07 aprile 2010

Federalismo fiscale

Pochi giornali hanno accennato a quello che era il tema centrale delle scorse amministrative: il federalismo fiscale che verra' attuato a partire dall'insediamento dalle nuove giunte. Poiche' io ne ho accennato, mi si chiede di parlarne piu' in profondita'. Gia', perche' il federalismo fiscale che diviene effettivo con queste nuove giunte e' un cambiamento che pesa qualche cosa come 213 miliardi di euro, ovvero il 12.5% del PIL, lira piu' lira meno.

Che cosa cambia e perche'. Vediamo cosa succede oggi.

Allo stato attuale le regioni gestiscono gia' la spesa, ovvero ricevono soldi in forma di trasferimenti, direttamente da Roma. Perche' un comune riceva dei soldi per un'esigenza straordinaria occorre che un "amico" a Roma riesca a perorare la causa, di fatto , facendo scrivere due righe su qualche leggina tra le migliaia. I trasferimenti ordinati, invece, sono gestiti " pie' di lista", e cioe' considerando che se il servizio che offro ai cittadini e' 10 e vale effettivamente dieci, io chiedo 10 al governo.

Questo produce, di fatto, un'irresponsabilita' globale. Non si tratta di un discorso leghista di "dare soldi ai terroni", ma di un discorso molto piu' ampio.

Esaminiamo la stranezza di base: il 70% del PIL viene prodotto in cinque o sei regioni del paese. Poiche' le attivita' produttive richiedono PIU' servizi, mi aspetto che queste regioni RICEVANO piu' soldi dallo stato. Voglio dire: una regione che ha un capannone per ogni abitante, dovra' provvedere strade adeguate, fognature, burocrazia, catasto, in maniera MAGGIORE che una regione scarsamente industrializzata.

Di conseguenza, il dato che vede le regioni del nord versare piu' di quanto ricevano non e' un dato malato sul piano etnico o sul piano strettamente polico; e'un assurdo in termini di politica economica. Nei paesi con una gestione pubblica piu' efficiente, le zone piu' industrializzate e produttive RICEVONO piu' soldi di quelli che danno. Per una ragione molto semplice: la struttura pubblica, avendo piu' attivita' sul territorio, deve spendere piu' soldi.

Certo, se diciamo "i piu' ricchi danno ai piu' poveri" sembra una cosa sensata, ma non tutto cio' che suona bene e' anche una buona programmazione economica: togliere risorse all'amministrazione pubblica laddove un privato piu' potente e complesso necessita di un supporto migliore e superiore e' follia pura.

La situazione ragionevole e' che, semmai, siano le regioni ch devono fare meno (perche' hanno meno attivita' economiche) a "snellirsi" (quando hai gli sessi tre capannoni delle stesse tre aziende da 25 anni, il catasto puo' anche farlo il fiorista del paese, part time, il sabato pomeriggio) e semmai trasferire soldi.

Il discorso, cioe', dovrebbe essere "cara regione calabria, con il PIL che hai, tredici euro al mese ti bastano (e avanzano) per tutta l'amministrazione pubblica: che ci devi fare, alla fine?".

Il fatto che il dato economico sia stato malato sino ad ora, con i soldi che andavano dalle amministrazioni pubbliche che ne avevano bisogno per sostenere un'economia forte alle regioni che non ne avevano alcun bisogno avendo economie deboli, (unico paese al mondo, l' Italia, ad operare una simile idiozia) fa capire l'impatto economico di questo provvedimento anche senza scendere nei dettagli.

La riforma si snoda su diversi punti.

Innanzitutto, la compartecipazione all' IVA. Aboliti i trasferimenti statali diretti, le regioni potranno prelevare direttamente l' IVA. E qui sorge il primo cambiamento: se vogliono la ciccia, le amministrazioni devono spingere l'economia. Prima, il ritorno dei soldi dell' IVA veniva calcolato con un accrocchio assurdo che teneva conto dei dati istat nazionali, con il risultato che se il veneto aveva molto IVA, la Basilicata riceveva piu' soldi. Da queste nuove amministrazioni in poi, le regioni andranno a pescare dall' IVA locale, il che significa che le regioni che aiutano di piu' il PIL (poi vedremo come possano farlo adesso) otterranno piu' gettito.

Per agevolare il PIL, le regioni possono fare due cose. La prima e' modulare l'addizionale Irpef che hanno a disposizione. Una regione vastamente industriale come l' Emilia , con una componente turistica di riviera, potrebbe decidere di privilegiare i settori che "tirano" di piu' , sgravando, per applicare addizionali a tutti gli altri settori dell'economia.

Questo ha due effetti: innanzitutto, la possibilita' di una politica economica locale, svincolata dalle decisioni di Roma e dal rigido controllo UE, la seconda e' che inizia una vera e propria concorrenza fiscale.

Avrete sentito dire che le nostre aziende "non fanno sistema": del resto, e' impossibile fare sistema se non si creano dei forti comparti industriali con un'economia di scala. Ora, supponiamo che una regione con molto commercio e molta moda e servizi avanzati (Lombardia) decida di sgravare questi settori: lentamente ci sara' una migrazione di queste aziende verso Milano, e le altre aziende (gravate) si muoveranno verso un'altra regione, che magari ha un trattamento fiscale migliore.

Questo produrra' innanzitutto i comparti geografici, e in secondo luogo una razionalizzazione delle PMI.

Il secondo punto, molto simile, e' la regionalizzazione dell' IRAP, che potra' essere modulato allo stesso modo per favorire un settore che magari e' un settore di punta, oppure per dare qualche respiro a qualche settore in crisi.

Ragionare in termini di bilancio (ricevo piu' soldi o meno) non serve a molto: il problema non e' quanto ricevi e come (anche se, come dico, spogliare le amministrazioni pubbliche delle regioni piu' performanti NON e' stata una genialata) , ma il meccanismo fiscale e distributivo attraverso il quale ricevi.

In secondo luogo, cambia anche l'attribuzione dei versamenti. Sinora si sono versati seguendo la regola del costo storico, ovvero tenendo in considerazione il fatto che se una regione consuma molto quest'anno, deve ricevere molto anche l'anno prossimo. Da questa riforma in poi, il costo del rimborso viene calcolato sulla base di un costo standard.

Costo standard significa che si assume che i servizi costino allo stesso modo su tutto il territorio, e le regioni vengono finanziate in ragione del costo standard a seconda della quantita' di servizi che erogano. Questo fa si' che le regioni abbiano tutto l'interesse a fare efficienza, e a lasciare che nasca quel comparto economico di aziende specializzate in servizi agli enti pubblici, che e' tipico di tutti gli altri paesi.

Ultima novita' e' il finanziamento dei comuni. I comuni dovranno colpire, e colpire molto, le rendite immobiliari. L'ipotesi piu' diffusa a riguardo del loro finanziamento e' la cedolare sugli affitti. Essa va a sostituire la fine dell' ICI sulla prima casa (un assurdo, la prima casa e' un diritto) e colpisce le case in affitto. Si tratta, cioe', di mettere i comuni nella necessita' di censire le case in affitto e le case sfitte : oggi questa cedolare e' affidata allo stato, che non puo' fare una vera e propria lotta al nero, ne' gli conviene farlo. I comuni, invece, le cui casse sono in crisi gia' oggi, avranno tutta la convenienza a farlo.

Quando avverra' questo?

A giugno 2010 si dovra' presentare la prima relazione al parlamento con l'esito delle simulazioni al calcolatore, in modo da evitare che ci siano effetti catastrofici legati a situazioni particolari (immaginate Venezia e il problema degli affitti). A novembre si saranno i decreti attuativi veri e proprio.

E' uguale per tutti? No. Dipende anche da quanti settori le regioni chiedono di "deregolare".La regione Lombardia ha chiesto di deregolare quasi tutto, probabilmente seguiranno il veneto e il piemonte. Probabilmente, per facilitare ruberie, la regione emilia chiedera' meno, ma probabilmente dovra' cambiare idea in fretta per via del discorso della concorrenza fiscale.

Probabilmente alcune regioni del sud (dipende quali: Vendola e' tra i primi a volere piu' autonomia) non richiederanno subito la deregulation, perche' essenzialmente sono carenti delle infrastrutture elettroniche per gestirla. La riforma del catasto, per esempio, richiede un catasto informatizzato. Idem la riforma dell'imposta di registro. Ovviamente, le regioni ed i comuni piu' informatizzati potranno permettersi di gestire questi settori molto prima. Gli altri rimarranno indietro, come e' giusto che sia: si premia il primo della classe, si boccia l'ultimo. Sinora invece si sono tassati i primi della classe per premiare gli ultimi.

Insomma, inizia una bella dose di meritocrazia su base regionale: le regioni che fanno di piu' per il paese in termini di PIL saranno premiate anziche' punite come avveniva prima, mentre quelle che fanno meno per il paese in termini di PIL inizieranno a venire punite, anziche' premiate come avveniva prima.

Siccome la cifra totale in ballo e' di 215 miliardi di euro,di cui circa 20 sonoversamenti diretti stato-regioni, di botto il provvedimento di novembre avra' l'impatto di una finanziaria abbastanza "corposa", e nel corso del 2011 arrivera' l'impatto del resto, anche se per via delle lentezze attuative credo si vedra' il tutto al lavoro solo nel 2012.

Di certo e' finita un'era.

Potete essere piu' o meno critici verso la mia esposizione, ovviamente. Mettiamola cosi': e' sempre meglio di quella che ne fa Repubblica. Che fa il suo dovere di informare. Dicendovi un cazzo di niente.

By Uriel

06 aprile 2010

Parigi festeggia in piazza.L’acqua torna pubblica.

parigi.jpg
Sconfitte le multinazionali Veolia e Suez, l’amministrazione comunale celebra il ritorno ad una gestione municipalizzata: prezzi più bassi e maggiore qualità. Ma nel resto della Francia impazzano i privati.

Mille caraffe d’acqua al giorno distribuite nelle piazze cittadine, corredate da bicchieri di plastica riciclabile e dalla soddisfazione di una certezza immutabile: «L’acqua del rubinetto è fino a mille volte più ecologica dell’acqua in bottiglia». A sostenerlo non è un gruppo di ecoestremisti né il solito venditore di buone intenzioni ma addirittura la giunta comunale di Parigi.

La distribuzione di acqua fresca nella capitale francese fa il paio con i manifesti affissi ovunque dall’azienda municipalizzata Eau de Paris, per informare i cittadini che dal 1 gennaio scorso il Comune ha rilevato la gestione dell’acqua potabile, strappandola alle due potenti multinazionali leader mondiali del settore, le francesi Veolia del gruppo Vivendi e Suez Lyonnaise des eaux. Obiettivo dichiarato, secondo Anne Le Strat, assistente al Comune e direttrice della municipalizzata, «offrire ai parigini acqua di migliore qualità al miglior costo possibile», e far dimenticare il 260 per cento di rincaro dal 1985 dovuto alla gestione privata.

Il sindaco socialista Bertrand Delanoë, uscito con una solida maggioranza dalle amministrative del marzo 2008, non ha perso l’occasione di festeggiare in piazza il nuovo corso degustando un bicchiere sulla piazza del Comune insieme alla sua assistente Le Strat e alla signora Danielle Mitterrand, vedova dell’ex presidente della Repubblica e direttrice della fondazione France Libertés che milita per «il riconoscimento dell’acqua come diritto umano fondamentale e bene comune dell’umanità».

Nella capitale si consumano in media 550mila mc di acqua al giorno che, trasformati in euro, rappresentano un giro d’affari gigantesco. La municipalizzata applica tariffe pari a 2,93 euro al metro cubo, attualmente le più basse di Francia. Nel resto del Paese impazza invece la gestione privata che controlla i benefici di quasi 300 litri di consumo giornaliero per persona. Anche pochi rispetto ai 380 giornalieri in Italia o ai quasi 600 negli Usa, secondo i dati diffusi nel 2006 dal Programma di sviluppo dell’Onu.

Le multinazionali della distribuzione idrica sono tra le più potenti al mondo: ma la giunta parigina di centrosinistra non si è lasciata piegare ed è tornata alla gestione pubblica, incassando forti critiche da parte di André Santini, ex ministro in governi di centrodestra e attuale presidente della società Sedif, che gestisce la rete idrica in nome e per conto di 144 Comuni intorno alla capitale. Il prossimo giugno Santini aggiudicherà la gara per la concessione ai privati della distribuzione. Unici concorrenti rimasti: Veolia e Suez.

Vinta la scommessa della municipalizzazione, Parigi ora deve lottare contro il Pet, la malefica bottiglia di plastica che, benché riciclabile, in mancanza della giusta catena di smaltimento dei rifiuti invade senza posa terre e mari. L’acqua che esce dal rubinetto della cucina permette di risparmiare 10 kg di rifiuti plastici all’anno per persona perché «è consegnata a domicilio, senza bisogno d’imballaggio», sottolineano al Comune.

Inoltre è «in media 300 volte più economica di quella venduta in bottiglia» e spesso di migliore qualità rispetto alle più pubblicizzate tra le minerali da supermercato, come attestano quintali di saggi scientifici. Questo perché gli acquedotti pubblici, salvo eccezioni, attingono da falde profonde e sorgenti purissime, e hanno l’obbligo di fornire ai consumatori acqua sicura, rispondente ai severi parametri fissati dalle normative comunitarie.

In Francia sono ben 56 i criteri da rispettare, assicurati attraverso continui test di qualità. «L’acqua potabile oggi è l’alimento più controllato», assicura Nathalie Karpel, direttrice al laboratorio di chimica e microbiologie di Poitiers. La gara tra il rubinetto e la bottiglia, dunque, è vinta senza dubbio dal primo, e di larga misura. Ma da quando nel 1992 alla Conferenza di Dublino l’acqua fu dichiarata “bene commerciale”, la gente si è fatta affascinare dal mito oligominerale in bottiglia creato dalla pubblicità.

Lo scorso febbraio, dieci anni dopo la rivolta di Cochabamba in Bolivia, la rete mondiale Reclaiming Public Water ha tenuto un incontro al quale hanno partecipato militanti e amministratori provenienti da tutto il mondo per fare il punto sulla lotta alla privatizzazione. Presente anche l’assistente al comune di Parigi Anne Le Strat per spiegare come, con la semplice volontà politica, Eau de Paris abbia vinto la sua battaglia contro le grandi multinazionali.

04 aprile 2010

Il divario tecnologico nell'economia globale


Etleboro


La teoria del libero scambio, da David Ricardo al modello Heckscher-Ohlin-Samuelson, afferma che i flussi commerciali sono determinati dalle differenze nei costi dei fattori produttivi, lavoro e capitale, nel senso che un Paese si specializza nell’esportazione dei beni che riesce a produrre a costi più bassi. Applicata all’economia globale, legittima il sottosviluppo, perché confina il Terzo Mondo al ruolo di fornitore di materie prime e manodopera a basso costo, e giustifica lo sfruttamento neoimperialista nella misura in cui perpetua quei dislivelli, nei salari e nei tassi interessi, che fanno fluire gli investimenti dove è possibile lucrare maggiori profitti, senza riguardo per il diritto dei popoli all’autosufficienza alimentare e alla sovranità sulle risorse della propria terra.
Ne deriva un capitalismo predatore, in cui la povertà di alcune aree è funzionale alla ricchezza di altre, nonostante i profeti del libero scambio sostengano che i flussi commerciali, generati dalla differenza nel costo dei fattori produttivi, siano fonte di ricchezza per tutte le nazioni. A partire dagli anni sessanta, mentre il pensiero terzomondista d’ispirazione marxista critica lo sfruttamento fondato sul libero scambio, nei think tank del capitalismo in corso di globalizzazione s’avverte l’esigenza di fornire analisi più credibili sulla dinamica dei flussi commerciali. A spiegare i vantaggi dell’interscambio - tra economie avanzate in continua espansione ed economie arretrate, costrette a specializzarsi nella produzione di materie prime agricole e minerarie - interviene Michael Posner (1961) con la teoria del divario tecnologico, secondo cui la diffusione del progresso tecnologico determina i flussi commerciali indipendentemente dalla dotazione dei fattori produttivi. All’origine c’è l’innovazione come fattore di successo. Le imprese, per vincere il conflitto competitivo sul mercato interno, sviluppano nuovi prodotti e li esportano sui mercati esteri fino al momento in cui il nuovo prodotto non venga imitato localmente. In tal caso l’interscambio non è determinato dalla dotazione di fattori produttivi, che può anche essere identica nei Paesi interessati, ma dal carattere di novità dei beni scambiati e dalla diffusione dell’innovazione, che è sempre superiore nel Paese esportatore. In tale modello due tipologie di ritardo assumono particolare rilevanza. Il primo è il ritardo nella domanda estera, che misura il periodo intercorrente tra l’introduzione del nuovo prodotto nel Paese esportatore e l’inizio del suo consumo nel Paese importatore. Il secondo è il ritardo nell’imitazione, che indica l’intervallo temporale tra l’inizio della produzione nel Paese innovatore e l’inizio della produzione nel Paese imitatore, potendo l’imitazione avvenire grazie alla ricerca scientifica sviluppata localmente o mediante l’acquisto di brevetti e licenze di produzione. La differenza tra i due ritardi misura il periodo di tempo in cui il Paese innovatore ed esportatore conserverà i vantaggi del divario tecnologico rispetto al Paese importatore ed imitatore. Viene tuttavia precisato che nessuna particolare innovazione tende a produrre un flusso costante di esportazioni, ad eccezione dei casi in cui un know-how difficilmente trasferibile determini un lungo ritardo nell’imitazione. Soltanto un flusso di innovazioni, costante nel tempo e diffuso in diversi settori industriali, può generare uno stabile volume di esportazioni. A loro volta, i Paesi meno attivi nel processo di innovazione possono colmare il deficit nell’interscambio di nuovi beni mediante l’esportazione di prodotti tradizionali. In sostanza la teoria di Posner cerca di dimostrare l’importanza dell’innovazione tecnologica come fattore competitivo in generale, qualunque siano l’estensione del mercato e la dimensione dell’impresa, ma incontra diversi limiti. In primo luogo non spiega perché, sul mercato interno del Paese innovatore, l’innovazione si concentri in alcuni settori piuttosto che in altri. In secondo luogo non rivela perché, sul mercato mondiale, alcuni Paesi siano innovatori ed altri imitatori. L’unica plausibile spiegazione può ricollegarsi alla decisione di investire risorse nella ricerca e sviluppo. Ma ciò significa affermare che, ragionando in termini di commercio internazionale, sono esportatori di nuovi prodotti soltanto i Paesi ricchi, mentre ragionando in termini di interscambio tra settori, sono innovatori solo i settori ad alta intensità di capitale. Questa circostanza contraddice l’intero schema interpretativo di Posner, perché, mentre nei suoi presupposti sottovaluta l’incidenza dei fattori produttivi, nelle sue conclusioni valorizza un elemento, l’innovazione tecnologica, che dipende proprio dalla differente dotazione di un fattore produttivo: il capitale. Le lacune del modello Posner sono colmate dalla teoria del ciclo del prodotto, sviluppata in particolare da Raymond Vernon (1966), che spiega l’interscambio di merci e capitali descrivendo la genesi delle innovazioni e le ragioni che determinano il loro graduale trasferimento dal Paese innovatore ad altri mercati. Il modello presuppone che ciascun bene attraversi fasi successive di standardizzazione. Alcuni elementi - l’impiego dei fattori produttivi, i metodi di lavorazione, il volume delle vendite, il prezzo di mercato - assumono una diversa rilevanza man mano che si passa dalla fase iniziale a quella di maturità del prodotto. L’innovazione di processo e di prodotto favorisce l’esportazione – interscambio di prodotti finiti – o la dislocazione produttiva – interscambio di fattori produttivi, in particolare capitale e risorse naturali. La standardizzazione delle tecnologie favorisce l’inizio della produzione altrove, senza che siano necessarie ingenti spese per la ricerca e sviluppo. Dovunque i nuovi prodotti vengono dapprima lanciati sul mercato interno e poi esportati. Le economie nazionali sono l’ambiente che genera l’innovazione tecnologica e sperimenta, in via prioritaria, la recettività delle sue applicazioni. Una versione alternativa della teoria del ciclo del prodotto viene formulata da S.Hirsch (1967). Per identificare quali sistemi presentano vantaggi comparati ad ogni stadio del ciclo di vita del prodotto, egli divide i vari Paesi in tre categorie - in via di sviluppo, sviluppati, sviluppati ma di piccole dimensioni - ed i fattori produttivi, escludendo le risorse naturali, in cinque gruppi - capitale, lavoro non qualificato, management, conoscenze tecnologiche, economie esterne. La principale discriminante è l’intensità di capitale investito in tecnologia e formazione manageriale. Il mercato interno mantiene la sua fondamentale importanza, sia come sistema di infrastrutture che stimolano la diffusione dell’innovazione, sia come ambiente capace di assorbire l’iniziale offerta di nuove merci. Analizzando la disponibilità dei fattori elencati nei diversi sistemi, Hirsch conclude che i Paesi in via di sviluppo godono di un vantaggio comparato nei prodotti maturi, che richiedono un uso intensivo di lavoro non qualificato. Invece i Paesi sviluppati sono avvantaggiati sia nei beni nuovi che in quelli nuovi ma non ancora standardizzati, in virtù dell’ampia dotazione di capitale, capacità manageriali ed economie esterne. Infine i Paesi sviluppati ma di piccole dimensioni sono specificamente adatti alla sperimentazione di prodotti nuovi, perché hanno grande disponibilità di manodopera qualificata a costi comparativamente più bassi. Il modello Poster-Vernon-Hirsch, idoneo a spiegare l’espansione multinazionale delle aziende occidentali nel trentennio successivo alla seconda guerra mondiale, comincia a perdere efficacia quando, nell’insieme Paesi in via di sviluppo, emergono realtà come i New Industrialized Countries (NIC) ed in particolare le cosiddette tigri asiatiche (Corea del Sud, Filippine, Indonesia, Malesia, Thailandia). Attraendo investimenti esteri diretti - con normative fiscali, ambientali e sindacali particolarmente favorevoli alle multinazionali straniere - tali sistemi si specializzano nella manifattura di prodotti o semilavorati destinati non ai rispettivi mercati interni - come presupponevano sia Vernon che Hirsch - ma a mercati diversi, compreso il mercato interno della casamadre. A trainare la crescita, non sono lo scambio di merci e/o fattori produttivi tra economie nazionali, entro i cui confini ciascuna impresa circoscrive una catena del valore ininterrotta. A gonfiare i dati sul commercio mondiale, sono il flusso di beni tra società dello stesso gruppo transnazionale, o tra queste e i loro partner locali. Nella competizione globale, enfatizzare l’innovazione tecnologica piuttosto che la manodopera a basso costo come segreto del successo, è un falso argomento, usato dagli stessi apologeti della globalizzazione, per sviare i discorsi dalla dinamica dell’accumulazione di capitale come fattore competitivo e sistema di sfruttamento, adombrando il ruolo delle banche come centri di potere economico e politico, dal momento che sono esse che creano moneta e la trasformano in capitale, in sostanziale autonomia rispetto ai governi.

Raffaele Ragni

07 aprile 2010

Federalismo fiscale

Pochi giornali hanno accennato a quello che era il tema centrale delle scorse amministrative: il federalismo fiscale che verra' attuato a partire dall'insediamento dalle nuove giunte. Poiche' io ne ho accennato, mi si chiede di parlarne piu' in profondita'. Gia', perche' il federalismo fiscale che diviene effettivo con queste nuove giunte e' un cambiamento che pesa qualche cosa come 213 miliardi di euro, ovvero il 12.5% del PIL, lira piu' lira meno.

Che cosa cambia e perche'. Vediamo cosa succede oggi.

Allo stato attuale le regioni gestiscono gia' la spesa, ovvero ricevono soldi in forma di trasferimenti, direttamente da Roma. Perche' un comune riceva dei soldi per un'esigenza straordinaria occorre che un "amico" a Roma riesca a perorare la causa, di fatto , facendo scrivere due righe su qualche leggina tra le migliaia. I trasferimenti ordinati, invece, sono gestiti " pie' di lista", e cioe' considerando che se il servizio che offro ai cittadini e' 10 e vale effettivamente dieci, io chiedo 10 al governo.

Questo produce, di fatto, un'irresponsabilita' globale. Non si tratta di un discorso leghista di "dare soldi ai terroni", ma di un discorso molto piu' ampio.

Esaminiamo la stranezza di base: il 70% del PIL viene prodotto in cinque o sei regioni del paese. Poiche' le attivita' produttive richiedono PIU' servizi, mi aspetto che queste regioni RICEVANO piu' soldi dallo stato. Voglio dire: una regione che ha un capannone per ogni abitante, dovra' provvedere strade adeguate, fognature, burocrazia, catasto, in maniera MAGGIORE che una regione scarsamente industrializzata.

Di conseguenza, il dato che vede le regioni del nord versare piu' di quanto ricevano non e' un dato malato sul piano etnico o sul piano strettamente polico; e'un assurdo in termini di politica economica. Nei paesi con una gestione pubblica piu' efficiente, le zone piu' industrializzate e produttive RICEVONO piu' soldi di quelli che danno. Per una ragione molto semplice: la struttura pubblica, avendo piu' attivita' sul territorio, deve spendere piu' soldi.

Certo, se diciamo "i piu' ricchi danno ai piu' poveri" sembra una cosa sensata, ma non tutto cio' che suona bene e' anche una buona programmazione economica: togliere risorse all'amministrazione pubblica laddove un privato piu' potente e complesso necessita di un supporto migliore e superiore e' follia pura.

La situazione ragionevole e' che, semmai, siano le regioni ch devono fare meno (perche' hanno meno attivita' economiche) a "snellirsi" (quando hai gli sessi tre capannoni delle stesse tre aziende da 25 anni, il catasto puo' anche farlo il fiorista del paese, part time, il sabato pomeriggio) e semmai trasferire soldi.

Il discorso, cioe', dovrebbe essere "cara regione calabria, con il PIL che hai, tredici euro al mese ti bastano (e avanzano) per tutta l'amministrazione pubblica: che ci devi fare, alla fine?".

Il fatto che il dato economico sia stato malato sino ad ora, con i soldi che andavano dalle amministrazioni pubbliche che ne avevano bisogno per sostenere un'economia forte alle regioni che non ne avevano alcun bisogno avendo economie deboli, (unico paese al mondo, l' Italia, ad operare una simile idiozia) fa capire l'impatto economico di questo provvedimento anche senza scendere nei dettagli.

La riforma si snoda su diversi punti.

Innanzitutto, la compartecipazione all' IVA. Aboliti i trasferimenti statali diretti, le regioni potranno prelevare direttamente l' IVA. E qui sorge il primo cambiamento: se vogliono la ciccia, le amministrazioni devono spingere l'economia. Prima, il ritorno dei soldi dell' IVA veniva calcolato con un accrocchio assurdo che teneva conto dei dati istat nazionali, con il risultato che se il veneto aveva molto IVA, la Basilicata riceveva piu' soldi. Da queste nuove amministrazioni in poi, le regioni andranno a pescare dall' IVA locale, il che significa che le regioni che aiutano di piu' il PIL (poi vedremo come possano farlo adesso) otterranno piu' gettito.

Per agevolare il PIL, le regioni possono fare due cose. La prima e' modulare l'addizionale Irpef che hanno a disposizione. Una regione vastamente industriale come l' Emilia , con una componente turistica di riviera, potrebbe decidere di privilegiare i settori che "tirano" di piu' , sgravando, per applicare addizionali a tutti gli altri settori dell'economia.

Questo ha due effetti: innanzitutto, la possibilita' di una politica economica locale, svincolata dalle decisioni di Roma e dal rigido controllo UE, la seconda e' che inizia una vera e propria concorrenza fiscale.

Avrete sentito dire che le nostre aziende "non fanno sistema": del resto, e' impossibile fare sistema se non si creano dei forti comparti industriali con un'economia di scala. Ora, supponiamo che una regione con molto commercio e molta moda e servizi avanzati (Lombardia) decida di sgravare questi settori: lentamente ci sara' una migrazione di queste aziende verso Milano, e le altre aziende (gravate) si muoveranno verso un'altra regione, che magari ha un trattamento fiscale migliore.

Questo produrra' innanzitutto i comparti geografici, e in secondo luogo una razionalizzazione delle PMI.

Il secondo punto, molto simile, e' la regionalizzazione dell' IRAP, che potra' essere modulato allo stesso modo per favorire un settore che magari e' un settore di punta, oppure per dare qualche respiro a qualche settore in crisi.

Ragionare in termini di bilancio (ricevo piu' soldi o meno) non serve a molto: il problema non e' quanto ricevi e come (anche se, come dico, spogliare le amministrazioni pubbliche delle regioni piu' performanti NON e' stata una genialata) , ma il meccanismo fiscale e distributivo attraverso il quale ricevi.

In secondo luogo, cambia anche l'attribuzione dei versamenti. Sinora si sono versati seguendo la regola del costo storico, ovvero tenendo in considerazione il fatto che se una regione consuma molto quest'anno, deve ricevere molto anche l'anno prossimo. Da questa riforma in poi, il costo del rimborso viene calcolato sulla base di un costo standard.

Costo standard significa che si assume che i servizi costino allo stesso modo su tutto il territorio, e le regioni vengono finanziate in ragione del costo standard a seconda della quantita' di servizi che erogano. Questo fa si' che le regioni abbiano tutto l'interesse a fare efficienza, e a lasciare che nasca quel comparto economico di aziende specializzate in servizi agli enti pubblici, che e' tipico di tutti gli altri paesi.

Ultima novita' e' il finanziamento dei comuni. I comuni dovranno colpire, e colpire molto, le rendite immobiliari. L'ipotesi piu' diffusa a riguardo del loro finanziamento e' la cedolare sugli affitti. Essa va a sostituire la fine dell' ICI sulla prima casa (un assurdo, la prima casa e' un diritto) e colpisce le case in affitto. Si tratta, cioe', di mettere i comuni nella necessita' di censire le case in affitto e le case sfitte : oggi questa cedolare e' affidata allo stato, che non puo' fare una vera e propria lotta al nero, ne' gli conviene farlo. I comuni, invece, le cui casse sono in crisi gia' oggi, avranno tutta la convenienza a farlo.

Quando avverra' questo?

A giugno 2010 si dovra' presentare la prima relazione al parlamento con l'esito delle simulazioni al calcolatore, in modo da evitare che ci siano effetti catastrofici legati a situazioni particolari (immaginate Venezia e il problema degli affitti). A novembre si saranno i decreti attuativi veri e proprio.

E' uguale per tutti? No. Dipende anche da quanti settori le regioni chiedono di "deregolare".La regione Lombardia ha chiesto di deregolare quasi tutto, probabilmente seguiranno il veneto e il piemonte. Probabilmente, per facilitare ruberie, la regione emilia chiedera' meno, ma probabilmente dovra' cambiare idea in fretta per via del discorso della concorrenza fiscale.

Probabilmente alcune regioni del sud (dipende quali: Vendola e' tra i primi a volere piu' autonomia) non richiederanno subito la deregulation, perche' essenzialmente sono carenti delle infrastrutture elettroniche per gestirla. La riforma del catasto, per esempio, richiede un catasto informatizzato. Idem la riforma dell'imposta di registro. Ovviamente, le regioni ed i comuni piu' informatizzati potranno permettersi di gestire questi settori molto prima. Gli altri rimarranno indietro, come e' giusto che sia: si premia il primo della classe, si boccia l'ultimo. Sinora invece si sono tassati i primi della classe per premiare gli ultimi.

Insomma, inizia una bella dose di meritocrazia su base regionale: le regioni che fanno di piu' per il paese in termini di PIL saranno premiate anziche' punite come avveniva prima, mentre quelle che fanno meno per il paese in termini di PIL inizieranno a venire punite, anziche' premiate come avveniva prima.

Siccome la cifra totale in ballo e' di 215 miliardi di euro,di cui circa 20 sonoversamenti diretti stato-regioni, di botto il provvedimento di novembre avra' l'impatto di una finanziaria abbastanza "corposa", e nel corso del 2011 arrivera' l'impatto del resto, anche se per via delle lentezze attuative credo si vedra' il tutto al lavoro solo nel 2012.

Di certo e' finita un'era.

Potete essere piu' o meno critici verso la mia esposizione, ovviamente. Mettiamola cosi': e' sempre meglio di quella che ne fa Repubblica. Che fa il suo dovere di informare. Dicendovi un cazzo di niente.

By Uriel

06 aprile 2010

Parigi festeggia in piazza.L’acqua torna pubblica.

parigi.jpg
Sconfitte le multinazionali Veolia e Suez, l’amministrazione comunale celebra il ritorno ad una gestione municipalizzata: prezzi più bassi e maggiore qualità. Ma nel resto della Francia impazzano i privati.

Mille caraffe d’acqua al giorno distribuite nelle piazze cittadine, corredate da bicchieri di plastica riciclabile e dalla soddisfazione di una certezza immutabile: «L’acqua del rubinetto è fino a mille volte più ecologica dell’acqua in bottiglia». A sostenerlo non è un gruppo di ecoestremisti né il solito venditore di buone intenzioni ma addirittura la giunta comunale di Parigi.

La distribuzione di acqua fresca nella capitale francese fa il paio con i manifesti affissi ovunque dall’azienda municipalizzata Eau de Paris, per informare i cittadini che dal 1 gennaio scorso il Comune ha rilevato la gestione dell’acqua potabile, strappandola alle due potenti multinazionali leader mondiali del settore, le francesi Veolia del gruppo Vivendi e Suez Lyonnaise des eaux. Obiettivo dichiarato, secondo Anne Le Strat, assistente al Comune e direttrice della municipalizzata, «offrire ai parigini acqua di migliore qualità al miglior costo possibile», e far dimenticare il 260 per cento di rincaro dal 1985 dovuto alla gestione privata.

Il sindaco socialista Bertrand Delanoë, uscito con una solida maggioranza dalle amministrative del marzo 2008, non ha perso l’occasione di festeggiare in piazza il nuovo corso degustando un bicchiere sulla piazza del Comune insieme alla sua assistente Le Strat e alla signora Danielle Mitterrand, vedova dell’ex presidente della Repubblica e direttrice della fondazione France Libertés che milita per «il riconoscimento dell’acqua come diritto umano fondamentale e bene comune dell’umanità».

Nella capitale si consumano in media 550mila mc di acqua al giorno che, trasformati in euro, rappresentano un giro d’affari gigantesco. La municipalizzata applica tariffe pari a 2,93 euro al metro cubo, attualmente le più basse di Francia. Nel resto del Paese impazza invece la gestione privata che controlla i benefici di quasi 300 litri di consumo giornaliero per persona. Anche pochi rispetto ai 380 giornalieri in Italia o ai quasi 600 negli Usa, secondo i dati diffusi nel 2006 dal Programma di sviluppo dell’Onu.

Le multinazionali della distribuzione idrica sono tra le più potenti al mondo: ma la giunta parigina di centrosinistra non si è lasciata piegare ed è tornata alla gestione pubblica, incassando forti critiche da parte di André Santini, ex ministro in governi di centrodestra e attuale presidente della società Sedif, che gestisce la rete idrica in nome e per conto di 144 Comuni intorno alla capitale. Il prossimo giugno Santini aggiudicherà la gara per la concessione ai privati della distribuzione. Unici concorrenti rimasti: Veolia e Suez.

Vinta la scommessa della municipalizzazione, Parigi ora deve lottare contro il Pet, la malefica bottiglia di plastica che, benché riciclabile, in mancanza della giusta catena di smaltimento dei rifiuti invade senza posa terre e mari. L’acqua che esce dal rubinetto della cucina permette di risparmiare 10 kg di rifiuti plastici all’anno per persona perché «è consegnata a domicilio, senza bisogno d’imballaggio», sottolineano al Comune.

Inoltre è «in media 300 volte più economica di quella venduta in bottiglia» e spesso di migliore qualità rispetto alle più pubblicizzate tra le minerali da supermercato, come attestano quintali di saggi scientifici. Questo perché gli acquedotti pubblici, salvo eccezioni, attingono da falde profonde e sorgenti purissime, e hanno l’obbligo di fornire ai consumatori acqua sicura, rispondente ai severi parametri fissati dalle normative comunitarie.

In Francia sono ben 56 i criteri da rispettare, assicurati attraverso continui test di qualità. «L’acqua potabile oggi è l’alimento più controllato», assicura Nathalie Karpel, direttrice al laboratorio di chimica e microbiologie di Poitiers. La gara tra il rubinetto e la bottiglia, dunque, è vinta senza dubbio dal primo, e di larga misura. Ma da quando nel 1992 alla Conferenza di Dublino l’acqua fu dichiarata “bene commerciale”, la gente si è fatta affascinare dal mito oligominerale in bottiglia creato dalla pubblicità.

Lo scorso febbraio, dieci anni dopo la rivolta di Cochabamba in Bolivia, la rete mondiale Reclaiming Public Water ha tenuto un incontro al quale hanno partecipato militanti e amministratori provenienti da tutto il mondo per fare il punto sulla lotta alla privatizzazione. Presente anche l’assistente al comune di Parigi Anne Le Strat per spiegare come, con la semplice volontà politica, Eau de Paris abbia vinto la sua battaglia contro le grandi multinazionali.

04 aprile 2010

Il divario tecnologico nell'economia globale


Etleboro


La teoria del libero scambio, da David Ricardo al modello Heckscher-Ohlin-Samuelson, afferma che i flussi commerciali sono determinati dalle differenze nei costi dei fattori produttivi, lavoro e capitale, nel senso che un Paese si specializza nell’esportazione dei beni che riesce a produrre a costi più bassi. Applicata all’economia globale, legittima il sottosviluppo, perché confina il Terzo Mondo al ruolo di fornitore di materie prime e manodopera a basso costo, e giustifica lo sfruttamento neoimperialista nella misura in cui perpetua quei dislivelli, nei salari e nei tassi interessi, che fanno fluire gli investimenti dove è possibile lucrare maggiori profitti, senza riguardo per il diritto dei popoli all’autosufficienza alimentare e alla sovranità sulle risorse della propria terra.
Ne deriva un capitalismo predatore, in cui la povertà di alcune aree è funzionale alla ricchezza di altre, nonostante i profeti del libero scambio sostengano che i flussi commerciali, generati dalla differenza nel costo dei fattori produttivi, siano fonte di ricchezza per tutte le nazioni. A partire dagli anni sessanta, mentre il pensiero terzomondista d’ispirazione marxista critica lo sfruttamento fondato sul libero scambio, nei think tank del capitalismo in corso di globalizzazione s’avverte l’esigenza di fornire analisi più credibili sulla dinamica dei flussi commerciali. A spiegare i vantaggi dell’interscambio - tra economie avanzate in continua espansione ed economie arretrate, costrette a specializzarsi nella produzione di materie prime agricole e minerarie - interviene Michael Posner (1961) con la teoria del divario tecnologico, secondo cui la diffusione del progresso tecnologico determina i flussi commerciali indipendentemente dalla dotazione dei fattori produttivi. All’origine c’è l’innovazione come fattore di successo. Le imprese, per vincere il conflitto competitivo sul mercato interno, sviluppano nuovi prodotti e li esportano sui mercati esteri fino al momento in cui il nuovo prodotto non venga imitato localmente. In tal caso l’interscambio non è determinato dalla dotazione di fattori produttivi, che può anche essere identica nei Paesi interessati, ma dal carattere di novità dei beni scambiati e dalla diffusione dell’innovazione, che è sempre superiore nel Paese esportatore. In tale modello due tipologie di ritardo assumono particolare rilevanza. Il primo è il ritardo nella domanda estera, che misura il periodo intercorrente tra l’introduzione del nuovo prodotto nel Paese esportatore e l’inizio del suo consumo nel Paese importatore. Il secondo è il ritardo nell’imitazione, che indica l’intervallo temporale tra l’inizio della produzione nel Paese innovatore e l’inizio della produzione nel Paese imitatore, potendo l’imitazione avvenire grazie alla ricerca scientifica sviluppata localmente o mediante l’acquisto di brevetti e licenze di produzione. La differenza tra i due ritardi misura il periodo di tempo in cui il Paese innovatore ed esportatore conserverà i vantaggi del divario tecnologico rispetto al Paese importatore ed imitatore. Viene tuttavia precisato che nessuna particolare innovazione tende a produrre un flusso costante di esportazioni, ad eccezione dei casi in cui un know-how difficilmente trasferibile determini un lungo ritardo nell’imitazione. Soltanto un flusso di innovazioni, costante nel tempo e diffuso in diversi settori industriali, può generare uno stabile volume di esportazioni. A loro volta, i Paesi meno attivi nel processo di innovazione possono colmare il deficit nell’interscambio di nuovi beni mediante l’esportazione di prodotti tradizionali. In sostanza la teoria di Posner cerca di dimostrare l’importanza dell’innovazione tecnologica come fattore competitivo in generale, qualunque siano l’estensione del mercato e la dimensione dell’impresa, ma incontra diversi limiti. In primo luogo non spiega perché, sul mercato interno del Paese innovatore, l’innovazione si concentri in alcuni settori piuttosto che in altri. In secondo luogo non rivela perché, sul mercato mondiale, alcuni Paesi siano innovatori ed altri imitatori. L’unica plausibile spiegazione può ricollegarsi alla decisione di investire risorse nella ricerca e sviluppo. Ma ciò significa affermare che, ragionando in termini di commercio internazionale, sono esportatori di nuovi prodotti soltanto i Paesi ricchi, mentre ragionando in termini di interscambio tra settori, sono innovatori solo i settori ad alta intensità di capitale. Questa circostanza contraddice l’intero schema interpretativo di Posner, perché, mentre nei suoi presupposti sottovaluta l’incidenza dei fattori produttivi, nelle sue conclusioni valorizza un elemento, l’innovazione tecnologica, che dipende proprio dalla differente dotazione di un fattore produttivo: il capitale. Le lacune del modello Posner sono colmate dalla teoria del ciclo del prodotto, sviluppata in particolare da Raymond Vernon (1966), che spiega l’interscambio di merci e capitali descrivendo la genesi delle innovazioni e le ragioni che determinano il loro graduale trasferimento dal Paese innovatore ad altri mercati. Il modello presuppone che ciascun bene attraversi fasi successive di standardizzazione. Alcuni elementi - l’impiego dei fattori produttivi, i metodi di lavorazione, il volume delle vendite, il prezzo di mercato - assumono una diversa rilevanza man mano che si passa dalla fase iniziale a quella di maturità del prodotto. L’innovazione di processo e di prodotto favorisce l’esportazione – interscambio di prodotti finiti – o la dislocazione produttiva – interscambio di fattori produttivi, in particolare capitale e risorse naturali. La standardizzazione delle tecnologie favorisce l’inizio della produzione altrove, senza che siano necessarie ingenti spese per la ricerca e sviluppo. Dovunque i nuovi prodotti vengono dapprima lanciati sul mercato interno e poi esportati. Le economie nazionali sono l’ambiente che genera l’innovazione tecnologica e sperimenta, in via prioritaria, la recettività delle sue applicazioni. Una versione alternativa della teoria del ciclo del prodotto viene formulata da S.Hirsch (1967). Per identificare quali sistemi presentano vantaggi comparati ad ogni stadio del ciclo di vita del prodotto, egli divide i vari Paesi in tre categorie - in via di sviluppo, sviluppati, sviluppati ma di piccole dimensioni - ed i fattori produttivi, escludendo le risorse naturali, in cinque gruppi - capitale, lavoro non qualificato, management, conoscenze tecnologiche, economie esterne. La principale discriminante è l’intensità di capitale investito in tecnologia e formazione manageriale. Il mercato interno mantiene la sua fondamentale importanza, sia come sistema di infrastrutture che stimolano la diffusione dell’innovazione, sia come ambiente capace di assorbire l’iniziale offerta di nuove merci. Analizzando la disponibilità dei fattori elencati nei diversi sistemi, Hirsch conclude che i Paesi in via di sviluppo godono di un vantaggio comparato nei prodotti maturi, che richiedono un uso intensivo di lavoro non qualificato. Invece i Paesi sviluppati sono avvantaggiati sia nei beni nuovi che in quelli nuovi ma non ancora standardizzati, in virtù dell’ampia dotazione di capitale, capacità manageriali ed economie esterne. Infine i Paesi sviluppati ma di piccole dimensioni sono specificamente adatti alla sperimentazione di prodotti nuovi, perché hanno grande disponibilità di manodopera qualificata a costi comparativamente più bassi. Il modello Poster-Vernon-Hirsch, idoneo a spiegare l’espansione multinazionale delle aziende occidentali nel trentennio successivo alla seconda guerra mondiale, comincia a perdere efficacia quando, nell’insieme Paesi in via di sviluppo, emergono realtà come i New Industrialized Countries (NIC) ed in particolare le cosiddette tigri asiatiche (Corea del Sud, Filippine, Indonesia, Malesia, Thailandia). Attraendo investimenti esteri diretti - con normative fiscali, ambientali e sindacali particolarmente favorevoli alle multinazionali straniere - tali sistemi si specializzano nella manifattura di prodotti o semilavorati destinati non ai rispettivi mercati interni - come presupponevano sia Vernon che Hirsch - ma a mercati diversi, compreso il mercato interno della casamadre. A trainare la crescita, non sono lo scambio di merci e/o fattori produttivi tra economie nazionali, entro i cui confini ciascuna impresa circoscrive una catena del valore ininterrotta. A gonfiare i dati sul commercio mondiale, sono il flusso di beni tra società dello stesso gruppo transnazionale, o tra queste e i loro partner locali. Nella competizione globale, enfatizzare l’innovazione tecnologica piuttosto che la manodopera a basso costo come segreto del successo, è un falso argomento, usato dagli stessi apologeti della globalizzazione, per sviare i discorsi dalla dinamica dell’accumulazione di capitale come fattore competitivo e sistema di sfruttamento, adombrando il ruolo delle banche come centri di potere economico e politico, dal momento che sono esse che creano moneta e la trasformano in capitale, in sostanziale autonomia rispetto ai governi.

Raffaele Ragni