamo per fare i conti con una crisi per il venir meno di acqua gestita in maniera sostenibile”, ha dichiarato Peter Gleick, direttore del Pacific Institute.

Crediamo che alcune risorse, quelle di cui usufruiamo quotidianamente e a cui possiamo accedere con estrema facilità, siano infinite. Le consumiamo indiscriminatamente, senza fermarci mai a riflettere, dando per scontato che, così come oggi, anche domani saranno disponibili a noi, ai nostri figli, ai nostri nipoti.

acqua limpida
E' necessaria una migliore gestione delle risorse idriche per evitare che queste si esauriscano

Un giorno però succede qualcosa e ci accorgiamo che la nostra era soltanto una falsa credenza e che anche ciò che consideriamo eterno in realtà ha un limite. È quello che è successo con l’ oro nero ed è lo stesso che sta accadendo adesso con l’oro blu, tesoro ben più prezioso.

L’era dell’accesso facile alle risorse idriche sta per finire e, come è accaduto per il petrolio, siamo giunti adesso al “picco dell’acqua”.

La teoria del picco, proposta nel 1956 dal geofisico Marian King Hubbert, riguarda l’evoluzione temporale della produzione di una qualsiasi risorsa minerale o fonte fossile esauribile o fisicamente limitata: il punto di produzione massima oltre il quale la produzione può soltanto diminuire, viene detto picco di Hubbert. Raggiunto il picco ha inizio il declino, prima lento poi via via sempre più rapido.

Marian King Hubbert
Marian King Hubbert, il geofisico che nel 1956 propose la teoria del picco

Inizialmente nessuno diede credito alla teoria di Hubbert. Negli anni ’70 però cambiò tutto e le due crisi petrolifere che misero in ginocchio l’America (nel 1973 e nel 1979) resero Hubbert uno dei più celebri geofisici del mondo: 48 Stati raggiunsero, effettivamente, il loro picco di produzione.

Il petrolio rappresenta oggi circa il 40% dell’energia primaria ed il 90% di quella utilizzata nei trasporti. Percentuali altissime, non c’dubbio. Eppure il petrolio non è insostituibile. All’oro nero, in molti campi, potranno subentrare le fonti rinnovabili (come il solare o l’eolico) o sostituti con un maggior impatto ambientale (come il nucleare). Soluzioni migliori o peggiori ma, in ogni caso, esistenti. L'uso di petrolio, inoltre, non è essenziale alla vita umana. Già ridurre sprechi e consumi inutili ci permetterebbe di affrancarci da gran parte dei suoi utilizzi.

Con cosa, invece, sostituiremo l’acqua quando questa finirà o sarà riservata ai ricchi e ai potenti? Come potremmo continuare a vivere senz’acqua?

di Alessandra Profilio

11 settembre 2009

Destra e sinistra: sempre più una convenzione


1. Da tempo ormai sta diventando opinione comune che la distinzione tra destra e sinistra è sempre più labile e indistinta. Adesso poi, con certi atteggiamenti smaccati di Fini, le nette separazioni sembrano cadute. Anch’io ho parlato spesso di “gioco degli specchi”, volendo ricordare che, pur nella confusione tra i due schieramenti, possono a volte sussistere differenze di “fisionomia”. Tuttavia, ho l’impressione che spesso l’attuale non distinzione venga presa come una diversità netta rispetto soprattutto a presunti antagonismi di un tempo. Bisognerebbe invece ricordare che, in Italia, il trasformismo della sinistra risale addirittura al Governo Depretis del 1876. Non si creda però che altrove si sia avuta una chiara divaricazione tra i due schieramenti; non sempre almeno.

Cominciamo con il dire che sinistra e destra sono considerate, per chi viene da una tradizione effettivamente antagonistica, correnti “borghesi”, comunque dei dominanti nelle società di tipologia capitalistica; correnti del tutto integrate nella riproduzione sistemica di tale forma di società, di cui hanno sempre rappresentato alternative riguardanti modalità di poco diseguali per conseguire le medesime finalità. Se immaginiamo che la politica, nel capitalismo, sia un fiume, potremmo pensare a due suoi rami che corrono grosso modo paralleli, dirigendosi verso la stessa foce. Nel bel film La villeggiatura (di Marco Leto), rivolgendosi al “villeggiante” (condannato al confino) prof. Rossini, inizialmente liberale, che teneva lezioni sulla storia d’Italia fino alla presa del potere da parte del fascismo, l’operaio comunista ad un certo punto sbotta (cito il senso, non le autentiche parole pronunciate nel film): “perché lei continua a parlare della destra e della sinistra? Ci sono la destra, la sinistra e la sinistra di classe”.
Mi permetto di rilevare un errore, giacché la sinistra di classe è il comunismo. In ogni caso, il senso è chiaro: le prime due correnti fluiscono lungo alvei paralleli, l’unica che si distacca e vuol dirigersi altrove è la terza. Da una parte, dunque, due forme differenti di lubrificazione della stessa “macchina” sociale; dall’altra, la volontà di inceppare la stessa e di proporre, per via rivoluzionaria, una sua drastica trasformazione, indirizzandola verso la riproduzione di rapporti sociali pensati come comunisti. Qui arriviamo al punto decisivo. In altre parti d’Europa, molto prima che in Italia (e per certi versi in Francia e paesi latini), ma in modo assai netto nel mondo anglosassone e scandinavo, ecc., il comunismo è sparito da gran tempo e le due correnti “borghesi” (uso apposta un termine un po’ vetusto) appaiono quale unico orizzonte politico; per cui ci si è pigramente adattati alla distinzione tra destra e sinistra – sempre più esile di senso – senza troppi problemi.

2. In Italia è stato diverso poiché esisteva alcuni decenni fa, nella coscienza di strati popolari (operai e contadini) non esigui, il sentimento dell’antagonismo tra comunismo (non semplicemente “sinistra di classe”) e le correnti “borghesi”. Solo che, come si evince anche dal bell’articolo di Berlendis, la prima corrente, per ragioni internazionali (patto di Yalta con divisione del mondo in due “campi”, ecc.) e interne, si è andata progressivamente adattando, nei suoi vertici dirigenti, alla riproduzione dei rapporti capitalistici. Così, insensibilmente, il comunismo è stato via via pensato quale semplice parte della sinistra; un po’ più radicale dell’altra, ma progressivamente sempre meno radicale. Si è prodotto uno iato crescente tra gruppi dirigenti del Pci e base popolare, in cui – sia pure in modo viepiù sbiadito – rimaneva una “memoria” dell’antagonismo “al sistema”. La rottura più netta si è prodotta tra ceti intellettuali e assimilati – in specie quelli dei settori improduttivi (non dico inutili, pur se spesso sono anche questo, anzi nocivi) del settore “pubblico” o da questo alimentati finanziariamente – e la base popolare.

In Italia, dunque, la sempre più scarsa distinguibilità, e la trasversalità, tra destra e sinistra è frutto di una sorta di “mutazione genetica” subita dal comunismo italiano. Quando poi si è verificato il crollo del campo detto socialista – cui il Pci era ormai lontano, non avendo però ancora rotto con esso ogni legame ombelicale (quasi soltanto finanziario) – è avvenuto “l’ultimo scatto” verso il pieno schieramento atlantico, cioè filoamericano, perdendo ogni pur piccola “eco” di ciò che fu il comunismo, quanto meno come ideologia e presa di posizione antisistema; “scatto” sanzionato da ripetuti cambi di nome e di sostanza, cioè di iscritti e base elettorale. Così, qualcuno ha vissuto gli ultimi anni come si trattasse di un’autentica confusione tra destra e sinistra. La confusione, l’illanguidirsi di una distinzione, c’è senz’altro e non solo in Italia; tuttavia, qui da noi l’impressione è stata decisamente superiore per il fatto di questa graduale trasformazione del comunismo in sinistra, che ha cancellato ogni vestigia della critica anticapitalistica e antistatunitense (salvo che in pochi zombi, più dannosi ancora nella loro vetustà).

3. Pensare di invertire oggi il flusso della trasformazione storica, ricostituendo forme esangui e utopiche di comunismo e antiquato antimperialismo, è pura illusione (quando non sia solo un ulteriore “tradimento” a scoppi successivi e ritardati, utili a impedire ogni sano ripensamento). Intendiamoci bene: il laido viso del tradimento è ben limpido davanti a chi vuol vedere. La “sinistra – cioè il comunismo divenuto sinistra – è questo viso; per il semplice motivo che ogni processo oggettivo forgia i suoi agenti. E’ certo il tradimento a creare i traditori. Tuttavia, bisogna tenere ben presenti le due lame della forbice se si vuol tagliare (e non tagliarsi). Il tradimento è stato oggettivamente provocato dall’impossibilità di costruzione del socialismo (e comunismo) per errori pratici indotti da gravi errori di teoria. Quest’ultima aveva indicato la possibilità (anzi certezza) di mettere in moto dati processi, possibilità invece oggettivamente insussistente. La conseguente incapacità degli agenti, di dare vita ad un’effettiva transizione al socialismo, ha indotto gli stessi (in quanto guida della “schiera” che credeva di marciare in quella direzione) a coprire gli insuccessi – spesso inconsapevolmente, almeno all’inizio del loro tentativo – con la pura ideologia, magari gridando al sabotaggio dei commilitoni e seguaci. Alla fine però, quando si è capito o intuito che tutto era perduto, gli ultimi dirigenti del movimento diventarono reali traditori; in quel momento, assunsero il comando i più spregevoli, i più meschini, i veri ignobili individui dall’animo nero come la pece.

E’ obbligo morale denunciare e combattere i traditori, indicarli come esempio di bassezza senza limiti. Tuttavia, tale atteggiamento va accompagnato dall’analisi del processo che ha condotto al tradimento, e che difficilmente avrebbe potuto produrre qualcosa di positivo. In ogni caso, però, dobbiamo oggi concludere per l’impossibilità di una qualsiasi ripresa di una critica “antisistema”, in assenza di un ripensamento generale che solo in pochi hanno iniziato, mentre la maggioranza è passata al “sistema” e una piccola minoranza di ritardatari si ostina a sguazzare nel vecchio pantano. Sul comunismo stendiamo momentaneamente (una fase storica) il silenzio; perché parlarne senza analisi – e senza nuove categorie d’analisi – è da sciocchi o da mascalzoni; significa produrre idee fantasmagoriche della “novella società”, che non hanno una qualsiasi possibilità di convincere se non pochi dissennati.

4. In questo senso, e solo in questo, va inteso il programma di studiare e comprendere la transizione d’epoca che sembra in corso di svolgimento adesso. In tale passaggio storico, permangono alcune forme di lotta dei raggruppamenti sociali (non classi) subordinati che, pur con forme apparentemente nuove, ripetono invece il sostanziale “tradunionismo” delle vecchie. Non si tratta di contrastare tali lotte; anzi, nei limiti del possibile, di appoggiarle. Senza però illusioni. Non sono forme di lotta che spostano reali equilibri nei rapporti di forza tra chi sta sopra e chi sta sotto. Sono le lotte tra dominanti – e soprattutto nei loro effetti di conflitto tra più compartimenti degli stessi sul piano internazionale – a provocare effettivi mutamenti fortemente dinamici in questa fase storica. La crisi economica è solo la “passerella” su cui sfilano attori reali che tuttavia coprono quelli decisivi e assai meno appariscenti (non però del tutto nascosti).

Ciò che appare non è. Formula che tuttavia può indurre in errore. Diciamo meglio: ciò che è in vivida luce attira i nostri sguardi e così non vediamo quanto sarebbe più essenziale vedere. Chi manovra i riflettori illumina gli attori (spesso guitti da avanspettacolo) e lascia in (pen)ombra i ben più efficaci suggeritori. In questo nostro paese, tra gli attori illuminati chi troviamo? Vecchie conoscenze: i traditori del comunismo. Quel vecchio tradimento è ormai consumato; utile riparlarne solo in sede storica per comprendere le radici del tradimento odierno. Con animo immutato, infatti, questi deformi nanetti vogliono ripetere lo stesso “scherzo” nell’attuale fase di transizione ad altra epoca, in attuazione mediante la nuova lotta tra dominanti in campo internazionale; mi riferisco alle più volte da noi trattata conflittualità tendenzialmente multipolare che si va instaurando.
E ancora una volta ripeto: questo tradimento va studiato nelle sue determinanti oggettive: quelle del conflitto che – grazie alla “legge” dello sviluppo ineguale delle varie formazioni particolari – si sta instaurando tra Usa e nuove potenze in gestazione. Dobbiamo comprendere le forme di tale conflitto, rifarci a quello precedente (epoca dell’imperialismo) per individuarne le differenze, che implicano diversità della strutturazione sociale dei capitalismi in lotta. Senza mai dimenticare però i traditori, quelli che intendono mettere in svendita gli interessi del paese. E’ a mio avviso superficiale sostenere che tutto ciò riguarda solo i dominanti, mentre noi dovremmo interessarci soltanto dei dominati. Questi ultimi, lo si capisca infine, resteranno a lungo a lottare in quanto dominati, e per di più a livelli di vita in peggioramento, che non ha mai favorito – di per sé, in mancanza di un conflitto lacerante tra i dominanti di vari paesi – la trasformazione anticapitalistica. Intanto, individuiamo i caratteri del conflitto nella fase attuale e come si muovono in esso i traditori degli interessi di ogni dato paese (che sia tra quelli delle rivoluzioni “colorate”, o uno di quelli europei in apnea, o il nostro a rischio di collasso).
di Gianfranco La Grassa

13 settembre 2009

Il "compagno Tremonti" e la "sinistra finanziaria"


Vent’anni di politica di destra del centrosinistra, a favore delle privatizzazioni e del grande capitale finanziario

Le nuove tendenze sociali e economiche insorte dopo la svolta dei primi
anni Novanta – privatizzazioni, lavoro precario, pensioni, effetti dell’euro – e
la “finanziarizzazione” dell’economia (rapporto 10 a 1 col capitale produttivo
alla svolta del secolo) con tutte le sue conseguenze sul mondo della
produzione, lavoratori dipendenti compresi: sono questi i due momenti
chiave su cui misurare la politica del centrosinistra, per cercare di capire cosa
ancora nell’odierna opposizione sopravvive del suo essere “di sinistra”.
Un discorso eccezionale e coraggioso,
quello del ministro dell’economia, interprete di una diffusa tradizione della
“destra sociale”: sia per quel riferimento alla compartecipazione dei lavoratori
agli utili aziendali – che comunque simboleggia il nodo strategico della
possibile alleanza fra ceti produttivi: per inciso, tema-slogan già caro, sia pure
con altre configurazioni, al vecchio PCI di Togliatti – sia per il giudizio netto
sulla differenza fra la politica di Roosevelt post-29 – un debito pubblico, ha
detto Tremonti, per dar soldi e lavoro al popolo 1- e quella dei loro falsi
imitatori odierni: un debito pubblico per sanare e ingrassare le banche, le
principali responsabili della crisi planetaria odierna. Come si legge ne Il Capitale: “il capitale esiste come
capitale, nel movimento reale, non nel processo di circolazione ma soltanto
nel processo di produzione, nel processo di sfruttamento della forza-lavoro”.
Come dire, George Soros, i grandi finanzieri come lui e le grandi banche non
sono veri capitalisti, nei quali individuare una contraddizione se non
“principale” comunque forte con la classe dei salariati: la vera e unica
controparte del “proletariato” - cioè a dire delle forze produttive che,
entrando in conflitto con i rapporti di produzione, aprono la strada alla
“rivoluzione” - sono i capitalisti industriali.
La breve citazione di Marx prima
riportata ha delle conseguenze paradossali per quel che riguarda la
capacità di incidenza e la funzione storica effettive dei capitalisti mercantili,
bancari e finanziari: infatti, poiché dogma vuole che il capitale “vero” sia solo
quello produttivo, che cioè il plusvalore abbia una origine solo nella sfera
della produzione, ecco che il commerciante – anche il grande commerciante -
è una sorta di salariato del capitalista industriale, un suo “commesso” (sic 3)
incaricato semplicemente di completare e riavviare il cerchio del ciclo
produttivo con la vendita della merce e il suo pagamento al produttore 4.
Ed ecco che anche banchieri e finanzieri – “il capitale per il
commercio di denaro” – assumono una funzione solo “tecnica”,
completamente subalterna a quella del capitale industriale sia dal
punto di vista economico sia da quello storico. Nella quarta
sezione del III Libro de Il Capitale, Marx descrive il “capitale per il
commercio di denaro” come mera “parte del capitale industriale”
che da questo “si stacca” per eseguire “operazioni monetarie per
tutta la classe dei capitalisti industriali”: il capitale finanziario è
cioè solo “capitale industriale … che esce dal processo di
produzione”: esso perciò “rappresenta un costo di circolazione,
ma non crea valore” ed è manovrato da una “categoria speciale di
agenti o di capitalisti” che agisce “per tutta la classe di
capitalisti”. Il capitale finanziario non è un possibile
concorrente e avversario di quello produttivo industriale come alcune volte
appare nella realtà storica (vedi la dialettica forte oggi fra imprese e banche),
ma una sua articolazione interna, tanto che i suoi protagonisti vengono ridotti
ne Il Capitale se non proprio a commessi (come nel caso del capitale
mercantile), comunque a suoi “agenti”. Il passaggio cruciale sta nel citato
“costo di circolazione” (una banca in effetti ha i suoi costi) ma esso
meriterebbe una definizione più precisa: quale “costo”? Quale interesse sul
denaro? Chi lo determina? Perché se banchieri e finanzieri sono “agenti” del

3 Per Marx il “capitale commerciale” ha la funzione di “semplice commesso del produttore” (Libro III, I, p.
329)
4 “… nel processo di circolazione non viene creato alcun valore, quindi alcun plusvalore … Se in conseguenza
della vendita della merce prodotta viene realizzato un plusvalore, ciò avviene perché tale plusvalore si trovava
già fin da prima in essa contenuto” (Ivi, p. 339).

E’ proprio così? La marginalizzazione del capitale bancario e
finanziario era assolutamente tale ed evidente nell’Ottocento, almeno fino alla
morte dell’autore de il Capitale, nel 1883?
Eccoci dunque al secondo corno del problema: in verità, contro il Marx
dogmatico de Il Capitale (fino all’incompiutezza dell’opera, “rattoppata” qui e
là dal buon Engels) emerge dalla sua vastissima produzione un Marx diverso,
giovane, lettore acuto e “immediato” (senza pretese cioè da filosofo della
storia) della realtà che lo circondava. Come quello che descrive, una ventina
di anni prima della stesura del primo libro della principale opera marxiana
(1867), “Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1950”:
“Dopo la rivoluzione di luglio il banchiere liberale Laffitte,
accompagnando il suo compare, il duca di Orléans, in trionfo all'Hôtel de
Ville, lasciava cadere queste parole: "D'ora innanzi regneranno i banchieri".
Laffitte aveva tradito il segreto della rivoluzione.
Sotto Luigi Filippo non era la borghesia francese che regnava, ma una
frazione di essa: banchieri, re della Borsa, re delle ferrovie, proprietari di
foreste, e una parte della proprietà fondiaria rappattumata con essi;
insomma la cosiddetta aristocrazia della finanza. Parigi era inondata di libelli – La Dynastie Rothschild … Les juifs,
rois de l’èpoque – nei quali il dominio dell’aristocrazia finanziaria, veniva,
con maggiore o minor spirito, denunciato e stigmatizzato” 5
Andiamo dritti alle questioni che suscita questo scritto di Marx, antologia di
articoli per la Neue Rheinische Zeitung:
Prima questione, il paradigma marxiano è qui rovesciato rispetto a
quello de Il Capitale: ne Il Capitale la contraddizione principale è fra classe
operaia e capitalisti industriali, e anzi Marx, come più tardi Hilferding –
diversamente da un altro classico della saggistica sull’Imperialismo, Hobson -
teorizza in qualche pagina della sua principale opera, una funzione addirittura
anticapitalista del capitale finanziario, potenziale artefice della “soppressione
del modo di produzione capitalistico nell’ambito dello stesso modo di
produzione capitalistico … una contraddizione che si distrugge da se stessa,
che prima facie si presenta come un semplice momento di transizione verso
una nuova forma di produzione” 6. Dunque l’ “aristocrazia finanziaria”
poteva diventare compagna di strada del progetto rivoluzionario, così come
oggi il popperiano George Soros sarebbe il levatore mondiale della
rivoluzione: invero non più rossa e proletaria, ma piuttosto globalcapitalista e
arancione o verde. “Rivoluzioni” che non a caso attraggono molto i tragici
residui “marxisti” del postbipolarismo in Italia e in Occidente.
Un Marx che faceva del capitale finanziario il protagonista
della Politica e della Storia della Francia di Filippo II, e che per
questa sua lettura ricorda quel che avrebbe scritto nel 1902 John Atkinson
Hobson in uno scritto – Imperialism: a Study – che, nonostante la matrice
culturale diversa del suo autore, fa parte anch’esso della tradizione di
pensiero marxista:
“Questi grandi interessi finanziari … formano il nucleo centrale del
capitalismo internazionale. 8 Leggi il testo della relazione nel link sul sito
9 Claudio Moffa, Quale identità comunista?, L’Ernesto, pp. 15-16 (vedi il link sul sito), IV, n. 8, ottobre 1996.

variegata diaspora post 1998 ma semmai – se la ricognizione dei “paradisi
fiscali” dovesse diventare una costante, e se tutte le parole dette si
trasformeranno in fatti – Tremonti e … il G8-G20, che hanno posto il
problema di regole da imporre alla globalizzazione finanziaria, e del
necessario primato dei Governi – cioè della Politica – sulle Banche e sul
capitale finanziario transnazionale. Senza il quale i fondamenti della
democrazia, cioè del governo del popolo, sono minacciati in tutto il mondo.
E’ vero, dietro tutto questo potrebbero esserci solo esigenze di
imbellettamento dei “potenti” della Terra di fronte agli effetti della crisi
economica mondiale. Ma potrebbe esserci anche dell’altro: ad
esempio l’esperienza diffusa di una Politica che ha perso ogni
autonomia a fronte del ricatto dei sempre più potenti mass media,
i quali eccezioni a parte, e in particolare nella loro versione
“progressista”, sono un articolazione fondamentale del potere del
capitale finanziario; e ci potrebbe essere, in tempi recentissimi, la
colossale truffa di Madoff ai danni del mondo intero correligionari
compresi. Se si applicasse la “lente di Marx” (del 1848) alla fase
postbipolare in Italia e nel mondo …
Seconda questione, dunque: il valore euristico del paradigma de Le lotte
di classe in Francia per la comprensione della storia, la storia attuale.
Lasciamo infatti perdere l’Ottocento nel corso del quale comunque, anche
prima della svolta di fine secolo tratteggiata da Engels nella prefazione al III

10 James Petras
11 La Casa Bianca su Soros: “conta come uno Stato”, il Corriere della Sera 19 gennaio 1995: “Lavorare con
Soros è come lavorare con un’entità amica, alleata indipendente, se non con uno Stato – dice Strobe
Talbotto, sottosegretario di Stato americano, il numero due della politica estera di Clinton – Noi cerchiamo
di sincronizzare il nostro approccio ai Paesi ex comunisti con la Germania, la Francia, la Gran Bretagna. E
con George Soros”

Libro de Il Capitale da lui “corretto” e pubblicato nel 1894, “pare” che il
capitale finanziario e bancario abbia avuto un ruolo determinante in eventi e
fenomeni cruciali dell’epoca: la sconfitta di Napoleone, la conquista
dell’Algeria del 1830, la costruzione del Canale di Suez con la sua funzione
geopolitica centrale per tutta l’ “età dell’imperialismo”; l’acquisto delle azioni
del Canale, grazie a un prestito dei Rothchilds alla Corona inglese, mediatore
Disraeli, al khedivé d’Egitto; il meccanismo dell’indebitamento finanziario
come chiave principale di intervento del colonialismo europeo anche nel resto
del Nordafrica; lo scramble for Africa; e per finire la conquista della Libia con
l’intervento del Banco di Roma.
Lasciamo perdere tutto questo: proviamo invece ad applicare il Marx
del 1848 a fatti, problemi, fenomeni degli ultimi vent’anni. La
prima domanda è: chi determina oggi gli eventi cruciali del
pianeta? Quale capitale pretende di fare e in buona parte fa la
Storia all’alba del nuovo secolo? Quale capitale è protagonista
delle terribili guerre che hanno assassinato la Jugoslavia e l‘Iraq?
La risposta dei maghi zurlì dell’ economia “marxista” è che
capitale finanziario, bancario e industriale sono fusi in un unicum
inscindibile, alibi per disinteressarsi (e restare al servizio sia pure
indiretto) del capitale finanziario e bancario: e se i fatti (il conflitto in
Confindustria, lo scontro Berlusconi- De Benedetti 12, la dialettica banche
piccola e media industria, il controllo finanziario di molti paesi ex socialisti)
dimostrano il contrario, gli stessi fatti vengono trasformati con un colpo di
bacchetta magica in “parole”, o in contraddizione secondaria del “blocco
borghese”, o in semplice “vetrina”, come da battuta militante bernocchiano
alla manifestazione contro il G8 aquilano: “er Gi-otto è ‘na vetrina, volemo
vedé le case”.
La constatazione è duplice: primo, è proprio il
capitale-gruzzolo, il capitale che nasce e si sviluppa nel cielo della
speculazione, che è cioè massa di denaro liquido enorme e libera proprio
perché non costretta a essere impiegata nei macchinari e nel salari della “sfera
della produzione”: è proprio questo capitale marginalizzato da Marx nel III
Libro, ad avere la possibilità di determinare gli eventi cruciali della storia del
mondo. Non si può dire che quella valigetta – come quelle dispensate a re e
12 Uno scontro del quale un trafiletto di una quindicina d’anni fa su La Stampa, p. 2, da un significato
simbolico per due concezioni (radicalmente?) diverse del capitalismo e del connesso “rischio
imprenditoriali”. E’ capace di finanziare persino la “giustizia internazionale”, come nel
caso del Tribunale per il Ruanda la cui Procura (l’accusa cioè) gode di
contributi sostanziosi della Fondazione Rockfeller e (di nuovo) di George
Soros. Già
Hobson ricordava il ruolo determinante della stampa nel provocare le guerre
della sua epoca, la classica età dell’imperialismo secondo titolo di un libro di
Fieldhouse. Ma agli inizi del ‘900 i quotidiani erano fogli per piccole élités:
oggi ci sono tutte le tecnologie della multimedialità, grande strumento di
liberazione e comunicazione ma anche di propaganda e di omologazione al
“pensiero unico” sull’Islam e sulla “democrazia”.
Le riforme economiche e sociali del centrosinistra
post-tangentopoli: ma che sinistra è?
La “sinistra finanziaria”, a costo del suo snaturamento 15, non “vede” o non
vuole vedere questa dimensione del conflitto economico in Italia e nel mondo,
l’importanza cioè del problema banche e finanza negli equilibri sociali e di
reddito anche per i lavoratori salariati e stipendiati: i moderati perché

15 Giulio Tremonti, L' imposta progressiva? un mito " reazionario". necessario il passaggio dalle tasse sulle persone a quelle sulle cose, Corriere
della Sera, 26 aprile 1994

subalterni nei fatti alla catena mediatica di Repubblica. A quale miseria si è ridotto certo
marxleninismo del Terzo millennio! 16

16 Dopo aver scritto queste righe polemiche sul “marxleninismo” attiale, leggo un articolo di Leonardo Mazzei
del Campo antimperialista sulla competizione economica e geopolitica fra gli oleodotti South Stream e
Nabucco, che si conclude con il riconoscimento della serietà della contraddizione e delle scelte (obbligate?)
del governo Berlusconi ad Ankara, e dunque con la sconfessione di quella che lui stesso definisce
interpretazione gossipara della vicenda: vale a dire, udite udite, uno scambio fra “bionde” russe e South
Stream, con Putin che incassa l’opzione pro-Gazprom e il Berlusca che fa il pieno di escort per le sue ville. E’
veramente pazzesco! Lo spazio che Mazzei dedica a questa ipotesi “interpretativa” potrebbe indicare un mio
eccessivo pessimismo sullo stato di salute della sinistra marxisteggiante in Italia, e invece ne è la conferma:
un’area fino in fondo succube del giornale-serva del progressismo italiano. Ci vorrebbe ancora molto spazio per una analisi completa: ma si può
dire telegraficamente, credo, che non c’è stata controriforma a danno
del mondo del lavoro, dell’occupazione e della lotta al precariato,
della sicurezza nei luoghi di lavoro, delle privatizzazioni che non
porti l’imprimatur del centrosinistra post-bipolare e postcomunista.
Lo jus primae noctis della mattanza della classe operaia italiana
e del mondo del lavoro dipendente è stato esercitato, di tappa in tappa, dai
vari don Rodrigo del centrosinistra. Fa in effetti sorridere vedere Franceschini in mezzo ai precari della scuola,
quando si pensa che nel 1993 era stato il governo Amato a privatizzare
l’impiego pubblico e nel 1997 il governo Prodi e il suo ministro Treu a
codificare il “lavoro interinale”. Solo Berlusconi è l’ostacolo per la cultura
chic dell’Italia “progressista”? Nel 1997 è mancato loro il là di un appello
redatto dal loro giornale-partito? Non sanno pensare da soli?
La cronologia secca delle leggi, decreti legge e decreti legislativi
mostra con ogni evidenza che è stata la sinistra finanziaria a
distruggere in pochi anni il patrimonio costruito in decenni di lotte
parlamentari e di piazza della sinistra, nel quale peraltro (vedi il
caso dell’Agip e della Banca d’Italia) erano stati opportunamente
conservate alcune misure e istituti di epoca fascista: 2 giugno 1992, è
nato da poco il governo Amato, incontro sul panfilo reale Britannia fra
finanzieri, banchieri e managers italiani inglesi e di altri paesi europei, per
delineare la strategia delle privatizzazioni delle economie europee; 18 luglio
(ancora governo Amato) un DPR codifica definitivamente l’autonomia del
Governatore della Banca d’Italia dal Ministero del Tesoro, che non può
intervenire per co-definire il tasso di sconto; 31 luglio, il golpe notturno delle
privatizzazioni degli Enti pubblici, dopo la campagna della Repubblica contro
i “boiardi”, dove assieme all’acqua sporca degli enti parassitari si svendono
anche gioielli dell’industria: ENEL e ENI, IRI. Sempre nel 1993, il nuovo
governo Ciampi dispone la separazione di Agip e Snam dall’ENI spa e la
dismissione delle partecipazioni del Tesoro dall’Agip, Ina, Enel, e dalle
banche IMI, Commerciale e Credito italiano. 1997, le già ricordate
privatizzazioni di enti culturali da parte di Prodi, e il pacchetto Treu sul lavoro
interinale con la legge 196 del 24 giugno.
Poi un secondo provvedimento cruciale: poi, il 17 maggio il governo
D’Alema permette anche alle fondazioni bancarie di diventare azioniste della
Banca d’Italia, che si trasforma così completamente in un ente di fatto
privatistico, i cui azionisti saranno occultati all’opinione pubblica fino a che
una inchiesta di Famiglia cristiana del 2004, non svela gli altarini: più
dell’84 per cento del capitale della Banca “di stato” è in mano a privati! La
filosofia che sta dietro questo smantellamento della peraltro moderata
strutturazione del sistema bancario italiano, oggetto di campagne durissime
da parte della stampa della sinistra finanziaria – vedi l’assalto del Corriere di
Mieli al cattolico Fazio nel 2005, mentre stava per andare in porto una legge
destinata a riportare in mano pubblica il capitale della BdI - è la solita solfa
dell’ “autonomia”. E’ lo stesso leitmotiv utilizzato per la riforma Berlinguer
dell’Università (altra perla del centrosinistra, a cui Moratti e Gelmini hanno
portato qualche miglioramento in positivo): anche l’ “autonomia” degli Atenei
è solo presunta, ed è un modo per “liberare” l’autorità e il bilancio centrale
dello Stato dal costituzionale obbligo del finanziamento dell’Istruzione
pubblica, abbandonando le Università o al degrado e al declino, o alla
sottomissione al capitale privato e a gruppi di potere più o meno massonici. Il
tutto mentre la vera autonomia degli Atenei – intesa come autonomia del
corpo docente e dei propri organi di rappresentanza collegiale - rischia di
venire cancellata progressivamente.
Rispetto alla deriva liberista e antioperaia di tutti i governi del
centrosinistra dagli anni Novanta ad oggi, Berlusconi e il centrodestra o
hanno ereditato i “frutti” per loro più comoda gestione magari evitando di
prendere necessari provvedimenti (come il blocco-controllo dei prezzi dopo il
disastroso cambio dell’euro ad opera di Prodi) oppure hanno cercato di porre
qualche piccolo o meno piccolo rimedio a vantaggio del mondo del lavoro e
dei cittadini. Cerca solo lo scontro frontale, nato sul
nulla, cioè sulla vicenda delle escort, in un momento in cui il governo stava
mostrando le sue effettive capacità di risolvere alcuni problemi chiave del
paese, dall’immondizia a Napoli al terremoto d’Abruzzo.
Alle spalle
della vostra “rivoluzione” ci sarebbe il capitalista De Benedetti: con le sue
profezie recenti sulle “spese proletarie” nei supermarket, con i suoi passati
licenziamenti all’Olivetti, 2-3000 operai in un sol colpo, e con la vicenda SME
emblema della svendita del patrimonio pubblico al capitale privato. La prima
Tangentopoli è stata esaltata dalla sinistra estrema (tranne piccole, marginali,
inutili eccezioni) poi è arrivata la riflessione e il quasi pentimento vista la
macchina delle privatizzazioni e del maggioritario messe in moto dalla
“rivoluzione” dipietrista.

di Claudio Moffa

12 settembre 2009

Il picco dell'acqua

Picco acqua
Le risorse idriche si stanno esaurendo. E' il picco dell'acqua
La lasciamo scorrere distrattamente dai rubinetti, eppure l’acqua si sta esaurendo. Mentre il mondo discute del picco del petrolio, il Pacific Institute della California, nel volume The World’s Water introduce, per la prima volta nella storia, il concetto di “peak water”.

Il volume 2008-2009 del rapporto biennale evidenzia che l’inquinamento, l’abuso e la cattiva gestione delle risorse idriche minacciano la produttività economica, la salute umana, gli ecosistemi e la sopravvivenza stessa.

Il testo, che peraltro presenta una serie di dati sulla disponibilità di acqua nelle varie parti del mondo, offre, in un capitolo, una valutazione della difficile situazione idrica della Cina, dovuta al suo rapido sviluppo. Non è ancora possibile prevedere se questo Paese arriverà ad una catastrofe ma è necessario comprendere che esiste un limite alla disponibilità di acqua. Alcune zone si stanno già avvicinando ai limiti sostenibili di estrazione e uso delle risorse idriche. Conoscere gli effetti che il superamento di tali limiti comporta per la produzione di alimenti, per il benessere economico e per l’ambiente, può aiutare a sviluppare nuove modalità di gestione e di utilizzo di acqua. Nel testo, quindi, vengono illustrate le strategie, le tecnologie e le modalità che le città possono adottare per soddisfare la crescente domanda di acqua.

Peter Gleick
Peter Gleick, direttore del Pacific Institute of California

Come sottolinea nella prefazione al volume Malin Falkenmark, professore del Stockolm International Water Institute e del Stockolm Resilience Center, in molti paesi la percezione della sicurezza dell’acqua sta iniziando a dissolversi.

Allarmante è il fatto che per la prima volta si parli di “picco dell’acqua”: il mondo ha consumato più della metà dell’acqua disponibile ed il rischio è quello che in futuro scoppino altre guerre per l’approvvigionamento di tale risorsa, come è già avvenuto in passato.

“C’è tanta acqua nel pianeta ma stiamo per fare i conti con una crisi per il venir meno di acqua gestita in maniera sostenibile”, ha dichiarato Peter Gleick, direttore del Pacific Institute.

Crediamo che alcune risorse, quelle di cui usufruiamo quotidianamente e a cui possiamo accedere con estrema facilità, siano infinite. Le consumiamo indiscriminatamente, senza fermarci mai a riflettere, dando per scontato che, così come oggi, anche domani saranno disponibili a noi, ai nostri figli, ai nostri nipoti.

acqua limpida
E' necessaria una migliore gestione delle risorse idriche per evitare che queste si esauriscano

Un giorno però succede qualcosa e ci accorgiamo che la nostra era soltanto una falsa credenza e che anche ciò che consideriamo eterno in realtà ha un limite. È quello che è successo con l’ oro nero ed è lo stesso che sta accadendo adesso con l’oro blu, tesoro ben più prezioso.

L’era dell’accesso facile alle risorse idriche sta per finire e, come è accaduto per il petrolio, siamo giunti adesso al “picco dell’acqua”.

La teoria del picco, proposta nel 1956 dal geofisico Marian King Hubbert, riguarda l’evoluzione temporale della produzione di una qualsiasi risorsa minerale o fonte fossile esauribile o fisicamente limitata: il punto di produzione massima oltre il quale la produzione può soltanto diminuire, viene detto picco di Hubbert. Raggiunto il picco ha inizio il declino, prima lento poi via via sempre più rapido.

Marian King Hubbert
Marian King Hubbert, il geofisico che nel 1956 propose la teoria del picco

Inizialmente nessuno diede credito alla teoria di Hubbert. Negli anni ’70 però cambiò tutto e le due crisi petrolifere che misero in ginocchio l’America (nel 1973 e nel 1979) resero Hubbert uno dei più celebri geofisici del mondo: 48 Stati raggiunsero, effettivamente, il loro picco di produzione.

Il petrolio rappresenta oggi circa il 40% dell’energia primaria ed il 90% di quella utilizzata nei trasporti. Percentuali altissime, non c’dubbio. Eppure il petrolio non è insostituibile. All’oro nero, in molti campi, potranno subentrare le fonti rinnovabili (come il solare o l’eolico) o sostituti con un maggior impatto ambientale (come il nucleare). Soluzioni migliori o peggiori ma, in ogni caso, esistenti. L'uso di petrolio, inoltre, non è essenziale alla vita umana. Già ridurre sprechi e consumi inutili ci permetterebbe di affrancarci da gran parte dei suoi utilizzi.

Con cosa, invece, sostituiremo l’acqua quando questa finirà o sarà riservata ai ricchi e ai potenti? Come potremmo continuare a vivere senz’acqua?

di Alessandra Profilio

11 settembre 2009

Destra e sinistra: sempre più una convenzione


1. Da tempo ormai sta diventando opinione comune che la distinzione tra destra e sinistra è sempre più labile e indistinta. Adesso poi, con certi atteggiamenti smaccati di Fini, le nette separazioni sembrano cadute. Anch’io ho parlato spesso di “gioco degli specchi”, volendo ricordare che, pur nella confusione tra i due schieramenti, possono a volte sussistere differenze di “fisionomia”. Tuttavia, ho l’impressione che spesso l’attuale non distinzione venga presa come una diversità netta rispetto soprattutto a presunti antagonismi di un tempo. Bisognerebbe invece ricordare che, in Italia, il trasformismo della sinistra risale addirittura al Governo Depretis del 1876. Non si creda però che altrove si sia avuta una chiara divaricazione tra i due schieramenti; non sempre almeno.

Cominciamo con il dire che sinistra e destra sono considerate, per chi viene da una tradizione effettivamente antagonistica, correnti “borghesi”, comunque dei dominanti nelle società di tipologia capitalistica; correnti del tutto integrate nella riproduzione sistemica di tale forma di società, di cui hanno sempre rappresentato alternative riguardanti modalità di poco diseguali per conseguire le medesime finalità. Se immaginiamo che la politica, nel capitalismo, sia un fiume, potremmo pensare a due suoi rami che corrono grosso modo paralleli, dirigendosi verso la stessa foce. Nel bel film La villeggiatura (di Marco Leto), rivolgendosi al “villeggiante” (condannato al confino) prof. Rossini, inizialmente liberale, che teneva lezioni sulla storia d’Italia fino alla presa del potere da parte del fascismo, l’operaio comunista ad un certo punto sbotta (cito il senso, non le autentiche parole pronunciate nel film): “perché lei continua a parlare della destra e della sinistra? Ci sono la destra, la sinistra e la sinistra di classe”.
Mi permetto di rilevare un errore, giacché la sinistra di classe è il comunismo. In ogni caso, il senso è chiaro: le prime due correnti fluiscono lungo alvei paralleli, l’unica che si distacca e vuol dirigersi altrove è la terza. Da una parte, dunque, due forme differenti di lubrificazione della stessa “macchina” sociale; dall’altra, la volontà di inceppare la stessa e di proporre, per via rivoluzionaria, una sua drastica trasformazione, indirizzandola verso la riproduzione di rapporti sociali pensati come comunisti. Qui arriviamo al punto decisivo. In altre parti d’Europa, molto prima che in Italia (e per certi versi in Francia e paesi latini), ma in modo assai netto nel mondo anglosassone e scandinavo, ecc., il comunismo è sparito da gran tempo e le due correnti “borghesi” (uso apposta un termine un po’ vetusto) appaiono quale unico orizzonte politico; per cui ci si è pigramente adattati alla distinzione tra destra e sinistra – sempre più esile di senso – senza troppi problemi.

2. In Italia è stato diverso poiché esisteva alcuni decenni fa, nella coscienza di strati popolari (operai e contadini) non esigui, il sentimento dell’antagonismo tra comunismo (non semplicemente “sinistra di classe”) e le correnti “borghesi”. Solo che, come si evince anche dal bell’articolo di Berlendis, la prima corrente, per ragioni internazionali (patto di Yalta con divisione del mondo in due “campi”, ecc.) e interne, si è andata progressivamente adattando, nei suoi vertici dirigenti, alla riproduzione dei rapporti capitalistici. Così, insensibilmente, il comunismo è stato via via pensato quale semplice parte della sinistra; un po’ più radicale dell’altra, ma progressivamente sempre meno radicale. Si è prodotto uno iato crescente tra gruppi dirigenti del Pci e base popolare, in cui – sia pure in modo viepiù sbiadito – rimaneva una “memoria” dell’antagonismo “al sistema”. La rottura più netta si è prodotta tra ceti intellettuali e assimilati – in specie quelli dei settori improduttivi (non dico inutili, pur se spesso sono anche questo, anzi nocivi) del settore “pubblico” o da questo alimentati finanziariamente – e la base popolare.

In Italia, dunque, la sempre più scarsa distinguibilità, e la trasversalità, tra destra e sinistra è frutto di una sorta di “mutazione genetica” subita dal comunismo italiano. Quando poi si è verificato il crollo del campo detto socialista – cui il Pci era ormai lontano, non avendo però ancora rotto con esso ogni legame ombelicale (quasi soltanto finanziario) – è avvenuto “l’ultimo scatto” verso il pieno schieramento atlantico, cioè filoamericano, perdendo ogni pur piccola “eco” di ciò che fu il comunismo, quanto meno come ideologia e presa di posizione antisistema; “scatto” sanzionato da ripetuti cambi di nome e di sostanza, cioè di iscritti e base elettorale. Così, qualcuno ha vissuto gli ultimi anni come si trattasse di un’autentica confusione tra destra e sinistra. La confusione, l’illanguidirsi di una distinzione, c’è senz’altro e non solo in Italia; tuttavia, qui da noi l’impressione è stata decisamente superiore per il fatto di questa graduale trasformazione del comunismo in sinistra, che ha cancellato ogni vestigia della critica anticapitalistica e antistatunitense (salvo che in pochi zombi, più dannosi ancora nella loro vetustà).

3. Pensare di invertire oggi il flusso della trasformazione storica, ricostituendo forme esangui e utopiche di comunismo e antiquato antimperialismo, è pura illusione (quando non sia solo un ulteriore “tradimento” a scoppi successivi e ritardati, utili a impedire ogni sano ripensamento). Intendiamoci bene: il laido viso del tradimento è ben limpido davanti a chi vuol vedere. La “sinistra – cioè il comunismo divenuto sinistra – è questo viso; per il semplice motivo che ogni processo oggettivo forgia i suoi agenti. E’ certo il tradimento a creare i traditori. Tuttavia, bisogna tenere ben presenti le due lame della forbice se si vuol tagliare (e non tagliarsi). Il tradimento è stato oggettivamente provocato dall’impossibilità di costruzione del socialismo (e comunismo) per errori pratici indotti da gravi errori di teoria. Quest’ultima aveva indicato la possibilità (anzi certezza) di mettere in moto dati processi, possibilità invece oggettivamente insussistente. La conseguente incapacità degli agenti, di dare vita ad un’effettiva transizione al socialismo, ha indotto gli stessi (in quanto guida della “schiera” che credeva di marciare in quella direzione) a coprire gli insuccessi – spesso inconsapevolmente, almeno all’inizio del loro tentativo – con la pura ideologia, magari gridando al sabotaggio dei commilitoni e seguaci. Alla fine però, quando si è capito o intuito che tutto era perduto, gli ultimi dirigenti del movimento diventarono reali traditori; in quel momento, assunsero il comando i più spregevoli, i più meschini, i veri ignobili individui dall’animo nero come la pece.

E’ obbligo morale denunciare e combattere i traditori, indicarli come esempio di bassezza senza limiti. Tuttavia, tale atteggiamento va accompagnato dall’analisi del processo che ha condotto al tradimento, e che difficilmente avrebbe potuto produrre qualcosa di positivo. In ogni caso, però, dobbiamo oggi concludere per l’impossibilità di una qualsiasi ripresa di una critica “antisistema”, in assenza di un ripensamento generale che solo in pochi hanno iniziato, mentre la maggioranza è passata al “sistema” e una piccola minoranza di ritardatari si ostina a sguazzare nel vecchio pantano. Sul comunismo stendiamo momentaneamente (una fase storica) il silenzio; perché parlarne senza analisi – e senza nuove categorie d’analisi – è da sciocchi o da mascalzoni; significa produrre idee fantasmagoriche della “novella società”, che non hanno una qualsiasi possibilità di convincere se non pochi dissennati.

4. In questo senso, e solo in questo, va inteso il programma di studiare e comprendere la transizione d’epoca che sembra in corso di svolgimento adesso. In tale passaggio storico, permangono alcune forme di lotta dei raggruppamenti sociali (non classi) subordinati che, pur con forme apparentemente nuove, ripetono invece il sostanziale “tradunionismo” delle vecchie. Non si tratta di contrastare tali lotte; anzi, nei limiti del possibile, di appoggiarle. Senza però illusioni. Non sono forme di lotta che spostano reali equilibri nei rapporti di forza tra chi sta sopra e chi sta sotto. Sono le lotte tra dominanti – e soprattutto nei loro effetti di conflitto tra più compartimenti degli stessi sul piano internazionale – a provocare effettivi mutamenti fortemente dinamici in questa fase storica. La crisi economica è solo la “passerella” su cui sfilano attori reali che tuttavia coprono quelli decisivi e assai meno appariscenti (non però del tutto nascosti).

Ciò che appare non è. Formula che tuttavia può indurre in errore. Diciamo meglio: ciò che è in vivida luce attira i nostri sguardi e così non vediamo quanto sarebbe più essenziale vedere. Chi manovra i riflettori illumina gli attori (spesso guitti da avanspettacolo) e lascia in (pen)ombra i ben più efficaci suggeritori. In questo nostro paese, tra gli attori illuminati chi troviamo? Vecchie conoscenze: i traditori del comunismo. Quel vecchio tradimento è ormai consumato; utile riparlarne solo in sede storica per comprendere le radici del tradimento odierno. Con animo immutato, infatti, questi deformi nanetti vogliono ripetere lo stesso “scherzo” nell’attuale fase di transizione ad altra epoca, in attuazione mediante la nuova lotta tra dominanti in campo internazionale; mi riferisco alle più volte da noi trattata conflittualità tendenzialmente multipolare che si va instaurando.
E ancora una volta ripeto: questo tradimento va studiato nelle sue determinanti oggettive: quelle del conflitto che – grazie alla “legge” dello sviluppo ineguale delle varie formazioni particolari – si sta instaurando tra Usa e nuove potenze in gestazione. Dobbiamo comprendere le forme di tale conflitto, rifarci a quello precedente (epoca dell’imperialismo) per individuarne le differenze, che implicano diversità della strutturazione sociale dei capitalismi in lotta. Senza mai dimenticare però i traditori, quelli che intendono mettere in svendita gli interessi del paese. E’ a mio avviso superficiale sostenere che tutto ciò riguarda solo i dominanti, mentre noi dovremmo interessarci soltanto dei dominati. Questi ultimi, lo si capisca infine, resteranno a lungo a lottare in quanto dominati, e per di più a livelli di vita in peggioramento, che non ha mai favorito – di per sé, in mancanza di un conflitto lacerante tra i dominanti di vari paesi – la trasformazione anticapitalistica. Intanto, individuiamo i caratteri del conflitto nella fase attuale e come si muovono in esso i traditori degli interessi di ogni dato paese (che sia tra quelli delle rivoluzioni “colorate”, o uno di quelli europei in apnea, o il nostro a rischio di collasso).
di Gianfranco La Grassa