11 gennaio 2011

Sul Signoraggio

Una risposta ad un lettore sul problema del signoraggio. Tu quale tesi condividi?

Lyndon LaRouche e molti dei suoi collaboratori hanno dovuto subire, a livello anche personale, le conseguenze di non aver mai voluto scendere a compromessi nei confronti di monetarismo, liberismo e di coloro che da sempre lavorano per smantellare la sovranità degli Stati Nazionali, insieme con i loro lacchè nella politica, nel mondo bancario e finanziario; pertanto il Movimento Internazionale che fa capo a Lyndon LaRouche (in Italia Movisol – Movimento Solidarietà) crede a buon titolo di non dover prendere lezioni di antimondialismo da nessuno.

Anche con le banche, con i banchieri centrali e gli speculatori (come Soros, Greenspan, Rohatyn, Trichet, Bernanke, etc.), Lyndon LaRouche e il suo movimento internazionale non sono stati mai teneri, e lo sanno bene coloro che ci seguono da anni.

Detto questo, precisiamo che noi non crediamo all'assioma "il nemico del mio nemico è mio amico", né se dico che una donna è brutta, sono diventato improvvisamente gay; la realtà non è lineare, ma, come insegna Riemann, obbedisce ad un insieme di variabili multiconnesse tra di loro; quindi se abbiamo attaccato una categoria di persone (o meglio di idee), che dicono di battersi contro lo strapotere delle banche e della finanza, non vuol dire nel più assoluto dei modi che abbiamo arretrato minimamente dalla lotta per il bene comune dell'umanità.

Lo scritto "Su Ezra Pound e Signoraggio", voleva provocare (e pare sia riuscito nell'intento) un dibattito su un tema che vediamo sempre più di frequente riproposto, ma che difetta di quei requisiti di rigorosità morale e intellettuale, di cui c'è bisogno per combattere un avversario attrezzato per battaglie ben più impegnative. Nulla di nulla contro coloro che, in buona fede, aderiscono a tale dottrina, perché sicuramente animati da uno spirito di ricerca e dalla voglia di sapere come stanno le cose. Ma non sempre la storia più strana è quella vera.

Precisiamo ancora, per coloro che non conoscessero bene le nostre idee, che noi siamo per il superamento del sistema delle banche centrali e a favore del controllo statale sull'emissione di moneta e di credito, ma, ribadiamo, non per un inesistente problema di signoraggio.

Valore intrinseco e reddito da emissione di moneta

Passando alla risposta ai Suoi quesiti, vorrei prima precisare che parlare di valore "intrinseco" della moneta è di per sé fuorviante. Su di un'isola deserta, possedere monete d'oro non ci mette al riparo dalla fame e dalle intemperie. Questo per dire che persino le monete d'oro, che hanno un controvalore in quel metallo, derivano il loro "valore" da una convenzione: l'oro è prezioso in quanto duttile, malleabile, buon conduttore di elettricità, non soggetto a corrosione, piuttosto raro, etc., ma a ben guardare, aldilà dell'odontoiatria e dell'estetica, non ha così larghi impieghi (un conto è il prezzo, un conto è il valore di una cosa).

I signoraggisti sono fissati con l'oro [1], che per essi dovrebbe costituire il controvalore dell'emissione di moneta; la moneta in questo modo, convertibile nel prezioso metallo, solo allora diventerebbe una vera passività, ovvero supportata dalla promessa di dare qualcosa in cambio. La moneta moderna, secondo questi signori, non sarebbe una vera passività per l'emittente, perché in realtà la Banca Centrale non potrebbe riconoscere nulla in cambio.

A parte la confusione che alcuni fanno tra Gold Standard e sistema a riserva aurea, sorge però una domanda. Ma l'oro da dove viene, con cosa viene acquisito? Con altra moneta? No, perché sarebbe una tautologia. Allora con cosa? Mica nascerà spontaneo nei forzieri? La risposta è ovvia: o il Paese possiede proprie miniere aurifere da sfruttare all'infinito, o deve letteralmente prenderlo all'estero. Per prenderlo all'estero esistono solo due modi. Il primo è: come compensazione per pagamenti internazionali (esportazioni o altro). In questo caso incontriamo però un problema: l'offerta di oro o altri metalli preziosi è piuttosto inelastica, ovvero, la quantità disponibile non può essere aumentata a piacimento e quando si vuole; ne consegue quindi che l'offerta di moneta è limitata. Questo problema si è posto con ricorrenza nei paesi che adottavano la convertibilità in oro: periodiche crisi di liquidità con conseguente deflazione e stagnazione hanno spinto, pian piano e a fasi alterne, ad abbandonare la convertibilità in oro.

Esiste un altro modo per procurarsi oro e altri metalli preziosi dall'estero: quello predatorio, ovvero con la conquista e il saccheggio.

A questo punto: è più imperialista (ci hanno anche accusato di essere imperialisti) il sistema appena descritto, o un sistema che permetta ad OGNI Stato Nazionale sovrano di emettere la propria moneta e di stabilire politiche di sviluppo autonome?

Pensiamoci poi bene. C'è una crisi, prendo i miei soldi e vado alla Banca Centrale o al Tesoro a farmeli cambiare in oro. E poi cosa ci faccio? Devo sempre trovare qualcuno disposto a darmi qualcosa in cambio o farò la fine di Re Mida. Allora non stiamo parlando ancora una volta di una convenzione? Qualcuno accetterà l'oro in cambio di vestiti, cibo e case fin quando esisterà qualcuno che riconoscerà in quel metallo un bene = convenzione.

Se Lincoln durante la Guerra di Secessione avesse vincolato l'emissione di moneta (senza Banca Centrale) all'oro posseduto, probabilmente non ci sarebbe stata una Gettysburg e oggi gli USA sarebbero spaccati in due e anche la nostra storia sarebbe profondamente diversa.

Detto questo, è ovvio che esiste una differenza tra valore facciale della banconota e, ad esempio, il costo per produrla (che è diverso dal valore intrinseco). Tale differenza non costituisce reddito per nessuno, in quanto la moneta non è una merce venduta dalla banca centrale, ma una passività di quest'ultima e, a fronte di essa, non può esserci un ricavo, altrimenti Luca Pacioli si rivolterebbe nella tomba. D'altronde, nel caso contrario, nei conti economici delle banche commerciali, dovrebbe trovarsi una voce di costo per l'acquisto di banconote, che invece non esiste.

Il reddito da signoraggio esiste, ma è altro: è la differenza tra l'interesse che frutterebbero ipoteticamente le banconote tenute in cassa (ovvero quasi sempre zero) e l'interesse che fruttano le attività messe a contropartita delle banconote in circolazione. Questo è identificabile come reddito ed esso va per la maggior parte allo Stato insieme alle tasse che su di esso gravano; la restante parte va ripartita tra i partecipanti della banca centrale (che non sono soci). Ovviamente questo non ha che un minimo della portata di solito sventolata dai fautori della teoria del complotto del signoraggio [2].

Di chi sono le Banche Centrali – il diritto di emettere moneta

Per quanto riguarda la "proprietà" delle Banca Centrale, è chiaro che il fatto che quest'ultima non sia sotto il controllo statale non sia un bene, ma questo non a causa del signoraggio. Come ho cercato di spiegare nel mio precedente articolo, il fatto che ad esempio la Banca d'Italia, sia partecipata (non posseduta, non è una s.p.a.) da banche e istituzioni finanziarie private [3] (in Italia anche dall'INPS), pur non mutandone la natura di ente di diritto pubblico, sarà sicuramente rilevante nel momento in cui essa dovrà esercitare i suoi poteri di vigilanza: storicamente le maglie dei controlli (soprattutto nei confronti dei partecipanti più potenti) si sono allargate, permettendo vere e proprie truffe. Inoltre se osserviamo quello che sta operando la Federal Reserve americana, ovvero l'allargamento della base monetaria senza criterio, questo è diretto al salvataggio delle banche private e non alla creazione di credito per lo sviluppo: ciò non può portare ad altro che ad inflazione.

La stessa politica di austerità dell'Unione Europea, attraverso la BCE, nominalmente indirizzata al salvataggio degli Stati "indisciplinati", è in realtà l'imposizione di una politica fascista di macelleria sociale allo scopo di salvare le banche private che detengono i titoli di Stato di quei paesi.

Quelli presentati sopra sono alcuni esempi di motivi per i quali storicamente l'oligarchia finanziaria ha cercato e ottenuto il controllo delle Banche Centrali, ma ripetiamo per l'ennesima volta, non per ingrassarsi con un inesistente signoraggio. Il motivo principale è di avere in pugno le leve monetarie sottraendole agli stati sovrani, cioè avere la chiave della politica economica, costretta quest'ultima a fare i conti con chi magari oggi invoca austerità di bilancio, liberalizzazioni e privatizzazioni, quando ci sarebbe bisogno di investimenti pubblici.

In questo contesto è facile comprendere come le banche detentrici di pacchetti di controllo della Banca d'Italia ad esempio, si oppongano alla cessione (vendita) delle proprie quote di partecipazione al Tesoro. Il motivo di ciò non è il signoraggio: infatti le suddette banche hanno manifestato la preferenza a cedere (vendere) le proprie quote alla Banca d'Italia stessa [4], cioè, sono disposte a perderne il controllo, purché questo non vada al Tesoro.

È chiaro che il diritto di emettere moneta, come espressione della sovranità, dovrebbe spettare al popolo, che dovrebbe esercitarla nei limiti della Costituzione, come la stessa stabilisce, quindi attraverso il Tesoro. La decisione di affidare al Governatore della Banca d'Italia il potere di regolare l'offerta di moneta (D.P.R. 482 del 1948) fu una scelta fatta nominalmente per prevenire eventuali abusi (in realtà fu la prima pietra di un progetto di lunga durata per la presa del controllo da parte privata). Bankitalia, d'altronde, era praticamente controllata dal Governo, e non c'è dubbio che la moneta veniva emessa indirettamente da quest'ultimo. Da quando il controllo di Bankitalia è passato in mani private, il controllo (politico) sull'emissione di moneta è venuto meno, ma, pur essendo noi completamente favorevoli al ritorno di questo in mani statali (e quindi che, come primo passo venga applicata la legge Tremonti sul passaggio delle quote), ribadiamo per l'ennesima volta che il signoraggio non c'entra un emerito fico secco.

Ancora su Ezra Pound e soci

Per processare Lyndon LaRouche per frode postale, dopo che due corti avevano rigettato l'accusa come pretestuosa, fu trovata una corte in Virginia disposta a farlo. La condanna che ne seguì, per LaRouche e alcuni collaboratori, fu allucinante: Michael Billigton ad esempio fu condannato a 99 anni di prigione! Il processo e le condanne furono chiaramente politiche, provenendo l'operazione da un ufficio del Dipartimento della Giustizia USA, Presidente George Bush Sr., sotto la regia di Henry Kissinger.

L'ex-Ministro della Giustizia, Ramsey Clark, a Janet Reno, il Ministro della Giustizia nominato da Clinton, in una lettera del 1995 scriveva: "Il più scandaloso caso di indagine giudiziaria è quello relativo a Lyndon LaRouche, perché io credo che implichi un più ampio campo di volontaria e sistematica persecuzione giudiziaria ed un abuso di potere, lungo un esteso arco di tempo, al fine di distruggere un movimento politico ed il suo leader. Questo è il caso più eclatante di ogni tempo o comunque che io conosca".

Dopo cinque anni di prigione l'amministrazione Clinton diede un segnale politico netto e LaRouche ottenne la libertà condizionata.

Tentare un parallelo tra i motivi che portarono alla condanna di Ezra Pound (tradimento, cfr. articolo precedente) e a quella di Lyndon LaRouche, non è proprio il caso, così come Bill Clinton non è paragonabile ai personaggi scesi in campo per Pound.

Siamo tutti felici che Pound abbia scampato la forca, perché siamo contrari alla pena di morte, ma sottolineare quali personaggi si siano mobilitati per la sua salvezza, serve per mettere in luce certi legami, precedenti e seguenti a Pound, tra grande business (anche bancario), eversione filo-britannica e malthusianesimo (Fugitives e Nashville Agrarians), razzismo (Ku Klux Klan), ambientalismo, controllo della cultura (Congress for Cultural Freedom), cercando, sempre in modo maieutico, di mettere in evidenza (apparenti) contraddizioni: per cui il paladino contro l'usura viene salvato dai banchieri, ambienti fascisti si associano ad americani e inglesi e producono fenomeni culturali che sfociano tra gli Hippie.

Tutto questo perché ci premeva sottolineare che nel mondo dell'informazione "alternativa" occorre stare molto attenti per non essere irretiti da idee corrotte e arcaiche, ma presentate come novità rivoluzionarie.

Ribadiamo quello per cui Lyndon LaRouche il Movimento Internazionale che a lui fa capo propongono con forza, per uscire dalla crisi e avviare un processo di sviluppo dell'economia reale a livello planetario:

  • Nuova Bretton Woods: ristabilire un sistema finanziario mondiale basato su cambi fissi e con riappropriazione da parte degli Stati Nazionali del diritto di emettere moneta e quindi indirizzare credito a basso tasso d'interesse e lungo termine per lo sviluppo; riorganizzazione fallimentare del sistema finanziario mondiale.
  • Legge Glass Steagall: inversione della deregulation che ha investito il settore finanziario con ritorno allo standard di separazione tra banche ordinarie e banche d'affari e messa al bando dei derivati.
  • Grandi progetti infrastrutturali: lanciare con il credito così liberato la creazione di infrastrutture energetiche, di trasporto, di governo delle acque e del suolo (Nawapa – Transaqua, Ponte Eurasiatico, rinascimento nucleare, etc.).
  • Cooperazione tra Stati Nazionali sovrani sulla scorta del trattato di Westfalia, anziché politica di guerra e scontro di civiltà.


Aureliano Ferri.


Note:

[1] - Tale pensiero fisso esprime gli interessi per l’accumulazione primitiva da parte della classe aristocratica pre-moderna e latifondista. Da qui si spiegano le soluzioni proposte in chiave medievalista (ad es. le monete locali), quindi del tutto fuorvianti, di Auriti, di Ezra Pound, e dei loro epigoni.

[2] - Precisiamo inoltre che le Banche Centrali non acquistano titoli di Stato se non in parte; esse acquistano altri tipi di obbligazioni esistenti sul mercato: quindi non è la Banca Centrale che crea quel debito come sostengono certuni.

[3] - Prima del 1993, la Banca d’Italia, rispetto ad oggi, aveva più o meno lo stesso assetto di titolarità delle quote di partecipazione: il Governo la controllava sostanzialmente, in quanto i principali detentori delle quote erano la Banca Commerciale, il Credito Italiano e il Banco di Roma, quindi banche controllate dall’IRI, quindi dal Governo. Venivano poi altre sei banche controllate anch’esse dal Governo (San Paolo, Banco di Sicilia, Banco di Sardegna, Banco di Napoli, BNL, Montepaschi). C’erano poi anche Generali, FIAT, ma anche INPS ed altri minori. È chiaro che con le sciagurate privatizzazioni, quegli istituti di credito sono passati in mani non pubbliche e nessuno ha provveduto a trattenere le quote di Bankitalia al Tesoro, violando la Costituzione, se non altro perché molti pacchetti azionari, di quegli istituti sono diventati stranieri.

[4] - Cfr. Massimo Mucchetti, "Non sarà facile smontare Tremonti e la 'sua' Bankitalia", Corriere della Sera, 10 dicembre 2006 o Daniele Martini, "AAA vendesi Banca d’Italia, con Tremonti alla regia".

10 gennaio 2011

Perché Washington odia Hugo Chavez

In Italia Non abbiamo un tipo alla Chavez, ma per scelta o lassismo?




A fine novembre, il Venezuela è stata colpito con violenza da piogge torrenziali ed inondazioni che hanno causato 35 morti e hanno lasciato circa 130.000 persone senza casa. Se George Bush fosse stato presidente, invece che Hugo Chavez, gli sfollati sarebbero stati spediti sottotiro in campi di prigionia improvvisati -- come il Superdome-- come è successo con l'uragano Katrina. Ma non è così che lavora Chavez. Il presidente venezuelano ha promulgato velocemente leggi "speciali" che gli hanno concesso poteri per garantire aiuti di emergenza e alloggi per le vittime dell'alluvione. Chavez ha poi sgomberato il palazzo presidenziale e lo ha trasformato in un alloggio per 60 persone, che sarebbe l'equivalente di convertire la Casa Bianca in un rifugio per senzatetto. Le vittime del disastro sono ora sfamati e accuditi dallo stato fino a quando non potranno ritornare alle loro case e a lavorare.



I dettagli degli sforzi di Chavez sono stati ampiamente omessi dai media statunitensi, dove è invece regolarmente demonizzato come un "potente di sinistra" ["leftist strongman" NdT] o un dittatore. I media rifiutano di ammettere che Chavez ha ridotto la diseguaglianza nei redditi, eliminato l'analfabetismo, fornito assistenza medica a tutti i venezuelani e innalzato i tenori di vita. Mentre Bush ed Obama stavano espandendo le loro guerre e spingendo per tagliare le tasse ai ricchi, Chavez era occupato a migliorare le vite dei poveri e bisognosi, respingendo al tempo stesso l'ultima ondata di aggressione statunitense.

Washington disprezza Chavez perchè non è disposto a consegnare le vaste risorse del Venezuela alle multinazionali e ai banchieri. E' per questo che l'amministrazione Bush ha provato a deporre Chavez nel fallito colpo di stato del 2002, ed è per questo che l'incantatore Obama continua tutt'oggi a lanciare attacchi velati a Chavez. Washington vuole un cambio di regime, in modo da insediare una marionetta che consegni le risorse del Venezuela alle grandi compagnie di petrolio e al tempo stesso renda la vita dei lavoratori un inferno.

Documenti rilasciati recentemente da Wikileaks mostrano come l'amministrazione Obama ha accelerato le ingerenze negl'affari interni del Venezuela. Questo è un estratto della recente lettera dell'avvocatessa e autrice, Eva Golinger:

"In un documento segreto scritto dall'attuale vice assistente Segretario dello Stato per l'Emisfero Ovest, Craig Kelly, ed inviato dall'ambasciata di Santiago in giugno 2007 al segretario di stato, alla CIA, al Southern Command del Pentagono, insieme ad una serie di altre ambasciate statunitensi nella regione, Kelly ha proposto "sei principali metodi di azione per il governo statunitense per limitare l'influenza di Chavez” e "ristabilire la leadership statunitense nella regione".

Kelly, il quale ha avuto un ruolo di primo piano come “mediatore” durante il colpo di stato dell'anno scorso in Honduras contro il presidente Manuel Zelaya, classifica nel suo rapporto il presidente Hugo Chavez come un “nemico”.

“Conosci il nemico: dobbiamo capire meglio come Chavez pensa e quello che ha in mente.. Per opporsi alla reale minaccia che lui rappresenta, dobbiamo conoscere meglio i suoi obiettivi e come intende perseguirli. Tutto ciò esige una migliore intelligence in tutti i nostri paesi”. Piu avanti Kelly confessa che il presidente Chavez è un “nemico formidabile, ma, aggiunge, “può essere certamente sconfitto”
(Wikileaks: Documenti Confermano Piani Statunitensi Contro il Venezuela, Eva Golinger, Cartoline dalla Rivoluzione)

Anche le comunicazioni del Dipartimento di stato mostrano che Washington ha finanziato gruppi anti-Chavez attraverso organizzazioni non governative (ONG) che fingono di lavorare per le libertà civili, per i diritti dell'uomo o per la promozione della democrazia. Questi gruppi si nascondono dietro una facciata di legittimità, ma il loro reale intento è di rovesciare il governo democraticamente eletto di Chavez. Obama appoggia questo tipo di strategia tanto quanto lo faceva Bush. L'unica differenza è che il team di Obama è più discreto. Questo è un altro pezzo del rapporto di Golinger con alcuni dettagli sulle origini dei finanziamenti:

“In Venezuela, gli Stati Uniti hanno appoggiato gruppi anti Chavez per oltre 8 anni, inclusi quelli che hanno eseguito il colpo di stato contro il presidente Chavez nell’aprile del 2002. Da allora, i finanziamenti sono aumentati considerevolmente. Un rapporto del maggio 2010 che valutava l'assistenza straniera a gruppi politici in Venezuela, commissionata dalla National Endowment for Democracy (NED), ha rivelato che più di 40 milioni di dollari sono annualmente indirizzati a gruppi anti-Chavez, la maggior parte provenienti da agenzie statunitensi.

Il Venezuela spicca come la nazione latino americana dove il NED ha investito più fondi in gruppi di opposizione durante il 2009, con 1.818.473 dollari, più del doppio rispetto all'anno prima.... Allen Weinstein, uno dei fondatori del NED, ha una volta rivelato al Washington Post, “quello che facciamo noi oggi lo faceva la CIA in clandestinità 25 anni fa...” (I segreti dell'America “Operazioni della società civile”: l'interferenza degli Stati Uniti in Venezuela continua a crescere”, Eva Golinger, Global Research)

Lunedi l'amministrazione Obama ha annullato il visto dell'ambasciatore Venezuelano a Washington come risposta al rifiuto di Chavez di nominare Larry Palmer ambasciatore americano a Caracas. Palmer è stato apertamente critico di Chavez dicendo che vi erano chiare connessioni tra membri dell'amministrazione Chavez e le guerriglie di sinistra nella vicina Colombia. È un modo indiretto di accusare Chavez di terrorismo. Ancora peggio, il background e la storia personale di Palmer suggeriscono che la sua nomina potrebbe essere una minaccia alla sicurezza nazionale del Venezuela. Consideriamo i commenti di James Suggett del “Venezuelanalysis on Axis of Logic”:

“Osservate la storia di Palmer, quando lavorava con le oligarchie, sostenute dagli Stati Uniti, di paesi come la Repubblica Domenicana, Uruguay, Paraguay, e Sierra Leone, Corea del Sud, Honduras, 'promuovendo il North American Free Trade Agreement (NAFTA).” Proprio come la classe dominante americana ha nominato un afro-americano, Barack Obama, per sostituire George W. Bush lasciando tutto il resto intatto, Obama a sua volta ha nominato Palmer per sostituire Patrick Duddy, il quale era coinvolto nel tentato colpo di stato del 2002 contro il presidente Chavez , oltre ad essere nemico dei venezuelani durante il suo mandato come ambasciatore in Venezuela”
(http://axisoflogic.com/artman/publish/printer_60511.shtml)

Il Venezuela è gia pieno di spie e sabotatori americani. Non hanno alcun bisogno di agenti che lavorano all'interno dell'ambasciata. Chavez ha fatto la cosa giusta a rifiutare la nomina di Palmer.

La nomina di Palmer avrebbe solo rafforzato la preesistente politica statunitense con più interferenze, più sovversioni e più creazioni di problemi per Chavez. Il dipartimento di stato è largamente responsabile per quelle che vengono chiamate rivoluzioni colorate in Ucraina, Libano, Georgia, Kyrgyzstan etc; le quali sono state tutte forgiate a stampo, come eventi televisivi a favore degl'interessi di ricchi capitalisti e contro i governi eletti. Adesso la schiera di Hillary vuole provare la stessa strategia in Venezuela. Tocca a Chavez fermarli, ed è per questo che ha passato leggi che “regolano, controllano o proibiscono il finanziamento straniero di attività politiche”. È il solo modo che ha per difendersi dall'intromissione degli Stati Uniti e proteggere la sovranità venezuelana.

Chavez sta anche usando i suoi nuovi poteri per riformare il settore finanziario. Questo è un estratto da un articolo intitolato “L'assemblea nazionale venezuelana passa una legge che rende le attività bancarie un 'servizio pubblico'”:

“Venerdi l'assemblea nazionale venezuelana ha approvato una nuova legislazione che definisce il settore bancario come un'industria “del settore pubblico,” esigendo che le banche in Venezuela contribuiscano a programmi sociali, impegni nella costruzione di case, e altri bisogni sociali e, al tempo stesso, rendendo gli interventi del governo più facili nel caso le banche non soddisfino le priorità nazionali.” ...

La nuova legge protegge i beni dei clienti delle banche nel caso ci siano irregolarità da parte dei proprietari, e stipula che la Superintendencia de Bancos prenda in considerazione gli interessi dei clienti delle banche - e non solo quello degli azionisti - quando vengono prese decisioni che influiscano sulla posizione della banca."

Allora perchè Obama non sta facendo la stessa cosa? E' troppo spaventato o è solo il lacchè di Wall Street? Eccovi un'altra parte dello stesso articolo:

"Nel tentativo di controllare la speculazione, la legge limita l'ammontare di credito che può essere messo a disposizione di invididui o entità private, stabilendo che 20% è il massimo ammontare di capitale che la banca può impiegare come credito. La legge limita inoltre la formazione di gruppi finanziari e vieta il possesso di interessi economici da parte di banche in aziende di brokeraggio e compagnie di assicurazione.

La legge inoltre stabilisce che il 5% dei profitti netti di tutte le banche dovranno essere dedicati esclusivamente a progetti dei consigli comunali. 10% del capitale di una banca deve inoltre essere messo in un fondo per pagare stipendi e pensioni nel caso di bancarotta.

Secondo le stime del 2009 del Softline Consultores, il 5 % dei profitti netti del settore bancario venezuelano avrebbe dato 314 milioni di bolivar in più, o 73,1 milioni di dollari, per programmi sociali volti a soddisfare i bisogni della maggioranza povera del Venezuela.
http://venezuelanalysis.com/news/5880

"Controllare la speculazione"? Questa è una nuova idea. Ovviamente, i leader dell'opposizione chiamano le nuove leggi "un attacco alla libertà economica". Ma questa è un puro nonsenso. Chavez sta solamente proteggendo la gente dalle attività predatorie di banchieri senza scrupoli. La gran parte degli americani sperano che Obama faccia la stessa cosa.

Secondo il Wall Street Journal, "Chavez ha minacciato di espropriare le grandi banche nel passato se non aumentavano i prestiti ai proprietari di piccole aziende e potenziali compratori di case, questa volta sta aumentando la pressione pubblicamente per mostrare la sua preoccupazione per la mancanza di case per 28 milioni di venezuelani."

Caracas soffre di una grande mancanza di case che è ulteriormente peggiorata a causa delle inondazioni. Decine di migliaia di persone hanno ora bisogna di un riparo, ed è per questo che Chavez sta mettendo pressione sulle banche per dare una mano. Ovviamente le banche non vogliono aiutare e stanno quindi piagnucolando. Ma Chavez non si è curato delle loro lamentele e le ha messe sotto osservazione. Infatti martedì ha rilasciato questo conciso avvertimento:

"Qualunque banca sbagli... l'esproprierò, che sia Banco Provincial, Banesco o Banco Nacional de Credito".

Bravo, Hugo. Nel Venezuela di Chavez i bisogni della gente ordinaria hanno la precedenza sui profitti dei banchieri tagliagole. C'è da sorprendersi che Washington lo odi?
di Mike Whitney


Fonte: www.informationclearinghouse.info

Gli Stati Uniti rischiano la bancarotta ma è l´Europa a dover temere di più



Per l´economista Barry Eichengreen l´insolvenza americana segnerebbe la fine del biglietto verde come moneta internazionale. Non è chiaro come Grecia e Irlanda possano uscire dalla recessione e risanare i loro conti pubblici. La Cina non vuole un crollo del dollaro che impoverirebbe le sue riserve. La caduta può essere made in Usa

«Una bancarotta sovrana degli Stati Uniti? Non è probabile però è diventata possibile. E segnerebbe la fine del dollaro come moneta internazionale. Oggi il pessimismo resta più forte verso l´Eurozona, dove l´insolvenza di Grecia e Irlanda è sempre più difficile da evitare». A 24 ore dall´allarme lanciato dal segretario al Tesoro Tim Geithner, che ha evocato un rischio default degli Usa al Congresso, la sua preoccupazione è confermata dal più autorevole storico delle crisi finanziarie.

Barry Eichengreen, docente all´Università di Berkeley, sta presentando il suo nuovo saggio "Exorbitant Privilege" al World Affairs Council. Il "privilegio esorbitante", un´espressione che Eichengreen riprende da Charles de Gaulle, è quello del dollaro: «Vale il 3% del Pil americano il fatto di poter stampare una moneta che le altre nazioni usano come mezzo di pagamento. In altri termini, questo privilegio ci consente di finanziare un deficit pubblico equivalente a un anno di buona crescita del Pil». Ma non è un privilegio eterno, avverte l´economista.

Che cosa giustifica l´allarme di Geithner sul rischio-insolvenza?

«L´attuale situazione politica, con un presidente democratico e una Camera repubblicana, tende a generare politiche economiche squilibrate e non agevola la riduzione del deficit pubblico. In prospettiva, con l´andata in pensione delle prime generazioni del baby-boom, un quarto delle entrate fiscali americane andrà esclusivamente a finanziare il servizio del debito. Se non interveniamo rapidamente sugli squilibri, sarà forte la tentazione di ridurre i debiti attraverso una politica monetaria che crei inflazione. Così l´America scaricherebbe i costi sugli stranieri che detengono tanta parte dei titoli del Tesoro. Ma è un gioco pericoloso: i mercati possono anticiparlo, smettere di acquistare i nostri titoli pubblici. Perciò l´insolvenza degli Stati Uniti è diventata possibile».

Vuol dire che la Cina potrebbe di colpo cessare i suoi acquisti di Treasury Bonds?

«Non per un´iniziativa unilaterale. Sarebbe autolesionista. Parafrasando l´equilibrio del terrore nucleare all´epoca della Guerra Fredda, l´ex consigliere economico di Barack Obama, Larry Summers, definì la situazione odierna come un equilibrio del terrore finanziario. La Cina non vuole determinare da sola un crollo del dollaro che impoverirebbe le sue riserve valutarie. La caduta del dollaro può avvenire solo in quanto "made in Usa". Se continuiamo a non mettere ordine nelle nostre finanze pubbliche, possiamo provocare un´improvvisa crisi di fiducia degli investitori esteri. Questi fenomeni accadono all´improvviso, più rapidamente di quanto si creda: basti ricordare la crisi di sfiducia che ha colpito l´Eurozona di recente».

Lei crede agli scenari di disgregazione dell´Eurozona?

«Oggi il pessimismo colpisce soprattutto l´euro. Non è chiaro come i Paesi più deboli possano al tempo stesso uscire dalla recessione, risanare i loro conti pubblici, senza abbandonare la moneta unica. A meno che la Germania accetti di continuare a finanziarli con massicci trasferimenti. Una bancarotta di Grecia e Irlanda è ormai sempre più probabile. Tuttavia non implica necessariamente che quei Paesi lascino l´euro. La Grecia finirebbe per stare ancora peggio, se tornasse alla dracma».

Che cosa pensa dello scenario opposto, cioè l´uscita dall´Eurozona del Paese più forte, la Germania?

«Io credo che la Germania, malgrado quel che ne pensano gli altri Paesi, sia politicamente troppo investita nell´Unione europea per mollare la moneta unica. Inoltre, per quanto l´euro sia impopolare tra i cittadini, l´industria tedesca sa che è nel suo interesse. Una rinascita del deutschemark si accompagnerebbe a una fortissima rivalutazione con grave danno per l´export. Resta il fatto che l´Unione europea deve rapidamente usare questa crisi per rimediare alle sue lacune».

Qual è la prima riforma necessaria per salvare l´euro?

«Sottrarre i compiti di vigilanza sulle banche alle autorità nazionali. Non dimentichiamo che questa crisi dell´Eurozona è anzitutto una crisi bancaria, com´è evidente nel caso irlandese, e non si può lasciare che a occuparsene siano i singoli Paesi».

Tra gli squilibri monetari mondiali, c´è chi vede la creazione di nuove bolle speculative nei Paesi emergenti come una conseguenza della politica monetaria americana. Il "quantitative easing" applicato da Ben Bernanke stampando moneta è sotto accusa in Brasile, Cina.

«E´ vero, la nuova liquidità generata dalla Federal Reserve in parte affluisce al di fuori delle nostre frontiere, attirata dai rendimenti superiori nelle economie emergenti. E´ un limite alla sua efficacia.

Tuttavia è necessaria, non c´è alternativa, in una situazione in cui restano dei rischi di deflazione per l´economia americana. La Fed valuta al 10% la probabilità di una deflazione, non è poco».

In "Exorbitant Privilege" lei prefigura un nuovo ordine monetario fondato su dollaro, euro, renminbi cinese. Quando?

«Più presto di quanto si crede. Io lo vedo realizzarsi nell´arco di un decennio. E penso che un mondo tripolare sarà più stabile di quello attuale. Il problema è governare la transizione: come traghettarci da qui a là».
di Federico Rampini

09 gennaio 2011

L'élite mondiale controlla ormai tutte le ricchezze del mondo

Al giorno d’oggi la ricchezza mondiale è più concentrata nelle mani di una élite di quanto lo sia mai stata nella storia moderna.

Un tempo la maggior parte della popolazione sul pianeta sapeva come coltivare i propri alimenti, allevare i propri animali e prendersi cura di sé. Non c’erano molte persone favolosamente ricche, ma c’era una certa dignità nell’avere un pezzo di terra che potevi chiamare tuo, o nell’avere un’abilità che potevi far fruttare.

Tristemente, nelle ultime decine di anni, una percentuale sempre maggiore di terre coltivabili è stata inghiottita da grosse corporation e da governi corrotti. Centinaia di milioni di persone sono state cacciate dalle proprie terre verso aree urbane sempre più dense.

Nel frattempo, è diventato sempre più difficile avviare un’attività propria, dal momento che poche monolitiche corporation globali hanno iniziato a dominare quasi ogni settore dell’economia mondiale. Così, un numero sempre maggiore di persone nel mondo è stata obbligata a lavorare per “il sistema” per riuscire appena a sopravvivere. Allo stesso tempo, coloro che sono al vertice della catena alimentare (l’élite) hanno impiegato decenni per implementare il sistema in modo da assicurarsi nelle proprie tasche porzioni sempre più vaste di ricchezza.

E così oggi, nel 2010, abbiamo un sistema globale in cui pochissime persone al vertice sono assurdamente ricche, mentre circa metà della popolazione di questo pianeta è irrimediabilmente povera.

Ci sono davvero poche nazioni nel mondo che non siano state quasi interamente saccheggiate dall’élite globale.

Quando l’élite parla di “investire” nei paesi poveri, ciò che intende veramente è prendere possesso delle terre, dell’acqua, del petrolio e delle altre risorse naturali. Grosse corporations globali stanno oggi spogliando dozzine di nazioni in tutto il mondo di favolose quantità di ricchezza, mentre la maggior parte della popolazione di quelle nazioni continua a vivere in un’abietta povertà. Nel frattempo, i politici al vertice di quelle nazioni ricevono ingenti doni per poter perpetrare il saccheggio.

Quello che quindi abbiamo nel 2010 è un mondo dominato da una minuscola manciata di persone ultraricche al vertice che posseggono una quantità incredibile di beni reali, un gruppo più numeroso di “manager intermedi” che fa funzionare il sistema per l’élite globale (e che è pagato veramente bene per farlo), centinaia di milioni di persone che fanno il lavoro richiesto dal sistema, e diversi miliardi di “inutili avventori” di cui l’élite globale non ha bisogno alcuno.

Il sistema non è stato progettato per elevare il tenore di vita dei poveri. Né per promuovere la “libera impresa” e la “competizione”. L’élite intende piuttosto accaparrarsi tutta la ricchezza e lasciare il resto di noi schiavi del debito o della povertà.

Quello che segue è un elenco di 20 dati statistici che provano il continuo accentramento di ricchezza nelle mani dell’élite globale, lasciando la maggior parte del resto del mondo in povertà e miseria.

  1. Secondo la UN Conference on Trade and Development (Conferenza dell’ONU su Commercio e Sviluppo), il numero di “paesi meno sviluppati” è raddoppiato negli ultimi 40 anni.
  2. I “paesi meno sviluppati” hanno speso 9 miliardi di dollari per importazioni di alimenti nel 2002. Nel 2008 questa cifra è salita a 23 miliardi di dollari.
  3. Il reddito medio pro-capite nei paesi più poveri dell’Africa è sceso a 1/4 negli ultimi 20 anni.
  4. Bill Gates ha un patrimonio netto dell'ordine dei 50 miliardi di dollari. Ci sono circa140 paesi al mondo che hanno un PIL annuo inferiore alla ricchezza di Bill Gates.
  5. Uno studio del World Institute for Development Economics Research (Istituto Mondiale per la ricerca sull’economia dello sviluppo) evidenzia che la metà inferiore della popolazione mondiale detiene circa l’1% della ricchezza globale.
  6. Circa 1 miliardo di persone nel mondo va a dormire affamato ogni notte.
  7. Il 2% delle persone più ricche detiene più della metà di tutto il patrimonio immobiliare globale.
  8. Si stima che più dell’80% della popolazione mondiale vive in paesi dove il divario fra ricchi e poveri è in continuo aumento.
  9. Ogni 3,6 secondi qualcuno muore di fame, e 3/4 di essi sono bambini sotto i 5 anni.
  10. Secondo Gallup, il 33% della popolazione mondiale dice di non avere abbastanza soldi per comprarsi da mangiare.
  11. Mentre stai leggendo questo articolo, 2,6 miliardi di persone nel mondo stanno soffrendo per mancanza di servizi sanitari di base.
  12. Secondo il più recente “Global Wealth Report” di Credit Suisse, lo 0,5% di persone più ricche controlla più del 35% della ricchezza mondiale.
  13. Oltre 3 miliardi di persone, quasi la metà della popolazione mondiale, vive con meno di 2 dollari al giorno.
  14. Il fondatore della CNN, Ted Turner, è il più grande proprietario terriero privato negli Stati Uniti. Oggi, Turner possiede circa 2 milioni di acri [più di 8.000 Km quadrati - NdT] di terra. Questa quantità è maggiore dell’area del Delaware e di Rhode Island messe assieme [come l’intera superficie dell’Abruzzo - NdT]. Turner peraltro invoca restrizioni governative per limitare a 2 o meno figli per coppia nell’ottica di un controllo della crescita demografica.
  15. 400 milioni di bambini nel mondo non hanno accesso all’acqua potabile.
  16. Circa il 28% dei bambini dei paesi in via di sviluppo sono considerati malnutriti o hanno una crescita ridotta a causa della malnutrizione.
  17. Si stima che gli Stati Uniti detengano circa il 25% della ricchezza totale del mondo.
  18. Si stima che l’intero continente africano possegga solo l’1% della ricchezza totaledel mondo.
  19. Nel 2008 circa 9 milioni di bambini sono morti prima di compiere i 5 anni. Circa 1/3 di tutte queste morti è dovuto direttamente o indirettamente a scarsità di cibo.
  20. La famiglia di banchieri più famosa al mondo, i Rothschild, ha accumulato montagne di ricchezza mentre il resto del mondo è stato intrappolato nella povertà. Ecco cosa afferma Wikipedia a proposito delle ricchezze della famiglia Rothschild:

Si è sostenuto che nel corso del 19° secolo, la famiglia possedeva di gran lunga il più grande patrimonio privato del mondo, e di gran lunga la più grande fortuna nella storia moderna.

Nessuno sembra conoscere esattamente quanta ricchezza posseggano i Rothschild oggi. Dominano il sistema bancario in Inghilterra, Francia, Germania, Austria, Svizzera e molte altre nazioni. È stato stimato che la loro ricchezza aveva un valore di miliardi [di dollari] già alla metà dell’800. Senza dubbio la quantità di ricchezza detenuta oggi dalla famiglia è qualcosa di inimmaginabile, ma nessuno lo sa con certezza.

Nel frattempo, miliardi di persone nel mondo si stanno chiedendo come far saltar fuori il loro prossimo pasto.

A questo punto, molti lettori vorranno discutere di quanto è orribile il capitalismo e di quanto meravigliosi siano il socialismo e il comunismo.

Ma il problema non è il capitalismo e come abbiamo visto innumerevoli volte nei decenni passati, la proprietà statale delle imprese non costituisce soluzione a nulla.

Ciò che abbiamo nel mondo oggi non è capitalismo. È piuttosto qualcosa di più vicino al “feudalesimo”. L'élite è costituita da “uomini-monopolio” che sfruttano la loro incredibile ricchezza e potere per dominare il resto di noi. Di fatto, è stato John D. Rockefeller ad affermare: “La competizione è peccato”.

Sarebbe bellissimo se vivessimo in un mondo in cui chi vive in povertà fosse incoraggiato a intraprendere una propria attività agricola, a crearsi un lavoro e costruirsi una vita migliore.

Invece le cose vanno nella direzione opposta. La ricchezza diventa sempre più concentrata nelle mani di pochissimi, e il ceto medio ha iniziato a venire eliminatoanche nelle nazioni benestanti come gli Stati Uniti.

Risulta che l’élite globale ha deciso che non ha realmente bisogno di così tante e costose “api operaie” statunitensi dopo aver spostato oltreoceano migliaia di fabbriche e milioni di posti di lavoro.

Nel frattempo gli statunitensi sono così distratti da Ballando sotto le stelle, da Lady Gaga e dalla propria squadra sportiva da non rendersi conto di cosa sta accadendo.

Non c'è alcuna garanzia sul fatto che gli Stati Uniti saranno prosperi per sempre. Oggi, un numero record di statunitensi vive già in povertà. Il reddito medio familiare è calato lo scorso anno ed è calato anche lo scorso anno rispetto a quello precedente.

Quindi svegliamoci. Gli Stati Uniti si stanno integrando in un sistema economico globale dominato e controllato da una élite spropositatamente ricca. A costoro non interessa che tu abbia da pagare il mutuo e che tu desideri mandare tuo figlio all'università. Ciò che interessa loro è accumulare quanto più denaro possibile per sé stessi.

L’avidità sta correndo rampante attorno al pianeta e il mondo sta diventando un luogo molto molto freddo. Sfortunatamente, a meno di eventi davvero drammatici, i ricchi stanno solo diventando più ricchi, e i poveri stanno solo diventando più poveri.

di The Economic Collapse Blog

Fonte originale: The Economic Collapse Blog / Traduzione a cura di: Eileen Morgan / Fonte: ilporticodipinto.it

07 gennaio 2011

Finmeccanica, un’industria in ostaggio

Prima che Bush uscisse di scena, nel Novembre del 2009 durante un ricevimento alla Casa Bianca, Berlusconi apprestandosi a leggere il discorso in cui avrebbe rinnovato la fedeltà, la stima e la profonda amicizia che lo legava al Presidente, alla sua famiglia ed agli Stati Uniti, avvicinandosi al leggìo preparato per gli ospiti incespicò nel filo del microfono, trascinandosi dietro mobile ed appunti. Il patatrac sollevò tra i tavoli dei presenti un lungo “uuhhh” di stupore.
L’imbarazzo che colpì il Presidente del Consiglio mentre riacquistava l’equilibrio sulle gambe e tentava di dare ordine ai fogli volati via, raccogliendoli da terra, non poteva non dare un tocco di comicità al ruzzolone. Ma il peggio arrivò nei secondi successivi.
Berlusconi, per rimediare alla gaffe, non trovò di meglio che sfoderare un sorriso a 36 denti rivolgendo ai commensali la seguente battuta: “Vedete – disse – queste sono cose che succedono per il troppo amore che mi lega a voi e alla vostra grande Nazione”. Quello che uscì in quel frangente dalla bocca di Berlusconi fu un mix di manifesta condivisione del “way of life” USA e di stomachevole, interessata ruffianeria. La frase, accompagnata da un largo gesto benedicente delle braccia, venne accolta da un battimani molto composto, quasi di semplice cortesia, dall’establishment di Washington mentre Bush continuava a ridersela sotto i baffi.
Appena trenta giorni prima, l’Amministrazione USA gli aveva fatto sapere che la commessa AW-101 di Agusta Westland, consociata controllata al 100% da Finmeccanica, era stata semplicemente tagliata fuori dalle forniture del Pentagono. La firma definitiva sulla cancellazione la metterà il Presidente Obama.
Era andata in fumo per l’Italia la vendita oltreoceano di 23 elicotteri da trasporto del valore, nel 2005, di 6.5 miliardi di dollari.
La disdetta (ufficiosa) era stata anticipata a Palazzo Chigi con un fax partito da Via Vittorio Veneto, con la motivazione che il costo finale stimato (!) della commessa avrebbe superato i 13 miliardi di dollari e… in previsione di una riduzione di spese… bla bla bla.
Il “regalino” portava la firma dell’ambasciatore statunitense in Italia Ronald Spogli, prima che gli subentrasse David Thorne.
Non si scomodarono per dargliene notizia né il Segretario di Stato C. Rice né quello alla Difesa R. Gates. Il disappunto del Presidente del Consiglio, se c’era stato, svanì alla svelta.
Un “increment”, quello da 6.5 a 13 miliardi di dollari, determinato dalle continue pressioni del Servizio di Protezione della Casa Bianca e dallo stesso Pentagono per dotare i velivoli ad ala rotante di Agusta Westland di allestimenti faraonici inizialmente non previsti e di costosissime attrezzature aggiuntive di navigazione e di sicurezza per i Marine One della Casa Bianca e per le Forze Armate USA. Le pressioni delle potenti lobbies dell’industria aeronautica statunitense, Sikorsky in testa, avevano fatto il resto.
Un piano finalizzato al puro e semplice sabotaggio dell’appalto, civile e militare, ottenuto dall’Italia.
Le leggi degli Stati Uniti prevedono, al superamento del 20% dei costi inizialmente previsti dalle commesse affidate dal Pentagono a società USA o di altri Paesi, un riesame a Camera dei Rappresentanti e Senato per ottenere il via libera al mantenimento dei numeri di fornitura sottoscritti con i committenti.
I Governi italiani, “maggioranza & opposizione”, sull’acquisizione fin qui mantenuta di 131 (!) F-35 “stealth” della Lockheed Martin, passati da un costo iniziale di 55-60 milioni di euro (ad esemplare) ad oltre 120, in 700 giorni, non hanno mosso foglia. Ma c’è di ben più grave da segnalare.
Gianandrea Gaiani, che ha lavorato per Analisi Difesa e scrive su Il Sole-24 ore, ha quantificato per il fine anno 2010 il costo in uscita dalle linee di montaggio del jet militare Lockheed Martin a… 180-200 milioni, senza addestramento piloti, ricambi ed armi di bordo. Se non andrà alla deriva l’intero progetto, come ci auguriamo. La notizia, clamorosa, ha trovato conferma sia negli ambienti diDedalonews, dell’A.M.I e di Confindustria sia negli esperti di settore. Il tutto mentre La Russa si esibiva nel talk-show “Anno Zero” di giovedì 16 Dicembre dando sfoggio di una flagrante imbecillità, con tanto di pagliaccesca esibizione nel contradditorio (urlato) con Di Pietro, lo studente Cafagna e Michele Santoro.
Un Ministro della Difesa che, per congedarsi dallo studio televisivo, cercava la mano ostentatamente rifiutatagli dal conduttore, per poi ripensarci e rimettersi seduto, continuando peraltro ad inveire come una “vajassa” contro i suoi avversari.
Insomma una prestazione, quella di La Russa, fotocopia degli sbracamenti fior di macchiette alla Mussolini-Sgarbi, ma che evita come la peste di sollevare con l’Alleato USA una sola semplicissima “osservazione” verbale o scritta sull’aumento dei costi di quasi il 400% dell’F-35 nel giro di tre-quattro anni.
Cinque giorni più tardi, il titolare di Palazzo Baracchini, ormai conosciuto come il D’Annunzio del XXI° Secolo, sarà al Comando Operativo Interforze di Centocelle accanto ad un Napolitano che si spenderà, con trasporto atlantico a tutto tondo, per la “missione di pace” in Afghanistan.
Quella “missione di pace” in merito alla quale il generale Castellano della Folgore aveva ammesso pubblicamente, senza apparentemente compiacersene, durante un’intervista all’inviato del TG3 ad Herat, che il contingente italiano in ISAF NATO ha fatto, nel solo periodo del suo Comando al PRT-11 (sei mesi), “parecchi, parecchi morti” o come riportato da Fausto Biloslavo su Il Foglio che “i Tornado bombardano [con carichi bellici di 9 tonnellate a raid - nda] formazioni isolate della guerriglia su richiesta di radio Trinity” anche se – aggiungerà – “qualche volta bastano dei passaggi con le armi di bordo”, cannoni a tiro rapido Mauser da 27 mm.
Con questi chiari di luna pregressi, La Russa avrà la faccia tosta di raccontarci qualche mese dopo la favoletta degli AMX senza carico bellico per sole “uscite” di ricognizione diurna e notturna.
Lo potrà fare senza che un solo operatore dell’”informazione pubblica e privata” metta in dubbio la colossale menzogna.
Per rendere credibile la pastetta, l’Aeronautica Militare e la NATO forniranno un’ampia documentazione fotografica, ad altissima definizione, dei cacciabombardieri AMX da attacco al suolo in “conformazione pulita” come si usa dire in gergo militare, senza bombe laser od a caduta libera sotto gli attacchi, mentre stazionano nelle aree dell’aeroporto di Herat o sono in volo di formazione.
Ripartiamo dai G-222.
A quanto ne sappiamo, l’ Italia ha venduto agli USA 18 G-222 ricondizionati (C-27 A) da trasporto logistico destinati alle forze armate afghane, valore 287 milioni di euro, per interessamento di Alenia North America su input del titolare di Palazzo Baracchini.
Una triangolazione che appare opacissima, sulfurea, meritevole di passare, a tempo debito, al filtro di un microscopio.
L’Italia, dal canto suo, avrebbe beneficiato, a quanto si sussurra, di uno “sganciamento anticipato” di 180 giorni sulla data prevista (?) da quel teatro di guerra e di un via libera per piazzare in Lituania, Romania, Slovacchia e Bulgaria 21 velivoli da trasporto C- 27 J Spartan costruiti da Alenia Aeronautica.
Senza nulla osta USA l’ Alenia è impedita ad assemblarli ed esportarli verso Paesi che ne facciano richiesta ai nostri Governi. Il perchè è presto detto. I componenti elettronici di navigazione, di difesa passiva ed i motori ad elica “made in USA” che imbarcano, ne vietano tassativamente l’esportazione senza il consenso di Washington e della NATO, per evitare la diffusione di tecnologia militare occidentale verso Paesi ed aree regionali “antagoniste”.
Da quando va avanti questa storia?
Dal 1945, con la liquidazione coatta di tutte le fabbriche aeree e motoristiche nazionali. Se la guerra, come si sostiene, l’ha persa il fascismo, l’Italia ha perso, pagandola cara, la pace. Per capirlo basta aprire gli occhi e guardare in faccia la realtà.
Nel dopoguerra ce la siamo cavata volando con i C-119 Fairchild con due motori radiali Wright, poi con i C-130 Lockheed Martin a quattro motori Allison-Rolls Royce.
Successivamente i vincitori a stelle e strisce hanno allentato la briglia.
Si fa per ridere.
Nel 1978 la FIAT è stata autorizzata a costruire la cellula del G-222 con montaggio di due turbine General Electric, con esportazione vietata del trasporto militare in tutti i Paesi con interessi politici, economici e militari divergenti, potenzialmente conflittuali o conflittuali con quelli di USA e NATO.
Condizione subalterna che ci ha costretto fino ad oggi a raccogliere le briciole che cadevano dal piatto dell’Alleato di Oltreoceano.
Per il trasporto tattico C-27 Spartan J, che uscirà dalle linee di montaggio Alenia Aeronautica a partire dal Settembre 1999, la solfa non cambierà: motorizzazione, anche in questo caso, con due turbine Rolls Royce-Allison. Più affidabili, con più potenza erogata ma sempre costruite negli Stati Uniti.
Siamo ancora a dover far di conto dopo 65 anni con un passato che non passa. E’ ora di dire basta, perché cessi questo scempio, questo distruttivo calpestìo sotto gli zoccoli USA della “sovranità nazionale” e degli interessi, presenti e futuri, del Paese.
Perfino gli aerei della Protezione Civile hanno motori ad elica “made in Canada” con motorizzazione USA Pratt & Whitney.
Nel frattempo, nell’intento di “allargare” il mercato, Finmeccanica il 13 Maggio del 2008 acquisterà in nord America il 100% di DRS Technologies per un importo di 5.2 miliardi di dollari, compresa l’assunzione di 1.2 miliardi di indebitamento netto che ne facevano una società abbondantemente decotta, che si apprestava a chiudere i battenti per una crescente penuria di commesse dal Pentagono.
I termini dell’accordo finiranno per garantire all’Amministrazione USA un affare grosso come una casa ed una perdita di eguali dimensioni per l’Italia.
Finmeccanica, proprietaria al 100% di DRS, manterrà la sede principale a Parsippanny nello stato di New York ed in carica l’intero gruppo dirigente di formazione USA, compreso il Presidente ed Amministratore Delegato Mark
Newman. Un’altra flagrante operazione in “rosso” dopo lo scorporo da DRS dei rimanenti “settori a tecnologia avanzata” transitati verso altre società del settore “sicurezza” e la clausola accettata e sottoscritta da Finmeccanica, al momento dell’acquisizione, delle disposizioni contenute nello Special Security Agreement per garantire agli Stati Uniti la tutela delle “informazioni classificate” anche a contenitore largamente saccheggiato.
Apparendo debolissima una motivazione industriale, di penetrazione Finmeccanica nel mercato USA, l’acquisto di DRS da parte di Guarguaglini & soci non può non apparire una costosissima compensazione per delle mosse azzardate nel settore dell’approvvigionamento e del trasporto energetico o di qualche collaborazione “fuoricampo” nelle costruzioni aeronautiche ad uso passeggeri.
Insomma, se Alenia partecipa alla costruzione del Sukhoi Superjet 100 in Russia con il 51%, l’America si arrabbia, ce lo fa sapere e ci boicotta facendoci perdere centinaia e centinaia di milioni di euro magari con l’AW-101, costringendoci a ripensare partners ed investimenti, magari con qualche minaccia obliqua a destra e manca od imponendoci l’acquisto di un numero esorbitante di costosissimi bidoni “stealth” come l’ F-35.
E la musica non cambia con repubblicani o democratici, con bianchi e neri.
A Maggio 2007 la quotazione di Finmeccanica era di 23.38 euro ad azione, a Gennaio 2010 è scesa a 10.05 (meno della metà!), oggi si attesta ad 8.50, con un calo percentuale nell’anno trascorso di circa il 15%.
L’indebitamento finaziario netto dal 2005 al 2008 è salito da 1.100 a 3.383 milioni di euro. Mancano dal prospetto della Società, dal 2006, i dati del valore complessivo della produzione. Gran brutto affare.
Da asset pubblico strategico per il Paese Finmeccanica sta lentamente precipitando in una condizione finanziaria d’emergenza.
Ed è questo che ci preoccupa.
Temiamo che in prospettiva possano esserci più bilanci in rosso, con lo spettro di una cessione progressiva di quote appartenenti al Ministero dell’Economia e Finanze e consistenti perdite di occupazione ad alta specializzazione, per arrivare poi alla privatizzazione ed alla vendita dell’intero conglomerato, a prezzi stracciati, ad investitori “privati”.
Il Nuovo Pignone dell’ENI fu il primo assaggio di un’industria strategica per l’economia nazionale venduta per un tozzo di pane alla General Electric (guardacaso), pur avendo centinaia e centinaia di miliardi di ordini, in lirette, nel portafoglio ed un bilancio in attivo.
Quindi se Prodi non diventò rosso di vergogna in quell’occasione… e tutto passò alla grande in cavalleria… è lecito pensare al peggio.
Nell’aria intanto stanno fluttuando segnali più che preoccupanti.
Secondo indiscrezioni, potrebbero venir fuori provvedimenti di messa in mobilità per 1.500 lavoratori del Gruppo guidato da Pierfrancesco Guarguaglini.
Alenia-Aermacchi, una consociata, ha previsto il ricorso alla cassa integrazione ed esuberi a livello regionale anche se al momento non è stato comunicato ai sindacati il numero delle “eccedenze” necessarie a contenere, si sostiene, lo stato di pre-crisi.
Per contro, Finmeccanica mantiene 78 costosissime sedi di rappresentanza negli USA di Ansaldo Breda, Ansaldo STS, Ansaldo Energia, Thales Alenia Space, MBDA, Alenia North America, Bell Agusta Aereospace, Selex Sistemi Integrati, Selex Galileo, Selex Communications, Global Military Aircraft Systems, Global Aeronautica, Telespazio North America, Oto Melara ed Elsagh Nord America, piene fino all’orlo di “raccomandati” a livelli di retribuzione adeguati alle “capacità professionali e promozionali” fra i 2.100 dipendenti.
Il Paese non può permettersi di continuare a gettare al vento preziose risorse finanziarie in quell’area, senza ritorni sufficienti a contenere almeno a livelli accettabili o, meglio, ad annullare le attuali ingenti perdite di gestione.

di Giancarlo Chetoni

06 gennaio 2011

La crescita di Pechino è davvero sostenibile?




L'Australia rappresenta l'esempio più lampante di come la crescita cinese sostenga la bolla finanziaria sostenuta dall'erogazione, a costo zero, negli Usa, in Europa e in Giappone, di denaro pubblico al sistema bancario.

Quando la crisi precipitò nel 2008 sembrava che per l'Australia le cose dovessero andare malissimo. Con il crollo dei prezzi mondiali delle materie prime il dollaro australiano si svalutò fortemente toccando i 48 centesimi di euro. Oggi il dollaro australiano si situa sui 77 centesimi ed ha superato il dollaro statunitense.
Tutto grazie alla Cina, che ha generato un enorme boom minerario, superiore alla grande la corsa all'oro della seconda metà del diciannovesimo secolo che trasformò l'Australia nella regione col reddito pro capite più alto al mondo. I capitali stanno affluendo nel paese sia per investimenti nelle attività minerarie che per via la politica della banca centrale di alzare i tassi di interesse alfine di controllare l'inflazione.

Ciò ha rilanciato il credito ai mutui ipotecari con prestiti fondati su aspettative di un continuo rialzo dei valori immobiliari. La bolla cinese ha pienamente inglobato il paese: un modesto calo del tasso di crescita di Pechino creerebbe delle voragini nella posizione debitoria delle famiglie e nell'esposizione delle banche.

Se le aspettative di lucro del sistema finanziario mondiale si appuntano sulla Cina e i paesi al suo traino, la crescita di quest'ultima sta giungendo a un punto di svolta. Sul China Daily del 23 dicembre scorso è apparso un articolo di grande importanza a firma di Yu Yongding, già membro della commissione per la politica monetaria della Banca del Popolo (centrale). La sua analisi è severissima. Lo sviluppo cinese ha dei costi esorbitanti col 50% del reddito assorbito dagli investimenti, 1/4 dei quali è destinato all'edilizia. Le autorità spingono a costruire per aumentare il Pil. Infatti l'esistenza di città nuovissime e disabitate è nota. In Cina, sottolinea Yongding, polveri e fumo stanno asfissiando le città, i maggiori fiumi sono gravemente inquinati e, malgrado i progressi realizzati, avanza la deforestazione e la desertificazione. Siccità, inondazioni e frane sono ormai fenomeni comuni, mentre l'incessante attività estrattiva esaurisce le risorse naturali.

Si impone, osserva l'articolo, un drastico mutamento di rotta, tuttavia l'industria cinese non riesce a superare il suo status di fabbrica di massa mondiale e trasformarsi in una forza di innovazione. Ne consegue che la dipendenza dalle esportazioni è strutturale: il cambiamento di rotta richiederebbe un aggiustamento molto doloroso.

A ciò si aggiunge il fatto che lo sviluppo cinese è stato fortemente orientato in favore degli strati più ricchi, mentre il governo ha fallito nel provvedere beni di utilità pubblica. Per l'autore dell'articolo, sebbene la crescita attuale non sia sostenibile, il paese è dominato da una ferrea alleanza tra burocrazia pubblica e strati capitalisti che hanno addirittura tratto beneficio dai tentativi di riforma.

La Cina, scrive Yongdin, «è il paese del capitalismo dei ricchi e dei potenti», questi difendono con ogni mezzo i loro interessi. In tale contesto la possibilità di usare in maniera socialmente razionale il surplus estero del paese sta scemando. L'analisi dell'autore mi risulta corretta e senza maschere nazionalistiche. Essa implica che in Cina il mutamento avverrà con una profonda crisi che coinvolgerà ampiamente il capitalismo americano, nipponico e anche europeo.
di Joseph Halevi

05 gennaio 2011

Palestina: quando arrivano le ruspe







La demolizione delle case: un decisivo tassello della pulizia etnica sionista

L’asimmetrico conflitto israelo-palestinese è una lotta per la terra che si consuma metro dopo metro, casa dopo casa, a danno della popolazione palestinese autoctona in patente violazione dei Trattati internazionali e della Convenzione di Ginevra.


Art 53, IV Convenzione di Ginevra (1949)
“È proibita da parte della Potenza Occupante qualsiasi distruzione di beni immobili o personali appartenenti, a titolo individuale o collettivo, a persone private o allo Stato o ad altre autorità pubbliche o a organizzazioni sociali o cooperative, eccetto laddove tale distruzione sia resa assolutamente necessaria da operazioni militari".
Il 9 novembre il quotidiano israeliano Haaretz riportava che, nonostante il rimprovero della Casabianca per la ininterrotta costruzione di abitazioni illegali sul territorio palestinese occupato (TPO), il piano israeliano di edificazione di centinaia di nuovi alloggi a Gerusalemme Est proseguiva imperterrito[1]. Contemporaneamente, in quegli stessi giorni, continuavano gli ordini di demolizione di case e di sfratto di famiglie palestinesi nella parte araba della città[2].

L’ICHAD (Comitato Israeliano Contro la Demolizione delle Case) stima che, dal 1967 al 28 luglio 2010, nel TPO siano state demolite 24.813 strutture abitative palestinesi, 2.000 soltanto a Gerusalemme Est. Dall’anno 2000 al gennaio 2009 sono state abbattute 10.105 case, una media di 1.011 all’anno. Il numero di ordini di demolizione ancora da eseguire e’ a tutt’oggi pari a circa 20.000[3].

Le autorità israeliane giustificano la demolizione di case con ragioni o militari (deterrenza e anti-terrorismo) o amministrative per la mancanza di permessi o la violazione di norme abitative. Secondo molte organizzazioni, come Amnesty International e il Comitato Internazionale della Croce Rossa, questi interventi hanno invece due principali motivazioni:
1. infliggere una “punizione collettiva” alla popolazione innocente (comportamento considerato un crimine di guerra dalla 4° Convenzione di Ginevra);
2. appropriarsi di territorio palestinese e, a Gerusalemme Est, modificare la percentuale della popolazione residente a favore della componente ebraica. Il primo tipo di demolizioni avviene soprattutto durante i periodi di conflitto armato; il secondo tipo, più importante in termini numerici e per il suo significato politico, si sta protraendo da decenni con un picco di particolare frequenza in questi ultimi mesi.

L’autorità israeliana persegue come illegali le costruzioni effettuate senza autorizzazione per le quali in genere fa seguire l’ordine di abbattimento. I palestinesi che vivono sotto occupazione israeliana a Gerusalemme Est e nell’area C della Cisgiordania sono sottoposti a divieti di edificazione talmente rigidi che molte famiglie devono subire la violenza distruttiva delle ruspe e la privazione del diritto ad una casa.

Gli Accordi di Oslo (1993) prevedevano che Israele mantenesse per alcuni anni il controllo civile e militare della cosiddetta Area C, equivalente a più del 60% della Cisgiordania. I circa 150.000 palestinesi che vivono in quelle zone soffrono di notevoli restrizioni a costruire e a muoversi liberamente. Migliaia di ettari (il 18% della Cisgiordania), in particolare la Valle del Giordano e le colline a sud di Hebron, sono classificati come “area militare inaccessibile” dove è vietato edificare.

A Gerusalemme Est, area della città occupata nel 1967 e annessa illegalmente nel 1980, Israele ha espropriato il 35% del territorio, circa 24 Kmq, allo scopo di costruire nuovi insediamenti ebraici. Su queste terre il governo israeliano ha finanziato l’edificazione di quasi 50 mila unità residenziali per la popolazione ebraica e meno di 600 per quella palestinese, l’ultima delle quali più di 30 anni fa[4]. Nonostante la popolazione palestinese rappresenti il 30% dell’intera Gerusalemme, essa è confinata sul 7% della superficie della città in abitazioni il più delle volte inadeguate. La maggior parte della terra che rimane nelle mani dei palestinesi, circa 45 Kmq, non è edificabile mentre negli ultimi 40 anni i residenti di Gerusalemme Est sono praticamente quadruplicati (da 69.000 a 273.000). Si stima che la crescita naturale della popolazione palestinese richiederebbe la costruzione di 1.500 unità abitative all’anno, mentre nel 2008 sono stati accordati soltanto 125 permessi che hanno consentito la costruzione di 400 alloggi.

A causa della crescente e soffocante densità abitativa nella parte palestinese della città, che nel 2002 era pari a quattro volte quella della zona ebraica occidentale, per i pochi palestinesi che ancora possiedono un pezzo di terra non rimane che sperare nella remota possibilità di un permesso di costruzione. Quando questo, come nella maggior parte dei casi, non arriva, non rimane che costruire abusivamente.

I palestinesi di Gerusalemme Est sono estremamente vulnerabili agli interventi di demolizione. Delle 46 mila abitazioni del settore orientale della città soltanto 20 mila sono state costruite con la dovuta autorizzazione. In qualsiasi momento, quindi, quasi la metà della popolazione palestinese di Gerusalemme può essere soggetta a sfratto o alla demolizione della propria casa. Il recente Piano regolatore[5], che cita esplicitamente tra i suoi obiettivi quello di mantenere l’”equilibrio demografico” tra residenti ebrei (70%) e palestinesi (30%), prevede 13.550 nuove unità abitative per la popolazione palestinese di Gerusalemme Est, 10 mila delle quali, tuttavia, da costruire soltanto nel 2030.

All’inizio degli anni 90, l’allora sindaco di Gerusalemme, Teddy Kollek, aveva riconosciuto esplicitamente la profonda ingiustizia delle demolizioni per una popolazione costretta a costruire illegalmente per l’assenza quasi totale delle dovute autorizzazioni. Contro la sua volontà di modificare le cose, tuttavia, la destra israeliana al governo aveva istituito un’apposita unità operativa a Gerusalemme Est, tuttora in funzione, che si occupa soltanto delle case abusive della popolazione palestinese. Nessun’altra unità del genere esiste in tutto Israele e nessuna abitazione di proprietà ebraica è mai stata demolita.

Quando arrivano le ruspe, la tragedia raggiunge il culmine. Accompagnate da agenti di polizia e soldati israeliani, le squadre di demolizione possono presentarsi in qualsiasi momento del giorno e della notte, concedendo soltanto un breve preavviso per rimuovere beni e masserizie. Secondo la legge militare israeliana, le famiglie sfollate non hanno diritto a ottenere un alloggio né a essere compensate. Se non vengono ospitate da familiari, amici o organizzazioni caritatevoli, sono abbandonate a se stesse[6].

È difficile quantificare il trauma e la sofferenza che comporta la distruzione della propria abitazione. La casa è più di una semplice struttura fisica e il suo significato è soprattutto simbolico. È il luogo dove si svolge la parte più intima dell’esistenza personale. È il rifugio, la rappresentazione fisica della famiglia e il posto dove si trovano gli oggetti più cari. Nella cultura palestinese la casa possiede un ulteriore significato. I figli che si sposano tendono a fissare la propria residenza accanto alla famiglia di origine allo scopo di preservare non soltanto la vicinanza fisica ma, soprattutto, una continuità nella proprietà della terra dei propri avi. Quest’ultimo aspetto è particolarmente importante per una società agricola e di rifugiati che hanno perduto la casa nativa a seguito dei conflitti del 1948 e del 1967. La demolizione dell’abitazione o la sua espropriazione rappresenta un’ulteriore aggressione all’identità di una persona[7].

Le famiglie le cui case sono demolite spesso non possono permettersene un’altra e devono contare sull’ospitalità di parenti o amici. Il trauma viene percepito in modo diverso da uomini, donne e bambini. L’uomo rimane profondamente umiliato per il senso di impotenza a proteggere la propria famiglia, la perdita dei legami con la terra dei suoi avi, la sua eredità e quella della sua gente. La maggior parte delle donne non lavorano fuori casa, la quale costituisce la loro principale sfera d’influenza ed è lo spazio che appartiene a loro. Esse sono quindi molto più traumatizzate dall’obbligo di trovare un’altra sistemazione, in un territorio altrui in cui non hanno più la responsabilità di gestire spazi e attività familiari. Vedono distrutta la propria immagine e il loro ruolo di mogli e di madri, il ruolo di chi dà praticamente espressione alla vita domestica. Una casa distrutta è come una persona cara che muore, un vuoto che non può essere colmato da soluzioni alternative che, in genere, si rivelano disastrose. Una donna costretta a sistemarsi in un’altra famiglia va ad occupare l’ambito vitale di un’altra donna (la madre o la cognata) e perde inevitabilmente il controllo su marito e figli[8]. La perdita della privacy causa spesso un aumento dei conflitti tra i membri della famiglia con un’esplosione della violenza domestica.

Salwa, 28 anni, così esprime la sua tragedia personale: “La gente potrà anche provare dispiacere quando sente il frastuono della demolizione, ma pensi che qualcuno sia capace di sentire la demolizione dei nostri cuori? dei nostri sogni? dei nostri programmi futuri? Credo che queste voci non siano mai udite. Pensi che si siano accorti della mia paura, della mia agonia, del mio orrore? Niente affatto. Paura, agonia, orrore non hanno voce, non fanno rumore, e l’occupazione militare non ha occhi, non ha moralità, non ha coscienza, non ha Dio” [9].

Nei bambini il trauma della demolizione della casa lascia un marchio indelebile che dura tutta la vita. Già nei mesi che precedono l’intervento demolitivo essi sono testimoni della paura e del senso di inadeguatezza dei propri genitori che vivono costantemente in un’atmosfera di insicurezza. All’arrivo delle squadre di demolizione, vedono i propri cari sottoposti a violenze e umiliati, circondati dal fragore delle ruspe che sradicano e distruggono la loro dimora, il loro mondo, i loro giocattoli. La presenza di decine di poliziotti, assistiti da soldati in tenuta da combattimento, disegna nella mente del bambino un quadro dei propri genitori come pericolosi criminali. Questo processo ha un enorme impatto sulle condizioni psichiche e fisiche di tutti membri della famiglia, non soltanto dei bambini.

La demolizione della casa è seguita da lunghi periodi di instabilità della famiglia. Secondo uno studio della ONG Save the Children[10], la maggior parte delle famiglie impiegano almeno due anni prima di trovare un luogo di residenza permanente. Un’altra ricerca rivela il profondo impatto psicologico sulle donne che tendono a sviluppare sintomi depressivi di vario tipo[11]. Altri studi hanno descritto gli effetti deleteri sui bambini che si manifestano con disturbi emotivi e comportamentali[12]. Le maggiori fonti di tensione nella famiglia sono, per i bambini, la sensazione di essere abbandonati e, per i genitori, la comparsa della depressione.

Commenta Meir Margalit, storico israeliano della comunità ebraica in Palestina ed ex-sionista radicale, “Non c’è nessun dubbio: il bulldozer prende posto accanto al carro armato come simbolo del modo in cui Israele si relaziona con i palestinesi. Entrambi i simboli dovrebbero comparire sulla bandiera nazionale. Entrambi sono espressione dell’aggressione che ha preso il sopravvento dell’esperienza nazionale israeliana. L’uno completa l’altro. Entrambi simbolizzano il lato oscuro del progetto che Israele sta portando avanti di sradicare ed espellere i palestinesi dalle terre in cui si trovano” [13].

Sia sul territorio israeliano sia nel TPO, Israele è vincolato dalla legislazione internazionale inclusi quei trattati internazionali sui diritti umani di cui Israele è uno Stato firmatario (State Party), come il Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali, il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici e la Convenzione Internazionale sull’Eliminazione di Tutte le Forme di Discriminazione Razziale. Nel Territorio Occupato, inoltre, la condotta di Israele come potenza occupante deve conformarsi ai dettati della legislazione umanitaria internazionale che si applica in tutti i casi di occupazione militare, compresa la 4° Convenzione di Ginevra relativa alla Protezione delle Persone Civili in Tempo di Guerra. Israele è l’unico Stato appartenente all’ONU che rifiuta di riconoscere i propri obblighi nei confronti della Convenzione di Ginevra nonostante le sconfessioni e le condanne ricevute in varie sedi dalla comunità internazionale, in particolare la Corte Internazionale di Giustizia[14].

di Angelo Stefanini
Angelo Stefanini - Centro Studi e Ricerche sulla Salute Internazionale e?Interculturale, Universita’ di Bologna. Coordinatore Sanitario Cooperazione Italiana – Gerusalemme.

04 gennaio 2011

L'alpino crepa, Bossi straparla


Mentre dilaga la retorica sull’ennesimo caduto “per la pace”, il Senatur si barcamena tra il malcontento popolare per i morti al fronte e i soliti luoghi comuni sul cosiddetto terrorismo talebano


La Lega, espressione di un territorio, il Nord, e perciò non automaticamente ascrivibile alla dicotomia destra-sinistra, è sempre stata un movimento contraddittorio, a due facce. In origine no-global ma liberista, poi secessionista ma senza disdegnare ministeri a Roma, infine federalista ma con una riforma federale tutta sulla carta, usata come merce di ricatto per tenere in piedi un Berlusconi ostaggio di Bossi. Oggi, dopo la morte del trentacinquesimo soldato italiano sul fronte dell’Afghanistan, Matteo Miotto, il grande capo leghista Umberto Bossi ha confermato la linea del doppio binario: «il problema è che quelli che non tornano dall'Afghanistan sono troppi e il Paese non è contento per questi lutti», benché, se «gli americani non fossero andati laggiù avremmo il terrorismo in tutta Europa, del resto i primi a fare atti di guerra sono stati i talebani con le Torri Gemelle». Conclusione: «Fai una guerra e in guerra muore della gente».

Un piccolo capolavoro di saggezza e ignoranza fuse assieme come in una chiacchiera da bar. Bossi, Ministro della Repubblica, è sempre quel popolano di scarpe grosse e cervello fino che fiuta gli umori popolari e li traduce col linguaggio del popolo. Ma la voce del popolo è la voce di un Dio buon padre di famiglia ma cieco e, sui fatti afgani, decisamente arrogante. Bossi dice che è meglio ritirarsi perché la guerra – lui la chiama così, visto che è una vera guerra e non un’operazione di pace – è impopolare. La sua presa di distanza dalla missione italiana a rimorchio dell’invasione Nato è frutto di un calcolo politico, non di un’idea di principio. Meglio che niente, visto che per evitare altri lutti insensati, sia di italiani mandati a combattere una fiera nazione sovrana che nulla ci ha fatto di male, sia di afgani, donne bambini e civili inermi trucidati dai bombardamenti “intelligenti”, l’unica cosa giusta da fare è andarsene, e al più presto.

Fin qui il buonsenso dell’uomo comune, che Bossi cattura con semplicità da maestro con quel suo lapalissiano e disarmante «il Paese non è contento» perché «in guerra muore della gente». Poi scatta il riflesso condizionato del luogo comune più becero e falso. Se non fossimo anche noi a dar manforte agli americani aggrediti nel cuore del loro potere finanziario, New York, secondo il Senatùr saremmo stati sommersi dalla marea nera del terrorismo islamico. Questa è una fesseria. Anzitutto, gli afgani non sono tutti terroristi, il che equivarrebbe a dire che gli italiani sono tutti dei mafiosi. Non sono terroristi neppure i Taliban, che non si macchiarono di nessun atto di terrorismo durante le occupazioni inglese e sovietica e che ora compiono atti di guerriglia contro i militari occupanti. E ciò non si configura come terrorismo, perché gli insorti non colpiscono civili innocenti in maniera indiscriminata bensì attaccano, in modo del tutto legittimo essendo dei resistenti né più né meno dei nostri partigiani nel ’43-’45, obbiettivi militari. Infine, non pago, Bossi ripete a pappagallo la sesquipedale sciocchezza secondo la quale dietro l’attentato alle Torri Gemelle ci sarebbero sempre questi Taliban, sottinteso alleati di Al Qaeda, cioè di quel fantasma di Osama Bin Laden. Peccato che non un solo afgano sia stato trovato fra gli attentatori (semmai era pieno di sauditi: col criterio bossiano avremmo dovuto invadere l’Arabia degli sceicchi Saud, se non fossero alleati storici degli Usa). Né, in quel fatidico 2001, è provato che Bin Laden fosse ancora in rapporti col governo talebano, che di Osama voleva sbarazzarsi (porgendone la testa su un piatto d’argento a Clinton che però rifiutò) perché diventato troppo ingombrante. E poi che l’Afghanistan sia la culla del terrorismo internazionale è una favoletta che la stessa Cia ha smontato calcolando che fra i circa 50mila “insurgents” ci sono appena 386 stranieri (uzbeki, ceceni, turchi).

L’alpino Matteo Miotto è caduto in una guerra d’occupazione ingiusta che stiamo perdendo. E nonostante ciò, a lui che credeva nella Patria, seppur in una Patria serva dell’America e proterva nel voler imporre ad un altro popolo il proprio sistema economico e di valori, va reso l’onore che meritano i caduti (e non il miserabile piagnisteo nazionale con cui l’Italia mammona sbrodola i feretri dei propri soldati). Il miglior modo per rispettarne la memoria, in ogni caso, resta rispettare la verità. E la verità è che noi stiamo occupando un paese in spregio al principio dell’autodeterminazione dei popoli (un tempo caro ai leghisti), e che continueremo a piangere morti poiché le pallottole finite in corpo ai nostri Miotto vanno a bersaglio grazie al diffuso appoggio che la gente afgana, quella che dovremmo “aiutare”, dà ai ribelli talebani. Altrimenti non si capisce come mai, dopo dieci anni di amorevoli “aiuti”, non siamo riusciti a piegare questi “terroristi” che dovrebbero venire isolati dalla popolazione. E invece siamo ancora lì, a perdere vite umane e a cospargerci di retorica sulla bara di un giovane, morto per una guerra sbagliata.

di Alessio Mannino

03 gennaio 2011

Le mani Usa sul petrolio russo: l’affare Khodorkovsky

Le prime pagine di mezzo mondo riportavano ieri la reazione seccata di Mosca a quello che i russi definiscono “ingerenze eccessive e intollerabili” dell’Occidente nel processo a Mikhail Khodorkovsky. Il caso è esploso dopo che l’ex-proprietario della Yukos ha ricevuto un secondo verdetto di colpevolezza, che lo condannerà probabilmente ad ulteriori anni di prigione. Di certo è curioso vedere la Casa Bianca che si sbilancia ufficialmente a favore di un semplice cittadino russo, definendosi «profondamente preoccupata» per un verdetto che suggerisce «una applicazione selettiva della giustizia» in Russia.

Hillary Clinton dice addirittura che «il processo solleva seri dubbi sul rispetto della legge in Russia», e che «il verdetto avrà un impatto negativo Mikhail Khodorkovskysulla reputazione della Russia». Anche il ministro degli esteri tedesco, Westerwelle, ha fatto sapere che considera questo verdetto «un passo indietro nella strada verso la modernizzazione del paese», dicendosi «molto preoccupato» per la nuova sentenza. Da parte sua, il presidente del comitato affari esteri del parlamento inglese, Richard Ottaway, ha detto che nel caso di Khodorkovsky non è stato seguito «un procedimento legale riconoscibile come legittimo». Ma come mai tutti si preoccupano così tanto che questo signore venga «trattato giustamente» dai tribunali russi, e soprattutto su cosa basano la loro evidente convinzione che non lo sia?

Secondo l’iconografia ufficiale, Khodorkovsky è un “self-made man” in stile occidentale che ha saputo “interpretare” al meglio i profondi cambiamenti avvenuti in Russia durante il crollo del sistema comunista. Dopo aver aperto un piccolo caffè nel 1986, nel 1988 Khodorkovsky era già al comando di un business di import-export che fatturava circa 10 milioni di dollari all’anno. Grazie a questa “solida base finanziaria”, Khodorkovsky poteva così fondare una sua banca privata, la Bank Menatep, che in pochi anni sarebbe diventata un potente strumento di traffico monetario di ogni tipo, nazionale ed internazionale. Ma Khodorkovsky non era certo un avido senza cuore, e non appena ebbe queste disponibilità finanziarie volle indirizzarne una parte verso diverse opere filantropiche, come centri di formazione per insegnanti, Yukos 2scavi archeologici, scambi culturali, e naturalmente tante scuole per bambini orfani. Conobbe così anche molti altri filantropi in tutto il mondo.

Nel frattempo il crollo del sistema aveva dato il via libera alle privatizzazioni, e nel 1996 il Group Menatep riuscì ad impadronirsi del 90% della Yukos, la società petrolifera nazionale il cui valore in quel momento aveva raggiunto – casualmente – i minimi storici. Pagata la miseria di 300 milioni di dollari, nell’arco di pochi anni la Yukos avrebbe raggiunto un valore stimato di 20 miliardi di dollari, facendo di Khodorkovsky l’uomo più ricco della Russia, e il 16° uomo più ricco del mondo, secondo la classifica di Forbes. Visto che bello, il libero mercato? Visto cosa si può fare, se davvero “hai le palle” per rischiare al momento giusto, se davvero credi alle regole del capitalismo, e sai investire oculatamente i tuoi averi? Altro che comunismo! Questa sì che è vita, questa sì che è libertà!

Ma evidentemente chi ha confezionato la leggenda di Khodorkovsky deve essersi dimenticato di qualche piccolo particolare, perchè di colpo nel 2003 ritroviamo il nostro eroe in prigione, accusato di evasione fiscale. Da quel giorno le fortune di Khodorkovsky sono finite, ed è inziato il suo calvario, che dura ancora oggi. Qualcuno sospetta che questa svolta imprevista sia stata dovuta al fatto che Khodorkovsky avesse annunciato da poco la fusione fra Yukos e Sibneft, il “braccio petrolifero” di quella che oggi è Gazprom, che nel periodo delle privatizzazioni era stata comperata per una miseria ancora maggiore – soltanto 100 milioni di dollari – da Boris Boris BerezovskijBerezovsky, il noto “rifugiato politico” russo che vive oggi sotto la protezione di Sua Maestà d’Inghilterra.

Se la fusione fosse avvenuta, il nuovo gigante petrolifero sarebbe diventato la seconda potenza mondiale nella produzione di greggio, dopo la Exxon-Mobil. E pare che Khodorkovsky in quel periodo avesse anche trattato la vendita delle sue quote di Yukos proprio alla Exxon-Mobil. Tutto questo avrebbe fatto scattare – sempre secondo i maligni – la rabbia di Putin, che sarebbe ricorso alle “vie legali“ per togliere di mezzo una volta per sempre il pericoloso Khodorkovsky, facendo saltare nel frattempo la fusione fra Yukos e Sibneft. Sarà anche un fetente, questo Putin e KhodorkovskyPutin, ma magari qualche sentimento di nazionalismo in lui sarà pure rimasto, dopotutto.

Va bene, direte voi, il ragionamento può anche stare in piedi, ma tutto questo è sufficiente a scatenare lo “sdegno” da parte di tutti i più importanti ministri degli esteri dell’Occidente, con la conseguente eco mediatica che ritroviamo oggi su tutte le testate mondiali? Teoricamente no. Centinaia di russi sono letteralmente scomparsi nel tritacarne delle lotte intestine, dal 1991 ad oggi, e nessuno se ne è mai preoccupato. Se però ci venisse la curiosità di indagare su chi possano essere stati, nel corso degli anni, i finanziatori occulti di Khodorkovsky, potremmo anche imbatterci in questa curiosa notizia: subito dopo il suo arresto, avvenuto nel 2003, tutte le azioni della Yukos in suo possesso passarono automaticamente nelle mani di un certo Jacob Rothschild, in base ad un accordo segreto che era stato stipulato in precedenza fra di loro. Avete visto che cosa può succedere, quando si frequentano i circoli dei filantropi?
di Giorgio Cattaneo

(Massimo Mazzucco, “Il mistero Khodorkovsky”, da “luogocomune.net”, ripreso da “Megachip”, www.megachip.info).

02 gennaio 2011

Palestina: riconoscimento di uno Stato

Un avvocato e autore internazionale analizza la qualità e la quantità di Stati che riconoscono la Palestina

Il 17 dicembre la Bolivia ha ufficialmente riconosciuto la Palestina con i confini che le spettavano nel 1967 (tutta la striscia di Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est).

Il riconoscimento da parte della Bolivia porta a 106 il numero degli Stati membri dell’ONU che riconoscono lo Stato della Palestina, la cui indipendenza è stata proclamata il 15 novembre 1988. Pur essendo tuttora sotto occupazione armata straniera, la Palestina possiede tutti i requisiti e criteri internazionali necessari per fregiarsi del titolo di Stato Sovrano. Nessuna porzione del territorio palestinese è considerato da alcun Paese (ad eccezione di Israele) come territorio sovrano di un altra Nazione, e persino Israele ha affermato la propria sovranità solo su una piccola porzione del territorio della Palestina, la parte est di Gerusalemme, lasciando la sovranità sul resto letteralmente e legalmente incontestata. In questo scenario può essere d’aiuto considerare la qualità e la quantità degli Stati che riconoscono la sovranità della Palestina.



Dei nove maggiori Paesi al mondo, otto (tutti eccetto gli Stati Uniti) riconoscono lo Stato della Palestina. Tra i 20 Paesi al mondo a maggior densità di popolazione, 15 (tutti eccetto Stati Uniti, Giappone, Messico, Germania e Tailandia), riconoscono la Palestina. Per contro, i 72 Paesi delle Nazioni Unite che attualmente riconoscono la Repubblica del Kossovo come Stato Indipendente, includono soltanto uno dei nove Stati maggiori (gli Stati Uniti) e solo quattro dei 20 Paesi più popolati (Stati Uniti, Giappone, Germania e Turchia).

A luglio, quando la Corte Internazionale di Giustizia stabilì che la dichiarazione unilaterale d’indipendenza del Kossovo non violava leggi internazionali perché tali leggi non si pronunciano sul tema della legalità delle dichiarazioni d’indipendenza (nel senso che nessuna dichiarazione d’indipendenza contravviene ad alcuna legge per cui sono tutte “legali” benché soggette all’accettazione politica della loro dichiarata indipendenza da parte degl altri stati sovrani), gli Stati Uniti esortarono i Paesi che non avevano ancora riconosciuto il Kossovo a farlo al più presto. Passati cinque mesi, solo altri tre Paesi ritennero opportuno farlo, Honduras, Kiribati e Tuvalu. Se la Lega degli Stati Arabi iniziasse ad esortare la minoranza degli Stati appartenenti alle Nazioni Unite che ancora non hanno riconosciuto la Palestina a farlo subito è certo che la risposta sarebbe di molto superiore (sia in qualità che in quantità) alla risposta avuta di recente dagli Stati Uniti riguardo al Kossovo. E lo dovrebbe proprio fare.

Malgrado il fatto che (secondo i miei calcoli approssimativi) i Paesi che comprendono l’80 e il 90 per cento della popolazione mondiale riconoscono lo Stato della Palestina e che soltanto tra il 10 e il 20 per cento della popolazione mondiale riconosce la Repubblica del Kossovo, per i media occidentali (in effetti anche per la maggior parte dei media non occidentali) l’indipendenza del Kossovo è cosa fatta, mentre l’indipendenza della Palestina è soltanto un’aspirazione che non potrà mai essere realizzata senza il consenso Israelo-Americano, e la gran parte dell’opinione pubblica mondiale (e, a quanto pare anche la leadership palestinese di Ramallah) è, almeno finora, stata soggetta ad un lavaggio di cervello che la fa pensare ed agire di conseguenza.

Come nella maggioranza dei casi che riguardano rapporti internazionali, non è la natura dell’atto (o del crimine) che conta, ma piuttosto chi lo fa a chi. La Palestina è stata invasa 43 anni fa, ed è ancora occupata oggi, dalle forze armate d’Israele. Quella che la maggior parte del mondo (incluse le Nazioni Unite e l’Unione Europea) ancora considerano parte della provincia serba del Kossovo è stata invasa, ed è ancora occupata adesso, 11 anni dopo, dalle forze della NATO, e la bandiera americana vi ci sventola in lungo e in largo quanto le bandiere del Kossovo, mentre la capitale, Pristina, ostenta un Bill Clinton Boulevard, con una sua enorme statua. La forza fa la legge, o perlomeno la pensano così i più forti, inclusa la maggior parte di chi decide e di chi influenza l’opinione pubblica in occidente.

Nel frattempo, mentre il perenne “processo di pace” sembra improvvisamente minacciato da pacifici ricorsi a leggi ed organizzazioni internazionali, la Camera dei Rappresentanti americana ha approvato con voto unanime una risoluzione stilata dalla American Israel Public Affairs Committee (AIPAC), che invita il presidente Barack Obama a non riconoscere lo Stato della Palestina e ad opporsi a qualsiasi tentativo da parte palestinese di diventare membro delle Nazioni Unite.

In genere la politica e i media occidentali chiamano “comunità internazionale” gli Stati Uniti e qualsiasi nazione sia disposta a sostenerli pubblicamente su qualsiasi fronte, e “stati canaglia” quei Paesi che attivamente contrastano il dominio globale Israelo-Americano.

Con la sua servile sottomissione ad Israele, come ribadito ancora una volta dal fatto che non una sola voce coraggiosa si sia opposta a quest’ultima risoluzione della Camera dei Rappresentanti e dallo smacco subito dall’amministrazione Obama che aveva offerto un’enorme tangente militare e diplomatica ad Israele (e da questi rifiutata) per la sospensione di 90 giorni del suo programma illegale di colonizzazione, gli Stati Uniti si sono effettivamente autoesclusi dalla vera comunità internazionale (la stragrande maggioranza dell’umanità) e sono diventati essi stessi uno “stato canaglia”, dal momento che agiscono in costante e flagrante dispregio sia delle leggi internazionali che dei diritti umani. C’è da sperare che gli Stati Uniti possano ancora strapparsi all’abisso e ritrovare la propria indipendenza, ma tutti i segnali vanno nella direzione opposta. È una triste fine per una nazione un tempo ammirevole.

John Whitbeck, avvocato internazionale e consulente del pool palestinese nelle trattative con Israele, è autore del libro “Il mondo secondo Whitbeck”.

di John Whitbeck

11 gennaio 2011

Sul Signoraggio

Una risposta ad un lettore sul problema del signoraggio. Tu quale tesi condividi?

Lyndon LaRouche e molti dei suoi collaboratori hanno dovuto subire, a livello anche personale, le conseguenze di non aver mai voluto scendere a compromessi nei confronti di monetarismo, liberismo e di coloro che da sempre lavorano per smantellare la sovranità degli Stati Nazionali, insieme con i loro lacchè nella politica, nel mondo bancario e finanziario; pertanto il Movimento Internazionale che fa capo a Lyndon LaRouche (in Italia Movisol – Movimento Solidarietà) crede a buon titolo di non dover prendere lezioni di antimondialismo da nessuno.

Anche con le banche, con i banchieri centrali e gli speculatori (come Soros, Greenspan, Rohatyn, Trichet, Bernanke, etc.), Lyndon LaRouche e il suo movimento internazionale non sono stati mai teneri, e lo sanno bene coloro che ci seguono da anni.

Detto questo, precisiamo che noi non crediamo all'assioma "il nemico del mio nemico è mio amico", né se dico che una donna è brutta, sono diventato improvvisamente gay; la realtà non è lineare, ma, come insegna Riemann, obbedisce ad un insieme di variabili multiconnesse tra di loro; quindi se abbiamo attaccato una categoria di persone (o meglio di idee), che dicono di battersi contro lo strapotere delle banche e della finanza, non vuol dire nel più assoluto dei modi che abbiamo arretrato minimamente dalla lotta per il bene comune dell'umanità.

Lo scritto "Su Ezra Pound e Signoraggio", voleva provocare (e pare sia riuscito nell'intento) un dibattito su un tema che vediamo sempre più di frequente riproposto, ma che difetta di quei requisiti di rigorosità morale e intellettuale, di cui c'è bisogno per combattere un avversario attrezzato per battaglie ben più impegnative. Nulla di nulla contro coloro che, in buona fede, aderiscono a tale dottrina, perché sicuramente animati da uno spirito di ricerca e dalla voglia di sapere come stanno le cose. Ma non sempre la storia più strana è quella vera.

Precisiamo ancora, per coloro che non conoscessero bene le nostre idee, che noi siamo per il superamento del sistema delle banche centrali e a favore del controllo statale sull'emissione di moneta e di credito, ma, ribadiamo, non per un inesistente problema di signoraggio.

Valore intrinseco e reddito da emissione di moneta

Passando alla risposta ai Suoi quesiti, vorrei prima precisare che parlare di valore "intrinseco" della moneta è di per sé fuorviante. Su di un'isola deserta, possedere monete d'oro non ci mette al riparo dalla fame e dalle intemperie. Questo per dire che persino le monete d'oro, che hanno un controvalore in quel metallo, derivano il loro "valore" da una convenzione: l'oro è prezioso in quanto duttile, malleabile, buon conduttore di elettricità, non soggetto a corrosione, piuttosto raro, etc., ma a ben guardare, aldilà dell'odontoiatria e dell'estetica, non ha così larghi impieghi (un conto è il prezzo, un conto è il valore di una cosa).

I signoraggisti sono fissati con l'oro [1], che per essi dovrebbe costituire il controvalore dell'emissione di moneta; la moneta in questo modo, convertibile nel prezioso metallo, solo allora diventerebbe una vera passività, ovvero supportata dalla promessa di dare qualcosa in cambio. La moneta moderna, secondo questi signori, non sarebbe una vera passività per l'emittente, perché in realtà la Banca Centrale non potrebbe riconoscere nulla in cambio.

A parte la confusione che alcuni fanno tra Gold Standard e sistema a riserva aurea, sorge però una domanda. Ma l'oro da dove viene, con cosa viene acquisito? Con altra moneta? No, perché sarebbe una tautologia. Allora con cosa? Mica nascerà spontaneo nei forzieri? La risposta è ovvia: o il Paese possiede proprie miniere aurifere da sfruttare all'infinito, o deve letteralmente prenderlo all'estero. Per prenderlo all'estero esistono solo due modi. Il primo è: come compensazione per pagamenti internazionali (esportazioni o altro). In questo caso incontriamo però un problema: l'offerta di oro o altri metalli preziosi è piuttosto inelastica, ovvero, la quantità disponibile non può essere aumentata a piacimento e quando si vuole; ne consegue quindi che l'offerta di moneta è limitata. Questo problema si è posto con ricorrenza nei paesi che adottavano la convertibilità in oro: periodiche crisi di liquidità con conseguente deflazione e stagnazione hanno spinto, pian piano e a fasi alterne, ad abbandonare la convertibilità in oro.

Esiste un altro modo per procurarsi oro e altri metalli preziosi dall'estero: quello predatorio, ovvero con la conquista e il saccheggio.

A questo punto: è più imperialista (ci hanno anche accusato di essere imperialisti) il sistema appena descritto, o un sistema che permetta ad OGNI Stato Nazionale sovrano di emettere la propria moneta e di stabilire politiche di sviluppo autonome?

Pensiamoci poi bene. C'è una crisi, prendo i miei soldi e vado alla Banca Centrale o al Tesoro a farmeli cambiare in oro. E poi cosa ci faccio? Devo sempre trovare qualcuno disposto a darmi qualcosa in cambio o farò la fine di Re Mida. Allora non stiamo parlando ancora una volta di una convenzione? Qualcuno accetterà l'oro in cambio di vestiti, cibo e case fin quando esisterà qualcuno che riconoscerà in quel metallo un bene = convenzione.

Se Lincoln durante la Guerra di Secessione avesse vincolato l'emissione di moneta (senza Banca Centrale) all'oro posseduto, probabilmente non ci sarebbe stata una Gettysburg e oggi gli USA sarebbero spaccati in due e anche la nostra storia sarebbe profondamente diversa.

Detto questo, è ovvio che esiste una differenza tra valore facciale della banconota e, ad esempio, il costo per produrla (che è diverso dal valore intrinseco). Tale differenza non costituisce reddito per nessuno, in quanto la moneta non è una merce venduta dalla banca centrale, ma una passività di quest'ultima e, a fronte di essa, non può esserci un ricavo, altrimenti Luca Pacioli si rivolterebbe nella tomba. D'altronde, nel caso contrario, nei conti economici delle banche commerciali, dovrebbe trovarsi una voce di costo per l'acquisto di banconote, che invece non esiste.

Il reddito da signoraggio esiste, ma è altro: è la differenza tra l'interesse che frutterebbero ipoteticamente le banconote tenute in cassa (ovvero quasi sempre zero) e l'interesse che fruttano le attività messe a contropartita delle banconote in circolazione. Questo è identificabile come reddito ed esso va per la maggior parte allo Stato insieme alle tasse che su di esso gravano; la restante parte va ripartita tra i partecipanti della banca centrale (che non sono soci). Ovviamente questo non ha che un minimo della portata di solito sventolata dai fautori della teoria del complotto del signoraggio [2].

Di chi sono le Banche Centrali – il diritto di emettere moneta

Per quanto riguarda la "proprietà" delle Banca Centrale, è chiaro che il fatto che quest'ultima non sia sotto il controllo statale non sia un bene, ma questo non a causa del signoraggio. Come ho cercato di spiegare nel mio precedente articolo, il fatto che ad esempio la Banca d'Italia, sia partecipata (non posseduta, non è una s.p.a.) da banche e istituzioni finanziarie private [3] (in Italia anche dall'INPS), pur non mutandone la natura di ente di diritto pubblico, sarà sicuramente rilevante nel momento in cui essa dovrà esercitare i suoi poteri di vigilanza: storicamente le maglie dei controlli (soprattutto nei confronti dei partecipanti più potenti) si sono allargate, permettendo vere e proprie truffe. Inoltre se osserviamo quello che sta operando la Federal Reserve americana, ovvero l'allargamento della base monetaria senza criterio, questo è diretto al salvataggio delle banche private e non alla creazione di credito per lo sviluppo: ciò non può portare ad altro che ad inflazione.

La stessa politica di austerità dell'Unione Europea, attraverso la BCE, nominalmente indirizzata al salvataggio degli Stati "indisciplinati", è in realtà l'imposizione di una politica fascista di macelleria sociale allo scopo di salvare le banche private che detengono i titoli di Stato di quei paesi.

Quelli presentati sopra sono alcuni esempi di motivi per i quali storicamente l'oligarchia finanziaria ha cercato e ottenuto il controllo delle Banche Centrali, ma ripetiamo per l'ennesima volta, non per ingrassarsi con un inesistente signoraggio. Il motivo principale è di avere in pugno le leve monetarie sottraendole agli stati sovrani, cioè avere la chiave della politica economica, costretta quest'ultima a fare i conti con chi magari oggi invoca austerità di bilancio, liberalizzazioni e privatizzazioni, quando ci sarebbe bisogno di investimenti pubblici.

In questo contesto è facile comprendere come le banche detentrici di pacchetti di controllo della Banca d'Italia ad esempio, si oppongano alla cessione (vendita) delle proprie quote di partecipazione al Tesoro. Il motivo di ciò non è il signoraggio: infatti le suddette banche hanno manifestato la preferenza a cedere (vendere) le proprie quote alla Banca d'Italia stessa [4], cioè, sono disposte a perderne il controllo, purché questo non vada al Tesoro.

È chiaro che il diritto di emettere moneta, come espressione della sovranità, dovrebbe spettare al popolo, che dovrebbe esercitarla nei limiti della Costituzione, come la stessa stabilisce, quindi attraverso il Tesoro. La decisione di affidare al Governatore della Banca d'Italia il potere di regolare l'offerta di moneta (D.P.R. 482 del 1948) fu una scelta fatta nominalmente per prevenire eventuali abusi (in realtà fu la prima pietra di un progetto di lunga durata per la presa del controllo da parte privata). Bankitalia, d'altronde, era praticamente controllata dal Governo, e non c'è dubbio che la moneta veniva emessa indirettamente da quest'ultimo. Da quando il controllo di Bankitalia è passato in mani private, il controllo (politico) sull'emissione di moneta è venuto meno, ma, pur essendo noi completamente favorevoli al ritorno di questo in mani statali (e quindi che, come primo passo venga applicata la legge Tremonti sul passaggio delle quote), ribadiamo per l'ennesima volta che il signoraggio non c'entra un emerito fico secco.

Ancora su Ezra Pound e soci

Per processare Lyndon LaRouche per frode postale, dopo che due corti avevano rigettato l'accusa come pretestuosa, fu trovata una corte in Virginia disposta a farlo. La condanna che ne seguì, per LaRouche e alcuni collaboratori, fu allucinante: Michael Billigton ad esempio fu condannato a 99 anni di prigione! Il processo e le condanne furono chiaramente politiche, provenendo l'operazione da un ufficio del Dipartimento della Giustizia USA, Presidente George Bush Sr., sotto la regia di Henry Kissinger.

L'ex-Ministro della Giustizia, Ramsey Clark, a Janet Reno, il Ministro della Giustizia nominato da Clinton, in una lettera del 1995 scriveva: "Il più scandaloso caso di indagine giudiziaria è quello relativo a Lyndon LaRouche, perché io credo che implichi un più ampio campo di volontaria e sistematica persecuzione giudiziaria ed un abuso di potere, lungo un esteso arco di tempo, al fine di distruggere un movimento politico ed il suo leader. Questo è il caso più eclatante di ogni tempo o comunque che io conosca".

Dopo cinque anni di prigione l'amministrazione Clinton diede un segnale politico netto e LaRouche ottenne la libertà condizionata.

Tentare un parallelo tra i motivi che portarono alla condanna di Ezra Pound (tradimento, cfr. articolo precedente) e a quella di Lyndon LaRouche, non è proprio il caso, così come Bill Clinton non è paragonabile ai personaggi scesi in campo per Pound.

Siamo tutti felici che Pound abbia scampato la forca, perché siamo contrari alla pena di morte, ma sottolineare quali personaggi si siano mobilitati per la sua salvezza, serve per mettere in luce certi legami, precedenti e seguenti a Pound, tra grande business (anche bancario), eversione filo-britannica e malthusianesimo (Fugitives e Nashville Agrarians), razzismo (Ku Klux Klan), ambientalismo, controllo della cultura (Congress for Cultural Freedom), cercando, sempre in modo maieutico, di mettere in evidenza (apparenti) contraddizioni: per cui il paladino contro l'usura viene salvato dai banchieri, ambienti fascisti si associano ad americani e inglesi e producono fenomeni culturali che sfociano tra gli Hippie.

Tutto questo perché ci premeva sottolineare che nel mondo dell'informazione "alternativa" occorre stare molto attenti per non essere irretiti da idee corrotte e arcaiche, ma presentate come novità rivoluzionarie.

Ribadiamo quello per cui Lyndon LaRouche il Movimento Internazionale che a lui fa capo propongono con forza, per uscire dalla crisi e avviare un processo di sviluppo dell'economia reale a livello planetario:

  • Nuova Bretton Woods: ristabilire un sistema finanziario mondiale basato su cambi fissi e con riappropriazione da parte degli Stati Nazionali del diritto di emettere moneta e quindi indirizzare credito a basso tasso d'interesse e lungo termine per lo sviluppo; riorganizzazione fallimentare del sistema finanziario mondiale.
  • Legge Glass Steagall: inversione della deregulation che ha investito il settore finanziario con ritorno allo standard di separazione tra banche ordinarie e banche d'affari e messa al bando dei derivati.
  • Grandi progetti infrastrutturali: lanciare con il credito così liberato la creazione di infrastrutture energetiche, di trasporto, di governo delle acque e del suolo (Nawapa – Transaqua, Ponte Eurasiatico, rinascimento nucleare, etc.).
  • Cooperazione tra Stati Nazionali sovrani sulla scorta del trattato di Westfalia, anziché politica di guerra e scontro di civiltà.


Aureliano Ferri.


Note:

[1] - Tale pensiero fisso esprime gli interessi per l’accumulazione primitiva da parte della classe aristocratica pre-moderna e latifondista. Da qui si spiegano le soluzioni proposte in chiave medievalista (ad es. le monete locali), quindi del tutto fuorvianti, di Auriti, di Ezra Pound, e dei loro epigoni.

[2] - Precisiamo inoltre che le Banche Centrali non acquistano titoli di Stato se non in parte; esse acquistano altri tipi di obbligazioni esistenti sul mercato: quindi non è la Banca Centrale che crea quel debito come sostengono certuni.

[3] - Prima del 1993, la Banca d’Italia, rispetto ad oggi, aveva più o meno lo stesso assetto di titolarità delle quote di partecipazione: il Governo la controllava sostanzialmente, in quanto i principali detentori delle quote erano la Banca Commerciale, il Credito Italiano e il Banco di Roma, quindi banche controllate dall’IRI, quindi dal Governo. Venivano poi altre sei banche controllate anch’esse dal Governo (San Paolo, Banco di Sicilia, Banco di Sardegna, Banco di Napoli, BNL, Montepaschi). C’erano poi anche Generali, FIAT, ma anche INPS ed altri minori. È chiaro che con le sciagurate privatizzazioni, quegli istituti di credito sono passati in mani non pubbliche e nessuno ha provveduto a trattenere le quote di Bankitalia al Tesoro, violando la Costituzione, se non altro perché molti pacchetti azionari, di quegli istituti sono diventati stranieri.

[4] - Cfr. Massimo Mucchetti, "Non sarà facile smontare Tremonti e la 'sua' Bankitalia", Corriere della Sera, 10 dicembre 2006 o Daniele Martini, "AAA vendesi Banca d’Italia, con Tremonti alla regia".

10 gennaio 2011

Perché Washington odia Hugo Chavez

In Italia Non abbiamo un tipo alla Chavez, ma per scelta o lassismo?




A fine novembre, il Venezuela è stata colpito con violenza da piogge torrenziali ed inondazioni che hanno causato 35 morti e hanno lasciato circa 130.000 persone senza casa. Se George Bush fosse stato presidente, invece che Hugo Chavez, gli sfollati sarebbero stati spediti sottotiro in campi di prigionia improvvisati -- come il Superdome-- come è successo con l'uragano Katrina. Ma non è così che lavora Chavez. Il presidente venezuelano ha promulgato velocemente leggi "speciali" che gli hanno concesso poteri per garantire aiuti di emergenza e alloggi per le vittime dell'alluvione. Chavez ha poi sgomberato il palazzo presidenziale e lo ha trasformato in un alloggio per 60 persone, che sarebbe l'equivalente di convertire la Casa Bianca in un rifugio per senzatetto. Le vittime del disastro sono ora sfamati e accuditi dallo stato fino a quando non potranno ritornare alle loro case e a lavorare.



I dettagli degli sforzi di Chavez sono stati ampiamente omessi dai media statunitensi, dove è invece regolarmente demonizzato come un "potente di sinistra" ["leftist strongman" NdT] o un dittatore. I media rifiutano di ammettere che Chavez ha ridotto la diseguaglianza nei redditi, eliminato l'analfabetismo, fornito assistenza medica a tutti i venezuelani e innalzato i tenori di vita. Mentre Bush ed Obama stavano espandendo le loro guerre e spingendo per tagliare le tasse ai ricchi, Chavez era occupato a migliorare le vite dei poveri e bisognosi, respingendo al tempo stesso l'ultima ondata di aggressione statunitense.

Washington disprezza Chavez perchè non è disposto a consegnare le vaste risorse del Venezuela alle multinazionali e ai banchieri. E' per questo che l'amministrazione Bush ha provato a deporre Chavez nel fallito colpo di stato del 2002, ed è per questo che l'incantatore Obama continua tutt'oggi a lanciare attacchi velati a Chavez. Washington vuole un cambio di regime, in modo da insediare una marionetta che consegni le risorse del Venezuela alle grandi compagnie di petrolio e al tempo stesso renda la vita dei lavoratori un inferno.

Documenti rilasciati recentemente da Wikileaks mostrano come l'amministrazione Obama ha accelerato le ingerenze negl'affari interni del Venezuela. Questo è un estratto della recente lettera dell'avvocatessa e autrice, Eva Golinger:

"In un documento segreto scritto dall'attuale vice assistente Segretario dello Stato per l'Emisfero Ovest, Craig Kelly, ed inviato dall'ambasciata di Santiago in giugno 2007 al segretario di stato, alla CIA, al Southern Command del Pentagono, insieme ad una serie di altre ambasciate statunitensi nella regione, Kelly ha proposto "sei principali metodi di azione per il governo statunitense per limitare l'influenza di Chavez” e "ristabilire la leadership statunitense nella regione".

Kelly, il quale ha avuto un ruolo di primo piano come “mediatore” durante il colpo di stato dell'anno scorso in Honduras contro il presidente Manuel Zelaya, classifica nel suo rapporto il presidente Hugo Chavez come un “nemico”.

“Conosci il nemico: dobbiamo capire meglio come Chavez pensa e quello che ha in mente.. Per opporsi alla reale minaccia che lui rappresenta, dobbiamo conoscere meglio i suoi obiettivi e come intende perseguirli. Tutto ciò esige una migliore intelligence in tutti i nostri paesi”. Piu avanti Kelly confessa che il presidente Chavez è un “nemico formidabile, ma, aggiunge, “può essere certamente sconfitto”
(Wikileaks: Documenti Confermano Piani Statunitensi Contro il Venezuela, Eva Golinger, Cartoline dalla Rivoluzione)

Anche le comunicazioni del Dipartimento di stato mostrano che Washington ha finanziato gruppi anti-Chavez attraverso organizzazioni non governative (ONG) che fingono di lavorare per le libertà civili, per i diritti dell'uomo o per la promozione della democrazia. Questi gruppi si nascondono dietro una facciata di legittimità, ma il loro reale intento è di rovesciare il governo democraticamente eletto di Chavez. Obama appoggia questo tipo di strategia tanto quanto lo faceva Bush. L'unica differenza è che il team di Obama è più discreto. Questo è un altro pezzo del rapporto di Golinger con alcuni dettagli sulle origini dei finanziamenti:

“In Venezuela, gli Stati Uniti hanno appoggiato gruppi anti Chavez per oltre 8 anni, inclusi quelli che hanno eseguito il colpo di stato contro il presidente Chavez nell’aprile del 2002. Da allora, i finanziamenti sono aumentati considerevolmente. Un rapporto del maggio 2010 che valutava l'assistenza straniera a gruppi politici in Venezuela, commissionata dalla National Endowment for Democracy (NED), ha rivelato che più di 40 milioni di dollari sono annualmente indirizzati a gruppi anti-Chavez, la maggior parte provenienti da agenzie statunitensi.

Il Venezuela spicca come la nazione latino americana dove il NED ha investito più fondi in gruppi di opposizione durante il 2009, con 1.818.473 dollari, più del doppio rispetto all'anno prima.... Allen Weinstein, uno dei fondatori del NED, ha una volta rivelato al Washington Post, “quello che facciamo noi oggi lo faceva la CIA in clandestinità 25 anni fa...” (I segreti dell'America “Operazioni della società civile”: l'interferenza degli Stati Uniti in Venezuela continua a crescere”, Eva Golinger, Global Research)

Lunedi l'amministrazione Obama ha annullato il visto dell'ambasciatore Venezuelano a Washington come risposta al rifiuto di Chavez di nominare Larry Palmer ambasciatore americano a Caracas. Palmer è stato apertamente critico di Chavez dicendo che vi erano chiare connessioni tra membri dell'amministrazione Chavez e le guerriglie di sinistra nella vicina Colombia. È un modo indiretto di accusare Chavez di terrorismo. Ancora peggio, il background e la storia personale di Palmer suggeriscono che la sua nomina potrebbe essere una minaccia alla sicurezza nazionale del Venezuela. Consideriamo i commenti di James Suggett del “Venezuelanalysis on Axis of Logic”:

“Osservate la storia di Palmer, quando lavorava con le oligarchie, sostenute dagli Stati Uniti, di paesi come la Repubblica Domenicana, Uruguay, Paraguay, e Sierra Leone, Corea del Sud, Honduras, 'promuovendo il North American Free Trade Agreement (NAFTA).” Proprio come la classe dominante americana ha nominato un afro-americano, Barack Obama, per sostituire George W. Bush lasciando tutto il resto intatto, Obama a sua volta ha nominato Palmer per sostituire Patrick Duddy, il quale era coinvolto nel tentato colpo di stato del 2002 contro il presidente Chavez , oltre ad essere nemico dei venezuelani durante il suo mandato come ambasciatore in Venezuela”
(http://axisoflogic.com/artman/publish/printer_60511.shtml)

Il Venezuela è gia pieno di spie e sabotatori americani. Non hanno alcun bisogno di agenti che lavorano all'interno dell'ambasciata. Chavez ha fatto la cosa giusta a rifiutare la nomina di Palmer.

La nomina di Palmer avrebbe solo rafforzato la preesistente politica statunitense con più interferenze, più sovversioni e più creazioni di problemi per Chavez. Il dipartimento di stato è largamente responsabile per quelle che vengono chiamate rivoluzioni colorate in Ucraina, Libano, Georgia, Kyrgyzstan etc; le quali sono state tutte forgiate a stampo, come eventi televisivi a favore degl'interessi di ricchi capitalisti e contro i governi eletti. Adesso la schiera di Hillary vuole provare la stessa strategia in Venezuela. Tocca a Chavez fermarli, ed è per questo che ha passato leggi che “regolano, controllano o proibiscono il finanziamento straniero di attività politiche”. È il solo modo che ha per difendersi dall'intromissione degli Stati Uniti e proteggere la sovranità venezuelana.

Chavez sta anche usando i suoi nuovi poteri per riformare il settore finanziario. Questo è un estratto da un articolo intitolato “L'assemblea nazionale venezuelana passa una legge che rende le attività bancarie un 'servizio pubblico'”:

“Venerdi l'assemblea nazionale venezuelana ha approvato una nuova legislazione che definisce il settore bancario come un'industria “del settore pubblico,” esigendo che le banche in Venezuela contribuiscano a programmi sociali, impegni nella costruzione di case, e altri bisogni sociali e, al tempo stesso, rendendo gli interventi del governo più facili nel caso le banche non soddisfino le priorità nazionali.” ...

La nuova legge protegge i beni dei clienti delle banche nel caso ci siano irregolarità da parte dei proprietari, e stipula che la Superintendencia de Bancos prenda in considerazione gli interessi dei clienti delle banche - e non solo quello degli azionisti - quando vengono prese decisioni che influiscano sulla posizione della banca."

Allora perchè Obama non sta facendo la stessa cosa? E' troppo spaventato o è solo il lacchè di Wall Street? Eccovi un'altra parte dello stesso articolo:

"Nel tentativo di controllare la speculazione, la legge limita l'ammontare di credito che può essere messo a disposizione di invididui o entità private, stabilendo che 20% è il massimo ammontare di capitale che la banca può impiegare come credito. La legge limita inoltre la formazione di gruppi finanziari e vieta il possesso di interessi economici da parte di banche in aziende di brokeraggio e compagnie di assicurazione.

La legge inoltre stabilisce che il 5% dei profitti netti di tutte le banche dovranno essere dedicati esclusivamente a progetti dei consigli comunali. 10% del capitale di una banca deve inoltre essere messo in un fondo per pagare stipendi e pensioni nel caso di bancarotta.

Secondo le stime del 2009 del Softline Consultores, il 5 % dei profitti netti del settore bancario venezuelano avrebbe dato 314 milioni di bolivar in più, o 73,1 milioni di dollari, per programmi sociali volti a soddisfare i bisogni della maggioranza povera del Venezuela.
http://venezuelanalysis.com/news/5880

"Controllare la speculazione"? Questa è una nuova idea. Ovviamente, i leader dell'opposizione chiamano le nuove leggi "un attacco alla libertà economica". Ma questa è un puro nonsenso. Chavez sta solamente proteggendo la gente dalle attività predatorie di banchieri senza scrupoli. La gran parte degli americani sperano che Obama faccia la stessa cosa.

Secondo il Wall Street Journal, "Chavez ha minacciato di espropriare le grandi banche nel passato se non aumentavano i prestiti ai proprietari di piccole aziende e potenziali compratori di case, questa volta sta aumentando la pressione pubblicamente per mostrare la sua preoccupazione per la mancanza di case per 28 milioni di venezuelani."

Caracas soffre di una grande mancanza di case che è ulteriormente peggiorata a causa delle inondazioni. Decine di migliaia di persone hanno ora bisogna di un riparo, ed è per questo che Chavez sta mettendo pressione sulle banche per dare una mano. Ovviamente le banche non vogliono aiutare e stanno quindi piagnucolando. Ma Chavez non si è curato delle loro lamentele e le ha messe sotto osservazione. Infatti martedì ha rilasciato questo conciso avvertimento:

"Qualunque banca sbagli... l'esproprierò, che sia Banco Provincial, Banesco o Banco Nacional de Credito".

Bravo, Hugo. Nel Venezuela di Chavez i bisogni della gente ordinaria hanno la precedenza sui profitti dei banchieri tagliagole. C'è da sorprendersi che Washington lo odi?
di Mike Whitney


Fonte: www.informationclearinghouse.info

Gli Stati Uniti rischiano la bancarotta ma è l´Europa a dover temere di più



Per l´economista Barry Eichengreen l´insolvenza americana segnerebbe la fine del biglietto verde come moneta internazionale. Non è chiaro come Grecia e Irlanda possano uscire dalla recessione e risanare i loro conti pubblici. La Cina non vuole un crollo del dollaro che impoverirebbe le sue riserve. La caduta può essere made in Usa

«Una bancarotta sovrana degli Stati Uniti? Non è probabile però è diventata possibile. E segnerebbe la fine del dollaro come moneta internazionale. Oggi il pessimismo resta più forte verso l´Eurozona, dove l´insolvenza di Grecia e Irlanda è sempre più difficile da evitare». A 24 ore dall´allarme lanciato dal segretario al Tesoro Tim Geithner, che ha evocato un rischio default degli Usa al Congresso, la sua preoccupazione è confermata dal più autorevole storico delle crisi finanziarie.

Barry Eichengreen, docente all´Università di Berkeley, sta presentando il suo nuovo saggio "Exorbitant Privilege" al World Affairs Council. Il "privilegio esorbitante", un´espressione che Eichengreen riprende da Charles de Gaulle, è quello del dollaro: «Vale il 3% del Pil americano il fatto di poter stampare una moneta che le altre nazioni usano come mezzo di pagamento. In altri termini, questo privilegio ci consente di finanziare un deficit pubblico equivalente a un anno di buona crescita del Pil». Ma non è un privilegio eterno, avverte l´economista.

Che cosa giustifica l´allarme di Geithner sul rischio-insolvenza?

«L´attuale situazione politica, con un presidente democratico e una Camera repubblicana, tende a generare politiche economiche squilibrate e non agevola la riduzione del deficit pubblico. In prospettiva, con l´andata in pensione delle prime generazioni del baby-boom, un quarto delle entrate fiscali americane andrà esclusivamente a finanziare il servizio del debito. Se non interveniamo rapidamente sugli squilibri, sarà forte la tentazione di ridurre i debiti attraverso una politica monetaria che crei inflazione. Così l´America scaricherebbe i costi sugli stranieri che detengono tanta parte dei titoli del Tesoro. Ma è un gioco pericoloso: i mercati possono anticiparlo, smettere di acquistare i nostri titoli pubblici. Perciò l´insolvenza degli Stati Uniti è diventata possibile».

Vuol dire che la Cina potrebbe di colpo cessare i suoi acquisti di Treasury Bonds?

«Non per un´iniziativa unilaterale. Sarebbe autolesionista. Parafrasando l´equilibrio del terrore nucleare all´epoca della Guerra Fredda, l´ex consigliere economico di Barack Obama, Larry Summers, definì la situazione odierna come un equilibrio del terrore finanziario. La Cina non vuole determinare da sola un crollo del dollaro che impoverirebbe le sue riserve valutarie. La caduta del dollaro può avvenire solo in quanto "made in Usa". Se continuiamo a non mettere ordine nelle nostre finanze pubbliche, possiamo provocare un´improvvisa crisi di fiducia degli investitori esteri. Questi fenomeni accadono all´improvviso, più rapidamente di quanto si creda: basti ricordare la crisi di sfiducia che ha colpito l´Eurozona di recente».

Lei crede agli scenari di disgregazione dell´Eurozona?

«Oggi il pessimismo colpisce soprattutto l´euro. Non è chiaro come i Paesi più deboli possano al tempo stesso uscire dalla recessione, risanare i loro conti pubblici, senza abbandonare la moneta unica. A meno che la Germania accetti di continuare a finanziarli con massicci trasferimenti. Una bancarotta di Grecia e Irlanda è ormai sempre più probabile. Tuttavia non implica necessariamente che quei Paesi lascino l´euro. La Grecia finirebbe per stare ancora peggio, se tornasse alla dracma».

Che cosa pensa dello scenario opposto, cioè l´uscita dall´Eurozona del Paese più forte, la Germania?

«Io credo che la Germania, malgrado quel che ne pensano gli altri Paesi, sia politicamente troppo investita nell´Unione europea per mollare la moneta unica. Inoltre, per quanto l´euro sia impopolare tra i cittadini, l´industria tedesca sa che è nel suo interesse. Una rinascita del deutschemark si accompagnerebbe a una fortissima rivalutazione con grave danno per l´export. Resta il fatto che l´Unione europea deve rapidamente usare questa crisi per rimediare alle sue lacune».

Qual è la prima riforma necessaria per salvare l´euro?

«Sottrarre i compiti di vigilanza sulle banche alle autorità nazionali. Non dimentichiamo che questa crisi dell´Eurozona è anzitutto una crisi bancaria, com´è evidente nel caso irlandese, e non si può lasciare che a occuparsene siano i singoli Paesi».

Tra gli squilibri monetari mondiali, c´è chi vede la creazione di nuove bolle speculative nei Paesi emergenti come una conseguenza della politica monetaria americana. Il "quantitative easing" applicato da Ben Bernanke stampando moneta è sotto accusa in Brasile, Cina.

«E´ vero, la nuova liquidità generata dalla Federal Reserve in parte affluisce al di fuori delle nostre frontiere, attirata dai rendimenti superiori nelle economie emergenti. E´ un limite alla sua efficacia.

Tuttavia è necessaria, non c´è alternativa, in una situazione in cui restano dei rischi di deflazione per l´economia americana. La Fed valuta al 10% la probabilità di una deflazione, non è poco».

In "Exorbitant Privilege" lei prefigura un nuovo ordine monetario fondato su dollaro, euro, renminbi cinese. Quando?

«Più presto di quanto si crede. Io lo vedo realizzarsi nell´arco di un decennio. E penso che un mondo tripolare sarà più stabile di quello attuale. Il problema è governare la transizione: come traghettarci da qui a là».
di Federico Rampini

09 gennaio 2011

L'élite mondiale controlla ormai tutte le ricchezze del mondo

Al giorno d’oggi la ricchezza mondiale è più concentrata nelle mani di una élite di quanto lo sia mai stata nella storia moderna.

Un tempo la maggior parte della popolazione sul pianeta sapeva come coltivare i propri alimenti, allevare i propri animali e prendersi cura di sé. Non c’erano molte persone favolosamente ricche, ma c’era una certa dignità nell’avere un pezzo di terra che potevi chiamare tuo, o nell’avere un’abilità che potevi far fruttare.

Tristemente, nelle ultime decine di anni, una percentuale sempre maggiore di terre coltivabili è stata inghiottita da grosse corporation e da governi corrotti. Centinaia di milioni di persone sono state cacciate dalle proprie terre verso aree urbane sempre più dense.

Nel frattempo, è diventato sempre più difficile avviare un’attività propria, dal momento che poche monolitiche corporation globali hanno iniziato a dominare quasi ogni settore dell’economia mondiale. Così, un numero sempre maggiore di persone nel mondo è stata obbligata a lavorare per “il sistema” per riuscire appena a sopravvivere. Allo stesso tempo, coloro che sono al vertice della catena alimentare (l’élite) hanno impiegato decenni per implementare il sistema in modo da assicurarsi nelle proprie tasche porzioni sempre più vaste di ricchezza.

E così oggi, nel 2010, abbiamo un sistema globale in cui pochissime persone al vertice sono assurdamente ricche, mentre circa metà della popolazione di questo pianeta è irrimediabilmente povera.

Ci sono davvero poche nazioni nel mondo che non siano state quasi interamente saccheggiate dall’élite globale.

Quando l’élite parla di “investire” nei paesi poveri, ciò che intende veramente è prendere possesso delle terre, dell’acqua, del petrolio e delle altre risorse naturali. Grosse corporations globali stanno oggi spogliando dozzine di nazioni in tutto il mondo di favolose quantità di ricchezza, mentre la maggior parte della popolazione di quelle nazioni continua a vivere in un’abietta povertà. Nel frattempo, i politici al vertice di quelle nazioni ricevono ingenti doni per poter perpetrare il saccheggio.

Quello che quindi abbiamo nel 2010 è un mondo dominato da una minuscola manciata di persone ultraricche al vertice che posseggono una quantità incredibile di beni reali, un gruppo più numeroso di “manager intermedi” che fa funzionare il sistema per l’élite globale (e che è pagato veramente bene per farlo), centinaia di milioni di persone che fanno il lavoro richiesto dal sistema, e diversi miliardi di “inutili avventori” di cui l’élite globale non ha bisogno alcuno.

Il sistema non è stato progettato per elevare il tenore di vita dei poveri. Né per promuovere la “libera impresa” e la “competizione”. L’élite intende piuttosto accaparrarsi tutta la ricchezza e lasciare il resto di noi schiavi del debito o della povertà.

Quello che segue è un elenco di 20 dati statistici che provano il continuo accentramento di ricchezza nelle mani dell’élite globale, lasciando la maggior parte del resto del mondo in povertà e miseria.

  1. Secondo la UN Conference on Trade and Development (Conferenza dell’ONU su Commercio e Sviluppo), il numero di “paesi meno sviluppati” è raddoppiato negli ultimi 40 anni.
  2. I “paesi meno sviluppati” hanno speso 9 miliardi di dollari per importazioni di alimenti nel 2002. Nel 2008 questa cifra è salita a 23 miliardi di dollari.
  3. Il reddito medio pro-capite nei paesi più poveri dell’Africa è sceso a 1/4 negli ultimi 20 anni.
  4. Bill Gates ha un patrimonio netto dell'ordine dei 50 miliardi di dollari. Ci sono circa140 paesi al mondo che hanno un PIL annuo inferiore alla ricchezza di Bill Gates.
  5. Uno studio del World Institute for Development Economics Research (Istituto Mondiale per la ricerca sull’economia dello sviluppo) evidenzia che la metà inferiore della popolazione mondiale detiene circa l’1% della ricchezza globale.
  6. Circa 1 miliardo di persone nel mondo va a dormire affamato ogni notte.
  7. Il 2% delle persone più ricche detiene più della metà di tutto il patrimonio immobiliare globale.
  8. Si stima che più dell’80% della popolazione mondiale vive in paesi dove il divario fra ricchi e poveri è in continuo aumento.
  9. Ogni 3,6 secondi qualcuno muore di fame, e 3/4 di essi sono bambini sotto i 5 anni.
  10. Secondo Gallup, il 33% della popolazione mondiale dice di non avere abbastanza soldi per comprarsi da mangiare.
  11. Mentre stai leggendo questo articolo, 2,6 miliardi di persone nel mondo stanno soffrendo per mancanza di servizi sanitari di base.
  12. Secondo il più recente “Global Wealth Report” di Credit Suisse, lo 0,5% di persone più ricche controlla più del 35% della ricchezza mondiale.
  13. Oltre 3 miliardi di persone, quasi la metà della popolazione mondiale, vive con meno di 2 dollari al giorno.
  14. Il fondatore della CNN, Ted Turner, è il più grande proprietario terriero privato negli Stati Uniti. Oggi, Turner possiede circa 2 milioni di acri [più di 8.000 Km quadrati - NdT] di terra. Questa quantità è maggiore dell’area del Delaware e di Rhode Island messe assieme [come l’intera superficie dell’Abruzzo - NdT]. Turner peraltro invoca restrizioni governative per limitare a 2 o meno figli per coppia nell’ottica di un controllo della crescita demografica.
  15. 400 milioni di bambini nel mondo non hanno accesso all’acqua potabile.
  16. Circa il 28% dei bambini dei paesi in via di sviluppo sono considerati malnutriti o hanno una crescita ridotta a causa della malnutrizione.
  17. Si stima che gli Stati Uniti detengano circa il 25% della ricchezza totale del mondo.
  18. Si stima che l’intero continente africano possegga solo l’1% della ricchezza totaledel mondo.
  19. Nel 2008 circa 9 milioni di bambini sono morti prima di compiere i 5 anni. Circa 1/3 di tutte queste morti è dovuto direttamente o indirettamente a scarsità di cibo.
  20. La famiglia di banchieri più famosa al mondo, i Rothschild, ha accumulato montagne di ricchezza mentre il resto del mondo è stato intrappolato nella povertà. Ecco cosa afferma Wikipedia a proposito delle ricchezze della famiglia Rothschild:

Si è sostenuto che nel corso del 19° secolo, la famiglia possedeva di gran lunga il più grande patrimonio privato del mondo, e di gran lunga la più grande fortuna nella storia moderna.

Nessuno sembra conoscere esattamente quanta ricchezza posseggano i Rothschild oggi. Dominano il sistema bancario in Inghilterra, Francia, Germania, Austria, Svizzera e molte altre nazioni. È stato stimato che la loro ricchezza aveva un valore di miliardi [di dollari] già alla metà dell’800. Senza dubbio la quantità di ricchezza detenuta oggi dalla famiglia è qualcosa di inimmaginabile, ma nessuno lo sa con certezza.

Nel frattempo, miliardi di persone nel mondo si stanno chiedendo come far saltar fuori il loro prossimo pasto.

A questo punto, molti lettori vorranno discutere di quanto è orribile il capitalismo e di quanto meravigliosi siano il socialismo e il comunismo.

Ma il problema non è il capitalismo e come abbiamo visto innumerevoli volte nei decenni passati, la proprietà statale delle imprese non costituisce soluzione a nulla.

Ciò che abbiamo nel mondo oggi non è capitalismo. È piuttosto qualcosa di più vicino al “feudalesimo”. L'élite è costituita da “uomini-monopolio” che sfruttano la loro incredibile ricchezza e potere per dominare il resto di noi. Di fatto, è stato John D. Rockefeller ad affermare: “La competizione è peccato”.

Sarebbe bellissimo se vivessimo in un mondo in cui chi vive in povertà fosse incoraggiato a intraprendere una propria attività agricola, a crearsi un lavoro e costruirsi una vita migliore.

Invece le cose vanno nella direzione opposta. La ricchezza diventa sempre più concentrata nelle mani di pochissimi, e il ceto medio ha iniziato a venire eliminatoanche nelle nazioni benestanti come gli Stati Uniti.

Risulta che l’élite globale ha deciso che non ha realmente bisogno di così tante e costose “api operaie” statunitensi dopo aver spostato oltreoceano migliaia di fabbriche e milioni di posti di lavoro.

Nel frattempo gli statunitensi sono così distratti da Ballando sotto le stelle, da Lady Gaga e dalla propria squadra sportiva da non rendersi conto di cosa sta accadendo.

Non c'è alcuna garanzia sul fatto che gli Stati Uniti saranno prosperi per sempre. Oggi, un numero record di statunitensi vive già in povertà. Il reddito medio familiare è calato lo scorso anno ed è calato anche lo scorso anno rispetto a quello precedente.

Quindi svegliamoci. Gli Stati Uniti si stanno integrando in un sistema economico globale dominato e controllato da una élite spropositatamente ricca. A costoro non interessa che tu abbia da pagare il mutuo e che tu desideri mandare tuo figlio all'università. Ciò che interessa loro è accumulare quanto più denaro possibile per sé stessi.

L’avidità sta correndo rampante attorno al pianeta e il mondo sta diventando un luogo molto molto freddo. Sfortunatamente, a meno di eventi davvero drammatici, i ricchi stanno solo diventando più ricchi, e i poveri stanno solo diventando più poveri.

di The Economic Collapse Blog

Fonte originale: The Economic Collapse Blog / Traduzione a cura di: Eileen Morgan / Fonte: ilporticodipinto.it

07 gennaio 2011

Finmeccanica, un’industria in ostaggio

Prima che Bush uscisse di scena, nel Novembre del 2009 durante un ricevimento alla Casa Bianca, Berlusconi apprestandosi a leggere il discorso in cui avrebbe rinnovato la fedeltà, la stima e la profonda amicizia che lo legava al Presidente, alla sua famiglia ed agli Stati Uniti, avvicinandosi al leggìo preparato per gli ospiti incespicò nel filo del microfono, trascinandosi dietro mobile ed appunti. Il patatrac sollevò tra i tavoli dei presenti un lungo “uuhhh” di stupore.
L’imbarazzo che colpì il Presidente del Consiglio mentre riacquistava l’equilibrio sulle gambe e tentava di dare ordine ai fogli volati via, raccogliendoli da terra, non poteva non dare un tocco di comicità al ruzzolone. Ma il peggio arrivò nei secondi successivi.
Berlusconi, per rimediare alla gaffe, non trovò di meglio che sfoderare un sorriso a 36 denti rivolgendo ai commensali la seguente battuta: “Vedete – disse – queste sono cose che succedono per il troppo amore che mi lega a voi e alla vostra grande Nazione”. Quello che uscì in quel frangente dalla bocca di Berlusconi fu un mix di manifesta condivisione del “way of life” USA e di stomachevole, interessata ruffianeria. La frase, accompagnata da un largo gesto benedicente delle braccia, venne accolta da un battimani molto composto, quasi di semplice cortesia, dall’establishment di Washington mentre Bush continuava a ridersela sotto i baffi.
Appena trenta giorni prima, l’Amministrazione USA gli aveva fatto sapere che la commessa AW-101 di Agusta Westland, consociata controllata al 100% da Finmeccanica, era stata semplicemente tagliata fuori dalle forniture del Pentagono. La firma definitiva sulla cancellazione la metterà il Presidente Obama.
Era andata in fumo per l’Italia la vendita oltreoceano di 23 elicotteri da trasporto del valore, nel 2005, di 6.5 miliardi di dollari.
La disdetta (ufficiosa) era stata anticipata a Palazzo Chigi con un fax partito da Via Vittorio Veneto, con la motivazione che il costo finale stimato (!) della commessa avrebbe superato i 13 miliardi di dollari e… in previsione di una riduzione di spese… bla bla bla.
Il “regalino” portava la firma dell’ambasciatore statunitense in Italia Ronald Spogli, prima che gli subentrasse David Thorne.
Non si scomodarono per dargliene notizia né il Segretario di Stato C. Rice né quello alla Difesa R. Gates. Il disappunto del Presidente del Consiglio, se c’era stato, svanì alla svelta.
Un “increment”, quello da 6.5 a 13 miliardi di dollari, determinato dalle continue pressioni del Servizio di Protezione della Casa Bianca e dallo stesso Pentagono per dotare i velivoli ad ala rotante di Agusta Westland di allestimenti faraonici inizialmente non previsti e di costosissime attrezzature aggiuntive di navigazione e di sicurezza per i Marine One della Casa Bianca e per le Forze Armate USA. Le pressioni delle potenti lobbies dell’industria aeronautica statunitense, Sikorsky in testa, avevano fatto il resto.
Un piano finalizzato al puro e semplice sabotaggio dell’appalto, civile e militare, ottenuto dall’Italia.
Le leggi degli Stati Uniti prevedono, al superamento del 20% dei costi inizialmente previsti dalle commesse affidate dal Pentagono a società USA o di altri Paesi, un riesame a Camera dei Rappresentanti e Senato per ottenere il via libera al mantenimento dei numeri di fornitura sottoscritti con i committenti.
I Governi italiani, “maggioranza & opposizione”, sull’acquisizione fin qui mantenuta di 131 (!) F-35 “stealth” della Lockheed Martin, passati da un costo iniziale di 55-60 milioni di euro (ad esemplare) ad oltre 120, in 700 giorni, non hanno mosso foglia. Ma c’è di ben più grave da segnalare.
Gianandrea Gaiani, che ha lavorato per Analisi Difesa e scrive su Il Sole-24 ore, ha quantificato per il fine anno 2010 il costo in uscita dalle linee di montaggio del jet militare Lockheed Martin a… 180-200 milioni, senza addestramento piloti, ricambi ed armi di bordo. Se non andrà alla deriva l’intero progetto, come ci auguriamo. La notizia, clamorosa, ha trovato conferma sia negli ambienti diDedalonews, dell’A.M.I e di Confindustria sia negli esperti di settore. Il tutto mentre La Russa si esibiva nel talk-show “Anno Zero” di giovedì 16 Dicembre dando sfoggio di una flagrante imbecillità, con tanto di pagliaccesca esibizione nel contradditorio (urlato) con Di Pietro, lo studente Cafagna e Michele Santoro.
Un Ministro della Difesa che, per congedarsi dallo studio televisivo, cercava la mano ostentatamente rifiutatagli dal conduttore, per poi ripensarci e rimettersi seduto, continuando peraltro ad inveire come una “vajassa” contro i suoi avversari.
Insomma una prestazione, quella di La Russa, fotocopia degli sbracamenti fior di macchiette alla Mussolini-Sgarbi, ma che evita come la peste di sollevare con l’Alleato USA una sola semplicissima “osservazione” verbale o scritta sull’aumento dei costi di quasi il 400% dell’F-35 nel giro di tre-quattro anni.
Cinque giorni più tardi, il titolare di Palazzo Baracchini, ormai conosciuto come il D’Annunzio del XXI° Secolo, sarà al Comando Operativo Interforze di Centocelle accanto ad un Napolitano che si spenderà, con trasporto atlantico a tutto tondo, per la “missione di pace” in Afghanistan.
Quella “missione di pace” in merito alla quale il generale Castellano della Folgore aveva ammesso pubblicamente, senza apparentemente compiacersene, durante un’intervista all’inviato del TG3 ad Herat, che il contingente italiano in ISAF NATO ha fatto, nel solo periodo del suo Comando al PRT-11 (sei mesi), “parecchi, parecchi morti” o come riportato da Fausto Biloslavo su Il Foglio che “i Tornado bombardano [con carichi bellici di 9 tonnellate a raid - nda] formazioni isolate della guerriglia su richiesta di radio Trinity” anche se – aggiungerà – “qualche volta bastano dei passaggi con le armi di bordo”, cannoni a tiro rapido Mauser da 27 mm.
Con questi chiari di luna pregressi, La Russa avrà la faccia tosta di raccontarci qualche mese dopo la favoletta degli AMX senza carico bellico per sole “uscite” di ricognizione diurna e notturna.
Lo potrà fare senza che un solo operatore dell’”informazione pubblica e privata” metta in dubbio la colossale menzogna.
Per rendere credibile la pastetta, l’Aeronautica Militare e la NATO forniranno un’ampia documentazione fotografica, ad altissima definizione, dei cacciabombardieri AMX da attacco al suolo in “conformazione pulita” come si usa dire in gergo militare, senza bombe laser od a caduta libera sotto gli attacchi, mentre stazionano nelle aree dell’aeroporto di Herat o sono in volo di formazione.
Ripartiamo dai G-222.
A quanto ne sappiamo, l’ Italia ha venduto agli USA 18 G-222 ricondizionati (C-27 A) da trasporto logistico destinati alle forze armate afghane, valore 287 milioni di euro, per interessamento di Alenia North America su input del titolare di Palazzo Baracchini.
Una triangolazione che appare opacissima, sulfurea, meritevole di passare, a tempo debito, al filtro di un microscopio.
L’Italia, dal canto suo, avrebbe beneficiato, a quanto si sussurra, di uno “sganciamento anticipato” di 180 giorni sulla data prevista (?) da quel teatro di guerra e di un via libera per piazzare in Lituania, Romania, Slovacchia e Bulgaria 21 velivoli da trasporto C- 27 J Spartan costruiti da Alenia Aeronautica.
Senza nulla osta USA l’ Alenia è impedita ad assemblarli ed esportarli verso Paesi che ne facciano richiesta ai nostri Governi. Il perchè è presto detto. I componenti elettronici di navigazione, di difesa passiva ed i motori ad elica “made in USA” che imbarcano, ne vietano tassativamente l’esportazione senza il consenso di Washington e della NATO, per evitare la diffusione di tecnologia militare occidentale verso Paesi ed aree regionali “antagoniste”.
Da quando va avanti questa storia?
Dal 1945, con la liquidazione coatta di tutte le fabbriche aeree e motoristiche nazionali. Se la guerra, come si sostiene, l’ha persa il fascismo, l’Italia ha perso, pagandola cara, la pace. Per capirlo basta aprire gli occhi e guardare in faccia la realtà.
Nel dopoguerra ce la siamo cavata volando con i C-119 Fairchild con due motori radiali Wright, poi con i C-130 Lockheed Martin a quattro motori Allison-Rolls Royce.
Successivamente i vincitori a stelle e strisce hanno allentato la briglia.
Si fa per ridere.
Nel 1978 la FIAT è stata autorizzata a costruire la cellula del G-222 con montaggio di due turbine General Electric, con esportazione vietata del trasporto militare in tutti i Paesi con interessi politici, economici e militari divergenti, potenzialmente conflittuali o conflittuali con quelli di USA e NATO.
Condizione subalterna che ci ha costretto fino ad oggi a raccogliere le briciole che cadevano dal piatto dell’Alleato di Oltreoceano.
Per il trasporto tattico C-27 Spartan J, che uscirà dalle linee di montaggio Alenia Aeronautica a partire dal Settembre 1999, la solfa non cambierà: motorizzazione, anche in questo caso, con due turbine Rolls Royce-Allison. Più affidabili, con più potenza erogata ma sempre costruite negli Stati Uniti.
Siamo ancora a dover far di conto dopo 65 anni con un passato che non passa. E’ ora di dire basta, perché cessi questo scempio, questo distruttivo calpestìo sotto gli zoccoli USA della “sovranità nazionale” e degli interessi, presenti e futuri, del Paese.
Perfino gli aerei della Protezione Civile hanno motori ad elica “made in Canada” con motorizzazione USA Pratt & Whitney.
Nel frattempo, nell’intento di “allargare” il mercato, Finmeccanica il 13 Maggio del 2008 acquisterà in nord America il 100% di DRS Technologies per un importo di 5.2 miliardi di dollari, compresa l’assunzione di 1.2 miliardi di indebitamento netto che ne facevano una società abbondantemente decotta, che si apprestava a chiudere i battenti per una crescente penuria di commesse dal Pentagono.
I termini dell’accordo finiranno per garantire all’Amministrazione USA un affare grosso come una casa ed una perdita di eguali dimensioni per l’Italia.
Finmeccanica, proprietaria al 100% di DRS, manterrà la sede principale a Parsippanny nello stato di New York ed in carica l’intero gruppo dirigente di formazione USA, compreso il Presidente ed Amministratore Delegato Mark
Newman. Un’altra flagrante operazione in “rosso” dopo lo scorporo da DRS dei rimanenti “settori a tecnologia avanzata” transitati verso altre società del settore “sicurezza” e la clausola accettata e sottoscritta da Finmeccanica, al momento dell’acquisizione, delle disposizioni contenute nello Special Security Agreement per garantire agli Stati Uniti la tutela delle “informazioni classificate” anche a contenitore largamente saccheggiato.
Apparendo debolissima una motivazione industriale, di penetrazione Finmeccanica nel mercato USA, l’acquisto di DRS da parte di Guarguaglini & soci non può non apparire una costosissima compensazione per delle mosse azzardate nel settore dell’approvvigionamento e del trasporto energetico o di qualche collaborazione “fuoricampo” nelle costruzioni aeronautiche ad uso passeggeri.
Insomma, se Alenia partecipa alla costruzione del Sukhoi Superjet 100 in Russia con il 51%, l’America si arrabbia, ce lo fa sapere e ci boicotta facendoci perdere centinaia e centinaia di milioni di euro magari con l’AW-101, costringendoci a ripensare partners ed investimenti, magari con qualche minaccia obliqua a destra e manca od imponendoci l’acquisto di un numero esorbitante di costosissimi bidoni “stealth” come l’ F-35.
E la musica non cambia con repubblicani o democratici, con bianchi e neri.
A Maggio 2007 la quotazione di Finmeccanica era di 23.38 euro ad azione, a Gennaio 2010 è scesa a 10.05 (meno della metà!), oggi si attesta ad 8.50, con un calo percentuale nell’anno trascorso di circa il 15%.
L’indebitamento finaziario netto dal 2005 al 2008 è salito da 1.100 a 3.383 milioni di euro. Mancano dal prospetto della Società, dal 2006, i dati del valore complessivo della produzione. Gran brutto affare.
Da asset pubblico strategico per il Paese Finmeccanica sta lentamente precipitando in una condizione finanziaria d’emergenza.
Ed è questo che ci preoccupa.
Temiamo che in prospettiva possano esserci più bilanci in rosso, con lo spettro di una cessione progressiva di quote appartenenti al Ministero dell’Economia e Finanze e consistenti perdite di occupazione ad alta specializzazione, per arrivare poi alla privatizzazione ed alla vendita dell’intero conglomerato, a prezzi stracciati, ad investitori “privati”.
Il Nuovo Pignone dell’ENI fu il primo assaggio di un’industria strategica per l’economia nazionale venduta per un tozzo di pane alla General Electric (guardacaso), pur avendo centinaia e centinaia di miliardi di ordini, in lirette, nel portafoglio ed un bilancio in attivo.
Quindi se Prodi non diventò rosso di vergogna in quell’occasione… e tutto passò alla grande in cavalleria… è lecito pensare al peggio.
Nell’aria intanto stanno fluttuando segnali più che preoccupanti.
Secondo indiscrezioni, potrebbero venir fuori provvedimenti di messa in mobilità per 1.500 lavoratori del Gruppo guidato da Pierfrancesco Guarguaglini.
Alenia-Aermacchi, una consociata, ha previsto il ricorso alla cassa integrazione ed esuberi a livello regionale anche se al momento non è stato comunicato ai sindacati il numero delle “eccedenze” necessarie a contenere, si sostiene, lo stato di pre-crisi.
Per contro, Finmeccanica mantiene 78 costosissime sedi di rappresentanza negli USA di Ansaldo Breda, Ansaldo STS, Ansaldo Energia, Thales Alenia Space, MBDA, Alenia North America, Bell Agusta Aereospace, Selex Sistemi Integrati, Selex Galileo, Selex Communications, Global Military Aircraft Systems, Global Aeronautica, Telespazio North America, Oto Melara ed Elsagh Nord America, piene fino all’orlo di “raccomandati” a livelli di retribuzione adeguati alle “capacità professionali e promozionali” fra i 2.100 dipendenti.
Il Paese non può permettersi di continuare a gettare al vento preziose risorse finanziarie in quell’area, senza ritorni sufficienti a contenere almeno a livelli accettabili o, meglio, ad annullare le attuali ingenti perdite di gestione.

di Giancarlo Chetoni

06 gennaio 2011

La crescita di Pechino è davvero sostenibile?




L'Australia rappresenta l'esempio più lampante di come la crescita cinese sostenga la bolla finanziaria sostenuta dall'erogazione, a costo zero, negli Usa, in Europa e in Giappone, di denaro pubblico al sistema bancario.

Quando la crisi precipitò nel 2008 sembrava che per l'Australia le cose dovessero andare malissimo. Con il crollo dei prezzi mondiali delle materie prime il dollaro australiano si svalutò fortemente toccando i 48 centesimi di euro. Oggi il dollaro australiano si situa sui 77 centesimi ed ha superato il dollaro statunitense.
Tutto grazie alla Cina, che ha generato un enorme boom minerario, superiore alla grande la corsa all'oro della seconda metà del diciannovesimo secolo che trasformò l'Australia nella regione col reddito pro capite più alto al mondo. I capitali stanno affluendo nel paese sia per investimenti nelle attività minerarie che per via la politica della banca centrale di alzare i tassi di interesse alfine di controllare l'inflazione.

Ciò ha rilanciato il credito ai mutui ipotecari con prestiti fondati su aspettative di un continuo rialzo dei valori immobiliari. La bolla cinese ha pienamente inglobato il paese: un modesto calo del tasso di crescita di Pechino creerebbe delle voragini nella posizione debitoria delle famiglie e nell'esposizione delle banche.

Se le aspettative di lucro del sistema finanziario mondiale si appuntano sulla Cina e i paesi al suo traino, la crescita di quest'ultima sta giungendo a un punto di svolta. Sul China Daily del 23 dicembre scorso è apparso un articolo di grande importanza a firma di Yu Yongding, già membro della commissione per la politica monetaria della Banca del Popolo (centrale). La sua analisi è severissima. Lo sviluppo cinese ha dei costi esorbitanti col 50% del reddito assorbito dagli investimenti, 1/4 dei quali è destinato all'edilizia. Le autorità spingono a costruire per aumentare il Pil. Infatti l'esistenza di città nuovissime e disabitate è nota. In Cina, sottolinea Yongding, polveri e fumo stanno asfissiando le città, i maggiori fiumi sono gravemente inquinati e, malgrado i progressi realizzati, avanza la deforestazione e la desertificazione. Siccità, inondazioni e frane sono ormai fenomeni comuni, mentre l'incessante attività estrattiva esaurisce le risorse naturali.

Si impone, osserva l'articolo, un drastico mutamento di rotta, tuttavia l'industria cinese non riesce a superare il suo status di fabbrica di massa mondiale e trasformarsi in una forza di innovazione. Ne consegue che la dipendenza dalle esportazioni è strutturale: il cambiamento di rotta richiederebbe un aggiustamento molto doloroso.

A ciò si aggiunge il fatto che lo sviluppo cinese è stato fortemente orientato in favore degli strati più ricchi, mentre il governo ha fallito nel provvedere beni di utilità pubblica. Per l'autore dell'articolo, sebbene la crescita attuale non sia sostenibile, il paese è dominato da una ferrea alleanza tra burocrazia pubblica e strati capitalisti che hanno addirittura tratto beneficio dai tentativi di riforma.

La Cina, scrive Yongdin, «è il paese del capitalismo dei ricchi e dei potenti», questi difendono con ogni mezzo i loro interessi. In tale contesto la possibilità di usare in maniera socialmente razionale il surplus estero del paese sta scemando. L'analisi dell'autore mi risulta corretta e senza maschere nazionalistiche. Essa implica che in Cina il mutamento avverrà con una profonda crisi che coinvolgerà ampiamente il capitalismo americano, nipponico e anche europeo.
di Joseph Halevi

05 gennaio 2011

Palestina: quando arrivano le ruspe







La demolizione delle case: un decisivo tassello della pulizia etnica sionista

L’asimmetrico conflitto israelo-palestinese è una lotta per la terra che si consuma metro dopo metro, casa dopo casa, a danno della popolazione palestinese autoctona in patente violazione dei Trattati internazionali e della Convenzione di Ginevra.


Art 53, IV Convenzione di Ginevra (1949)
“È proibita da parte della Potenza Occupante qualsiasi distruzione di beni immobili o personali appartenenti, a titolo individuale o collettivo, a persone private o allo Stato o ad altre autorità pubbliche o a organizzazioni sociali o cooperative, eccetto laddove tale distruzione sia resa assolutamente necessaria da operazioni militari".
Il 9 novembre il quotidiano israeliano Haaretz riportava che, nonostante il rimprovero della Casabianca per la ininterrotta costruzione di abitazioni illegali sul territorio palestinese occupato (TPO), il piano israeliano di edificazione di centinaia di nuovi alloggi a Gerusalemme Est proseguiva imperterrito[1]. Contemporaneamente, in quegli stessi giorni, continuavano gli ordini di demolizione di case e di sfratto di famiglie palestinesi nella parte araba della città[2].

L’ICHAD (Comitato Israeliano Contro la Demolizione delle Case) stima che, dal 1967 al 28 luglio 2010, nel TPO siano state demolite 24.813 strutture abitative palestinesi, 2.000 soltanto a Gerusalemme Est. Dall’anno 2000 al gennaio 2009 sono state abbattute 10.105 case, una media di 1.011 all’anno. Il numero di ordini di demolizione ancora da eseguire e’ a tutt’oggi pari a circa 20.000[3].

Le autorità israeliane giustificano la demolizione di case con ragioni o militari (deterrenza e anti-terrorismo) o amministrative per la mancanza di permessi o la violazione di norme abitative. Secondo molte organizzazioni, come Amnesty International e il Comitato Internazionale della Croce Rossa, questi interventi hanno invece due principali motivazioni:
1. infliggere una “punizione collettiva” alla popolazione innocente (comportamento considerato un crimine di guerra dalla 4° Convenzione di Ginevra);
2. appropriarsi di territorio palestinese e, a Gerusalemme Est, modificare la percentuale della popolazione residente a favore della componente ebraica. Il primo tipo di demolizioni avviene soprattutto durante i periodi di conflitto armato; il secondo tipo, più importante in termini numerici e per il suo significato politico, si sta protraendo da decenni con un picco di particolare frequenza in questi ultimi mesi.

L’autorità israeliana persegue come illegali le costruzioni effettuate senza autorizzazione per le quali in genere fa seguire l’ordine di abbattimento. I palestinesi che vivono sotto occupazione israeliana a Gerusalemme Est e nell’area C della Cisgiordania sono sottoposti a divieti di edificazione talmente rigidi che molte famiglie devono subire la violenza distruttiva delle ruspe e la privazione del diritto ad una casa.

Gli Accordi di Oslo (1993) prevedevano che Israele mantenesse per alcuni anni il controllo civile e militare della cosiddetta Area C, equivalente a più del 60% della Cisgiordania. I circa 150.000 palestinesi che vivono in quelle zone soffrono di notevoli restrizioni a costruire e a muoversi liberamente. Migliaia di ettari (il 18% della Cisgiordania), in particolare la Valle del Giordano e le colline a sud di Hebron, sono classificati come “area militare inaccessibile” dove è vietato edificare.

A Gerusalemme Est, area della città occupata nel 1967 e annessa illegalmente nel 1980, Israele ha espropriato il 35% del territorio, circa 24 Kmq, allo scopo di costruire nuovi insediamenti ebraici. Su queste terre il governo israeliano ha finanziato l’edificazione di quasi 50 mila unità residenziali per la popolazione ebraica e meno di 600 per quella palestinese, l’ultima delle quali più di 30 anni fa[4]. Nonostante la popolazione palestinese rappresenti il 30% dell’intera Gerusalemme, essa è confinata sul 7% della superficie della città in abitazioni il più delle volte inadeguate. La maggior parte della terra che rimane nelle mani dei palestinesi, circa 45 Kmq, non è edificabile mentre negli ultimi 40 anni i residenti di Gerusalemme Est sono praticamente quadruplicati (da 69.000 a 273.000). Si stima che la crescita naturale della popolazione palestinese richiederebbe la costruzione di 1.500 unità abitative all’anno, mentre nel 2008 sono stati accordati soltanto 125 permessi che hanno consentito la costruzione di 400 alloggi.

A causa della crescente e soffocante densità abitativa nella parte palestinese della città, che nel 2002 era pari a quattro volte quella della zona ebraica occidentale, per i pochi palestinesi che ancora possiedono un pezzo di terra non rimane che sperare nella remota possibilità di un permesso di costruzione. Quando questo, come nella maggior parte dei casi, non arriva, non rimane che costruire abusivamente.

I palestinesi di Gerusalemme Est sono estremamente vulnerabili agli interventi di demolizione. Delle 46 mila abitazioni del settore orientale della città soltanto 20 mila sono state costruite con la dovuta autorizzazione. In qualsiasi momento, quindi, quasi la metà della popolazione palestinese di Gerusalemme può essere soggetta a sfratto o alla demolizione della propria casa. Il recente Piano regolatore[5], che cita esplicitamente tra i suoi obiettivi quello di mantenere l’”equilibrio demografico” tra residenti ebrei (70%) e palestinesi (30%), prevede 13.550 nuove unità abitative per la popolazione palestinese di Gerusalemme Est, 10 mila delle quali, tuttavia, da costruire soltanto nel 2030.

All’inizio degli anni 90, l’allora sindaco di Gerusalemme, Teddy Kollek, aveva riconosciuto esplicitamente la profonda ingiustizia delle demolizioni per una popolazione costretta a costruire illegalmente per l’assenza quasi totale delle dovute autorizzazioni. Contro la sua volontà di modificare le cose, tuttavia, la destra israeliana al governo aveva istituito un’apposita unità operativa a Gerusalemme Est, tuttora in funzione, che si occupa soltanto delle case abusive della popolazione palestinese. Nessun’altra unità del genere esiste in tutto Israele e nessuna abitazione di proprietà ebraica è mai stata demolita.

Quando arrivano le ruspe, la tragedia raggiunge il culmine. Accompagnate da agenti di polizia e soldati israeliani, le squadre di demolizione possono presentarsi in qualsiasi momento del giorno e della notte, concedendo soltanto un breve preavviso per rimuovere beni e masserizie. Secondo la legge militare israeliana, le famiglie sfollate non hanno diritto a ottenere un alloggio né a essere compensate. Se non vengono ospitate da familiari, amici o organizzazioni caritatevoli, sono abbandonate a se stesse[6].

È difficile quantificare il trauma e la sofferenza che comporta la distruzione della propria abitazione. La casa è più di una semplice struttura fisica e il suo significato è soprattutto simbolico. È il luogo dove si svolge la parte più intima dell’esistenza personale. È il rifugio, la rappresentazione fisica della famiglia e il posto dove si trovano gli oggetti più cari. Nella cultura palestinese la casa possiede un ulteriore significato. I figli che si sposano tendono a fissare la propria residenza accanto alla famiglia di origine allo scopo di preservare non soltanto la vicinanza fisica ma, soprattutto, una continuità nella proprietà della terra dei propri avi. Quest’ultimo aspetto è particolarmente importante per una società agricola e di rifugiati che hanno perduto la casa nativa a seguito dei conflitti del 1948 e del 1967. La demolizione dell’abitazione o la sua espropriazione rappresenta un’ulteriore aggressione all’identità di una persona[7].

Le famiglie le cui case sono demolite spesso non possono permettersene un’altra e devono contare sull’ospitalità di parenti o amici. Il trauma viene percepito in modo diverso da uomini, donne e bambini. L’uomo rimane profondamente umiliato per il senso di impotenza a proteggere la propria famiglia, la perdita dei legami con la terra dei suoi avi, la sua eredità e quella della sua gente. La maggior parte delle donne non lavorano fuori casa, la quale costituisce la loro principale sfera d’influenza ed è lo spazio che appartiene a loro. Esse sono quindi molto più traumatizzate dall’obbligo di trovare un’altra sistemazione, in un territorio altrui in cui non hanno più la responsabilità di gestire spazi e attività familiari. Vedono distrutta la propria immagine e il loro ruolo di mogli e di madri, il ruolo di chi dà praticamente espressione alla vita domestica. Una casa distrutta è come una persona cara che muore, un vuoto che non può essere colmato da soluzioni alternative che, in genere, si rivelano disastrose. Una donna costretta a sistemarsi in un’altra famiglia va ad occupare l’ambito vitale di un’altra donna (la madre o la cognata) e perde inevitabilmente il controllo su marito e figli[8]. La perdita della privacy causa spesso un aumento dei conflitti tra i membri della famiglia con un’esplosione della violenza domestica.

Salwa, 28 anni, così esprime la sua tragedia personale: “La gente potrà anche provare dispiacere quando sente il frastuono della demolizione, ma pensi che qualcuno sia capace di sentire la demolizione dei nostri cuori? dei nostri sogni? dei nostri programmi futuri? Credo che queste voci non siano mai udite. Pensi che si siano accorti della mia paura, della mia agonia, del mio orrore? Niente affatto. Paura, agonia, orrore non hanno voce, non fanno rumore, e l’occupazione militare non ha occhi, non ha moralità, non ha coscienza, non ha Dio” [9].

Nei bambini il trauma della demolizione della casa lascia un marchio indelebile che dura tutta la vita. Già nei mesi che precedono l’intervento demolitivo essi sono testimoni della paura e del senso di inadeguatezza dei propri genitori che vivono costantemente in un’atmosfera di insicurezza. All’arrivo delle squadre di demolizione, vedono i propri cari sottoposti a violenze e umiliati, circondati dal fragore delle ruspe che sradicano e distruggono la loro dimora, il loro mondo, i loro giocattoli. La presenza di decine di poliziotti, assistiti da soldati in tenuta da combattimento, disegna nella mente del bambino un quadro dei propri genitori come pericolosi criminali. Questo processo ha un enorme impatto sulle condizioni psichiche e fisiche di tutti membri della famiglia, non soltanto dei bambini.

La demolizione della casa è seguita da lunghi periodi di instabilità della famiglia. Secondo uno studio della ONG Save the Children[10], la maggior parte delle famiglie impiegano almeno due anni prima di trovare un luogo di residenza permanente. Un’altra ricerca rivela il profondo impatto psicologico sulle donne che tendono a sviluppare sintomi depressivi di vario tipo[11]. Altri studi hanno descritto gli effetti deleteri sui bambini che si manifestano con disturbi emotivi e comportamentali[12]. Le maggiori fonti di tensione nella famiglia sono, per i bambini, la sensazione di essere abbandonati e, per i genitori, la comparsa della depressione.

Commenta Meir Margalit, storico israeliano della comunità ebraica in Palestina ed ex-sionista radicale, “Non c’è nessun dubbio: il bulldozer prende posto accanto al carro armato come simbolo del modo in cui Israele si relaziona con i palestinesi. Entrambi i simboli dovrebbero comparire sulla bandiera nazionale. Entrambi sono espressione dell’aggressione che ha preso il sopravvento dell’esperienza nazionale israeliana. L’uno completa l’altro. Entrambi simbolizzano il lato oscuro del progetto che Israele sta portando avanti di sradicare ed espellere i palestinesi dalle terre in cui si trovano” [13].

Sia sul territorio israeliano sia nel TPO, Israele è vincolato dalla legislazione internazionale inclusi quei trattati internazionali sui diritti umani di cui Israele è uno Stato firmatario (State Party), come il Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali, il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici e la Convenzione Internazionale sull’Eliminazione di Tutte le Forme di Discriminazione Razziale. Nel Territorio Occupato, inoltre, la condotta di Israele come potenza occupante deve conformarsi ai dettati della legislazione umanitaria internazionale che si applica in tutti i casi di occupazione militare, compresa la 4° Convenzione di Ginevra relativa alla Protezione delle Persone Civili in Tempo di Guerra. Israele è l’unico Stato appartenente all’ONU che rifiuta di riconoscere i propri obblighi nei confronti della Convenzione di Ginevra nonostante le sconfessioni e le condanne ricevute in varie sedi dalla comunità internazionale, in particolare la Corte Internazionale di Giustizia[14].

di Angelo Stefanini
Angelo Stefanini - Centro Studi e Ricerche sulla Salute Internazionale e?Interculturale, Universita’ di Bologna. Coordinatore Sanitario Cooperazione Italiana – Gerusalemme.

04 gennaio 2011

L'alpino crepa, Bossi straparla


Mentre dilaga la retorica sull’ennesimo caduto “per la pace”, il Senatur si barcamena tra il malcontento popolare per i morti al fronte e i soliti luoghi comuni sul cosiddetto terrorismo talebano


La Lega, espressione di un territorio, il Nord, e perciò non automaticamente ascrivibile alla dicotomia destra-sinistra, è sempre stata un movimento contraddittorio, a due facce. In origine no-global ma liberista, poi secessionista ma senza disdegnare ministeri a Roma, infine federalista ma con una riforma federale tutta sulla carta, usata come merce di ricatto per tenere in piedi un Berlusconi ostaggio di Bossi. Oggi, dopo la morte del trentacinquesimo soldato italiano sul fronte dell’Afghanistan, Matteo Miotto, il grande capo leghista Umberto Bossi ha confermato la linea del doppio binario: «il problema è che quelli che non tornano dall'Afghanistan sono troppi e il Paese non è contento per questi lutti», benché, se «gli americani non fossero andati laggiù avremmo il terrorismo in tutta Europa, del resto i primi a fare atti di guerra sono stati i talebani con le Torri Gemelle». Conclusione: «Fai una guerra e in guerra muore della gente».

Un piccolo capolavoro di saggezza e ignoranza fuse assieme come in una chiacchiera da bar. Bossi, Ministro della Repubblica, è sempre quel popolano di scarpe grosse e cervello fino che fiuta gli umori popolari e li traduce col linguaggio del popolo. Ma la voce del popolo è la voce di un Dio buon padre di famiglia ma cieco e, sui fatti afgani, decisamente arrogante. Bossi dice che è meglio ritirarsi perché la guerra – lui la chiama così, visto che è una vera guerra e non un’operazione di pace – è impopolare. La sua presa di distanza dalla missione italiana a rimorchio dell’invasione Nato è frutto di un calcolo politico, non di un’idea di principio. Meglio che niente, visto che per evitare altri lutti insensati, sia di italiani mandati a combattere una fiera nazione sovrana che nulla ci ha fatto di male, sia di afgani, donne bambini e civili inermi trucidati dai bombardamenti “intelligenti”, l’unica cosa giusta da fare è andarsene, e al più presto.

Fin qui il buonsenso dell’uomo comune, che Bossi cattura con semplicità da maestro con quel suo lapalissiano e disarmante «il Paese non è contento» perché «in guerra muore della gente». Poi scatta il riflesso condizionato del luogo comune più becero e falso. Se non fossimo anche noi a dar manforte agli americani aggrediti nel cuore del loro potere finanziario, New York, secondo il Senatùr saremmo stati sommersi dalla marea nera del terrorismo islamico. Questa è una fesseria. Anzitutto, gli afgani non sono tutti terroristi, il che equivarrebbe a dire che gli italiani sono tutti dei mafiosi. Non sono terroristi neppure i Taliban, che non si macchiarono di nessun atto di terrorismo durante le occupazioni inglese e sovietica e che ora compiono atti di guerriglia contro i militari occupanti. E ciò non si configura come terrorismo, perché gli insorti non colpiscono civili innocenti in maniera indiscriminata bensì attaccano, in modo del tutto legittimo essendo dei resistenti né più né meno dei nostri partigiani nel ’43-’45, obbiettivi militari. Infine, non pago, Bossi ripete a pappagallo la sesquipedale sciocchezza secondo la quale dietro l’attentato alle Torri Gemelle ci sarebbero sempre questi Taliban, sottinteso alleati di Al Qaeda, cioè di quel fantasma di Osama Bin Laden. Peccato che non un solo afgano sia stato trovato fra gli attentatori (semmai era pieno di sauditi: col criterio bossiano avremmo dovuto invadere l’Arabia degli sceicchi Saud, se non fossero alleati storici degli Usa). Né, in quel fatidico 2001, è provato che Bin Laden fosse ancora in rapporti col governo talebano, che di Osama voleva sbarazzarsi (porgendone la testa su un piatto d’argento a Clinton che però rifiutò) perché diventato troppo ingombrante. E poi che l’Afghanistan sia la culla del terrorismo internazionale è una favoletta che la stessa Cia ha smontato calcolando che fra i circa 50mila “insurgents” ci sono appena 386 stranieri (uzbeki, ceceni, turchi).

L’alpino Matteo Miotto è caduto in una guerra d’occupazione ingiusta che stiamo perdendo. E nonostante ciò, a lui che credeva nella Patria, seppur in una Patria serva dell’America e proterva nel voler imporre ad un altro popolo il proprio sistema economico e di valori, va reso l’onore che meritano i caduti (e non il miserabile piagnisteo nazionale con cui l’Italia mammona sbrodola i feretri dei propri soldati). Il miglior modo per rispettarne la memoria, in ogni caso, resta rispettare la verità. E la verità è che noi stiamo occupando un paese in spregio al principio dell’autodeterminazione dei popoli (un tempo caro ai leghisti), e che continueremo a piangere morti poiché le pallottole finite in corpo ai nostri Miotto vanno a bersaglio grazie al diffuso appoggio che la gente afgana, quella che dovremmo “aiutare”, dà ai ribelli talebani. Altrimenti non si capisce come mai, dopo dieci anni di amorevoli “aiuti”, non siamo riusciti a piegare questi “terroristi” che dovrebbero venire isolati dalla popolazione. E invece siamo ancora lì, a perdere vite umane e a cospargerci di retorica sulla bara di un giovane, morto per una guerra sbagliata.

di Alessio Mannino

03 gennaio 2011

Le mani Usa sul petrolio russo: l’affare Khodorkovsky

Le prime pagine di mezzo mondo riportavano ieri la reazione seccata di Mosca a quello che i russi definiscono “ingerenze eccessive e intollerabili” dell’Occidente nel processo a Mikhail Khodorkovsky. Il caso è esploso dopo che l’ex-proprietario della Yukos ha ricevuto un secondo verdetto di colpevolezza, che lo condannerà probabilmente ad ulteriori anni di prigione. Di certo è curioso vedere la Casa Bianca che si sbilancia ufficialmente a favore di un semplice cittadino russo, definendosi «profondamente preoccupata» per un verdetto che suggerisce «una applicazione selettiva della giustizia» in Russia.

Hillary Clinton dice addirittura che «il processo solleva seri dubbi sul rispetto della legge in Russia», e che «il verdetto avrà un impatto negativo Mikhail Khodorkovskysulla reputazione della Russia». Anche il ministro degli esteri tedesco, Westerwelle, ha fatto sapere che considera questo verdetto «un passo indietro nella strada verso la modernizzazione del paese», dicendosi «molto preoccupato» per la nuova sentenza. Da parte sua, il presidente del comitato affari esteri del parlamento inglese, Richard Ottaway, ha detto che nel caso di Khodorkovsky non è stato seguito «un procedimento legale riconoscibile come legittimo». Ma come mai tutti si preoccupano così tanto che questo signore venga «trattato giustamente» dai tribunali russi, e soprattutto su cosa basano la loro evidente convinzione che non lo sia?

Secondo l’iconografia ufficiale, Khodorkovsky è un “self-made man” in stile occidentale che ha saputo “interpretare” al meglio i profondi cambiamenti avvenuti in Russia durante il crollo del sistema comunista. Dopo aver aperto un piccolo caffè nel 1986, nel 1988 Khodorkovsky era già al comando di un business di import-export che fatturava circa 10 milioni di dollari all’anno. Grazie a questa “solida base finanziaria”, Khodorkovsky poteva così fondare una sua banca privata, la Bank Menatep, che in pochi anni sarebbe diventata un potente strumento di traffico monetario di ogni tipo, nazionale ed internazionale. Ma Khodorkovsky non era certo un avido senza cuore, e non appena ebbe queste disponibilità finanziarie volle indirizzarne una parte verso diverse opere filantropiche, come centri di formazione per insegnanti, Yukos 2scavi archeologici, scambi culturali, e naturalmente tante scuole per bambini orfani. Conobbe così anche molti altri filantropi in tutto il mondo.

Nel frattempo il crollo del sistema aveva dato il via libera alle privatizzazioni, e nel 1996 il Group Menatep riuscì ad impadronirsi del 90% della Yukos, la società petrolifera nazionale il cui valore in quel momento aveva raggiunto – casualmente – i minimi storici. Pagata la miseria di 300 milioni di dollari, nell’arco di pochi anni la Yukos avrebbe raggiunto un valore stimato di 20 miliardi di dollari, facendo di Khodorkovsky l’uomo più ricco della Russia, e il 16° uomo più ricco del mondo, secondo la classifica di Forbes. Visto che bello, il libero mercato? Visto cosa si può fare, se davvero “hai le palle” per rischiare al momento giusto, se davvero credi alle regole del capitalismo, e sai investire oculatamente i tuoi averi? Altro che comunismo! Questa sì che è vita, questa sì che è libertà!

Ma evidentemente chi ha confezionato la leggenda di Khodorkovsky deve essersi dimenticato di qualche piccolo particolare, perchè di colpo nel 2003 ritroviamo il nostro eroe in prigione, accusato di evasione fiscale. Da quel giorno le fortune di Khodorkovsky sono finite, ed è inziato il suo calvario, che dura ancora oggi. Qualcuno sospetta che questa svolta imprevista sia stata dovuta al fatto che Khodorkovsky avesse annunciato da poco la fusione fra Yukos e Sibneft, il “braccio petrolifero” di quella che oggi è Gazprom, che nel periodo delle privatizzazioni era stata comperata per una miseria ancora maggiore – soltanto 100 milioni di dollari – da Boris Boris BerezovskijBerezovsky, il noto “rifugiato politico” russo che vive oggi sotto la protezione di Sua Maestà d’Inghilterra.

Se la fusione fosse avvenuta, il nuovo gigante petrolifero sarebbe diventato la seconda potenza mondiale nella produzione di greggio, dopo la Exxon-Mobil. E pare che Khodorkovsky in quel periodo avesse anche trattato la vendita delle sue quote di Yukos proprio alla Exxon-Mobil. Tutto questo avrebbe fatto scattare – sempre secondo i maligni – la rabbia di Putin, che sarebbe ricorso alle “vie legali“ per togliere di mezzo una volta per sempre il pericoloso Khodorkovsky, facendo saltare nel frattempo la fusione fra Yukos e Sibneft. Sarà anche un fetente, questo Putin e KhodorkovskyPutin, ma magari qualche sentimento di nazionalismo in lui sarà pure rimasto, dopotutto.

Va bene, direte voi, il ragionamento può anche stare in piedi, ma tutto questo è sufficiente a scatenare lo “sdegno” da parte di tutti i più importanti ministri degli esteri dell’Occidente, con la conseguente eco mediatica che ritroviamo oggi su tutte le testate mondiali? Teoricamente no. Centinaia di russi sono letteralmente scomparsi nel tritacarne delle lotte intestine, dal 1991 ad oggi, e nessuno se ne è mai preoccupato. Se però ci venisse la curiosità di indagare su chi possano essere stati, nel corso degli anni, i finanziatori occulti di Khodorkovsky, potremmo anche imbatterci in questa curiosa notizia: subito dopo il suo arresto, avvenuto nel 2003, tutte le azioni della Yukos in suo possesso passarono automaticamente nelle mani di un certo Jacob Rothschild, in base ad un accordo segreto che era stato stipulato in precedenza fra di loro. Avete visto che cosa può succedere, quando si frequentano i circoli dei filantropi?
di Giorgio Cattaneo

(Massimo Mazzucco, “Il mistero Khodorkovsky”, da “luogocomune.net”, ripreso da “Megachip”, www.megachip.info).

02 gennaio 2011

Palestina: riconoscimento di uno Stato

Un avvocato e autore internazionale analizza la qualità e la quantità di Stati che riconoscono la Palestina

Il 17 dicembre la Bolivia ha ufficialmente riconosciuto la Palestina con i confini che le spettavano nel 1967 (tutta la striscia di Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est).

Il riconoscimento da parte della Bolivia porta a 106 il numero degli Stati membri dell’ONU che riconoscono lo Stato della Palestina, la cui indipendenza è stata proclamata il 15 novembre 1988. Pur essendo tuttora sotto occupazione armata straniera, la Palestina possiede tutti i requisiti e criteri internazionali necessari per fregiarsi del titolo di Stato Sovrano. Nessuna porzione del territorio palestinese è considerato da alcun Paese (ad eccezione di Israele) come territorio sovrano di un altra Nazione, e persino Israele ha affermato la propria sovranità solo su una piccola porzione del territorio della Palestina, la parte est di Gerusalemme, lasciando la sovranità sul resto letteralmente e legalmente incontestata. In questo scenario può essere d’aiuto considerare la qualità e la quantità degli Stati che riconoscono la sovranità della Palestina.



Dei nove maggiori Paesi al mondo, otto (tutti eccetto gli Stati Uniti) riconoscono lo Stato della Palestina. Tra i 20 Paesi al mondo a maggior densità di popolazione, 15 (tutti eccetto Stati Uniti, Giappone, Messico, Germania e Tailandia), riconoscono la Palestina. Per contro, i 72 Paesi delle Nazioni Unite che attualmente riconoscono la Repubblica del Kossovo come Stato Indipendente, includono soltanto uno dei nove Stati maggiori (gli Stati Uniti) e solo quattro dei 20 Paesi più popolati (Stati Uniti, Giappone, Germania e Turchia).

A luglio, quando la Corte Internazionale di Giustizia stabilì che la dichiarazione unilaterale d’indipendenza del Kossovo non violava leggi internazionali perché tali leggi non si pronunciano sul tema della legalità delle dichiarazioni d’indipendenza (nel senso che nessuna dichiarazione d’indipendenza contravviene ad alcuna legge per cui sono tutte “legali” benché soggette all’accettazione politica della loro dichiarata indipendenza da parte degl altri stati sovrani), gli Stati Uniti esortarono i Paesi che non avevano ancora riconosciuto il Kossovo a farlo al più presto. Passati cinque mesi, solo altri tre Paesi ritennero opportuno farlo, Honduras, Kiribati e Tuvalu. Se la Lega degli Stati Arabi iniziasse ad esortare la minoranza degli Stati appartenenti alle Nazioni Unite che ancora non hanno riconosciuto la Palestina a farlo subito è certo che la risposta sarebbe di molto superiore (sia in qualità che in quantità) alla risposta avuta di recente dagli Stati Uniti riguardo al Kossovo. E lo dovrebbe proprio fare.

Malgrado il fatto che (secondo i miei calcoli approssimativi) i Paesi che comprendono l’80 e il 90 per cento della popolazione mondiale riconoscono lo Stato della Palestina e che soltanto tra il 10 e il 20 per cento della popolazione mondiale riconosce la Repubblica del Kossovo, per i media occidentali (in effetti anche per la maggior parte dei media non occidentali) l’indipendenza del Kossovo è cosa fatta, mentre l’indipendenza della Palestina è soltanto un’aspirazione che non potrà mai essere realizzata senza il consenso Israelo-Americano, e la gran parte dell’opinione pubblica mondiale (e, a quanto pare anche la leadership palestinese di Ramallah) è, almeno finora, stata soggetta ad un lavaggio di cervello che la fa pensare ed agire di conseguenza.

Come nella maggioranza dei casi che riguardano rapporti internazionali, non è la natura dell’atto (o del crimine) che conta, ma piuttosto chi lo fa a chi. La Palestina è stata invasa 43 anni fa, ed è ancora occupata oggi, dalle forze armate d’Israele. Quella che la maggior parte del mondo (incluse le Nazioni Unite e l’Unione Europea) ancora considerano parte della provincia serba del Kossovo è stata invasa, ed è ancora occupata adesso, 11 anni dopo, dalle forze della NATO, e la bandiera americana vi ci sventola in lungo e in largo quanto le bandiere del Kossovo, mentre la capitale, Pristina, ostenta un Bill Clinton Boulevard, con una sua enorme statua. La forza fa la legge, o perlomeno la pensano così i più forti, inclusa la maggior parte di chi decide e di chi influenza l’opinione pubblica in occidente.

Nel frattempo, mentre il perenne “processo di pace” sembra improvvisamente minacciato da pacifici ricorsi a leggi ed organizzazioni internazionali, la Camera dei Rappresentanti americana ha approvato con voto unanime una risoluzione stilata dalla American Israel Public Affairs Committee (AIPAC), che invita il presidente Barack Obama a non riconoscere lo Stato della Palestina e ad opporsi a qualsiasi tentativo da parte palestinese di diventare membro delle Nazioni Unite.

In genere la politica e i media occidentali chiamano “comunità internazionale” gli Stati Uniti e qualsiasi nazione sia disposta a sostenerli pubblicamente su qualsiasi fronte, e “stati canaglia” quei Paesi che attivamente contrastano il dominio globale Israelo-Americano.

Con la sua servile sottomissione ad Israele, come ribadito ancora una volta dal fatto che non una sola voce coraggiosa si sia opposta a quest’ultima risoluzione della Camera dei Rappresentanti e dallo smacco subito dall’amministrazione Obama che aveva offerto un’enorme tangente militare e diplomatica ad Israele (e da questi rifiutata) per la sospensione di 90 giorni del suo programma illegale di colonizzazione, gli Stati Uniti si sono effettivamente autoesclusi dalla vera comunità internazionale (la stragrande maggioranza dell’umanità) e sono diventati essi stessi uno “stato canaglia”, dal momento che agiscono in costante e flagrante dispregio sia delle leggi internazionali che dei diritti umani. C’è da sperare che gli Stati Uniti possano ancora strapparsi all’abisso e ritrovare la propria indipendenza, ma tutti i segnali vanno nella direzione opposta. È una triste fine per una nazione un tempo ammirevole.

John Whitbeck, avvocato internazionale e consulente del pool palestinese nelle trattative con Israele, è autore del libro “Il mondo secondo Whitbeck”.

di John Whitbeck