07 gennaio 2011

Finmeccanica, un’industria in ostaggio

Prima che Bush uscisse di scena, nel Novembre del 2009 durante un ricevimento alla Casa Bianca, Berlusconi apprestandosi a leggere il discorso in cui avrebbe rinnovato la fedeltà, la stima e la profonda amicizia che lo legava al Presidente, alla sua famiglia ed agli Stati Uniti, avvicinandosi al leggìo preparato per gli ospiti incespicò nel filo del microfono, trascinandosi dietro mobile ed appunti. Il patatrac sollevò tra i tavoli dei presenti un lungo “uuhhh” di stupore.
L’imbarazzo che colpì il Presidente del Consiglio mentre riacquistava l’equilibrio sulle gambe e tentava di dare ordine ai fogli volati via, raccogliendoli da terra, non poteva non dare un tocco di comicità al ruzzolone. Ma il peggio arrivò nei secondi successivi.
Berlusconi, per rimediare alla gaffe, non trovò di meglio che sfoderare un sorriso a 36 denti rivolgendo ai commensali la seguente battuta: “Vedete – disse – queste sono cose che succedono per il troppo amore che mi lega a voi e alla vostra grande Nazione”. Quello che uscì in quel frangente dalla bocca di Berlusconi fu un mix di manifesta condivisione del “way of life” USA e di stomachevole, interessata ruffianeria. La frase, accompagnata da un largo gesto benedicente delle braccia, venne accolta da un battimani molto composto, quasi di semplice cortesia, dall’establishment di Washington mentre Bush continuava a ridersela sotto i baffi.
Appena trenta giorni prima, l’Amministrazione USA gli aveva fatto sapere che la commessa AW-101 di Agusta Westland, consociata controllata al 100% da Finmeccanica, era stata semplicemente tagliata fuori dalle forniture del Pentagono. La firma definitiva sulla cancellazione la metterà il Presidente Obama.
Era andata in fumo per l’Italia la vendita oltreoceano di 23 elicotteri da trasporto del valore, nel 2005, di 6.5 miliardi di dollari.
La disdetta (ufficiosa) era stata anticipata a Palazzo Chigi con un fax partito da Via Vittorio Veneto, con la motivazione che il costo finale stimato (!) della commessa avrebbe superato i 13 miliardi di dollari e… in previsione di una riduzione di spese… bla bla bla.
Il “regalino” portava la firma dell’ambasciatore statunitense in Italia Ronald Spogli, prima che gli subentrasse David Thorne.
Non si scomodarono per dargliene notizia né il Segretario di Stato C. Rice né quello alla Difesa R. Gates. Il disappunto del Presidente del Consiglio, se c’era stato, svanì alla svelta.
Un “increment”, quello da 6.5 a 13 miliardi di dollari, determinato dalle continue pressioni del Servizio di Protezione della Casa Bianca e dallo stesso Pentagono per dotare i velivoli ad ala rotante di Agusta Westland di allestimenti faraonici inizialmente non previsti e di costosissime attrezzature aggiuntive di navigazione e di sicurezza per i Marine One della Casa Bianca e per le Forze Armate USA. Le pressioni delle potenti lobbies dell’industria aeronautica statunitense, Sikorsky in testa, avevano fatto il resto.
Un piano finalizzato al puro e semplice sabotaggio dell’appalto, civile e militare, ottenuto dall’Italia.
Le leggi degli Stati Uniti prevedono, al superamento del 20% dei costi inizialmente previsti dalle commesse affidate dal Pentagono a società USA o di altri Paesi, un riesame a Camera dei Rappresentanti e Senato per ottenere il via libera al mantenimento dei numeri di fornitura sottoscritti con i committenti.
I Governi italiani, “maggioranza & opposizione”, sull’acquisizione fin qui mantenuta di 131 (!) F-35 “stealth” della Lockheed Martin, passati da un costo iniziale di 55-60 milioni di euro (ad esemplare) ad oltre 120, in 700 giorni, non hanno mosso foglia. Ma c’è di ben più grave da segnalare.
Gianandrea Gaiani, che ha lavorato per Analisi Difesa e scrive su Il Sole-24 ore, ha quantificato per il fine anno 2010 il costo in uscita dalle linee di montaggio del jet militare Lockheed Martin a… 180-200 milioni, senza addestramento piloti, ricambi ed armi di bordo. Se non andrà alla deriva l’intero progetto, come ci auguriamo. La notizia, clamorosa, ha trovato conferma sia negli ambienti diDedalonews, dell’A.M.I e di Confindustria sia negli esperti di settore. Il tutto mentre La Russa si esibiva nel talk-show “Anno Zero” di giovedì 16 Dicembre dando sfoggio di una flagrante imbecillità, con tanto di pagliaccesca esibizione nel contradditorio (urlato) con Di Pietro, lo studente Cafagna e Michele Santoro.
Un Ministro della Difesa che, per congedarsi dallo studio televisivo, cercava la mano ostentatamente rifiutatagli dal conduttore, per poi ripensarci e rimettersi seduto, continuando peraltro ad inveire come una “vajassa” contro i suoi avversari.
Insomma una prestazione, quella di La Russa, fotocopia degli sbracamenti fior di macchiette alla Mussolini-Sgarbi, ma che evita come la peste di sollevare con l’Alleato USA una sola semplicissima “osservazione” verbale o scritta sull’aumento dei costi di quasi il 400% dell’F-35 nel giro di tre-quattro anni.
Cinque giorni più tardi, il titolare di Palazzo Baracchini, ormai conosciuto come il D’Annunzio del XXI° Secolo, sarà al Comando Operativo Interforze di Centocelle accanto ad un Napolitano che si spenderà, con trasporto atlantico a tutto tondo, per la “missione di pace” in Afghanistan.
Quella “missione di pace” in merito alla quale il generale Castellano della Folgore aveva ammesso pubblicamente, senza apparentemente compiacersene, durante un’intervista all’inviato del TG3 ad Herat, che il contingente italiano in ISAF NATO ha fatto, nel solo periodo del suo Comando al PRT-11 (sei mesi), “parecchi, parecchi morti” o come riportato da Fausto Biloslavo su Il Foglio che “i Tornado bombardano [con carichi bellici di 9 tonnellate a raid - nda] formazioni isolate della guerriglia su richiesta di radio Trinity” anche se – aggiungerà – “qualche volta bastano dei passaggi con le armi di bordo”, cannoni a tiro rapido Mauser da 27 mm.
Con questi chiari di luna pregressi, La Russa avrà la faccia tosta di raccontarci qualche mese dopo la favoletta degli AMX senza carico bellico per sole “uscite” di ricognizione diurna e notturna.
Lo potrà fare senza che un solo operatore dell’”informazione pubblica e privata” metta in dubbio la colossale menzogna.
Per rendere credibile la pastetta, l’Aeronautica Militare e la NATO forniranno un’ampia documentazione fotografica, ad altissima definizione, dei cacciabombardieri AMX da attacco al suolo in “conformazione pulita” come si usa dire in gergo militare, senza bombe laser od a caduta libera sotto gli attacchi, mentre stazionano nelle aree dell’aeroporto di Herat o sono in volo di formazione.
Ripartiamo dai G-222.
A quanto ne sappiamo, l’ Italia ha venduto agli USA 18 G-222 ricondizionati (C-27 A) da trasporto logistico destinati alle forze armate afghane, valore 287 milioni di euro, per interessamento di Alenia North America su input del titolare di Palazzo Baracchini.
Una triangolazione che appare opacissima, sulfurea, meritevole di passare, a tempo debito, al filtro di un microscopio.
L’Italia, dal canto suo, avrebbe beneficiato, a quanto si sussurra, di uno “sganciamento anticipato” di 180 giorni sulla data prevista (?) da quel teatro di guerra e di un via libera per piazzare in Lituania, Romania, Slovacchia e Bulgaria 21 velivoli da trasporto C- 27 J Spartan costruiti da Alenia Aeronautica.
Senza nulla osta USA l’ Alenia è impedita ad assemblarli ed esportarli verso Paesi che ne facciano richiesta ai nostri Governi. Il perchè è presto detto. I componenti elettronici di navigazione, di difesa passiva ed i motori ad elica “made in USA” che imbarcano, ne vietano tassativamente l’esportazione senza il consenso di Washington e della NATO, per evitare la diffusione di tecnologia militare occidentale verso Paesi ed aree regionali “antagoniste”.
Da quando va avanti questa storia?
Dal 1945, con la liquidazione coatta di tutte le fabbriche aeree e motoristiche nazionali. Se la guerra, come si sostiene, l’ha persa il fascismo, l’Italia ha perso, pagandola cara, la pace. Per capirlo basta aprire gli occhi e guardare in faccia la realtà.
Nel dopoguerra ce la siamo cavata volando con i C-119 Fairchild con due motori radiali Wright, poi con i C-130 Lockheed Martin a quattro motori Allison-Rolls Royce.
Successivamente i vincitori a stelle e strisce hanno allentato la briglia.
Si fa per ridere.
Nel 1978 la FIAT è stata autorizzata a costruire la cellula del G-222 con montaggio di due turbine General Electric, con esportazione vietata del trasporto militare in tutti i Paesi con interessi politici, economici e militari divergenti, potenzialmente conflittuali o conflittuali con quelli di USA e NATO.
Condizione subalterna che ci ha costretto fino ad oggi a raccogliere le briciole che cadevano dal piatto dell’Alleato di Oltreoceano.
Per il trasporto tattico C-27 Spartan J, che uscirà dalle linee di montaggio Alenia Aeronautica a partire dal Settembre 1999, la solfa non cambierà: motorizzazione, anche in questo caso, con due turbine Rolls Royce-Allison. Più affidabili, con più potenza erogata ma sempre costruite negli Stati Uniti.
Siamo ancora a dover far di conto dopo 65 anni con un passato che non passa. E’ ora di dire basta, perché cessi questo scempio, questo distruttivo calpestìo sotto gli zoccoli USA della “sovranità nazionale” e degli interessi, presenti e futuri, del Paese.
Perfino gli aerei della Protezione Civile hanno motori ad elica “made in Canada” con motorizzazione USA Pratt & Whitney.
Nel frattempo, nell’intento di “allargare” il mercato, Finmeccanica il 13 Maggio del 2008 acquisterà in nord America il 100% di DRS Technologies per un importo di 5.2 miliardi di dollari, compresa l’assunzione di 1.2 miliardi di indebitamento netto che ne facevano una società abbondantemente decotta, che si apprestava a chiudere i battenti per una crescente penuria di commesse dal Pentagono.
I termini dell’accordo finiranno per garantire all’Amministrazione USA un affare grosso come una casa ed una perdita di eguali dimensioni per l’Italia.
Finmeccanica, proprietaria al 100% di DRS, manterrà la sede principale a Parsippanny nello stato di New York ed in carica l’intero gruppo dirigente di formazione USA, compreso il Presidente ed Amministratore Delegato Mark
Newman. Un’altra flagrante operazione in “rosso” dopo lo scorporo da DRS dei rimanenti “settori a tecnologia avanzata” transitati verso altre società del settore “sicurezza” e la clausola accettata e sottoscritta da Finmeccanica, al momento dell’acquisizione, delle disposizioni contenute nello Special Security Agreement per garantire agli Stati Uniti la tutela delle “informazioni classificate” anche a contenitore largamente saccheggiato.
Apparendo debolissima una motivazione industriale, di penetrazione Finmeccanica nel mercato USA, l’acquisto di DRS da parte di Guarguaglini & soci non può non apparire una costosissima compensazione per delle mosse azzardate nel settore dell’approvvigionamento e del trasporto energetico o di qualche collaborazione “fuoricampo” nelle costruzioni aeronautiche ad uso passeggeri.
Insomma, se Alenia partecipa alla costruzione del Sukhoi Superjet 100 in Russia con il 51%, l’America si arrabbia, ce lo fa sapere e ci boicotta facendoci perdere centinaia e centinaia di milioni di euro magari con l’AW-101, costringendoci a ripensare partners ed investimenti, magari con qualche minaccia obliqua a destra e manca od imponendoci l’acquisto di un numero esorbitante di costosissimi bidoni “stealth” come l’ F-35.
E la musica non cambia con repubblicani o democratici, con bianchi e neri.
A Maggio 2007 la quotazione di Finmeccanica era di 23.38 euro ad azione, a Gennaio 2010 è scesa a 10.05 (meno della metà!), oggi si attesta ad 8.50, con un calo percentuale nell’anno trascorso di circa il 15%.
L’indebitamento finaziario netto dal 2005 al 2008 è salito da 1.100 a 3.383 milioni di euro. Mancano dal prospetto della Società, dal 2006, i dati del valore complessivo della produzione. Gran brutto affare.
Da asset pubblico strategico per il Paese Finmeccanica sta lentamente precipitando in una condizione finanziaria d’emergenza.
Ed è questo che ci preoccupa.
Temiamo che in prospettiva possano esserci più bilanci in rosso, con lo spettro di una cessione progressiva di quote appartenenti al Ministero dell’Economia e Finanze e consistenti perdite di occupazione ad alta specializzazione, per arrivare poi alla privatizzazione ed alla vendita dell’intero conglomerato, a prezzi stracciati, ad investitori “privati”.
Il Nuovo Pignone dell’ENI fu il primo assaggio di un’industria strategica per l’economia nazionale venduta per un tozzo di pane alla General Electric (guardacaso), pur avendo centinaia e centinaia di miliardi di ordini, in lirette, nel portafoglio ed un bilancio in attivo.
Quindi se Prodi non diventò rosso di vergogna in quell’occasione… e tutto passò alla grande in cavalleria… è lecito pensare al peggio.
Nell’aria intanto stanno fluttuando segnali più che preoccupanti.
Secondo indiscrezioni, potrebbero venir fuori provvedimenti di messa in mobilità per 1.500 lavoratori del Gruppo guidato da Pierfrancesco Guarguaglini.
Alenia-Aermacchi, una consociata, ha previsto il ricorso alla cassa integrazione ed esuberi a livello regionale anche se al momento non è stato comunicato ai sindacati il numero delle “eccedenze” necessarie a contenere, si sostiene, lo stato di pre-crisi.
Per contro, Finmeccanica mantiene 78 costosissime sedi di rappresentanza negli USA di Ansaldo Breda, Ansaldo STS, Ansaldo Energia, Thales Alenia Space, MBDA, Alenia North America, Bell Agusta Aereospace, Selex Sistemi Integrati, Selex Galileo, Selex Communications, Global Military Aircraft Systems, Global Aeronautica, Telespazio North America, Oto Melara ed Elsagh Nord America, piene fino all’orlo di “raccomandati” a livelli di retribuzione adeguati alle “capacità professionali e promozionali” fra i 2.100 dipendenti.
Il Paese non può permettersi di continuare a gettare al vento preziose risorse finanziarie in quell’area, senza ritorni sufficienti a contenere almeno a livelli accettabili o, meglio, ad annullare le attuali ingenti perdite di gestione.

di Giancarlo Chetoni

06 gennaio 2011

La crescita di Pechino è davvero sostenibile?




L'Australia rappresenta l'esempio più lampante di come la crescita cinese sostenga la bolla finanziaria sostenuta dall'erogazione, a costo zero, negli Usa, in Europa e in Giappone, di denaro pubblico al sistema bancario.

Quando la crisi precipitò nel 2008 sembrava che per l'Australia le cose dovessero andare malissimo. Con il crollo dei prezzi mondiali delle materie prime il dollaro australiano si svalutò fortemente toccando i 48 centesimi di euro. Oggi il dollaro australiano si situa sui 77 centesimi ed ha superato il dollaro statunitense.
Tutto grazie alla Cina, che ha generato un enorme boom minerario, superiore alla grande la corsa all'oro della seconda metà del diciannovesimo secolo che trasformò l'Australia nella regione col reddito pro capite più alto al mondo. I capitali stanno affluendo nel paese sia per investimenti nelle attività minerarie che per via la politica della banca centrale di alzare i tassi di interesse alfine di controllare l'inflazione.

Ciò ha rilanciato il credito ai mutui ipotecari con prestiti fondati su aspettative di un continuo rialzo dei valori immobiliari. La bolla cinese ha pienamente inglobato il paese: un modesto calo del tasso di crescita di Pechino creerebbe delle voragini nella posizione debitoria delle famiglie e nell'esposizione delle banche.

Se le aspettative di lucro del sistema finanziario mondiale si appuntano sulla Cina e i paesi al suo traino, la crescita di quest'ultima sta giungendo a un punto di svolta. Sul China Daily del 23 dicembre scorso è apparso un articolo di grande importanza a firma di Yu Yongding, già membro della commissione per la politica monetaria della Banca del Popolo (centrale). La sua analisi è severissima. Lo sviluppo cinese ha dei costi esorbitanti col 50% del reddito assorbito dagli investimenti, 1/4 dei quali è destinato all'edilizia. Le autorità spingono a costruire per aumentare il Pil. Infatti l'esistenza di città nuovissime e disabitate è nota. In Cina, sottolinea Yongding, polveri e fumo stanno asfissiando le città, i maggiori fiumi sono gravemente inquinati e, malgrado i progressi realizzati, avanza la deforestazione e la desertificazione. Siccità, inondazioni e frane sono ormai fenomeni comuni, mentre l'incessante attività estrattiva esaurisce le risorse naturali.

Si impone, osserva l'articolo, un drastico mutamento di rotta, tuttavia l'industria cinese non riesce a superare il suo status di fabbrica di massa mondiale e trasformarsi in una forza di innovazione. Ne consegue che la dipendenza dalle esportazioni è strutturale: il cambiamento di rotta richiederebbe un aggiustamento molto doloroso.

A ciò si aggiunge il fatto che lo sviluppo cinese è stato fortemente orientato in favore degli strati più ricchi, mentre il governo ha fallito nel provvedere beni di utilità pubblica. Per l'autore dell'articolo, sebbene la crescita attuale non sia sostenibile, il paese è dominato da una ferrea alleanza tra burocrazia pubblica e strati capitalisti che hanno addirittura tratto beneficio dai tentativi di riforma.

La Cina, scrive Yongdin, «è il paese del capitalismo dei ricchi e dei potenti», questi difendono con ogni mezzo i loro interessi. In tale contesto la possibilità di usare in maniera socialmente razionale il surplus estero del paese sta scemando. L'analisi dell'autore mi risulta corretta e senza maschere nazionalistiche. Essa implica che in Cina il mutamento avverrà con una profonda crisi che coinvolgerà ampiamente il capitalismo americano, nipponico e anche europeo.
di Joseph Halevi

05 gennaio 2011

Palestina: quando arrivano le ruspe







La demolizione delle case: un decisivo tassello della pulizia etnica sionista

L’asimmetrico conflitto israelo-palestinese è una lotta per la terra che si consuma metro dopo metro, casa dopo casa, a danno della popolazione palestinese autoctona in patente violazione dei Trattati internazionali e della Convenzione di Ginevra.


Art 53, IV Convenzione di Ginevra (1949)
“È proibita da parte della Potenza Occupante qualsiasi distruzione di beni immobili o personali appartenenti, a titolo individuale o collettivo, a persone private o allo Stato o ad altre autorità pubbliche o a organizzazioni sociali o cooperative, eccetto laddove tale distruzione sia resa assolutamente necessaria da operazioni militari".
Il 9 novembre il quotidiano israeliano Haaretz riportava che, nonostante il rimprovero della Casabianca per la ininterrotta costruzione di abitazioni illegali sul territorio palestinese occupato (TPO), il piano israeliano di edificazione di centinaia di nuovi alloggi a Gerusalemme Est proseguiva imperterrito[1]. Contemporaneamente, in quegli stessi giorni, continuavano gli ordini di demolizione di case e di sfratto di famiglie palestinesi nella parte araba della città[2].

L’ICHAD (Comitato Israeliano Contro la Demolizione delle Case) stima che, dal 1967 al 28 luglio 2010, nel TPO siano state demolite 24.813 strutture abitative palestinesi, 2.000 soltanto a Gerusalemme Est. Dall’anno 2000 al gennaio 2009 sono state abbattute 10.105 case, una media di 1.011 all’anno. Il numero di ordini di demolizione ancora da eseguire e’ a tutt’oggi pari a circa 20.000[3].

Le autorità israeliane giustificano la demolizione di case con ragioni o militari (deterrenza e anti-terrorismo) o amministrative per la mancanza di permessi o la violazione di norme abitative. Secondo molte organizzazioni, come Amnesty International e il Comitato Internazionale della Croce Rossa, questi interventi hanno invece due principali motivazioni:
1. infliggere una “punizione collettiva” alla popolazione innocente (comportamento considerato un crimine di guerra dalla 4° Convenzione di Ginevra);
2. appropriarsi di territorio palestinese e, a Gerusalemme Est, modificare la percentuale della popolazione residente a favore della componente ebraica. Il primo tipo di demolizioni avviene soprattutto durante i periodi di conflitto armato; il secondo tipo, più importante in termini numerici e per il suo significato politico, si sta protraendo da decenni con un picco di particolare frequenza in questi ultimi mesi.

L’autorità israeliana persegue come illegali le costruzioni effettuate senza autorizzazione per le quali in genere fa seguire l’ordine di abbattimento. I palestinesi che vivono sotto occupazione israeliana a Gerusalemme Est e nell’area C della Cisgiordania sono sottoposti a divieti di edificazione talmente rigidi che molte famiglie devono subire la violenza distruttiva delle ruspe e la privazione del diritto ad una casa.

Gli Accordi di Oslo (1993) prevedevano che Israele mantenesse per alcuni anni il controllo civile e militare della cosiddetta Area C, equivalente a più del 60% della Cisgiordania. I circa 150.000 palestinesi che vivono in quelle zone soffrono di notevoli restrizioni a costruire e a muoversi liberamente. Migliaia di ettari (il 18% della Cisgiordania), in particolare la Valle del Giordano e le colline a sud di Hebron, sono classificati come “area militare inaccessibile” dove è vietato edificare.

A Gerusalemme Est, area della città occupata nel 1967 e annessa illegalmente nel 1980, Israele ha espropriato il 35% del territorio, circa 24 Kmq, allo scopo di costruire nuovi insediamenti ebraici. Su queste terre il governo israeliano ha finanziato l’edificazione di quasi 50 mila unità residenziali per la popolazione ebraica e meno di 600 per quella palestinese, l’ultima delle quali più di 30 anni fa[4]. Nonostante la popolazione palestinese rappresenti il 30% dell’intera Gerusalemme, essa è confinata sul 7% della superficie della città in abitazioni il più delle volte inadeguate. La maggior parte della terra che rimane nelle mani dei palestinesi, circa 45 Kmq, non è edificabile mentre negli ultimi 40 anni i residenti di Gerusalemme Est sono praticamente quadruplicati (da 69.000 a 273.000). Si stima che la crescita naturale della popolazione palestinese richiederebbe la costruzione di 1.500 unità abitative all’anno, mentre nel 2008 sono stati accordati soltanto 125 permessi che hanno consentito la costruzione di 400 alloggi.

A causa della crescente e soffocante densità abitativa nella parte palestinese della città, che nel 2002 era pari a quattro volte quella della zona ebraica occidentale, per i pochi palestinesi che ancora possiedono un pezzo di terra non rimane che sperare nella remota possibilità di un permesso di costruzione. Quando questo, come nella maggior parte dei casi, non arriva, non rimane che costruire abusivamente.

I palestinesi di Gerusalemme Est sono estremamente vulnerabili agli interventi di demolizione. Delle 46 mila abitazioni del settore orientale della città soltanto 20 mila sono state costruite con la dovuta autorizzazione. In qualsiasi momento, quindi, quasi la metà della popolazione palestinese di Gerusalemme può essere soggetta a sfratto o alla demolizione della propria casa. Il recente Piano regolatore[5], che cita esplicitamente tra i suoi obiettivi quello di mantenere l’”equilibrio demografico” tra residenti ebrei (70%) e palestinesi (30%), prevede 13.550 nuove unità abitative per la popolazione palestinese di Gerusalemme Est, 10 mila delle quali, tuttavia, da costruire soltanto nel 2030.

All’inizio degli anni 90, l’allora sindaco di Gerusalemme, Teddy Kollek, aveva riconosciuto esplicitamente la profonda ingiustizia delle demolizioni per una popolazione costretta a costruire illegalmente per l’assenza quasi totale delle dovute autorizzazioni. Contro la sua volontà di modificare le cose, tuttavia, la destra israeliana al governo aveva istituito un’apposita unità operativa a Gerusalemme Est, tuttora in funzione, che si occupa soltanto delle case abusive della popolazione palestinese. Nessun’altra unità del genere esiste in tutto Israele e nessuna abitazione di proprietà ebraica è mai stata demolita.

Quando arrivano le ruspe, la tragedia raggiunge il culmine. Accompagnate da agenti di polizia e soldati israeliani, le squadre di demolizione possono presentarsi in qualsiasi momento del giorno e della notte, concedendo soltanto un breve preavviso per rimuovere beni e masserizie. Secondo la legge militare israeliana, le famiglie sfollate non hanno diritto a ottenere un alloggio né a essere compensate. Se non vengono ospitate da familiari, amici o organizzazioni caritatevoli, sono abbandonate a se stesse[6].

È difficile quantificare il trauma e la sofferenza che comporta la distruzione della propria abitazione. La casa è più di una semplice struttura fisica e il suo significato è soprattutto simbolico. È il luogo dove si svolge la parte più intima dell’esistenza personale. È il rifugio, la rappresentazione fisica della famiglia e il posto dove si trovano gli oggetti più cari. Nella cultura palestinese la casa possiede un ulteriore significato. I figli che si sposano tendono a fissare la propria residenza accanto alla famiglia di origine allo scopo di preservare non soltanto la vicinanza fisica ma, soprattutto, una continuità nella proprietà della terra dei propri avi. Quest’ultimo aspetto è particolarmente importante per una società agricola e di rifugiati che hanno perduto la casa nativa a seguito dei conflitti del 1948 e del 1967. La demolizione dell’abitazione o la sua espropriazione rappresenta un’ulteriore aggressione all’identità di una persona[7].

Le famiglie le cui case sono demolite spesso non possono permettersene un’altra e devono contare sull’ospitalità di parenti o amici. Il trauma viene percepito in modo diverso da uomini, donne e bambini. L’uomo rimane profondamente umiliato per il senso di impotenza a proteggere la propria famiglia, la perdita dei legami con la terra dei suoi avi, la sua eredità e quella della sua gente. La maggior parte delle donne non lavorano fuori casa, la quale costituisce la loro principale sfera d’influenza ed è lo spazio che appartiene a loro. Esse sono quindi molto più traumatizzate dall’obbligo di trovare un’altra sistemazione, in un territorio altrui in cui non hanno più la responsabilità di gestire spazi e attività familiari. Vedono distrutta la propria immagine e il loro ruolo di mogli e di madri, il ruolo di chi dà praticamente espressione alla vita domestica. Una casa distrutta è come una persona cara che muore, un vuoto che non può essere colmato da soluzioni alternative che, in genere, si rivelano disastrose. Una donna costretta a sistemarsi in un’altra famiglia va ad occupare l’ambito vitale di un’altra donna (la madre o la cognata) e perde inevitabilmente il controllo su marito e figli[8]. La perdita della privacy causa spesso un aumento dei conflitti tra i membri della famiglia con un’esplosione della violenza domestica.

Salwa, 28 anni, così esprime la sua tragedia personale: “La gente potrà anche provare dispiacere quando sente il frastuono della demolizione, ma pensi che qualcuno sia capace di sentire la demolizione dei nostri cuori? dei nostri sogni? dei nostri programmi futuri? Credo che queste voci non siano mai udite. Pensi che si siano accorti della mia paura, della mia agonia, del mio orrore? Niente affatto. Paura, agonia, orrore non hanno voce, non fanno rumore, e l’occupazione militare non ha occhi, non ha moralità, non ha coscienza, non ha Dio” [9].

Nei bambini il trauma della demolizione della casa lascia un marchio indelebile che dura tutta la vita. Già nei mesi che precedono l’intervento demolitivo essi sono testimoni della paura e del senso di inadeguatezza dei propri genitori che vivono costantemente in un’atmosfera di insicurezza. All’arrivo delle squadre di demolizione, vedono i propri cari sottoposti a violenze e umiliati, circondati dal fragore delle ruspe che sradicano e distruggono la loro dimora, il loro mondo, i loro giocattoli. La presenza di decine di poliziotti, assistiti da soldati in tenuta da combattimento, disegna nella mente del bambino un quadro dei propri genitori come pericolosi criminali. Questo processo ha un enorme impatto sulle condizioni psichiche e fisiche di tutti membri della famiglia, non soltanto dei bambini.

La demolizione della casa è seguita da lunghi periodi di instabilità della famiglia. Secondo uno studio della ONG Save the Children[10], la maggior parte delle famiglie impiegano almeno due anni prima di trovare un luogo di residenza permanente. Un’altra ricerca rivela il profondo impatto psicologico sulle donne che tendono a sviluppare sintomi depressivi di vario tipo[11]. Altri studi hanno descritto gli effetti deleteri sui bambini che si manifestano con disturbi emotivi e comportamentali[12]. Le maggiori fonti di tensione nella famiglia sono, per i bambini, la sensazione di essere abbandonati e, per i genitori, la comparsa della depressione.

Commenta Meir Margalit, storico israeliano della comunità ebraica in Palestina ed ex-sionista radicale, “Non c’è nessun dubbio: il bulldozer prende posto accanto al carro armato come simbolo del modo in cui Israele si relaziona con i palestinesi. Entrambi i simboli dovrebbero comparire sulla bandiera nazionale. Entrambi sono espressione dell’aggressione che ha preso il sopravvento dell’esperienza nazionale israeliana. L’uno completa l’altro. Entrambi simbolizzano il lato oscuro del progetto che Israele sta portando avanti di sradicare ed espellere i palestinesi dalle terre in cui si trovano” [13].

Sia sul territorio israeliano sia nel TPO, Israele è vincolato dalla legislazione internazionale inclusi quei trattati internazionali sui diritti umani di cui Israele è uno Stato firmatario (State Party), come il Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali, il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici e la Convenzione Internazionale sull’Eliminazione di Tutte le Forme di Discriminazione Razziale. Nel Territorio Occupato, inoltre, la condotta di Israele come potenza occupante deve conformarsi ai dettati della legislazione umanitaria internazionale che si applica in tutti i casi di occupazione militare, compresa la 4° Convenzione di Ginevra relativa alla Protezione delle Persone Civili in Tempo di Guerra. Israele è l’unico Stato appartenente all’ONU che rifiuta di riconoscere i propri obblighi nei confronti della Convenzione di Ginevra nonostante le sconfessioni e le condanne ricevute in varie sedi dalla comunità internazionale, in particolare la Corte Internazionale di Giustizia[14].

di Angelo Stefanini
Angelo Stefanini - Centro Studi e Ricerche sulla Salute Internazionale e?Interculturale, Universita’ di Bologna. Coordinatore Sanitario Cooperazione Italiana – Gerusalemme.

07 gennaio 2011

Finmeccanica, un’industria in ostaggio

Prima che Bush uscisse di scena, nel Novembre del 2009 durante un ricevimento alla Casa Bianca, Berlusconi apprestandosi a leggere il discorso in cui avrebbe rinnovato la fedeltà, la stima e la profonda amicizia che lo legava al Presidente, alla sua famiglia ed agli Stati Uniti, avvicinandosi al leggìo preparato per gli ospiti incespicò nel filo del microfono, trascinandosi dietro mobile ed appunti. Il patatrac sollevò tra i tavoli dei presenti un lungo “uuhhh” di stupore.
L’imbarazzo che colpì il Presidente del Consiglio mentre riacquistava l’equilibrio sulle gambe e tentava di dare ordine ai fogli volati via, raccogliendoli da terra, non poteva non dare un tocco di comicità al ruzzolone. Ma il peggio arrivò nei secondi successivi.
Berlusconi, per rimediare alla gaffe, non trovò di meglio che sfoderare un sorriso a 36 denti rivolgendo ai commensali la seguente battuta: “Vedete – disse – queste sono cose che succedono per il troppo amore che mi lega a voi e alla vostra grande Nazione”. Quello che uscì in quel frangente dalla bocca di Berlusconi fu un mix di manifesta condivisione del “way of life” USA e di stomachevole, interessata ruffianeria. La frase, accompagnata da un largo gesto benedicente delle braccia, venne accolta da un battimani molto composto, quasi di semplice cortesia, dall’establishment di Washington mentre Bush continuava a ridersela sotto i baffi.
Appena trenta giorni prima, l’Amministrazione USA gli aveva fatto sapere che la commessa AW-101 di Agusta Westland, consociata controllata al 100% da Finmeccanica, era stata semplicemente tagliata fuori dalle forniture del Pentagono. La firma definitiva sulla cancellazione la metterà il Presidente Obama.
Era andata in fumo per l’Italia la vendita oltreoceano di 23 elicotteri da trasporto del valore, nel 2005, di 6.5 miliardi di dollari.
La disdetta (ufficiosa) era stata anticipata a Palazzo Chigi con un fax partito da Via Vittorio Veneto, con la motivazione che il costo finale stimato (!) della commessa avrebbe superato i 13 miliardi di dollari e… in previsione di una riduzione di spese… bla bla bla.
Il “regalino” portava la firma dell’ambasciatore statunitense in Italia Ronald Spogli, prima che gli subentrasse David Thorne.
Non si scomodarono per dargliene notizia né il Segretario di Stato C. Rice né quello alla Difesa R. Gates. Il disappunto del Presidente del Consiglio, se c’era stato, svanì alla svelta.
Un “increment”, quello da 6.5 a 13 miliardi di dollari, determinato dalle continue pressioni del Servizio di Protezione della Casa Bianca e dallo stesso Pentagono per dotare i velivoli ad ala rotante di Agusta Westland di allestimenti faraonici inizialmente non previsti e di costosissime attrezzature aggiuntive di navigazione e di sicurezza per i Marine One della Casa Bianca e per le Forze Armate USA. Le pressioni delle potenti lobbies dell’industria aeronautica statunitense, Sikorsky in testa, avevano fatto il resto.
Un piano finalizzato al puro e semplice sabotaggio dell’appalto, civile e militare, ottenuto dall’Italia.
Le leggi degli Stati Uniti prevedono, al superamento del 20% dei costi inizialmente previsti dalle commesse affidate dal Pentagono a società USA o di altri Paesi, un riesame a Camera dei Rappresentanti e Senato per ottenere il via libera al mantenimento dei numeri di fornitura sottoscritti con i committenti.
I Governi italiani, “maggioranza & opposizione”, sull’acquisizione fin qui mantenuta di 131 (!) F-35 “stealth” della Lockheed Martin, passati da un costo iniziale di 55-60 milioni di euro (ad esemplare) ad oltre 120, in 700 giorni, non hanno mosso foglia. Ma c’è di ben più grave da segnalare.
Gianandrea Gaiani, che ha lavorato per Analisi Difesa e scrive su Il Sole-24 ore, ha quantificato per il fine anno 2010 il costo in uscita dalle linee di montaggio del jet militare Lockheed Martin a… 180-200 milioni, senza addestramento piloti, ricambi ed armi di bordo. Se non andrà alla deriva l’intero progetto, come ci auguriamo. La notizia, clamorosa, ha trovato conferma sia negli ambienti diDedalonews, dell’A.M.I e di Confindustria sia negli esperti di settore. Il tutto mentre La Russa si esibiva nel talk-show “Anno Zero” di giovedì 16 Dicembre dando sfoggio di una flagrante imbecillità, con tanto di pagliaccesca esibizione nel contradditorio (urlato) con Di Pietro, lo studente Cafagna e Michele Santoro.
Un Ministro della Difesa che, per congedarsi dallo studio televisivo, cercava la mano ostentatamente rifiutatagli dal conduttore, per poi ripensarci e rimettersi seduto, continuando peraltro ad inveire come una “vajassa” contro i suoi avversari.
Insomma una prestazione, quella di La Russa, fotocopia degli sbracamenti fior di macchiette alla Mussolini-Sgarbi, ma che evita come la peste di sollevare con l’Alleato USA una sola semplicissima “osservazione” verbale o scritta sull’aumento dei costi di quasi il 400% dell’F-35 nel giro di tre-quattro anni.
Cinque giorni più tardi, il titolare di Palazzo Baracchini, ormai conosciuto come il D’Annunzio del XXI° Secolo, sarà al Comando Operativo Interforze di Centocelle accanto ad un Napolitano che si spenderà, con trasporto atlantico a tutto tondo, per la “missione di pace” in Afghanistan.
Quella “missione di pace” in merito alla quale il generale Castellano della Folgore aveva ammesso pubblicamente, senza apparentemente compiacersene, durante un’intervista all’inviato del TG3 ad Herat, che il contingente italiano in ISAF NATO ha fatto, nel solo periodo del suo Comando al PRT-11 (sei mesi), “parecchi, parecchi morti” o come riportato da Fausto Biloslavo su Il Foglio che “i Tornado bombardano [con carichi bellici di 9 tonnellate a raid - nda] formazioni isolate della guerriglia su richiesta di radio Trinity” anche se – aggiungerà – “qualche volta bastano dei passaggi con le armi di bordo”, cannoni a tiro rapido Mauser da 27 mm.
Con questi chiari di luna pregressi, La Russa avrà la faccia tosta di raccontarci qualche mese dopo la favoletta degli AMX senza carico bellico per sole “uscite” di ricognizione diurna e notturna.
Lo potrà fare senza che un solo operatore dell’”informazione pubblica e privata” metta in dubbio la colossale menzogna.
Per rendere credibile la pastetta, l’Aeronautica Militare e la NATO forniranno un’ampia documentazione fotografica, ad altissima definizione, dei cacciabombardieri AMX da attacco al suolo in “conformazione pulita” come si usa dire in gergo militare, senza bombe laser od a caduta libera sotto gli attacchi, mentre stazionano nelle aree dell’aeroporto di Herat o sono in volo di formazione.
Ripartiamo dai G-222.
A quanto ne sappiamo, l’ Italia ha venduto agli USA 18 G-222 ricondizionati (C-27 A) da trasporto logistico destinati alle forze armate afghane, valore 287 milioni di euro, per interessamento di Alenia North America su input del titolare di Palazzo Baracchini.
Una triangolazione che appare opacissima, sulfurea, meritevole di passare, a tempo debito, al filtro di un microscopio.
L’Italia, dal canto suo, avrebbe beneficiato, a quanto si sussurra, di uno “sganciamento anticipato” di 180 giorni sulla data prevista (?) da quel teatro di guerra e di un via libera per piazzare in Lituania, Romania, Slovacchia e Bulgaria 21 velivoli da trasporto C- 27 J Spartan costruiti da Alenia Aeronautica.
Senza nulla osta USA l’ Alenia è impedita ad assemblarli ed esportarli verso Paesi che ne facciano richiesta ai nostri Governi. Il perchè è presto detto. I componenti elettronici di navigazione, di difesa passiva ed i motori ad elica “made in USA” che imbarcano, ne vietano tassativamente l’esportazione senza il consenso di Washington e della NATO, per evitare la diffusione di tecnologia militare occidentale verso Paesi ed aree regionali “antagoniste”.
Da quando va avanti questa storia?
Dal 1945, con la liquidazione coatta di tutte le fabbriche aeree e motoristiche nazionali. Se la guerra, come si sostiene, l’ha persa il fascismo, l’Italia ha perso, pagandola cara, la pace. Per capirlo basta aprire gli occhi e guardare in faccia la realtà.
Nel dopoguerra ce la siamo cavata volando con i C-119 Fairchild con due motori radiali Wright, poi con i C-130 Lockheed Martin a quattro motori Allison-Rolls Royce.
Successivamente i vincitori a stelle e strisce hanno allentato la briglia.
Si fa per ridere.
Nel 1978 la FIAT è stata autorizzata a costruire la cellula del G-222 con montaggio di due turbine General Electric, con esportazione vietata del trasporto militare in tutti i Paesi con interessi politici, economici e militari divergenti, potenzialmente conflittuali o conflittuali con quelli di USA e NATO.
Condizione subalterna che ci ha costretto fino ad oggi a raccogliere le briciole che cadevano dal piatto dell’Alleato di Oltreoceano.
Per il trasporto tattico C-27 Spartan J, che uscirà dalle linee di montaggio Alenia Aeronautica a partire dal Settembre 1999, la solfa non cambierà: motorizzazione, anche in questo caso, con due turbine Rolls Royce-Allison. Più affidabili, con più potenza erogata ma sempre costruite negli Stati Uniti.
Siamo ancora a dover far di conto dopo 65 anni con un passato che non passa. E’ ora di dire basta, perché cessi questo scempio, questo distruttivo calpestìo sotto gli zoccoli USA della “sovranità nazionale” e degli interessi, presenti e futuri, del Paese.
Perfino gli aerei della Protezione Civile hanno motori ad elica “made in Canada” con motorizzazione USA Pratt & Whitney.
Nel frattempo, nell’intento di “allargare” il mercato, Finmeccanica il 13 Maggio del 2008 acquisterà in nord America il 100% di DRS Technologies per un importo di 5.2 miliardi di dollari, compresa l’assunzione di 1.2 miliardi di indebitamento netto che ne facevano una società abbondantemente decotta, che si apprestava a chiudere i battenti per una crescente penuria di commesse dal Pentagono.
I termini dell’accordo finiranno per garantire all’Amministrazione USA un affare grosso come una casa ed una perdita di eguali dimensioni per l’Italia.
Finmeccanica, proprietaria al 100% di DRS, manterrà la sede principale a Parsippanny nello stato di New York ed in carica l’intero gruppo dirigente di formazione USA, compreso il Presidente ed Amministratore Delegato Mark
Newman. Un’altra flagrante operazione in “rosso” dopo lo scorporo da DRS dei rimanenti “settori a tecnologia avanzata” transitati verso altre società del settore “sicurezza” e la clausola accettata e sottoscritta da Finmeccanica, al momento dell’acquisizione, delle disposizioni contenute nello Special Security Agreement per garantire agli Stati Uniti la tutela delle “informazioni classificate” anche a contenitore largamente saccheggiato.
Apparendo debolissima una motivazione industriale, di penetrazione Finmeccanica nel mercato USA, l’acquisto di DRS da parte di Guarguaglini & soci non può non apparire una costosissima compensazione per delle mosse azzardate nel settore dell’approvvigionamento e del trasporto energetico o di qualche collaborazione “fuoricampo” nelle costruzioni aeronautiche ad uso passeggeri.
Insomma, se Alenia partecipa alla costruzione del Sukhoi Superjet 100 in Russia con il 51%, l’America si arrabbia, ce lo fa sapere e ci boicotta facendoci perdere centinaia e centinaia di milioni di euro magari con l’AW-101, costringendoci a ripensare partners ed investimenti, magari con qualche minaccia obliqua a destra e manca od imponendoci l’acquisto di un numero esorbitante di costosissimi bidoni “stealth” come l’ F-35.
E la musica non cambia con repubblicani o democratici, con bianchi e neri.
A Maggio 2007 la quotazione di Finmeccanica era di 23.38 euro ad azione, a Gennaio 2010 è scesa a 10.05 (meno della metà!), oggi si attesta ad 8.50, con un calo percentuale nell’anno trascorso di circa il 15%.
L’indebitamento finaziario netto dal 2005 al 2008 è salito da 1.100 a 3.383 milioni di euro. Mancano dal prospetto della Società, dal 2006, i dati del valore complessivo della produzione. Gran brutto affare.
Da asset pubblico strategico per il Paese Finmeccanica sta lentamente precipitando in una condizione finanziaria d’emergenza.
Ed è questo che ci preoccupa.
Temiamo che in prospettiva possano esserci più bilanci in rosso, con lo spettro di una cessione progressiva di quote appartenenti al Ministero dell’Economia e Finanze e consistenti perdite di occupazione ad alta specializzazione, per arrivare poi alla privatizzazione ed alla vendita dell’intero conglomerato, a prezzi stracciati, ad investitori “privati”.
Il Nuovo Pignone dell’ENI fu il primo assaggio di un’industria strategica per l’economia nazionale venduta per un tozzo di pane alla General Electric (guardacaso), pur avendo centinaia e centinaia di miliardi di ordini, in lirette, nel portafoglio ed un bilancio in attivo.
Quindi se Prodi non diventò rosso di vergogna in quell’occasione… e tutto passò alla grande in cavalleria… è lecito pensare al peggio.
Nell’aria intanto stanno fluttuando segnali più che preoccupanti.
Secondo indiscrezioni, potrebbero venir fuori provvedimenti di messa in mobilità per 1.500 lavoratori del Gruppo guidato da Pierfrancesco Guarguaglini.
Alenia-Aermacchi, una consociata, ha previsto il ricorso alla cassa integrazione ed esuberi a livello regionale anche se al momento non è stato comunicato ai sindacati il numero delle “eccedenze” necessarie a contenere, si sostiene, lo stato di pre-crisi.
Per contro, Finmeccanica mantiene 78 costosissime sedi di rappresentanza negli USA di Ansaldo Breda, Ansaldo STS, Ansaldo Energia, Thales Alenia Space, MBDA, Alenia North America, Bell Agusta Aereospace, Selex Sistemi Integrati, Selex Galileo, Selex Communications, Global Military Aircraft Systems, Global Aeronautica, Telespazio North America, Oto Melara ed Elsagh Nord America, piene fino all’orlo di “raccomandati” a livelli di retribuzione adeguati alle “capacità professionali e promozionali” fra i 2.100 dipendenti.
Il Paese non può permettersi di continuare a gettare al vento preziose risorse finanziarie in quell’area, senza ritorni sufficienti a contenere almeno a livelli accettabili o, meglio, ad annullare le attuali ingenti perdite di gestione.

di Giancarlo Chetoni

06 gennaio 2011

La crescita di Pechino è davvero sostenibile?




L'Australia rappresenta l'esempio più lampante di come la crescita cinese sostenga la bolla finanziaria sostenuta dall'erogazione, a costo zero, negli Usa, in Europa e in Giappone, di denaro pubblico al sistema bancario.

Quando la crisi precipitò nel 2008 sembrava che per l'Australia le cose dovessero andare malissimo. Con il crollo dei prezzi mondiali delle materie prime il dollaro australiano si svalutò fortemente toccando i 48 centesimi di euro. Oggi il dollaro australiano si situa sui 77 centesimi ed ha superato il dollaro statunitense.
Tutto grazie alla Cina, che ha generato un enorme boom minerario, superiore alla grande la corsa all'oro della seconda metà del diciannovesimo secolo che trasformò l'Australia nella regione col reddito pro capite più alto al mondo. I capitali stanno affluendo nel paese sia per investimenti nelle attività minerarie che per via la politica della banca centrale di alzare i tassi di interesse alfine di controllare l'inflazione.

Ciò ha rilanciato il credito ai mutui ipotecari con prestiti fondati su aspettative di un continuo rialzo dei valori immobiliari. La bolla cinese ha pienamente inglobato il paese: un modesto calo del tasso di crescita di Pechino creerebbe delle voragini nella posizione debitoria delle famiglie e nell'esposizione delle banche.

Se le aspettative di lucro del sistema finanziario mondiale si appuntano sulla Cina e i paesi al suo traino, la crescita di quest'ultima sta giungendo a un punto di svolta. Sul China Daily del 23 dicembre scorso è apparso un articolo di grande importanza a firma di Yu Yongding, già membro della commissione per la politica monetaria della Banca del Popolo (centrale). La sua analisi è severissima. Lo sviluppo cinese ha dei costi esorbitanti col 50% del reddito assorbito dagli investimenti, 1/4 dei quali è destinato all'edilizia. Le autorità spingono a costruire per aumentare il Pil. Infatti l'esistenza di città nuovissime e disabitate è nota. In Cina, sottolinea Yongding, polveri e fumo stanno asfissiando le città, i maggiori fiumi sono gravemente inquinati e, malgrado i progressi realizzati, avanza la deforestazione e la desertificazione. Siccità, inondazioni e frane sono ormai fenomeni comuni, mentre l'incessante attività estrattiva esaurisce le risorse naturali.

Si impone, osserva l'articolo, un drastico mutamento di rotta, tuttavia l'industria cinese non riesce a superare il suo status di fabbrica di massa mondiale e trasformarsi in una forza di innovazione. Ne consegue che la dipendenza dalle esportazioni è strutturale: il cambiamento di rotta richiederebbe un aggiustamento molto doloroso.

A ciò si aggiunge il fatto che lo sviluppo cinese è stato fortemente orientato in favore degli strati più ricchi, mentre il governo ha fallito nel provvedere beni di utilità pubblica. Per l'autore dell'articolo, sebbene la crescita attuale non sia sostenibile, il paese è dominato da una ferrea alleanza tra burocrazia pubblica e strati capitalisti che hanno addirittura tratto beneficio dai tentativi di riforma.

La Cina, scrive Yongdin, «è il paese del capitalismo dei ricchi e dei potenti», questi difendono con ogni mezzo i loro interessi. In tale contesto la possibilità di usare in maniera socialmente razionale il surplus estero del paese sta scemando. L'analisi dell'autore mi risulta corretta e senza maschere nazionalistiche. Essa implica che in Cina il mutamento avverrà con una profonda crisi che coinvolgerà ampiamente il capitalismo americano, nipponico e anche europeo.
di Joseph Halevi

05 gennaio 2011

Palestina: quando arrivano le ruspe







La demolizione delle case: un decisivo tassello della pulizia etnica sionista

L’asimmetrico conflitto israelo-palestinese è una lotta per la terra che si consuma metro dopo metro, casa dopo casa, a danno della popolazione palestinese autoctona in patente violazione dei Trattati internazionali e della Convenzione di Ginevra.


Art 53, IV Convenzione di Ginevra (1949)
“È proibita da parte della Potenza Occupante qualsiasi distruzione di beni immobili o personali appartenenti, a titolo individuale o collettivo, a persone private o allo Stato o ad altre autorità pubbliche o a organizzazioni sociali o cooperative, eccetto laddove tale distruzione sia resa assolutamente necessaria da operazioni militari".
Il 9 novembre il quotidiano israeliano Haaretz riportava che, nonostante il rimprovero della Casabianca per la ininterrotta costruzione di abitazioni illegali sul territorio palestinese occupato (TPO), il piano israeliano di edificazione di centinaia di nuovi alloggi a Gerusalemme Est proseguiva imperterrito[1]. Contemporaneamente, in quegli stessi giorni, continuavano gli ordini di demolizione di case e di sfratto di famiglie palestinesi nella parte araba della città[2].

L’ICHAD (Comitato Israeliano Contro la Demolizione delle Case) stima che, dal 1967 al 28 luglio 2010, nel TPO siano state demolite 24.813 strutture abitative palestinesi, 2.000 soltanto a Gerusalemme Est. Dall’anno 2000 al gennaio 2009 sono state abbattute 10.105 case, una media di 1.011 all’anno. Il numero di ordini di demolizione ancora da eseguire e’ a tutt’oggi pari a circa 20.000[3].

Le autorità israeliane giustificano la demolizione di case con ragioni o militari (deterrenza e anti-terrorismo) o amministrative per la mancanza di permessi o la violazione di norme abitative. Secondo molte organizzazioni, come Amnesty International e il Comitato Internazionale della Croce Rossa, questi interventi hanno invece due principali motivazioni:
1. infliggere una “punizione collettiva” alla popolazione innocente (comportamento considerato un crimine di guerra dalla 4° Convenzione di Ginevra);
2. appropriarsi di territorio palestinese e, a Gerusalemme Est, modificare la percentuale della popolazione residente a favore della componente ebraica. Il primo tipo di demolizioni avviene soprattutto durante i periodi di conflitto armato; il secondo tipo, più importante in termini numerici e per il suo significato politico, si sta protraendo da decenni con un picco di particolare frequenza in questi ultimi mesi.

L’autorità israeliana persegue come illegali le costruzioni effettuate senza autorizzazione per le quali in genere fa seguire l’ordine di abbattimento. I palestinesi che vivono sotto occupazione israeliana a Gerusalemme Est e nell’area C della Cisgiordania sono sottoposti a divieti di edificazione talmente rigidi che molte famiglie devono subire la violenza distruttiva delle ruspe e la privazione del diritto ad una casa.

Gli Accordi di Oslo (1993) prevedevano che Israele mantenesse per alcuni anni il controllo civile e militare della cosiddetta Area C, equivalente a più del 60% della Cisgiordania. I circa 150.000 palestinesi che vivono in quelle zone soffrono di notevoli restrizioni a costruire e a muoversi liberamente. Migliaia di ettari (il 18% della Cisgiordania), in particolare la Valle del Giordano e le colline a sud di Hebron, sono classificati come “area militare inaccessibile” dove è vietato edificare.

A Gerusalemme Est, area della città occupata nel 1967 e annessa illegalmente nel 1980, Israele ha espropriato il 35% del territorio, circa 24 Kmq, allo scopo di costruire nuovi insediamenti ebraici. Su queste terre il governo israeliano ha finanziato l’edificazione di quasi 50 mila unità residenziali per la popolazione ebraica e meno di 600 per quella palestinese, l’ultima delle quali più di 30 anni fa[4]. Nonostante la popolazione palestinese rappresenti il 30% dell’intera Gerusalemme, essa è confinata sul 7% della superficie della città in abitazioni il più delle volte inadeguate. La maggior parte della terra che rimane nelle mani dei palestinesi, circa 45 Kmq, non è edificabile mentre negli ultimi 40 anni i residenti di Gerusalemme Est sono praticamente quadruplicati (da 69.000 a 273.000). Si stima che la crescita naturale della popolazione palestinese richiederebbe la costruzione di 1.500 unità abitative all’anno, mentre nel 2008 sono stati accordati soltanto 125 permessi che hanno consentito la costruzione di 400 alloggi.

A causa della crescente e soffocante densità abitativa nella parte palestinese della città, che nel 2002 era pari a quattro volte quella della zona ebraica occidentale, per i pochi palestinesi che ancora possiedono un pezzo di terra non rimane che sperare nella remota possibilità di un permesso di costruzione. Quando questo, come nella maggior parte dei casi, non arriva, non rimane che costruire abusivamente.

I palestinesi di Gerusalemme Est sono estremamente vulnerabili agli interventi di demolizione. Delle 46 mila abitazioni del settore orientale della città soltanto 20 mila sono state costruite con la dovuta autorizzazione. In qualsiasi momento, quindi, quasi la metà della popolazione palestinese di Gerusalemme può essere soggetta a sfratto o alla demolizione della propria casa. Il recente Piano regolatore[5], che cita esplicitamente tra i suoi obiettivi quello di mantenere l’”equilibrio demografico” tra residenti ebrei (70%) e palestinesi (30%), prevede 13.550 nuove unità abitative per la popolazione palestinese di Gerusalemme Est, 10 mila delle quali, tuttavia, da costruire soltanto nel 2030.

All’inizio degli anni 90, l’allora sindaco di Gerusalemme, Teddy Kollek, aveva riconosciuto esplicitamente la profonda ingiustizia delle demolizioni per una popolazione costretta a costruire illegalmente per l’assenza quasi totale delle dovute autorizzazioni. Contro la sua volontà di modificare le cose, tuttavia, la destra israeliana al governo aveva istituito un’apposita unità operativa a Gerusalemme Est, tuttora in funzione, che si occupa soltanto delle case abusive della popolazione palestinese. Nessun’altra unità del genere esiste in tutto Israele e nessuna abitazione di proprietà ebraica è mai stata demolita.

Quando arrivano le ruspe, la tragedia raggiunge il culmine. Accompagnate da agenti di polizia e soldati israeliani, le squadre di demolizione possono presentarsi in qualsiasi momento del giorno e della notte, concedendo soltanto un breve preavviso per rimuovere beni e masserizie. Secondo la legge militare israeliana, le famiglie sfollate non hanno diritto a ottenere un alloggio né a essere compensate. Se non vengono ospitate da familiari, amici o organizzazioni caritatevoli, sono abbandonate a se stesse[6].

È difficile quantificare il trauma e la sofferenza che comporta la distruzione della propria abitazione. La casa è più di una semplice struttura fisica e il suo significato è soprattutto simbolico. È il luogo dove si svolge la parte più intima dell’esistenza personale. È il rifugio, la rappresentazione fisica della famiglia e il posto dove si trovano gli oggetti più cari. Nella cultura palestinese la casa possiede un ulteriore significato. I figli che si sposano tendono a fissare la propria residenza accanto alla famiglia di origine allo scopo di preservare non soltanto la vicinanza fisica ma, soprattutto, una continuità nella proprietà della terra dei propri avi. Quest’ultimo aspetto è particolarmente importante per una società agricola e di rifugiati che hanno perduto la casa nativa a seguito dei conflitti del 1948 e del 1967. La demolizione dell’abitazione o la sua espropriazione rappresenta un’ulteriore aggressione all’identità di una persona[7].

Le famiglie le cui case sono demolite spesso non possono permettersene un’altra e devono contare sull’ospitalità di parenti o amici. Il trauma viene percepito in modo diverso da uomini, donne e bambini. L’uomo rimane profondamente umiliato per il senso di impotenza a proteggere la propria famiglia, la perdita dei legami con la terra dei suoi avi, la sua eredità e quella della sua gente. La maggior parte delle donne non lavorano fuori casa, la quale costituisce la loro principale sfera d’influenza ed è lo spazio che appartiene a loro. Esse sono quindi molto più traumatizzate dall’obbligo di trovare un’altra sistemazione, in un territorio altrui in cui non hanno più la responsabilità di gestire spazi e attività familiari. Vedono distrutta la propria immagine e il loro ruolo di mogli e di madri, il ruolo di chi dà praticamente espressione alla vita domestica. Una casa distrutta è come una persona cara che muore, un vuoto che non può essere colmato da soluzioni alternative che, in genere, si rivelano disastrose. Una donna costretta a sistemarsi in un’altra famiglia va ad occupare l’ambito vitale di un’altra donna (la madre o la cognata) e perde inevitabilmente il controllo su marito e figli[8]. La perdita della privacy causa spesso un aumento dei conflitti tra i membri della famiglia con un’esplosione della violenza domestica.

Salwa, 28 anni, così esprime la sua tragedia personale: “La gente potrà anche provare dispiacere quando sente il frastuono della demolizione, ma pensi che qualcuno sia capace di sentire la demolizione dei nostri cuori? dei nostri sogni? dei nostri programmi futuri? Credo che queste voci non siano mai udite. Pensi che si siano accorti della mia paura, della mia agonia, del mio orrore? Niente affatto. Paura, agonia, orrore non hanno voce, non fanno rumore, e l’occupazione militare non ha occhi, non ha moralità, non ha coscienza, non ha Dio” [9].

Nei bambini il trauma della demolizione della casa lascia un marchio indelebile che dura tutta la vita. Già nei mesi che precedono l’intervento demolitivo essi sono testimoni della paura e del senso di inadeguatezza dei propri genitori che vivono costantemente in un’atmosfera di insicurezza. All’arrivo delle squadre di demolizione, vedono i propri cari sottoposti a violenze e umiliati, circondati dal fragore delle ruspe che sradicano e distruggono la loro dimora, il loro mondo, i loro giocattoli. La presenza di decine di poliziotti, assistiti da soldati in tenuta da combattimento, disegna nella mente del bambino un quadro dei propri genitori come pericolosi criminali. Questo processo ha un enorme impatto sulle condizioni psichiche e fisiche di tutti membri della famiglia, non soltanto dei bambini.

La demolizione della casa è seguita da lunghi periodi di instabilità della famiglia. Secondo uno studio della ONG Save the Children[10], la maggior parte delle famiglie impiegano almeno due anni prima di trovare un luogo di residenza permanente. Un’altra ricerca rivela il profondo impatto psicologico sulle donne che tendono a sviluppare sintomi depressivi di vario tipo[11]. Altri studi hanno descritto gli effetti deleteri sui bambini che si manifestano con disturbi emotivi e comportamentali[12]. Le maggiori fonti di tensione nella famiglia sono, per i bambini, la sensazione di essere abbandonati e, per i genitori, la comparsa della depressione.

Commenta Meir Margalit, storico israeliano della comunità ebraica in Palestina ed ex-sionista radicale, “Non c’è nessun dubbio: il bulldozer prende posto accanto al carro armato come simbolo del modo in cui Israele si relaziona con i palestinesi. Entrambi i simboli dovrebbero comparire sulla bandiera nazionale. Entrambi sono espressione dell’aggressione che ha preso il sopravvento dell’esperienza nazionale israeliana. L’uno completa l’altro. Entrambi simbolizzano il lato oscuro del progetto che Israele sta portando avanti di sradicare ed espellere i palestinesi dalle terre in cui si trovano” [13].

Sia sul territorio israeliano sia nel TPO, Israele è vincolato dalla legislazione internazionale inclusi quei trattati internazionali sui diritti umani di cui Israele è uno Stato firmatario (State Party), come il Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali, il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici e la Convenzione Internazionale sull’Eliminazione di Tutte le Forme di Discriminazione Razziale. Nel Territorio Occupato, inoltre, la condotta di Israele come potenza occupante deve conformarsi ai dettati della legislazione umanitaria internazionale che si applica in tutti i casi di occupazione militare, compresa la 4° Convenzione di Ginevra relativa alla Protezione delle Persone Civili in Tempo di Guerra. Israele è l’unico Stato appartenente all’ONU che rifiuta di riconoscere i propri obblighi nei confronti della Convenzione di Ginevra nonostante le sconfessioni e le condanne ricevute in varie sedi dalla comunità internazionale, in particolare la Corte Internazionale di Giustizia[14].

di Angelo Stefanini
Angelo Stefanini - Centro Studi e Ricerche sulla Salute Internazionale e?Interculturale, Universita’ di Bologna. Coordinatore Sanitario Cooperazione Italiana – Gerusalemme.