07 novembre 2010

La teoria della rana bollita di Silvio Berlusconi



http://nuovosoldo.files.wordpress.com/2010/05/040817_berlusconi_vmed_11a_widec.jpg

Come ho già scritto per il cosiddetto "caso D’Addario" la vita privata del premier, come quella di qualsiasi altro cittadino, se non concreta in ipotesi di reato, non può e non deve essere materia di discussione. Anche se fa un po’ specie che il Presidente del Consiglio, che potrebbe fare di casa sua un cenacolo di artisti, di grandi attori, di affascinanti protagoniste del miglior cinema, di scrittori, preferisca circondarsi delle tante Ruby di turno. Ma sono affari suoi.
Se però il premier, o il caposcorta a suo nome, telefona in questura mentre si sta interrogando una persona accusata di furto per suggerirne la sorte, cercando di scavalcare Polizia e Magistratura, in questo caso il Tribunale dei minori, questi non sono più affari suoi. È un affare di Stato. Berlusconi si è giustificato affermando di non aver fatto alcuna pressione sulla Questura di Milano. Ma la sua telefonata, e quella del caposcorta a suo nome, è in sè una pressione e lo sarebbe anche se le cose non fossero poi andate nel senso desiderato dal Cavaliere. Questa non è una "pirlata", come hanno scritto alcuni giornali, si chiama abuso di potere o, in termini giudiziari, "abuso di ufficio" tanto più grave dato il ruolo del protagonista (e la Procura di Milano non ha affatto "assolto" Berlusconi, come dicono alcuni esponenti del Pdl, ma solo il comportamento della Questura); c’è poi il particolare grottesco della "nipote di Mubarak" che sembra uscito paro paro da una commedia di Totò o da un siparietto di Ridolini, ma non fa ridere nessuno.
A parte che non si capisce perché in un regime democratico una "nipote di Mubarak" dovrebbe godere di un trattamento di favore rispetto ai "figli di nessuno". C’è il fatto che la ragazza non è una "nipote di Mubarak". Berlusconi quindi, personalmente o attraverso il caposcorta che parlava a suoi nome, ha mentito alla Polizia. E anche l’indicazione di affidare la ragazza a questa Nicole Minetti, ex igienista dentale di Berlusconi da lui imposta nelle liste bloccate di Formigoni e diventata per questo consigliere regionale, oltre ad essere un’ulteriore pressione sulla Questura e sulla Magistratura competente, perchè la Minetti si è avviata verso via Fatebenefratelli quando nulla era ancora stato deciso dal giudice minorile, è un altro inganno nei confronti della Polizia e del Tribunale. Perchè la Minetti che aveva "l’obbligo di vigilare sulla minorenne" non l’ha trattenuta presso di sè nemmeno quella sera, ma l’ha subito sbolognata ad una ballerina brasiliana dalla dubbia reputazione che, guarda caso, proprio in quelle ore stava convergendo verso la Questura. È evidente l’intesa che l’affido della Minetti sarebbe stato puramente formale. Non si tratta quindi di "un atto di generosità" come asserisce Berlusconi, ma di spietatezza perché si è lasciata la ragazza allo sbando, ricacciandola proprio in quell’ambiente che avrebbe dovuto evitare, tant’è che dopo solo cinque giorni Ruby era già di nuovo nei guai.
Berlusconi ha usato nei confronti dell’opinione pubblica il metodo della "rana bollita". Se io butto una rana in una pentola che bolle a cento gradi, quella schizza fuori e si salva. Se io la metto in una pentola che cuoce a fuoco lento e alzo gradualmente la temperatura la rana non se ne accorge e finisce bollita. Berlusconi ha alzato gradualmente il livello delle sue "irregolarità", chiamiamole così, per cui l’ultima faceva passare nel dimenticatoio le altre e finiva per farsi accettare perché di poco più grave della precedente. E così è bollito il Paese.

di Massimo Fini -

05 novembre 2010

Al diavolo Berlusconi. Ma a favore di chi?

Mai come adesso sembra che il presidente del Consiglio sia alle corde. Eppure, meglio non farsi illusioni su quelli che potrebbero prenderne il posto


Forse ci siamo: Berlusconi ha talmente tirato la corda, nei suoi comportamenti pubblici e privati e nell’arroganza con cui li difende e addirittura li rivendica, da aver rafforzato come non mai il fronte di quelli che non vedono l’ora che si levi dai piedi. Benché lo schieramento dei suoi oppositori rimanga un guazzabuglio di posizioni eterogenee, e manchi totalmente di un leader in grado di unificarlo intorno a un programma politico nitido e compiuto, per la prima volta dal 1994 si ha la sensazione che la sua parabola abbia ormai imboccato la fase discendente. Dalla Confindustria alla Chiesa, l’insofferenza nei suoi confronti è più esplicita; e solo gli ingenui possono pensare che entità di questa rilevanza si muovano sull’onda delle notizie di giornata, anziché sulla base di attente valutazioni strategiche sul medio e sul lungo periodo.

Ma il punto è proprio questo. Ammesso che ci si trovi davvero a un punto di svolta, e che Berlusconi sia destinato a perdere definitivamente il suo ruolo di padre-padrone del centrodestra, che tipo di futuro ci aspetta? Si perverrà realmente a una palingenesi, di natura etica prima ancora che politica, come amano far credere i suoi molti avversari, a cominciare dal Pd?

Si potrebbe dire, prudenzialmente, che è legittimo dubitarne. Ma in realtà non sarebbe semplice prudenza. Sarebbe ipocrisia. La risposta che si deve dare è invece molto più netta, e totalmente negativa. La risposta è no. Quand’anche Berlusconi venisse finalmente rimosso dal quadro politico, la situazione complessiva sarebbe tutt’altro che bonificata. A differenza di quello che si sostiene di solito, dalle parti di Bersani & Co. (ma sarebbe più giusto, e più chiaro, dire “dalle parti di D’Alema & Co.”), Berlusconi non è affatto la causa del degrado generale dell’Italia, ma ne è piuttosto una conseguenza. Che abbia contribuito all’ulteriore peggioramento degli standard di pensiero e di condotta è innegabile, ma nelle linee fondamentali non c’è una vera e sostanziale discontinuità rispetto al passato.

Il caso Berlusconi, in altre parole, si iscrive perfettamente nell’allucinazione collettiva, e nella sapiente mistificazione, del passaggio dalla Prima alla Seconda repubblica. Quel passaggio non c’è mai stato. E se anche si volesse insistere a proclamarlo, citando a comprova la dissoluzione dei grandi partiti del passato a cominciare dalla Dc e dal Psi, bisognerebbe riconoscere che si è trattato assai più di un riassetto che non di una rifondazione. Le finalità rimangono le stesse, al di là dei cambiamenti suggeriti o imposti dai tempi e dalle mutate circostanze nazionali e, soprattutto, internazionali: asservire la nazione agli interessi dei diversi potentati economici e politici – che possono cambiare quanto si vuole ma che in ogni caso operano nell’ambito del medesimo sistema e che ne condividono la logica e gli obiettivi – occultando dietro una parvenza democratica una struttura sociale di tipo oligarchico.

La cosiddetta “anomalia Berlusconi”, quindi, deve essere letta non già come il virus che ha colpito un organismo sano, ma come una fase successiva di una malattia che è cominciata assai prima del suo avvento. È vero: negli ultimi quindici anni quella malattia si è manifestata in maniera ancora più evidente, e ributtante, di quanto non fosse avvenuto in precedenza, ma l’estremizzarsi dei sintomi non va confuso con una nuova e differente patologia. L’infezione ha origini lontane: e chi crede che la cura consista nel dare più potere a Confindustria e a Bankitalia, in nome di una ritrovata efficienza di taglio imprenditoriale, si sbaglia di grosso. Così come al tempo di Tangentopoli, chiudere l’era Berlusconi servirà solo a fingere di aver avviato chissà quale miglioramento. Al contrario, si sarà soltanto voltata pagina. All’interno dello stesso libro.

di Federico Zamboni

04 novembre 2010

La Guerra delle valute





La guerra valutaria mondiale in corso è la dimostrazione di tre realtà dell’economia globalizzata.

La prima è che la crisi è tutt’altro che finita.
La seconda è che gli equilibri del potere economico mondiale sono mutati e che con essi viene meno l’egemonia Usa.
La terza è che questo cambiamento, insieme alla crisi, sta acuendo la conflittualità tra le aree economiche principali, Usa, Ue, Bric.
Questo terzo elemento è accentuato dalla volontà degli Usa di scaricare la crisi, di cui sono epicentro, sugli altri paesi e dalla scelta di risolverla nella stessa maniera in cui hanno cercato di risolvere ogni crisi negli ultimi decenni: con l’immissione di dosi massicce di liquidità nel sistema finanziario da parte del governo e con il conseguente aumento del debito pubblico. Due metodi che, sebbene abbiano consentito di risolvere temporaneamente le crisi, hanno però creato una serie di bolle speculative, che, una volta scoppiate, facevano ripiombare il sistema in una crisi più profonda.
Questa volta la massiccia immissione di liquidità – 800 miliardi di investimenti pubblici nel 2009 – non ha neanche prodotto benefici reali, visto che negli Usa il tasso di disoccupazione è ancora alto (chi ha lavoro è oggi il 4,6% in meno del 2007) e il deficit commerciale con l’estero, il più grande del mondo, è aumentato ancora, arrivando a 604 miliardi di dollari. L’immissione di liquidità ha prodotto invece la consueta serie di impennate speculative, prima verso i titoli di stato e le materie prime e ora verso i junk bonds, i titoli spazzatura. In compenso, il debito pubblico Usa è esploso. Questo ufficialmente è al 90% del Pil, ma, se si considerano le nazionalizzazioni di fatto di Freddie Mac e Fannie Mae, si arriva al 140%, e, se si dà per buona la valutazione dell’Ufficio del Bilancio del Congresso Usa, con le pensioni ai reduci di guerra e le spese sanitarie si arriverebbe almeno al 400%.

Intanto, le banche hanno potuto investire negli Usa e in Europa la liquidità ricevuta dallo Stato a tassi prossimi allo zero, in titoli del debito pubblico a più alto rendimento, realizzando lauti profitti. Ma soprattutto l’aumento della liquidità ha condotto alla svalutazione del dollaro nei confronti delle altre valute. La notizia recente che la Fed si appresta ad una nuova massiccia immissione di liquidità ha provocato una ulteriore discesa del dollaro ai minimi da 8 mesi sull’euro, degli ultimi 15 anni sullo yen e degli ultimi 11 anni sul real brasiliano. A questo punto, si è scatenata la reazione delle altre potenze economiche, dal Giappone al Brasile, che con l’apprezzamento delle loro valute rischiano il collasso delle loro esportazioni e del loro apparato industriale.

Eppure, alcuni economisti e soprattutto gli Usa continuano a dare la colpa degli squilibri commerciali e finanziari mondiali alla Cina, che manterrebbe lo yuan al di sotto del suo valore reale, realizzando così un enorme surplus commerciale ai danni degli Usa. La realtà è un’altra. In primo luogo, la Cina nel passato ha già rivalutato lo yuan senza che si determinassero risultati apprezzabili per il debito commerciale Usa. Le ragioni risaltano dalle parole dell’amministratore delegato di General Electric: “Noi statunitensi siamo esportatori patetici, dobbiamo diventare nuovamente una potenza industriale.” La massiccia delocalizzazione ha portato alla deindustrializzazione degli Usa, diventati paese importatore di quasi tutto ciò che consumano. Di fatto, gli Usa finanziano i loro enormi debiti commerciale e pubblico grazie alla capacità di attirare il surplus mondiale, collocando i propri titoli di Stato presso il Giappone e i paesi emergenti, soprattutto la Cina, che li impiegano come riserve valutarie. Il nocciolo della svalutazione del dollaro sta qui. Infatti, più che essere tesa a facilitare l’export di una industria manifatturiera Usa ridotta a poca cosa, la svalutazione del dollaro tende a svalutare l’ammontare del debito pubblico statunitense detenuto dall’estero. È un modo surrettizio per fare bancarotta, non pagando una parte del debito e scaricando i costi della propria crisi sugli altri paesi. Inoltre, è un sistema e per esercitare pressioni verso chi, come la Cina, non sembra più intenzionato a concedere finanziamenti agli Usa a fondo perduto, acquistando sempre e comunque i Treasury bond.

Non si tratta di una novità, gli Usa lo hanno già fatto negli anni ’80 con il Giappone, che finanziò la vittoria Usa nella corsa al riarmo contro l’Urss. Grazie alla caduta del dollaro nel 1985, gli Usa restituirono al Giappone in dollari svalutati il prestito fatto in dollari sopravvalutati.
di Domenico Moro

07 novembre 2010

La teoria della rana bollita di Silvio Berlusconi



http://nuovosoldo.files.wordpress.com/2010/05/040817_berlusconi_vmed_11a_widec.jpg

Come ho già scritto per il cosiddetto "caso D’Addario" la vita privata del premier, come quella di qualsiasi altro cittadino, se non concreta in ipotesi di reato, non può e non deve essere materia di discussione. Anche se fa un po’ specie che il Presidente del Consiglio, che potrebbe fare di casa sua un cenacolo di artisti, di grandi attori, di affascinanti protagoniste del miglior cinema, di scrittori, preferisca circondarsi delle tante Ruby di turno. Ma sono affari suoi.
Se però il premier, o il caposcorta a suo nome, telefona in questura mentre si sta interrogando una persona accusata di furto per suggerirne la sorte, cercando di scavalcare Polizia e Magistratura, in questo caso il Tribunale dei minori, questi non sono più affari suoi. È un affare di Stato. Berlusconi si è giustificato affermando di non aver fatto alcuna pressione sulla Questura di Milano. Ma la sua telefonata, e quella del caposcorta a suo nome, è in sè una pressione e lo sarebbe anche se le cose non fossero poi andate nel senso desiderato dal Cavaliere. Questa non è una "pirlata", come hanno scritto alcuni giornali, si chiama abuso di potere o, in termini giudiziari, "abuso di ufficio" tanto più grave dato il ruolo del protagonista (e la Procura di Milano non ha affatto "assolto" Berlusconi, come dicono alcuni esponenti del Pdl, ma solo il comportamento della Questura); c’è poi il particolare grottesco della "nipote di Mubarak" che sembra uscito paro paro da una commedia di Totò o da un siparietto di Ridolini, ma non fa ridere nessuno.
A parte che non si capisce perché in un regime democratico una "nipote di Mubarak" dovrebbe godere di un trattamento di favore rispetto ai "figli di nessuno". C’è il fatto che la ragazza non è una "nipote di Mubarak". Berlusconi quindi, personalmente o attraverso il caposcorta che parlava a suoi nome, ha mentito alla Polizia. E anche l’indicazione di affidare la ragazza a questa Nicole Minetti, ex igienista dentale di Berlusconi da lui imposta nelle liste bloccate di Formigoni e diventata per questo consigliere regionale, oltre ad essere un’ulteriore pressione sulla Questura e sulla Magistratura competente, perchè la Minetti si è avviata verso via Fatebenefratelli quando nulla era ancora stato deciso dal giudice minorile, è un altro inganno nei confronti della Polizia e del Tribunale. Perchè la Minetti che aveva "l’obbligo di vigilare sulla minorenne" non l’ha trattenuta presso di sè nemmeno quella sera, ma l’ha subito sbolognata ad una ballerina brasiliana dalla dubbia reputazione che, guarda caso, proprio in quelle ore stava convergendo verso la Questura. È evidente l’intesa che l’affido della Minetti sarebbe stato puramente formale. Non si tratta quindi di "un atto di generosità" come asserisce Berlusconi, ma di spietatezza perché si è lasciata la ragazza allo sbando, ricacciandola proprio in quell’ambiente che avrebbe dovuto evitare, tant’è che dopo solo cinque giorni Ruby era già di nuovo nei guai.
Berlusconi ha usato nei confronti dell’opinione pubblica il metodo della "rana bollita". Se io butto una rana in una pentola che bolle a cento gradi, quella schizza fuori e si salva. Se io la metto in una pentola che cuoce a fuoco lento e alzo gradualmente la temperatura la rana non se ne accorge e finisce bollita. Berlusconi ha alzato gradualmente il livello delle sue "irregolarità", chiamiamole così, per cui l’ultima faceva passare nel dimenticatoio le altre e finiva per farsi accettare perché di poco più grave della precedente. E così è bollito il Paese.

di Massimo Fini -

05 novembre 2010

Al diavolo Berlusconi. Ma a favore di chi?

Mai come adesso sembra che il presidente del Consiglio sia alle corde. Eppure, meglio non farsi illusioni su quelli che potrebbero prenderne il posto


Forse ci siamo: Berlusconi ha talmente tirato la corda, nei suoi comportamenti pubblici e privati e nell’arroganza con cui li difende e addirittura li rivendica, da aver rafforzato come non mai il fronte di quelli che non vedono l’ora che si levi dai piedi. Benché lo schieramento dei suoi oppositori rimanga un guazzabuglio di posizioni eterogenee, e manchi totalmente di un leader in grado di unificarlo intorno a un programma politico nitido e compiuto, per la prima volta dal 1994 si ha la sensazione che la sua parabola abbia ormai imboccato la fase discendente. Dalla Confindustria alla Chiesa, l’insofferenza nei suoi confronti è più esplicita; e solo gli ingenui possono pensare che entità di questa rilevanza si muovano sull’onda delle notizie di giornata, anziché sulla base di attente valutazioni strategiche sul medio e sul lungo periodo.

Ma il punto è proprio questo. Ammesso che ci si trovi davvero a un punto di svolta, e che Berlusconi sia destinato a perdere definitivamente il suo ruolo di padre-padrone del centrodestra, che tipo di futuro ci aspetta? Si perverrà realmente a una palingenesi, di natura etica prima ancora che politica, come amano far credere i suoi molti avversari, a cominciare dal Pd?

Si potrebbe dire, prudenzialmente, che è legittimo dubitarne. Ma in realtà non sarebbe semplice prudenza. Sarebbe ipocrisia. La risposta che si deve dare è invece molto più netta, e totalmente negativa. La risposta è no. Quand’anche Berlusconi venisse finalmente rimosso dal quadro politico, la situazione complessiva sarebbe tutt’altro che bonificata. A differenza di quello che si sostiene di solito, dalle parti di Bersani & Co. (ma sarebbe più giusto, e più chiaro, dire “dalle parti di D’Alema & Co.”), Berlusconi non è affatto la causa del degrado generale dell’Italia, ma ne è piuttosto una conseguenza. Che abbia contribuito all’ulteriore peggioramento degli standard di pensiero e di condotta è innegabile, ma nelle linee fondamentali non c’è una vera e sostanziale discontinuità rispetto al passato.

Il caso Berlusconi, in altre parole, si iscrive perfettamente nell’allucinazione collettiva, e nella sapiente mistificazione, del passaggio dalla Prima alla Seconda repubblica. Quel passaggio non c’è mai stato. E se anche si volesse insistere a proclamarlo, citando a comprova la dissoluzione dei grandi partiti del passato a cominciare dalla Dc e dal Psi, bisognerebbe riconoscere che si è trattato assai più di un riassetto che non di una rifondazione. Le finalità rimangono le stesse, al di là dei cambiamenti suggeriti o imposti dai tempi e dalle mutate circostanze nazionali e, soprattutto, internazionali: asservire la nazione agli interessi dei diversi potentati economici e politici – che possono cambiare quanto si vuole ma che in ogni caso operano nell’ambito del medesimo sistema e che ne condividono la logica e gli obiettivi – occultando dietro una parvenza democratica una struttura sociale di tipo oligarchico.

La cosiddetta “anomalia Berlusconi”, quindi, deve essere letta non già come il virus che ha colpito un organismo sano, ma come una fase successiva di una malattia che è cominciata assai prima del suo avvento. È vero: negli ultimi quindici anni quella malattia si è manifestata in maniera ancora più evidente, e ributtante, di quanto non fosse avvenuto in precedenza, ma l’estremizzarsi dei sintomi non va confuso con una nuova e differente patologia. L’infezione ha origini lontane: e chi crede che la cura consista nel dare più potere a Confindustria e a Bankitalia, in nome di una ritrovata efficienza di taglio imprenditoriale, si sbaglia di grosso. Così come al tempo di Tangentopoli, chiudere l’era Berlusconi servirà solo a fingere di aver avviato chissà quale miglioramento. Al contrario, si sarà soltanto voltata pagina. All’interno dello stesso libro.

di Federico Zamboni

04 novembre 2010

La Guerra delle valute





La guerra valutaria mondiale in corso è la dimostrazione di tre realtà dell’economia globalizzata.

La prima è che la crisi è tutt’altro che finita.
La seconda è che gli equilibri del potere economico mondiale sono mutati e che con essi viene meno l’egemonia Usa.
La terza è che questo cambiamento, insieme alla crisi, sta acuendo la conflittualità tra le aree economiche principali, Usa, Ue, Bric.
Questo terzo elemento è accentuato dalla volontà degli Usa di scaricare la crisi, di cui sono epicentro, sugli altri paesi e dalla scelta di risolverla nella stessa maniera in cui hanno cercato di risolvere ogni crisi negli ultimi decenni: con l’immissione di dosi massicce di liquidità nel sistema finanziario da parte del governo e con il conseguente aumento del debito pubblico. Due metodi che, sebbene abbiano consentito di risolvere temporaneamente le crisi, hanno però creato una serie di bolle speculative, che, una volta scoppiate, facevano ripiombare il sistema in una crisi più profonda.
Questa volta la massiccia immissione di liquidità – 800 miliardi di investimenti pubblici nel 2009 – non ha neanche prodotto benefici reali, visto che negli Usa il tasso di disoccupazione è ancora alto (chi ha lavoro è oggi il 4,6% in meno del 2007) e il deficit commerciale con l’estero, il più grande del mondo, è aumentato ancora, arrivando a 604 miliardi di dollari. L’immissione di liquidità ha prodotto invece la consueta serie di impennate speculative, prima verso i titoli di stato e le materie prime e ora verso i junk bonds, i titoli spazzatura. In compenso, il debito pubblico Usa è esploso. Questo ufficialmente è al 90% del Pil, ma, se si considerano le nazionalizzazioni di fatto di Freddie Mac e Fannie Mae, si arriva al 140%, e, se si dà per buona la valutazione dell’Ufficio del Bilancio del Congresso Usa, con le pensioni ai reduci di guerra e le spese sanitarie si arriverebbe almeno al 400%.

Intanto, le banche hanno potuto investire negli Usa e in Europa la liquidità ricevuta dallo Stato a tassi prossimi allo zero, in titoli del debito pubblico a più alto rendimento, realizzando lauti profitti. Ma soprattutto l’aumento della liquidità ha condotto alla svalutazione del dollaro nei confronti delle altre valute. La notizia recente che la Fed si appresta ad una nuova massiccia immissione di liquidità ha provocato una ulteriore discesa del dollaro ai minimi da 8 mesi sull’euro, degli ultimi 15 anni sullo yen e degli ultimi 11 anni sul real brasiliano. A questo punto, si è scatenata la reazione delle altre potenze economiche, dal Giappone al Brasile, che con l’apprezzamento delle loro valute rischiano il collasso delle loro esportazioni e del loro apparato industriale.

Eppure, alcuni economisti e soprattutto gli Usa continuano a dare la colpa degli squilibri commerciali e finanziari mondiali alla Cina, che manterrebbe lo yuan al di sotto del suo valore reale, realizzando così un enorme surplus commerciale ai danni degli Usa. La realtà è un’altra. In primo luogo, la Cina nel passato ha già rivalutato lo yuan senza che si determinassero risultati apprezzabili per il debito commerciale Usa. Le ragioni risaltano dalle parole dell’amministratore delegato di General Electric: “Noi statunitensi siamo esportatori patetici, dobbiamo diventare nuovamente una potenza industriale.” La massiccia delocalizzazione ha portato alla deindustrializzazione degli Usa, diventati paese importatore di quasi tutto ciò che consumano. Di fatto, gli Usa finanziano i loro enormi debiti commerciale e pubblico grazie alla capacità di attirare il surplus mondiale, collocando i propri titoli di Stato presso il Giappone e i paesi emergenti, soprattutto la Cina, che li impiegano come riserve valutarie. Il nocciolo della svalutazione del dollaro sta qui. Infatti, più che essere tesa a facilitare l’export di una industria manifatturiera Usa ridotta a poca cosa, la svalutazione del dollaro tende a svalutare l’ammontare del debito pubblico statunitense detenuto dall’estero. È un modo surrettizio per fare bancarotta, non pagando una parte del debito e scaricando i costi della propria crisi sugli altri paesi. Inoltre, è un sistema e per esercitare pressioni verso chi, come la Cina, non sembra più intenzionato a concedere finanziamenti agli Usa a fondo perduto, acquistando sempre e comunque i Treasury bond.

Non si tratta di una novità, gli Usa lo hanno già fatto negli anni ’80 con il Giappone, che finanziò la vittoria Usa nella corsa al riarmo contro l’Urss. Grazie alla caduta del dollaro nel 1985, gli Usa restituirono al Giappone in dollari svalutati il prestito fatto in dollari sopravvalutati.
di Domenico Moro