28 gennaio 2010
Tremonti, i bond e il destino del dollaro
24 gennaio 2010
Tagliare le poltrone? Era solo un bluff
Solo gli ingenui potevano credere che alla vigilia delle elezioni degli amministratori la maggioranza avrebbe abolito... gli amministratori. In Italia infatti per eliminare un posto bisogna crearne due. È questa la vecchia regola della Democrazia cristiana che ha governato per sessanta anni con i proconsoli, con i cacicchi e con gli ascari ed è questa la regola anche di questo governo.
Questo governo ha appunto annunziato, per il secondo anno consecutivo, il rinvio di un anno – e fanno dunque due - del dimagrimento degli enti locali più obesi del mondo. Il Consiglio dei ministri ha già predisposto il decreto legge che contraddice la legge. Insomma è la strategia di Penelope applicata al contrario: quella voleva imbrogliare i «proci», che sono gli scrocconi e i gozzovigliatori della ricchezza pubblica, la ricchezza di Ulisse; qui invece vogliono imbrogliare Ulisse. Se dunque la legge finanziaria li aveva condannati, oggi il governo li resuscita.
Ma rimangono morti che camminano. Gli enti locali, infatti, sono troppo spesso assembramenti condominiali, distributori di prebende stipendiali e serbatoi di consenso per la famigerata partitocrazia italiana. Ed è significativo che la rivolta contro la riduzione del venti per cento dei consiglieri e del numero degli assessori sia stata trasversale, coinvolgendo anche i Comuni governati dalla sinistra. È ovvio che ciascuno difenda i propri privilegi, i propri amici, i propri stipendi. È il governo centrale che non deve consegnarsi in ostaggio. Anzi è nel rapporto con la periferia che si misura la sua forza. Nel punto più distante lo Stato verifica la sua vicinanza ai cittadini. In periferia si certifica la credibilità del centro.
E tuttavia la pessima figura del governo non ci stupisce e non ci coglie impreparati. È anzi un assaggio del futuro federalista, della prossima grande riforma e dell´alta sfida ai fannulloni nella pubblica amministrazione. È un ulteriore disvelamento della demagogia imbonitoria. L´abbattimento della burocrazia che si autoriproduce, l´abolizione delle Province e appunto la riduzione del numero dei consiglieri e degli assessori negli enti locali erano infatti tre obiettivi caratterizzanti del programma elettorale del Popolo della libertà, tre piccole-grandi riforme di buon senso, gli strumenti più ovvi di qualsiasi progetto di risparmio economico, il nuovo inizio di una stagione più seria e più responsabile anche sul piano morale.
Ma purtroppo il clientelismo è una vecchia piaga preunitaria del nostro Paese: era una specie di ‘spoil system´ dei conquistatori che si annettevano contrade estranee. Vi hanno fatto ricorso anche lo Stato piemontese e gli uomini del Risorgimento. Purtroppo è stato uno strumento dell´Unità d´Italia. Imponendo uomini fidati i nuovi amministratori cercavano di controllare le istituzioni ereditate non solo dal Borbone, ma anche dai Papalini, dagli austroungarici e da tutti gli Stati e staterelli preunitari. Se ne servì poi il fascismo che ingrossò a dismisura la pubblica amministrazione non solo collocando i camerati ma lenendo così la disoccupazione e domando il malumore sociale. Infine la Democrazia cristiana ne fece una scienza fondata sulla sua cultura comunitaria e antistatuale. Ai democrstiani non importavano l´efficienza e il rigore dello Stato laico ma soltanto il consenso e il benessere impiegatizio. Il risultato, noto a tutti gli studiosi, è che in Italia lo Stato non è la più alta e qualificata sintesi della maturità sociale ma è un ente di collocamento. E dunque ogni volta che c´è stata e c´è in progetto una riforma contro l´istituzione obesa i politici italiani finiscono col renderla ancora più panciuta.
Il ministro della Semplificazione, il leghista Calderoli, è uno dei generali del Federalismo, la più strombazzata delle riforme – la rivoluzione leghista – che dovrebbe appunto semplificare e rendere veloce il rapporto tra i cittadini e le istituzioni. Ebbene, la sua ritirata di oggi, il salvataggio di ben trentamila poltrone e lo sperpero di dodici milioni di euro suonano come profezia del suo Federalismo e del suo destino. È infatti facile prevedere che il Federalismo aggiungerà alle burocrazie e ai ceti politici locali le burocrazie federali, i funzionari e i clienti del Federalismo. Oggi il ministro della Semplificazione si è trasformato nel ministro della Complicazione. (Presto avrà bisogno di un´agile struttura – almeno due sottosegretari – per risemplificarsi).
di Francesco Merlo
23 gennaio 2010
La bancarotta potrebbe giovare agli Stati Uniti
In una storia di Winnie-the-Pooh c’è un momento in cui viene chiesto all’orsetto se preferisca spalmare sulla sua fetta di pane il miele o latte condensato e lui risponde “tutti e due”, una questione non poi così importante per uno dei personaggi più amati dai bambini ma che diventa ben più problematica se una grande nazione inizia a comportarsi in modo altrettanto infantile: infatti, quando è stato chiesto agli americani cosa volessero, se meno tasse, un tenore di vita più alto o il miglior esercito al mondo, la risposta unanime è stata “tutto”.
Come risultato hanno ottenuto un considerevole aumento del debito pubblico e una diminuzione del prodotto interno lordo pari al 12% come normale reazione subito dopo una grande crisi come quella che li ha colpiti nel 2008. Ma quello che dovrebbe preoccupare gli americani è che, con le possibili ricadute sulla parte di azioni che riguarda settori pubblici come la sanità, non esiste un piano credibile per mantenere il deficit sotto controllo nel medio termine.
Gli Stati Uniti hanno formidabili forze economiche che permetteranno al suo governo di impegnare molti soldi e per più tempo rispetto ad altre nazioni, cosa che permetterà loro molto probabilmente di cavarsela ma, continuando a far aumentare il proprio debito pubblico, presto o tardi il paese inizierà a rischiare la bancarotta. Stranamente questo potrebbe essere un bene, cioè che la crisi arrivi subito piuttosto che tra un po’ di tempo perché per un sorprendente numero di paesi l’esaurirsi della moneta si è tradotto in un inizio di rinnovamento.
La liberalizzazione del mercato cinese introdotta da Dengxiaoping nel 1978 è stata causata sia da una crisi fiscale che del mercato delle esportazioni. Ritrovatosi senza soldi il governo cinese ha dovuto abbracciare un principio economico del tutto diverso per poter crescere velocemente ed avere alte entrate. Il resto è storia.
La stessa cosa è successa in India con la riforma economica del 1991. Il governo indiano si era ritrovato ad avere una liquidità che sarebbe bastata per pagare due settimane d’importazioni. Per risolvere la situazione il governo ha dovuto inviare a Londra parte del proprio oro a garanzia di un prestito del Fondo Monetario Internazionale, ma Manmohan Singh, allora ministro delle finanze e ora primo ministro, ha contemporaneamente spronato i suoi colleghi a “trasformare questa crisi un una opportunità per costruire una nuova India” riuscendoci trionfalmente.
Lo stesso vale per l’America latina nel 1982. Quando il Messico, non più in grado di pagare i propri debiti, ha innescato una crisi economica in tutto il continente sudamericano, le conseguenze a lungo termine sono state positive. Come ha sottolineato Michael Reid, storico contemporaneo, “I regimi dittatoriali crollano sotto il loro fallimento economico”. Così la junta argentina cadde nel 1983 e il Brasile ebbe una spinta democratica a partire dal 1985.
Problemi disastrosi con la gestione della finanza hanno anche giocato un grande ruolo nella riforma dell’Unione Sovietica. Quando Michail Gorbaciov sali al potere a Mosca si trovò a dover fronteggiare un debito pubblico quasi raddoppiato negli ultimi tre anni e sono state proprio le pressioni finanziarie a persuaderlo che una riforma economica, la perestroika, era assolutamente necessaria.
Infatti nel 1989 l’intero blocco sovietico lottava sotto il peso di un rapido aumento del debito estero. Per questo motivo la Germania dell’est non sparò ai dimostranti nell’Ottobre del 1989, perché non se lo poteva permettere: da un lato sfiorava la bancarotta e dall’altro stava negoziando disperatamente un prestito dalla Germania dell’ovest.
Questi salutari avvicinamenti alla bancarotta non sono accaduti soltanto nelle nazioni sottosviluppate dell’Asia, in scalcinati regimi dittatoriali dell’America latina o nei fatiscenti regimi comunisti. Gli inglesi tremano ancora oggi al ricordo del governo inglese che “cappello alla mano” si presentò al Fondo Monetario Internazionale nel 1976. Un fatto umiliante ma che è servito a qualcosa: il governo inglese vicino alla bancarotta convinse i cittadini che le cose dovevano cambiare, ponendo le basi per il tatcherismo. La Francia ha avuto un’esperienza simile all’inizio degli anni Ottanta, quando grandi somme di denaro uscirono dal paese e il collasso delle entrate relative a quei capitali hanno obbligato il governo Mitterand ad abbandonare la politica del pugno di ferro.
Probabilmente la frase più memorabile è stata pronunciata qualche tempo fa da un funzionario dell’amministrazione Obama, Rham Emanuel, responsabile dello staff della Casa Bianca, che disse: “ Non possiamo sprecare una crisi come questa”. Emanuel per questa frase è stato accusato di superficialità e cinismo, ma ad un esame della storia globale degli ultimi trent’anni probabilmente ci ha azzeccato. I così discussi paesi emergenti, Brasile, Russia, India e Cina (i cosiddetti Brics) hanno avuto bisogno di una grossa crisi fiscale per intraprendere la via delle riforme economiche e risorgere. Un giorno gli Stati Uniti potrebbero essere abbastanza fortunati da essere in grado di fare tesoro della loro crisi finanziaria. Speriamo che questa speranza non sia vana.
Titolo originale: "Bankruptcy could be good for America"
di Gideon Rachman
28 gennaio 2010
Tremonti, i bond e il destino del dollaro
24 gennaio 2010
Tagliare le poltrone? Era solo un bluff
Solo gli ingenui potevano credere che alla vigilia delle elezioni degli amministratori la maggioranza avrebbe abolito... gli amministratori. In Italia infatti per eliminare un posto bisogna crearne due. È questa la vecchia regola della Democrazia cristiana che ha governato per sessanta anni con i proconsoli, con i cacicchi e con gli ascari ed è questa la regola anche di questo governo.
Questo governo ha appunto annunziato, per il secondo anno consecutivo, il rinvio di un anno – e fanno dunque due - del dimagrimento degli enti locali più obesi del mondo. Il Consiglio dei ministri ha già predisposto il decreto legge che contraddice la legge. Insomma è la strategia di Penelope applicata al contrario: quella voleva imbrogliare i «proci», che sono gli scrocconi e i gozzovigliatori della ricchezza pubblica, la ricchezza di Ulisse; qui invece vogliono imbrogliare Ulisse. Se dunque la legge finanziaria li aveva condannati, oggi il governo li resuscita.
Ma rimangono morti che camminano. Gli enti locali, infatti, sono troppo spesso assembramenti condominiali, distributori di prebende stipendiali e serbatoi di consenso per la famigerata partitocrazia italiana. Ed è significativo che la rivolta contro la riduzione del venti per cento dei consiglieri e del numero degli assessori sia stata trasversale, coinvolgendo anche i Comuni governati dalla sinistra. È ovvio che ciascuno difenda i propri privilegi, i propri amici, i propri stipendi. È il governo centrale che non deve consegnarsi in ostaggio. Anzi è nel rapporto con la periferia che si misura la sua forza. Nel punto più distante lo Stato verifica la sua vicinanza ai cittadini. In periferia si certifica la credibilità del centro.
E tuttavia la pessima figura del governo non ci stupisce e non ci coglie impreparati. È anzi un assaggio del futuro federalista, della prossima grande riforma e dell´alta sfida ai fannulloni nella pubblica amministrazione. È un ulteriore disvelamento della demagogia imbonitoria. L´abbattimento della burocrazia che si autoriproduce, l´abolizione delle Province e appunto la riduzione del numero dei consiglieri e degli assessori negli enti locali erano infatti tre obiettivi caratterizzanti del programma elettorale del Popolo della libertà, tre piccole-grandi riforme di buon senso, gli strumenti più ovvi di qualsiasi progetto di risparmio economico, il nuovo inizio di una stagione più seria e più responsabile anche sul piano morale.
Ma purtroppo il clientelismo è una vecchia piaga preunitaria del nostro Paese: era una specie di ‘spoil system´ dei conquistatori che si annettevano contrade estranee. Vi hanno fatto ricorso anche lo Stato piemontese e gli uomini del Risorgimento. Purtroppo è stato uno strumento dell´Unità d´Italia. Imponendo uomini fidati i nuovi amministratori cercavano di controllare le istituzioni ereditate non solo dal Borbone, ma anche dai Papalini, dagli austroungarici e da tutti gli Stati e staterelli preunitari. Se ne servì poi il fascismo che ingrossò a dismisura la pubblica amministrazione non solo collocando i camerati ma lenendo così la disoccupazione e domando il malumore sociale. Infine la Democrazia cristiana ne fece una scienza fondata sulla sua cultura comunitaria e antistatuale. Ai democrstiani non importavano l´efficienza e il rigore dello Stato laico ma soltanto il consenso e il benessere impiegatizio. Il risultato, noto a tutti gli studiosi, è che in Italia lo Stato non è la più alta e qualificata sintesi della maturità sociale ma è un ente di collocamento. E dunque ogni volta che c´è stata e c´è in progetto una riforma contro l´istituzione obesa i politici italiani finiscono col renderla ancora più panciuta.
Il ministro della Semplificazione, il leghista Calderoli, è uno dei generali del Federalismo, la più strombazzata delle riforme – la rivoluzione leghista – che dovrebbe appunto semplificare e rendere veloce il rapporto tra i cittadini e le istituzioni. Ebbene, la sua ritirata di oggi, il salvataggio di ben trentamila poltrone e lo sperpero di dodici milioni di euro suonano come profezia del suo Federalismo e del suo destino. È infatti facile prevedere che il Federalismo aggiungerà alle burocrazie e ai ceti politici locali le burocrazie federali, i funzionari e i clienti del Federalismo. Oggi il ministro della Semplificazione si è trasformato nel ministro della Complicazione. (Presto avrà bisogno di un´agile struttura – almeno due sottosegretari – per risemplificarsi).
di Francesco Merlo
23 gennaio 2010
La bancarotta potrebbe giovare agli Stati Uniti
In una storia di Winnie-the-Pooh c’è un momento in cui viene chiesto all’orsetto se preferisca spalmare sulla sua fetta di pane il miele o latte condensato e lui risponde “tutti e due”, una questione non poi così importante per uno dei personaggi più amati dai bambini ma che diventa ben più problematica se una grande nazione inizia a comportarsi in modo altrettanto infantile: infatti, quando è stato chiesto agli americani cosa volessero, se meno tasse, un tenore di vita più alto o il miglior esercito al mondo, la risposta unanime è stata “tutto”.
Come risultato hanno ottenuto un considerevole aumento del debito pubblico e una diminuzione del prodotto interno lordo pari al 12% come normale reazione subito dopo una grande crisi come quella che li ha colpiti nel 2008. Ma quello che dovrebbe preoccupare gli americani è che, con le possibili ricadute sulla parte di azioni che riguarda settori pubblici come la sanità, non esiste un piano credibile per mantenere il deficit sotto controllo nel medio termine.
Gli Stati Uniti hanno formidabili forze economiche che permetteranno al suo governo di impegnare molti soldi e per più tempo rispetto ad altre nazioni, cosa che permetterà loro molto probabilmente di cavarsela ma, continuando a far aumentare il proprio debito pubblico, presto o tardi il paese inizierà a rischiare la bancarotta. Stranamente questo potrebbe essere un bene, cioè che la crisi arrivi subito piuttosto che tra un po’ di tempo perché per un sorprendente numero di paesi l’esaurirsi della moneta si è tradotto in un inizio di rinnovamento.
La liberalizzazione del mercato cinese introdotta da Dengxiaoping nel 1978 è stata causata sia da una crisi fiscale che del mercato delle esportazioni. Ritrovatosi senza soldi il governo cinese ha dovuto abbracciare un principio economico del tutto diverso per poter crescere velocemente ed avere alte entrate. Il resto è storia.
La stessa cosa è successa in India con la riforma economica del 1991. Il governo indiano si era ritrovato ad avere una liquidità che sarebbe bastata per pagare due settimane d’importazioni. Per risolvere la situazione il governo ha dovuto inviare a Londra parte del proprio oro a garanzia di un prestito del Fondo Monetario Internazionale, ma Manmohan Singh, allora ministro delle finanze e ora primo ministro, ha contemporaneamente spronato i suoi colleghi a “trasformare questa crisi un una opportunità per costruire una nuova India” riuscendoci trionfalmente.
Lo stesso vale per l’America latina nel 1982. Quando il Messico, non più in grado di pagare i propri debiti, ha innescato una crisi economica in tutto il continente sudamericano, le conseguenze a lungo termine sono state positive. Come ha sottolineato Michael Reid, storico contemporaneo, “I regimi dittatoriali crollano sotto il loro fallimento economico”. Così la junta argentina cadde nel 1983 e il Brasile ebbe una spinta democratica a partire dal 1985.
Problemi disastrosi con la gestione della finanza hanno anche giocato un grande ruolo nella riforma dell’Unione Sovietica. Quando Michail Gorbaciov sali al potere a Mosca si trovò a dover fronteggiare un debito pubblico quasi raddoppiato negli ultimi tre anni e sono state proprio le pressioni finanziarie a persuaderlo che una riforma economica, la perestroika, era assolutamente necessaria.
Infatti nel 1989 l’intero blocco sovietico lottava sotto il peso di un rapido aumento del debito estero. Per questo motivo la Germania dell’est non sparò ai dimostranti nell’Ottobre del 1989, perché non se lo poteva permettere: da un lato sfiorava la bancarotta e dall’altro stava negoziando disperatamente un prestito dalla Germania dell’ovest.
Questi salutari avvicinamenti alla bancarotta non sono accaduti soltanto nelle nazioni sottosviluppate dell’Asia, in scalcinati regimi dittatoriali dell’America latina o nei fatiscenti regimi comunisti. Gli inglesi tremano ancora oggi al ricordo del governo inglese che “cappello alla mano” si presentò al Fondo Monetario Internazionale nel 1976. Un fatto umiliante ma che è servito a qualcosa: il governo inglese vicino alla bancarotta convinse i cittadini che le cose dovevano cambiare, ponendo le basi per il tatcherismo. La Francia ha avuto un’esperienza simile all’inizio degli anni Ottanta, quando grandi somme di denaro uscirono dal paese e il collasso delle entrate relative a quei capitali hanno obbligato il governo Mitterand ad abbandonare la politica del pugno di ferro.
Probabilmente la frase più memorabile è stata pronunciata qualche tempo fa da un funzionario dell’amministrazione Obama, Rham Emanuel, responsabile dello staff della Casa Bianca, che disse: “ Non possiamo sprecare una crisi come questa”. Emanuel per questa frase è stato accusato di superficialità e cinismo, ma ad un esame della storia globale degli ultimi trent’anni probabilmente ci ha azzeccato. I così discussi paesi emergenti, Brasile, Russia, India e Cina (i cosiddetti Brics) hanno avuto bisogno di una grossa crisi fiscale per intraprendere la via delle riforme economiche e risorgere. Un giorno gli Stati Uniti potrebbero essere abbastanza fortunati da essere in grado di fare tesoro della loro crisi finanziaria. Speriamo che questa speranza non sia vana.
Titolo originale: "Bankruptcy could be good for America"
di Gideon Rachman