13 dicembre 2010

Gli artigli della finanza sul clima

Elena Gerebizza, specialista di finanza per lo sviluppo per la Campagna per la riforma della Banca Mondiale, spiega a PeaceReporter perchè il protocollo di Kyoto non ha funzionato e quali dovrebbe essere la strada da seguire a Cancun.

"Tenteremo di ottenere un pacchetto equilibrato". Nelle parole di Connie Hedegaard, commissario Ue per il clima, c'è abbastanza realismo per capire che a Cancun le sorprese saranno poche. A stento l'Ue riuscirà a racimolare la quota 2010 per il "fast start": gli aiuti comunitari ai paesi in via di Sviluppo, e i singoli Stati continuano a spingere per un maggiore coinvolgimento della finanza privata. A quanto pare la comunità internazionale potrebbe presto smarcarsi dalla lotta contro il riscaldamento globale e permettere che su di essa continui una speculazione finanziaria vecchia di 15 anni. PeaceReporter ha intervistato Elena Gerebizza, specialista di finanza per lo sviluppo per la Campagna per la riforma della Banca Mondiale.

A quanto pare la prima notizia uscita dalla giornata inaugurale del vertice, è quella sull'austerity, che da oggi dovrà applicarsi anche alla lotta contro il global warming.

Per quanto riguarda i cambiamenti climatici si dice già da molto tempo che che non ci sono i fondi. La realtà è che manca ancora, ed è mancata anche l'anno scorso a Copenaghen, la volontà politica di trovare una soluzione accettabile per tutti i governi, sia per quelli dei Paesi sviluppati che quelli in via di sviluppo che poi sono quelli che soffrono di più gli impatti e hanno bisogno dei finanziamenti per fare gli interventi necessari alla loro salvaguardia.

Il commissario Connie Hedegaard ha sostenuto che si possono raccogliere i 7,2 miliardi di euro per il pacchetto "fast start" ma che mancano ancora 200 milioni per la manovra 2010. Manca l'impegno economico degli Stati?

Attorno alla questione finanziaria si snodano tutte le altre questioni discusse al negoziato. Fino a che non si troverà un accordo su tutte le altre parti, inclusa la riduzione delle emissioni interne, nessuno metterà i soldi sul tavolo. Inoltre, ieri, si è annunciato che si parlerà dopo Cancun del come generare le risorse fiscali necessarie. Questo significa che manca la volontà di affrontare il problema; è vero che servono quantità di denaro mai viste prima, cifre che viaggiano sulle centinaia di miliardi di euro all'anno e che sono più di dieci volte superiori a quelle destinate all'aiuto pubblico allo sviluppo, però non è vero che non è possibile trovare la maniera di generarle, e di farlo da risorse pubbliche.

Invece c'è chi azzarda con maggiore insistenza la necessità di coinvolgere la finanza privata nella battaglia per il clima. È una strada percorribile?

Questa è la strada su cui spingono i governi europei, gli Stati Uniti e istituzioni internazionali come la Banca Mondiale. È ancora un quesito irrisolto: quello che, ad oggi, si sa è che il mercato dei crediti di carbonio, che poi viene visto come la principale fonte di finanza privata e come lo strumento che permetterebbe di trovare gli strumenti necessari direttamente sui mercati finanziari, non ha portato ai risultati attesi. Se guardiamo alle riduzioni di emissioni, il risultato è stato negativo, in quanto le emissioni complessive sono aumentate nei quindici anni in cui questo strumento ha iniziato a essere sperimentato e sviluppato. La stessa Banca Mondiale ha ammesso che il Clean Development Mechanism (uno dei due meccanismi flessibili del protocollo di Kyoto) non ha funzionato. Il sistema dovrebbe permettere alle aziende di realizzare progetti al di fuori dei Paesi sviluppati (chiamati annex 1 ndr), e in questa maniera non solo aiutare alla transizione verso un'economia a basse emissioni, ma anche contribuire a raccogliere i finanziamenti necessari a fare questi investimenti.

Invece cosa è accaduto rispetto alla teoria?

Si sono visti, e si vedono, sempre più scandali che riguardano vere e proprie frodi riferite a una compravendita di certificati di riduzione delle emissioni che poi non sono reali. Questo è il terreno più interessante e favorevole per tutti quegli investitori che vogliono fare un profitto facile e a breve termine, senza troppe preoccupazioni. Perché è un mercato ancora non regolamentato, le transazioni avvengono bilateralmente, al di fuori delle regole del mercato. Quindi la percorribilità della strada dipende dalla prospettiva degli attori coinvolti e di ciò che si vuole. Se cerchiamo una soluzione sostenibile che contribuisca realmente a risolvere la questione dei cambiamenti climatici, la risposta è no, se invece parliamo dalla prospettiva degli investitori spregiudicati che cercano solo il profitto, allora il mercato si presenta più interessante.

Cancun potrebbe essere l'occasione per pensare seriamente al post-Kyoto. In questa nuova visione, dovrebbe essere eliminato il meccanismo dei crediti di carbonio?

Sicuramente Cancun deve essere il luogo dove si raggiungerà un accordo sulla seconda fase dell'implementazione del protocollo di Kyoto e speriamo sia anche un momento nel quale si faccia un passo in avanti anche sull'accordo globale che i governi stanno cercando di raggiungere da un po'. La critica della società civile sui meccanismi flessibili, introdotti nel protocollo di Kyoto, è molto forte, quindi se da un lato anche le organizzazioni e la parte più radicale della società civile credono che si debba passare a una seconda fase di implementazione, la richiesta è anche che vengano tolti i meccanismi flessibili, proprio perché non hanno portato a un valore aggiunto, sia rispetto ai finanziamenti, che rispetto alla riduzione di emissioni. Inoltre, sempre più progetti collegati al mercato dei crediti di carbonio, come quello sulle foreste, hanno portato a violazioni di diritti umani. Le comunità indigene non sono mai state consultate. Non sono progetti pensati per migliorare la qualità della vita di chi vive sul territorio dove vengono realizzati, ma solamente per creare sulla carta queste riduzioni di emissioni che, poi, vengono comprate e vendute un numero infinito di volte sui mercati finanziari a puri fini speculativi.

Antonio Marafiot

12 dicembre 2010

Frane e alluvioni, ecco l’Italia senza difese

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Legambiente e Protezione civile presentano il nuovo rapporto sulla sicurezza del territorio. Oltre 3,5 milioni di persone vivono in aree pericolose. Poche risorse per la prevenzione.
Moderni argini dei fiumi realizzati non per la messa in sicurezza del territorio ma come alibi per continuare a costruire. Addirittura nei casi più gravi, le opere idrauliche previste restano sulla carta, a differenza dei nuovi quartieri che invece vengono costruiti immediatamente. «È il caso di Crotone - denuncia Simone Andreotti, responsabile protezione civile di Legambiente - perché questa rischiosa urbanizzazione continua tuttora. Non è una scomoda eredità del passato». È la fotografia scattata dal rapporto “Ecosistema rischio 2010”, realizzato da Legambiente e dal dipartimento della Protezione civile, che è stato presentato ieri a Roma. «L’Italia si scopre sempre più fragile», spiega il dossier, soprattutto a causa del «troppo cemento lungo i corsi d’acqua così come a ridosso di versanti franosi».

Tanto che nell’82 per cento dei Comuni ci sono abitazioni costruite in aree a rischio frane o alluvioni, nel 54 per cento frabbricati industriali e nel 19 per cento strutture pubbliche sensibili come scuole e ospedali. Numeri che portano a ritenere che in Italia oltre 3 milioni e 500mila persone siano quotidiamente esposte al pericolo di frane o alluvioni. Del tutto insufficiente l’azione di prevenzione svolta dal governo e dagli enti locali. «Realizziamo questo rapporto da otto anni - continua il responsabile Protezione civile di Legambiente - è purtroppo il quadro continua ad essere desolante». Perché nonostante i fondi stanziati dal governo, il 18 novembre il Cipe ha approvato interventi per 177 milioni che arrivano dopo «il frequente ripetersi di precipitazioni con carattere alluvionale, come quelle più recenti che hanno sconvolto prima la Liguria e la Toscana, poi il Veneto e a Calabria e infine la Campania».

Briciole rispetto ai circa 650 milioni di euro, stanziati nell’ultimo anno dallo Stato per far funzionare la macchina dei soccorsi durante le emergenze idrogeologiche: da Giampilieri (ottobre 2009) fino al Veneto e alla provincia di Salerno (novembre scorso). Tanto che il ministro dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo, è arrivata ai ferri corti con il titolare dell’Economia Tremonti, proprio sulla richiesta di prevedere nella Legge di stabilità un fondo speciale di 500 milioni per far i Parchi nazionali ma soprattutto per far fronte alla prevenzione del dissesto idrogeologico che gli ambientalisti ritengono «la vera grande opera di cui avrebbe bisogno l’Italia». Peggio che andare di notte, riguardo agli interventi degli enti locali: «Il 78 per cento delle amministrazioni è in ritardo nella prevenzione - denuncia il rapporto - e il 43 per cento dei Comuni non fa praticamente nulla per prevenire i danni da frane a alluvioni».

A conti fatti «sono appena il 22 per cento i Comuni che intervengono nella mitigazione del rischio in modo positivo». Anche nella prevenzione del rischio idrogeologico c’è un’Italia a due velocità: «Perché - conclude Andreotti di Legambiente - se il Veneto ha il 45 per cento dei Comuni che svolgono un lavoro di mitigazione del rischio, valore comunque insufficiente, al Sud si scende al 7 per cento della Sicilia. Cifre veramente difficili». Nella classifica stilata da “Ecosistema rischio” soltanto un Comune raggiunge la classe di merito “ottimo”: è Senigallia, nelle Marche, dove «a seguito di interventi di delocalizzazione, non sono presenti abitazioni o industrie in aree a rischio idrogeologico e viene realizzata un’ordinaria attività di manutenzione delle sponde e di informazione della popolazione».

In totale «solo il 6 per cento dei Comuni ha intrapreso attività di delocalizzazione di abitazioni in aree a rischio, appena il 3 per cento di insediamenti a fabbricati industriali». La maglia nera va a sette Comuni che ottengono addirittura “zero”: Bolognetta e Ravanusa (Sicilia), Coriano (Emilia Romagna), San Roberto e Fiumara (Calabria), Paupisi e Raviscanina (Campania), dove «è presente una pesante urbanizzazione delle zone esposte a pericolo frane e alluvioni e non sono state svolte attività di mitigazione, né dal punto di vista della manutenzione del territorio, né dall’attivazione di un corretto sistema comunale di protezione civile».

di Alessandro De Pascale

08 dicembre 2010

Banca del cibo? No, cibo della banca

Ogni volta che un qualche "vip" è visto mangiare un po’ di tofu, subito scrosciano gli applausi. Senz’altro si può affermare che le vecchie rockstar in cerca di mantener la linea o gli ex presidenti USA che hanno capito che c’è un nesso tra dieta e prevenzione dell’infarto, costituiscano un buon esempio da imitare, almeno che c’è chi ci tiene e ci pensa se non altro per sé (“We care”).

Al di là di queste belle notizie però, la situazione alimentare moderna mondiale è alquanto seria. Le vendite oggi dei cibi "Bio" in Europa ammontano solo al 2% dei consumi UE (26 paesi). In pratica, 21 M di € contro ad esempio 24 M di € in merendine confezionate. La realtà è ben altra cosa, ed è che la grande industria alimentare è la causa numero uno dello squilibrio alimentare, in pratica della fame, nel mondo odierno. Vediamo ora come il capitalismo finanziario dei disastri tragga vantaggio solo per il denaro in se’ dalla produzione di alimenti scadenti, purché altamente industrializzati.

Chi non l’avesse ancora fatto, si legga il libro del 2007 di Naomi Klein “Shock Economy, l’ascesa del capitalismo dei disastri”. In esso l’Autrice sostiene che fenomeni sociali straordinari come la guerra in Iraq e disastri naturali come i grandi terremoti, alluvioni ecc. siano sempre un’opportunità usata dalla grande industria attraverso i politici al potere da lei sostenuti per far passare nuove leggi straordinarie che mai sarebbero state accettate in situazioni normali. Questa forma di opportunismo sociale di solito è altamente apprezzata negli ambienti finanziari in quanto produttiva di lauti guadagni. Per l’industria alimentare il disastro da tramutare in grandi profitti è la penuria alimentare che affligge il Pianeta. La scarsità di cibo è stata sventolata sotto i nostri occhi da almeno 40 anni (senza tener conto delle antiche predizioni, del tutto errate, da parte di Malthus e altri corvi di sciagura) ma è ora assai più vicina a realizzarsi ovunque, facendosi sentire tanto nei paesi “in via di sviluppo” quanto in quelli sviluppati, cioè da noi.

Una delle strategie del capitalismo dei disastri è quella di attendere che i problemi si manifestino in tutta la loro gravità prima di passare all’azione. Infatti, non ci sarebbe sufficiente reazione emotiva per far passare misure in loro favore senza l’urgenza del disastro, e quindi mancherebbero i guadagni colossali. Pertanto si va dal “preoccupante” al “problematico” prima di arrivare a “disastro” nel loro linguaggio echeggiato da stampa e televisioni. L’Escalation di termini conduce a una serie di misure d’emergenza spacciate per soluzioni – non c’è tempo, bisogna agire in fretta! Proprio quando c’è bisogno di studiare in dettaglio e di tanta moderazione, si agisce in fretta e furia.

Primo esempio: L’impoverimento dei contadini. I piccoli agricoltori a regime famigliare o simile in tutto il Pianeta non possono tenere prezzi che reggano la concorrenza con quelli dell’agricoltura aziendale industrializzata, di grande scala e altamente meccanizzata. Per salvarsi hanno due possibilità: una è quella di produrre alimenti da export, esotici in nazioni più ricche, allo scopo di accrescere i guadagni. In Italia ciò vale soprattutto per il vino. La seconda possibilità è quella di coltivar cereali per bio-fuel ovvero, trasformarli in carburante per motori a scoppio. Le sole vendite di terreni agricoli in Africa dell’ultimo anno ammontano per un terzo a terreni destinati a questo tipo di raccolti.
La Jatropha è una nuova pianta che viene promossa in Africa e Sud America come un aiuto per i piccoli coltivatori, produce olio facilmente convertibile in bio-fuel. La grande resa si trasforma però subito in consumi massicci di acqua e di pesticidi mentre i consorzi agrari vendono a vagonate semi di questa nuova “rivoluzione Verde” in paesi dove la fame è endemica, per cui diventa necessario importare cereali e alimentari dall’estero, sovente sotto forma di aiuti altre volte acquistati con maggiore debito. Indovinate chi paga, e indovinate chi ci guadagna.

Secondo esempio: l’aumento della popolazione. Avrete sentito dire che si proietta la crescita della popolazione mondiale oltre i 9 miliardi, secondo alcune stime, peraltro controverse e non certe, per la metà del presente secolo. Nove miliardi che ogni giorno si dovranno sedere da qualche parte a mangiare qualcosa. Anche questo problema è sempre stato rinviato al futuro fino a che non si presenta l’ennesima “crisi da aumento di popolazione”.
La soluzione rapida e definitiva è alla portata: basta mettersi a produrre massicciamente cibi geneticamente modificati che resistono ai parassiti, usano solo certi pesticidi e dovrebbero aumentare la resa: chi si oppone agli OGM farà così la figura dell’ecologista sentimentale, egoista e senza cuore che per le sue fisime - “non scientificamente provate” direbbe Veronesi – causa la fame dei poveretti…Intanto Monsanto ci fa un figurone. Peccato che la realtà sia completamente un’altra.

Terzo: I crescenti prezzi agricoli alimentari. La risposta qui è scambiare quantità con qualità. Si forniscono alimenti scadenti ma di massa ai più poveri, sempre provenienti da cibi molto trattati e industrializzati. Troverete sempre abbondanza di fast-food nei quartieri bassi, macchinette distributrici nelle fabbriche, merendine/immondizia nelle scuole. Il fatto è che i pochi che lavorano duro devono mangiare con poco e velocemente, mentre chi non lavora ha bisogno di ridurre al massimo la spesa alimentare. Aggiungi la mancanza di cultura, gli slogan fasulli piantati ad arte dalla pubblicità ingannevole e dagli “esperti” televisivi prezzolati, ed ecco che la povertà nutritiva ha tutti i sostegni che necessita; i signori del fast-food sono maestri di cibi saporiti ed economici.
I governi dal canto loro continueranno sempre a finanziare con aiuti di Stato carni, latte e pollame per rassicurare il grande pubblico con la presenza di alimenti familiari sulla tavola, anche se l’evidenza scientifica e dei fatti ha provato da tempo che questi consumi in eccesso siano malsani e apportatori di patologie degenerative. Lo continuano a fare perché l’industria alimentare li appoggia e finanzia completamente attraverso i finanziamenti alle campagne elettorali dei politici, e questo vale per tutti gli schieramenti e partiti indistintamente. Si sta già configurando infine una pseudo-Linea Verde nei fast-food per giovani ed ecologisti dilettanti, a base di banco delle insalate, burger alla soia OGM e ben presto avremo pannelli solari ed eliche eoliche vicino alla grande M a forma di tette appetitose simbolo di McDonald’s.

Quarto: Le riserve di pesce in esaurimento. Enormi navi-officina solcano i mari espellendone i piccoli pescherecci, esaurendo le scorte e massacrando le riserve di piccoli pesci in crescita col metodo della pesca di massa industrializzata. Su di esse il pescato è lavorato in catene di produzione fino al prodotto pronto surgelato magari anche precotto. Questa politica estrattiva produce immani squilibri ambientali e sprechi, con conseguente impoverimento del patrimonio ittico. Una seria politica di autocontrollo della pesca con metodi e calendari precisi permetterebbe di conservare il patrimonio di pesci in riproduzione, ma onde tenere altissimi i ricavi bisogna invece allarmare il pubblico con le false notizie per cui l’industria ha già pronta la nostra salvezza: il pesce OGM! Pronto su ogni tavola, le ultime pastoie e scrupoli dei tradizionalisti (oh come son lenti, questi antimodernisti e antiprogressisti, non vedete che il mondo ha fame e noi grandi forze del Progresso lo sfameremo?) cadono in fretta, tra poco FDA (Ministero dell’Agricoltura USA) approverà senza riserve. Avrete salmoni a crescita rapida, dimezzata come tempi e di maggiori dimensioni; magari poi lo scienziato del progresso inarrestabile penserà ad un nuovo modello di salmone con le zampe in modo da uscirsene dall’acqua da solo, così avremo pescatori in esubero a cui penserà la cassa integrazione mentre i salmoncini tutti in fila se ne entreranno nelle fabbriche automatizzate, sulle loro zampine. E’ un sogno, per ora, ma presto... Un maiale più umanizzato anche per farne organi simil-umani da trapiantare (mi raccomando anche la faccia, signori politici!) ed una capra da latte chimicamente simile a quello umano sono già in fase sperimentale avanzata. Aspettiamoci di vedere dei bimbi brucare l’erba nelle aiuole del giardino di casa, e bimbi molto, molto ubbidienti che si muovono tutti insieme, come un gregge…
E’ importante che tutti coloro i quali nutrano una qualche preoccupazione per il futuro del pianeta, per la qualità di vita e di alimentazione umana non permettano a questi argomenti di scivolare nel dimenticatoio o nelle chiacchiere da bar o peggio nelle polemiche televisive. Si dovranno scoprire nuove maniere di comunicazione in modo anche di trasmettere al pubblico una nuova educazione alimentare non più fondata sul “mangiare di tutto un po’” perché in realtà l’industria decide quel “tutto” e lo incanala verso le sue precise scelte di profitto, facendoti poi credere che “si è sempre mangiato così”. Questa è la grande opportunità che ci sta dando la Grande Crisi in atto ora e per molto tempo ancora. Se no, a che servono le crisi, se non a riflettere?


di Roberto Marrocchesi

13 dicembre 2010

Gli artigli della finanza sul clima

Elena Gerebizza, specialista di finanza per lo sviluppo per la Campagna per la riforma della Banca Mondiale, spiega a PeaceReporter perchè il protocollo di Kyoto non ha funzionato e quali dovrebbe essere la strada da seguire a Cancun.

"Tenteremo di ottenere un pacchetto equilibrato". Nelle parole di Connie Hedegaard, commissario Ue per il clima, c'è abbastanza realismo per capire che a Cancun le sorprese saranno poche. A stento l'Ue riuscirà a racimolare la quota 2010 per il "fast start": gli aiuti comunitari ai paesi in via di Sviluppo, e i singoli Stati continuano a spingere per un maggiore coinvolgimento della finanza privata. A quanto pare la comunità internazionale potrebbe presto smarcarsi dalla lotta contro il riscaldamento globale e permettere che su di essa continui una speculazione finanziaria vecchia di 15 anni. PeaceReporter ha intervistato Elena Gerebizza, specialista di finanza per lo sviluppo per la Campagna per la riforma della Banca Mondiale.

A quanto pare la prima notizia uscita dalla giornata inaugurale del vertice, è quella sull'austerity, che da oggi dovrà applicarsi anche alla lotta contro il global warming.

Per quanto riguarda i cambiamenti climatici si dice già da molto tempo che che non ci sono i fondi. La realtà è che manca ancora, ed è mancata anche l'anno scorso a Copenaghen, la volontà politica di trovare una soluzione accettabile per tutti i governi, sia per quelli dei Paesi sviluppati che quelli in via di sviluppo che poi sono quelli che soffrono di più gli impatti e hanno bisogno dei finanziamenti per fare gli interventi necessari alla loro salvaguardia.

Il commissario Connie Hedegaard ha sostenuto che si possono raccogliere i 7,2 miliardi di euro per il pacchetto "fast start" ma che mancano ancora 200 milioni per la manovra 2010. Manca l'impegno economico degli Stati?

Attorno alla questione finanziaria si snodano tutte le altre questioni discusse al negoziato. Fino a che non si troverà un accordo su tutte le altre parti, inclusa la riduzione delle emissioni interne, nessuno metterà i soldi sul tavolo. Inoltre, ieri, si è annunciato che si parlerà dopo Cancun del come generare le risorse fiscali necessarie. Questo significa che manca la volontà di affrontare il problema; è vero che servono quantità di denaro mai viste prima, cifre che viaggiano sulle centinaia di miliardi di euro all'anno e che sono più di dieci volte superiori a quelle destinate all'aiuto pubblico allo sviluppo, però non è vero che non è possibile trovare la maniera di generarle, e di farlo da risorse pubbliche.

Invece c'è chi azzarda con maggiore insistenza la necessità di coinvolgere la finanza privata nella battaglia per il clima. È una strada percorribile?

Questa è la strada su cui spingono i governi europei, gli Stati Uniti e istituzioni internazionali come la Banca Mondiale. È ancora un quesito irrisolto: quello che, ad oggi, si sa è che il mercato dei crediti di carbonio, che poi viene visto come la principale fonte di finanza privata e come lo strumento che permetterebbe di trovare gli strumenti necessari direttamente sui mercati finanziari, non ha portato ai risultati attesi. Se guardiamo alle riduzioni di emissioni, il risultato è stato negativo, in quanto le emissioni complessive sono aumentate nei quindici anni in cui questo strumento ha iniziato a essere sperimentato e sviluppato. La stessa Banca Mondiale ha ammesso che il Clean Development Mechanism (uno dei due meccanismi flessibili del protocollo di Kyoto) non ha funzionato. Il sistema dovrebbe permettere alle aziende di realizzare progetti al di fuori dei Paesi sviluppati (chiamati annex 1 ndr), e in questa maniera non solo aiutare alla transizione verso un'economia a basse emissioni, ma anche contribuire a raccogliere i finanziamenti necessari a fare questi investimenti.

Invece cosa è accaduto rispetto alla teoria?

Si sono visti, e si vedono, sempre più scandali che riguardano vere e proprie frodi riferite a una compravendita di certificati di riduzione delle emissioni che poi non sono reali. Questo è il terreno più interessante e favorevole per tutti quegli investitori che vogliono fare un profitto facile e a breve termine, senza troppe preoccupazioni. Perché è un mercato ancora non regolamentato, le transazioni avvengono bilateralmente, al di fuori delle regole del mercato. Quindi la percorribilità della strada dipende dalla prospettiva degli attori coinvolti e di ciò che si vuole. Se cerchiamo una soluzione sostenibile che contribuisca realmente a risolvere la questione dei cambiamenti climatici, la risposta è no, se invece parliamo dalla prospettiva degli investitori spregiudicati che cercano solo il profitto, allora il mercato si presenta più interessante.

Cancun potrebbe essere l'occasione per pensare seriamente al post-Kyoto. In questa nuova visione, dovrebbe essere eliminato il meccanismo dei crediti di carbonio?

Sicuramente Cancun deve essere il luogo dove si raggiungerà un accordo sulla seconda fase dell'implementazione del protocollo di Kyoto e speriamo sia anche un momento nel quale si faccia un passo in avanti anche sull'accordo globale che i governi stanno cercando di raggiungere da un po'. La critica della società civile sui meccanismi flessibili, introdotti nel protocollo di Kyoto, è molto forte, quindi se da un lato anche le organizzazioni e la parte più radicale della società civile credono che si debba passare a una seconda fase di implementazione, la richiesta è anche che vengano tolti i meccanismi flessibili, proprio perché non hanno portato a un valore aggiunto, sia rispetto ai finanziamenti, che rispetto alla riduzione di emissioni. Inoltre, sempre più progetti collegati al mercato dei crediti di carbonio, come quello sulle foreste, hanno portato a violazioni di diritti umani. Le comunità indigene non sono mai state consultate. Non sono progetti pensati per migliorare la qualità della vita di chi vive sul territorio dove vengono realizzati, ma solamente per creare sulla carta queste riduzioni di emissioni che, poi, vengono comprate e vendute un numero infinito di volte sui mercati finanziari a puri fini speculativi.

Antonio Marafiot

12 dicembre 2010

Frane e alluvioni, ecco l’Italia senza difese

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Legambiente e Protezione civile presentano il nuovo rapporto sulla sicurezza del territorio. Oltre 3,5 milioni di persone vivono in aree pericolose. Poche risorse per la prevenzione.
Moderni argini dei fiumi realizzati non per la messa in sicurezza del territorio ma come alibi per continuare a costruire. Addirittura nei casi più gravi, le opere idrauliche previste restano sulla carta, a differenza dei nuovi quartieri che invece vengono costruiti immediatamente. «È il caso di Crotone - denuncia Simone Andreotti, responsabile protezione civile di Legambiente - perché questa rischiosa urbanizzazione continua tuttora. Non è una scomoda eredità del passato». È la fotografia scattata dal rapporto “Ecosistema rischio 2010”, realizzato da Legambiente e dal dipartimento della Protezione civile, che è stato presentato ieri a Roma. «L’Italia si scopre sempre più fragile», spiega il dossier, soprattutto a causa del «troppo cemento lungo i corsi d’acqua così come a ridosso di versanti franosi».

Tanto che nell’82 per cento dei Comuni ci sono abitazioni costruite in aree a rischio frane o alluvioni, nel 54 per cento frabbricati industriali e nel 19 per cento strutture pubbliche sensibili come scuole e ospedali. Numeri che portano a ritenere che in Italia oltre 3 milioni e 500mila persone siano quotidiamente esposte al pericolo di frane o alluvioni. Del tutto insufficiente l’azione di prevenzione svolta dal governo e dagli enti locali. «Realizziamo questo rapporto da otto anni - continua il responsabile Protezione civile di Legambiente - è purtroppo il quadro continua ad essere desolante». Perché nonostante i fondi stanziati dal governo, il 18 novembre il Cipe ha approvato interventi per 177 milioni che arrivano dopo «il frequente ripetersi di precipitazioni con carattere alluvionale, come quelle più recenti che hanno sconvolto prima la Liguria e la Toscana, poi il Veneto e a Calabria e infine la Campania».

Briciole rispetto ai circa 650 milioni di euro, stanziati nell’ultimo anno dallo Stato per far funzionare la macchina dei soccorsi durante le emergenze idrogeologiche: da Giampilieri (ottobre 2009) fino al Veneto e alla provincia di Salerno (novembre scorso). Tanto che il ministro dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo, è arrivata ai ferri corti con il titolare dell’Economia Tremonti, proprio sulla richiesta di prevedere nella Legge di stabilità un fondo speciale di 500 milioni per far i Parchi nazionali ma soprattutto per far fronte alla prevenzione del dissesto idrogeologico che gli ambientalisti ritengono «la vera grande opera di cui avrebbe bisogno l’Italia». Peggio che andare di notte, riguardo agli interventi degli enti locali: «Il 78 per cento delle amministrazioni è in ritardo nella prevenzione - denuncia il rapporto - e il 43 per cento dei Comuni non fa praticamente nulla per prevenire i danni da frane a alluvioni».

A conti fatti «sono appena il 22 per cento i Comuni che intervengono nella mitigazione del rischio in modo positivo». Anche nella prevenzione del rischio idrogeologico c’è un’Italia a due velocità: «Perché - conclude Andreotti di Legambiente - se il Veneto ha il 45 per cento dei Comuni che svolgono un lavoro di mitigazione del rischio, valore comunque insufficiente, al Sud si scende al 7 per cento della Sicilia. Cifre veramente difficili». Nella classifica stilata da “Ecosistema rischio” soltanto un Comune raggiunge la classe di merito “ottimo”: è Senigallia, nelle Marche, dove «a seguito di interventi di delocalizzazione, non sono presenti abitazioni o industrie in aree a rischio idrogeologico e viene realizzata un’ordinaria attività di manutenzione delle sponde e di informazione della popolazione».

In totale «solo il 6 per cento dei Comuni ha intrapreso attività di delocalizzazione di abitazioni in aree a rischio, appena il 3 per cento di insediamenti a fabbricati industriali». La maglia nera va a sette Comuni che ottengono addirittura “zero”: Bolognetta e Ravanusa (Sicilia), Coriano (Emilia Romagna), San Roberto e Fiumara (Calabria), Paupisi e Raviscanina (Campania), dove «è presente una pesante urbanizzazione delle zone esposte a pericolo frane e alluvioni e non sono state svolte attività di mitigazione, né dal punto di vista della manutenzione del territorio, né dall’attivazione di un corretto sistema comunale di protezione civile».

di Alessandro De Pascale

08 dicembre 2010

Banca del cibo? No, cibo della banca

Ogni volta che un qualche "vip" è visto mangiare un po’ di tofu, subito scrosciano gli applausi. Senz’altro si può affermare che le vecchie rockstar in cerca di mantener la linea o gli ex presidenti USA che hanno capito che c’è un nesso tra dieta e prevenzione dell’infarto, costituiscano un buon esempio da imitare, almeno che c’è chi ci tiene e ci pensa se non altro per sé (“We care”).

Al di là di queste belle notizie però, la situazione alimentare moderna mondiale è alquanto seria. Le vendite oggi dei cibi "Bio" in Europa ammontano solo al 2% dei consumi UE (26 paesi). In pratica, 21 M di € contro ad esempio 24 M di € in merendine confezionate. La realtà è ben altra cosa, ed è che la grande industria alimentare è la causa numero uno dello squilibrio alimentare, in pratica della fame, nel mondo odierno. Vediamo ora come il capitalismo finanziario dei disastri tragga vantaggio solo per il denaro in se’ dalla produzione di alimenti scadenti, purché altamente industrializzati.

Chi non l’avesse ancora fatto, si legga il libro del 2007 di Naomi Klein “Shock Economy, l’ascesa del capitalismo dei disastri”. In esso l’Autrice sostiene che fenomeni sociali straordinari come la guerra in Iraq e disastri naturali come i grandi terremoti, alluvioni ecc. siano sempre un’opportunità usata dalla grande industria attraverso i politici al potere da lei sostenuti per far passare nuove leggi straordinarie che mai sarebbero state accettate in situazioni normali. Questa forma di opportunismo sociale di solito è altamente apprezzata negli ambienti finanziari in quanto produttiva di lauti guadagni. Per l’industria alimentare il disastro da tramutare in grandi profitti è la penuria alimentare che affligge il Pianeta. La scarsità di cibo è stata sventolata sotto i nostri occhi da almeno 40 anni (senza tener conto delle antiche predizioni, del tutto errate, da parte di Malthus e altri corvi di sciagura) ma è ora assai più vicina a realizzarsi ovunque, facendosi sentire tanto nei paesi “in via di sviluppo” quanto in quelli sviluppati, cioè da noi.

Una delle strategie del capitalismo dei disastri è quella di attendere che i problemi si manifestino in tutta la loro gravità prima di passare all’azione. Infatti, non ci sarebbe sufficiente reazione emotiva per far passare misure in loro favore senza l’urgenza del disastro, e quindi mancherebbero i guadagni colossali. Pertanto si va dal “preoccupante” al “problematico” prima di arrivare a “disastro” nel loro linguaggio echeggiato da stampa e televisioni. L’Escalation di termini conduce a una serie di misure d’emergenza spacciate per soluzioni – non c’è tempo, bisogna agire in fretta! Proprio quando c’è bisogno di studiare in dettaglio e di tanta moderazione, si agisce in fretta e furia.

Primo esempio: L’impoverimento dei contadini. I piccoli agricoltori a regime famigliare o simile in tutto il Pianeta non possono tenere prezzi che reggano la concorrenza con quelli dell’agricoltura aziendale industrializzata, di grande scala e altamente meccanizzata. Per salvarsi hanno due possibilità: una è quella di produrre alimenti da export, esotici in nazioni più ricche, allo scopo di accrescere i guadagni. In Italia ciò vale soprattutto per il vino. La seconda possibilità è quella di coltivar cereali per bio-fuel ovvero, trasformarli in carburante per motori a scoppio. Le sole vendite di terreni agricoli in Africa dell’ultimo anno ammontano per un terzo a terreni destinati a questo tipo di raccolti.
La Jatropha è una nuova pianta che viene promossa in Africa e Sud America come un aiuto per i piccoli coltivatori, produce olio facilmente convertibile in bio-fuel. La grande resa si trasforma però subito in consumi massicci di acqua e di pesticidi mentre i consorzi agrari vendono a vagonate semi di questa nuova “rivoluzione Verde” in paesi dove la fame è endemica, per cui diventa necessario importare cereali e alimentari dall’estero, sovente sotto forma di aiuti altre volte acquistati con maggiore debito. Indovinate chi paga, e indovinate chi ci guadagna.

Secondo esempio: l’aumento della popolazione. Avrete sentito dire che si proietta la crescita della popolazione mondiale oltre i 9 miliardi, secondo alcune stime, peraltro controverse e non certe, per la metà del presente secolo. Nove miliardi che ogni giorno si dovranno sedere da qualche parte a mangiare qualcosa. Anche questo problema è sempre stato rinviato al futuro fino a che non si presenta l’ennesima “crisi da aumento di popolazione”.
La soluzione rapida e definitiva è alla portata: basta mettersi a produrre massicciamente cibi geneticamente modificati che resistono ai parassiti, usano solo certi pesticidi e dovrebbero aumentare la resa: chi si oppone agli OGM farà così la figura dell’ecologista sentimentale, egoista e senza cuore che per le sue fisime - “non scientificamente provate” direbbe Veronesi – causa la fame dei poveretti…Intanto Monsanto ci fa un figurone. Peccato che la realtà sia completamente un’altra.

Terzo: I crescenti prezzi agricoli alimentari. La risposta qui è scambiare quantità con qualità. Si forniscono alimenti scadenti ma di massa ai più poveri, sempre provenienti da cibi molto trattati e industrializzati. Troverete sempre abbondanza di fast-food nei quartieri bassi, macchinette distributrici nelle fabbriche, merendine/immondizia nelle scuole. Il fatto è che i pochi che lavorano duro devono mangiare con poco e velocemente, mentre chi non lavora ha bisogno di ridurre al massimo la spesa alimentare. Aggiungi la mancanza di cultura, gli slogan fasulli piantati ad arte dalla pubblicità ingannevole e dagli “esperti” televisivi prezzolati, ed ecco che la povertà nutritiva ha tutti i sostegni che necessita; i signori del fast-food sono maestri di cibi saporiti ed economici.
I governi dal canto loro continueranno sempre a finanziare con aiuti di Stato carni, latte e pollame per rassicurare il grande pubblico con la presenza di alimenti familiari sulla tavola, anche se l’evidenza scientifica e dei fatti ha provato da tempo che questi consumi in eccesso siano malsani e apportatori di patologie degenerative. Lo continuano a fare perché l’industria alimentare li appoggia e finanzia completamente attraverso i finanziamenti alle campagne elettorali dei politici, e questo vale per tutti gli schieramenti e partiti indistintamente. Si sta già configurando infine una pseudo-Linea Verde nei fast-food per giovani ed ecologisti dilettanti, a base di banco delle insalate, burger alla soia OGM e ben presto avremo pannelli solari ed eliche eoliche vicino alla grande M a forma di tette appetitose simbolo di McDonald’s.

Quarto: Le riserve di pesce in esaurimento. Enormi navi-officina solcano i mari espellendone i piccoli pescherecci, esaurendo le scorte e massacrando le riserve di piccoli pesci in crescita col metodo della pesca di massa industrializzata. Su di esse il pescato è lavorato in catene di produzione fino al prodotto pronto surgelato magari anche precotto. Questa politica estrattiva produce immani squilibri ambientali e sprechi, con conseguente impoverimento del patrimonio ittico. Una seria politica di autocontrollo della pesca con metodi e calendari precisi permetterebbe di conservare il patrimonio di pesci in riproduzione, ma onde tenere altissimi i ricavi bisogna invece allarmare il pubblico con le false notizie per cui l’industria ha già pronta la nostra salvezza: il pesce OGM! Pronto su ogni tavola, le ultime pastoie e scrupoli dei tradizionalisti (oh come son lenti, questi antimodernisti e antiprogressisti, non vedete che il mondo ha fame e noi grandi forze del Progresso lo sfameremo?) cadono in fretta, tra poco FDA (Ministero dell’Agricoltura USA) approverà senza riserve. Avrete salmoni a crescita rapida, dimezzata come tempi e di maggiori dimensioni; magari poi lo scienziato del progresso inarrestabile penserà ad un nuovo modello di salmone con le zampe in modo da uscirsene dall’acqua da solo, così avremo pescatori in esubero a cui penserà la cassa integrazione mentre i salmoncini tutti in fila se ne entreranno nelle fabbriche automatizzate, sulle loro zampine. E’ un sogno, per ora, ma presto... Un maiale più umanizzato anche per farne organi simil-umani da trapiantare (mi raccomando anche la faccia, signori politici!) ed una capra da latte chimicamente simile a quello umano sono già in fase sperimentale avanzata. Aspettiamoci di vedere dei bimbi brucare l’erba nelle aiuole del giardino di casa, e bimbi molto, molto ubbidienti che si muovono tutti insieme, come un gregge…
E’ importante che tutti coloro i quali nutrano una qualche preoccupazione per il futuro del pianeta, per la qualità di vita e di alimentazione umana non permettano a questi argomenti di scivolare nel dimenticatoio o nelle chiacchiere da bar o peggio nelle polemiche televisive. Si dovranno scoprire nuove maniere di comunicazione in modo anche di trasmettere al pubblico una nuova educazione alimentare non più fondata sul “mangiare di tutto un po’” perché in realtà l’industria decide quel “tutto” e lo incanala verso le sue precise scelte di profitto, facendoti poi credere che “si è sempre mangiato così”. Questa è la grande opportunità che ci sta dando la Grande Crisi in atto ora e per molto tempo ancora. Se no, a che servono le crisi, se non a riflettere?


di Roberto Marrocchesi