10 giugno 2011

Dai supermarket ai social network 'esistenze in vendita'

uomo merce
Nella società dei consumatori noi stessi ci siamo trasformati in merce (The future of capitalism, 2009-2010 BenHeine)

Nella società dei consumatori nessuno può diventare soggetto senza prima trasformarsi in merce, e nessuno può tenere al sicuro la propria soggettività senza riportare in vita, risuscitare e reintegrare costantemente le capacità che vengono attribuite e richieste ad una merce vendibile.

Lo scrive Zygmunt Bauman, uno dei sociologi più illustri di sempre, probabilmente il più profondo conoscitore della società contemporanea. E continua, “la caratteristica più spiccata della società dei consumi, per quanto attentamente custodita e totalmente occultata, è la trasformazione dei consumatori in merce”.

Già, proprio così. Per chi da anni osserva lo strano mondo in cui viviamo con l'occhio lucido dello studioso il responso è inequivocabile: siamo merce. D'altronde era inevitabile. È l'altro lato di quella stessa moneta che ci fornisce, da una quarantina d'anni a questa parte, una libertà di acquisto senza precedenti.

Tutto ebbe inizio nei primi anni Settanta, quando un vento di novità che spirava da oltreoceano portò fino in Europa un nuovo stile di vita. Per la prima volta nella storia, l'attività principale della vita dell'uomo non ruotava più attorno alla produzione, bensì al consumo. È questa – nelle parole del grande polacco – la svolta che conduce la cosiddetta modernità solida nelle braccia melliflue della post-modernità, o modernità liquida.

Consumismo, mercato, deregolamentazione, liberalizzazioni, sono le parole del momento, che invocano un mondo senza leggi né regole prestabilite, eccezion fatta per una: ogni dinamica o relazione, fra soggetti o oggetti, deve essere regolata esclusivamente dal libero flusso di denaro. Via le pastoie delle convenzioni sociali, via la routine e la tradizione, via le istituzioni e persino gli stati nazione: nessuna legge scritta o remora morale si dovrà opporre allo scambio di moneta sonante.

Così, questi sconvolgimenti epocali che come gocce di miele sul barattolo colano dall'alto dei rapporti fra nazioni fino a sciogliere i legami secolari fra individui, hanno un altro effetto non da poco. Ci abituano a considerare tutto alla stregua di una merce da scegliere fra le tante.

consumismo
Per tutta la nostra esistenza abbiamo a che fare con prodotti che dobbiamo scegliere nel minor tempo possibile, sull'onda di un capriccio o di un vezzo momentaneo

Riflettiamoci. Per tutta la nostra esistenza abbiamo a che fare con prodotti che dobbiamo scegliere nel minor tempo possibile, sull'onda di un capriccio o di un vezzo momentaneo. Dagli scaffali dei supermercati decine di merci simili ci accecano con colori sgargianti, ci corteggiano come pavoni con la coda spiegata sperando di essere scelte, di primeggiare rispetto alle altre.

Noi decidiamo spesso in una frazione di secondo, senza riflettere; ma dietro a quell'atto istintivo ci sono miliardi di euro e mesi di lavoro spesi proprio per propiziare quel gesto irrazionale a favore di quel prodotto e a scapito degli altri. Di questi atti, poi, ne compiamo infiniti ogni giorno; pare proprio che le uniche scelte che ci vengono concesse in questo mondo dalle libertà infinite siano scelte di consumo.

Ad ogni modo non è il caso di perderci nei meccanismi, pur interessanti, che sottendono alle scelte individuali nell'era dei consumi. Il nocciolo a cui si vuole qui arrivare è un altro: il fatto che ci siamo trasformati noi stessi in merce. E se ad oggi ancora non esiste una borsa degli esseri umani, in cui venir quotati, è solo perché la nostra particolarità, come merce, è quella di dividerci fra vari mercati. Mi spiegherò con qualche esempio.

Pensiamo ad un social network come Facebook, o ad alcune sue versioni più 'spinte' come Netlog o Badoo. Cosa ci spinge ad inserirvi le nostre foto, le nostre informazioni personali, i nostri gusti musicali finanche alle citazioni dei nostri comici, scrittori o cantanti preferiti? Semplice: stiamo cercando di quotare noi stessi sul mercato delle relazioni sociali e amorose. Esponiamo le nostre caratteristiche migliori, ciò che ci rende unici e inimitabili, con la speranza di essere scelti da un possibile 'consumatore' di relazioni interpersonali. Al tempo stesso usiamo il social network come un grande database da spulciare alla ricerca di soggetti interessanti che corrispondano alle nostre aspettative e capricci di consumatori.

vestiti scaffali
Nei social network noi esponiamo le nostre caratteristiche migliori con la speranza di essere scelti da un possibile 'consumatore' di relazioni interpersonali

Date un'occhiata all'homepage del sito Badoo e confrontatela con la foto qui accanto: non sono poi così diverse; entrambe sono vetrine che espongono le loro merci migliori con la speranza di attirare al proprio interno il ghiotto consumatore. Ma nel caso del social network, il prezzo da pagare – sempre che lo si consideri un prezzo – per poter fare acquisti liberamente è essere esposti noi stessi. Siamo soggetti liberi di scegliere solo se accettiamo di essere merci, come dicevamo.

Ma il mercato delle relazioni sociali non è l'unico in cui collochiamo la nostra poliedrica figura. Basta cambiare piattaforma per rendersene conto. Spostiamoci su Linkedin ed ecco che avremo posizionato noi stessi sul mercato del lavoro. Chi acquista lavoro ha sul sito un'enorme database di proposte da filtrare a seconda delle esigenze; chi lo offre, o per meglio dire si offre, esalta le proprie doti per spiccare sugli altri e rendersi appetibile agli occhi dell'acquirente. E – uscendo dai confini del web – facciamo lo stesso ogni volta che inviamo un curriculum in cui descriviamo, come in un'etichetta, le nostre caratteristiche lavorative; oppure quando scegliamo con cura l'abito da indossare per un colloquio. E questo vale per ogni aspetto in cui si esprime la nostra esistenza.

Si spiegano così alcuni dilemmi dell'uomo contemporaneo. Perché le relazioni sono oggi così fragili? Probabilmente perché come per ogni merce, una volta svanita la spinta emotiva iniziale che ha portato all'acquisto si tende ad abbandonare l'usato in favore del nuovo e migliore: le infinite possibilità che si hanno davanti seducono ben più della sicurezza di ciò che si è già scelto. Il consumo necessita una rapida obsolescenza delle merci, altrimenti l'intero meccanismo s'incepperebbe. E perché poi si è così perennemente insoddisfatti? Verosimilmente perché necessitiamo uno sforzo costante per renderci appetibili come merci, e se ci adagiassimo diventeremmo obsoleti molto in fretta.

Dunque l'aspetto più dolce e piacevole della nostra esistenza ci investe nella dimensione di consumatori, nella libertà di sollazzarci, appagare i nostri capricci e placare le nostre smanie con gli acquisti spensierati. L'aspetto più duro, difficile e faticoso invece è quello che ci interessa in qualità di merce, con la continua necessità di emergere rispetto alle altre merci, di ricollocarsi verso l'alto, di arrampicarsi senza sosta e più veloci degli altri per restare in vetrina, visibili agli occhi dei consumatori.

fuga consumismo
Come si ferma questo meccanismo che fa di ogni cosa, anche di noi stessi, una merce?

Ora è evidente che questo meccanismo è malato e va cambiato. Un sistema che in meno di mezzo secolo ha ridotto ogni cosa ad una merce, persino noi stessi – e nel frattempo, en passant, è riuscito a distruggere ecosistemi, frantumare culture, inquinare acqua, aria e terra – va fermato ad ogni costo. E qui ci scontriamo con uno dei limiti maggiori della sociologia contemporanea. Si è soliti pensare che tale sistema sia immodificabile, inattaccabile. Come mai? Perché – si dice – non esistono più centri di potere da attaccare. Il mercato è un marchingegno globale che, una volta attivato, è impossibile disinnescare o controllare, alla stregua di una fusione nucleare.

Le opzioni sono due: o questo è vero, oppure è una favola. Dal basso non è facile capire se gli enormi ingranaggi economici che ci si muovono sopra il capo – e da cui sovente dobbiamo ripararci per evitare di restarne schiacciati – siano controllati da qualcuno che sta all'altra estremità oppure facciano parte di un organismo semovente. Personalmente sono dell'avviso – mi si dia pure del complottista – che esistono persone che muovono le pesanti leve. La storia del mercato che si autoregola mi è sempre parsa una favoletta cui possono credere solo bambini ingenui ed economisti.

Un esempio. Chi regola l'emissione del denaro – generalmente una banca centrale – manovrando le leve dell'inflazione è in grado di generare crisi economiche mondiali con uno schiocco di dita; aumentando o diminuendo la quantità di liquidità in circolazione si possono decidere le sorti del mondo intero. Al tempo stesso una multinazionale è in grado facilmente di tenere in scacco una nazione, minacciando di spostare i propri investimenti e il proprio capitale. Generare crisi avrà poi l'effetto, fra gli altri, di aumentare la concentrazione economica grazie al fallimento delle piccole e medie imprese. Si riazzera tutto, i ricchi diventano ancor più ricchi e potenti e si ricomincia tutto da capo.

Ma come si ferma questo meccanismo? Non abbiamo molto in mano. Non manovriamo leve noi, abbiamo giusto una manciata di sassi e qualche fuscello, tutto quello che ci è rimasto. Ma possiamo costruirci dei paletti da conficcare al suolo. E su di essi far incastrare i macro-ingranaggi. Paletti che siano le fondamenta per ricostruire qualcosa di solido. Che dicano al mondo che non tutto è una merce.

Si potrebbe ripartire, ad esempio, dai beni comuni. Affermare che esistono ancora dei beni che vanno sottratti al mercato perché sono indispensabili per la vita delle persone. Beni come l'acqua, l'aria, il territorio, la cultura, l'energia, la salute. E via e via, a suon di paletti far inceppare tutto, sconquassare un intero sistema economico. Per arrivare un giorno a togliere dal mercato persino noi stessi.

di Andrea Degl'Innocenti

09 giugno 2011

La Federal Reserve USA ammette di non possedere oro



La notizia è di quelle importanti, anche se nei media ufficiali non troveremo traccia. Alvarez Scott, avvocato della Federal Reserve, il banco centrale degli Stati Uniti, lo scroso primo giugno, in un dibattito con il congressista republicano Ron Paul, ha ammesso che la Federal Reserve non possiede oro ed ha spiegato che l’oro ascritto al bilancio del Banco Centrale USA si riferisce a certificati in oro del 1934. Vedasi il video del dibattito in cui l'avvocato Alvarez Scott afferma che la FED non possiede oro dal 1934.



Nel 1934, la legge sulle riserve in oro, obbligò la Federal Reserve, il banco centrale USA a consegnare tutto il suo oro al Ministero del Tesoro, ottenendo in cambio certificati in oro, equivalenti al valore dell’oro consegnato a prezzo del 1934; tale valore è stato rivalutato negli anni successivi, ma attualmente è fermo dal 1973 a 42,22 dollari l’oncia.

A parte la possibilità per la FED di demandare il Tesoro, significa che il dollaro emesso dalla FED dal 1934 in poi non è mai stato supportato dall’oro. Ossia, il valore reale del dollaro è da considerarsi decisamente inferiore a quello che tutti credono proprio perchè non ha nessun supporto in oro.

Il dollaro negli ultimi quarant’anni è stato stampato in quantità enormemente superiore al supporto in oro che si credeva in possesso alla FED; adesso si scopre che la FED non possiede alcun oro, quindi il dollaro è supportatato da un bel niente! Conclusione: vale ancora meno di quanto si potesse immaginare.

In sostanza il dollaro, la moneta USA, nel 1944 era diventata la unica moneta utilizzata negli scambi internazionali in virtù del fatto che con gli accordi di Bretton Woods era diventata l’unica moneta convertibile in oro. Tutti i paesi del mondo per potere operare a livello internazionale si sono riempiti di dollari credendo che fosse supportato dall’oro. Il 15 agosto del 1971 gli USA decretano l’inconvertibilità dell’oro, però di fatto il dollaro non era mai stato convertibile dato che la Federal reserve non possedeva oro e non lo possiede físicamente dal 1934, come ha ammesso oggi!

Il dollaro anche dopo il 1971 continua ad essere usato come moneta internazionale grazie al fatto che il petrolio, il prodotto più importante, è scambiato in dollari, ma di fatto il dollaro è una moneta sopravvalutata e quando crollerà, cosa sempre più prossima ormai, trascinerà nel baratro gli USA e tutto l’occidente (Vedasi nostro articoloDominique Strauss-Kahn, il Fondo Monetario Internazionale, il ruolo egemonico degli Stati Uniti ed il destino di milioni di esseri umani”).

La notizia odierna della conferma ufficale che la FED non possiede oro fisico dal 1934 non fa altro che confermare che il valore del dollaro, praticamente non sopportato da un bel niente, è sopravvalutato ed è destinato a svalutarsi.

Se a ciò, aggiungiamo le voci sempre più diffuse, secondo le quali le riserve in oro degli USA, che dovrebbero ammontare a 8.133,5 tonnellate di proprietà del Tesoro e stivate a Fort Knox, sarebbero state in gran parte vendute in passato e sostituite da oro falso, ovvero tungsteno ricoperto da un leggero strato di oro (vedasi, ad esempio l’articolo di Dan Eden “Fake gold bars! What's next?”) si comprende che la fine del dollaro ed il declino degli USA è molto più vicino di quanto si possa credere.
di Attilio Folliero -

08 giugno 2011

Pornografia della vita quotidiana


Aggrediti quotidianamente dalla volgarità e dalla oscenità dei messaggi pubblicitari, lo siamo anche dai comportamenti abituali delle persone, primo fra tutti l’abbigliamento.
Vestirsi, o piuttosto svestirsi, in un certo modo, significa esercitare una forma di potere sul prossimo, specialmente se si è giovani e belli: il potere di imporgli la provocazione sessuale, di costringerlo o a voltare la testa dall’altra parte, per l’imbarazzo (e talvolta per il disgusto) o a guardare con desiderio, come un povero fesso, la merce che viene generosamente esposta, anzi, esibita ed ostentata, ma che non è in vendita.
Inutile parlare, ormai, di decoro o di buon gusto: se ne sono andati per sempre, spazzati via dalla grossolanità più sfacciata, dall’esibizionismo più becero.
Inutile parlare di rispetto di se stessi e di senso del pudore: che cosa sono mai questi concetti, se non reliquie di un passato morto e sepolto, che non può tornare?
Inutile, infine, fare appello allo stesso senso della libertà e della democrazia, facendo osservare che la prima finisce dove inizia quella altrui, e che la seconda si nutre del rispetto di tutti e di ciascuno, compresi quelli che vorrebbero andarsene per i fatti propri, senza essere provocati ad ogni passo e senza essere arruolati a forza tra il pubblico di uno spettacolo indecente.
Un preside di Trento, l’ennesimo, ci ha provato: ha proibito l’ingresso alle lezioni agli alunni che si presentano a scuola con i pantaloni a vita bassa, esibendo abbondantemente le nudità del ventre e del sedere, con tanto di mutandine e perizoma a vista.
Ma non è servito e non servirà a nulla, lo sappiamo benissimo.
In una cittadina del Sud degli Stati Uniti la giunta comunale ha addirittura minacciato una multa di 500 dollari a chi se ne va in giro per la strada indossando pantaloni a vita bassa: con il solo risultato, presumibilmente, di coprirsi di ridicolo e di passare pure per razzista e oscurantista, di nemica della sacrosanta libertà dei cittadini.
Se uno vuol mostrare al mondo le proprie mutandine o, magari, l’assenza di mutandine; se vuol far vedere, ogni volta che si piega o che si siede, le sue chiappe, più o meno ben tornite, più o meno abbronzate, oppure, sul versante opposto, i suoi peli pubici: che male c’è?
Forse che la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, in quella rovente estate del 1789, nonché la Dichiarazione dei diritti umani, proclamata sempre a Parigi, del 1948, sono state scritte per nulla?Forse che non valgono nemmeno la carta e l’inchiostro su cui furono vergate?
E allora, armiamoci e partiamo: giù le braghe, fuori le mutande: viva la marcia della libertà e crepino i vieti pregiudizi dell’Ancien Régime, il moralismo ipocrita dei bacchettoni, delle cariatidi borghesi!
Abbiamo combattuto per la libertà, sì o no? E dunque vogliamo indossare i pantaloni col cavallo sempre più basso, sfoggiare sempre più la biancheria intima: a colori sgargianti, giallo shocking, rosso fuoco; o a disegnini teneramente erotici: a fiorellini, a pois.
Ora che è arrivato il caldo, poi, si salvi chi può: quella di calare le braghe è diventata pure una necessità fisiologica; la pelle, si sa, deve poter respirare.
Sicché, quando un baldo giovanotto o una simpatica ragazza si siedono al bar o, semplicemente, sui banchi della scuola, magari sfogliando il vocabolario di latino, non c’è niente di più normale che godersi lo spettacolo dei loro sederini esposti all’aria per almeno una decina di centimetri al di sotto dell’osso sacro.
Non sempre è un bello spettacolo, perché non sempre i proprietari di quei fondoschiena possono vantare un fisico da modelli; ma il punto, ovviamente, non è questo: non si tratta di una questione estetica, ma etica.
Anche se quelli che ci vengono offerti alla vista fossero i sederi più belli del mondo, la loro esibizione estemporanea, nei momenti e nei luoghi meno opportuni, è pornografia allo stato puro: pornografia della vita quotidiana.
È una pornografia di massa, così come vi sono una società di massa, una comunicazione di massa, un turismo di massa; per cui ci dovremo abituare, piaccia o non piaccia, anche alle chiappe di massa, agli addomi di massa, ai tatuaggi di massa nelle zone pubiche.
Già, i tatuaggi: sempre gli stessi, quelli sfoggiati dagli squallidi vip dei rotocalchi scandalistici o dei reality della tv spazzatura; sempre gli stessi angioletti, le stesse farfalle, gli stessi cuoricini; e sempre occhieggianti dagli stessi angoli intimi.
Essi rivelano una totale mancanza di personalità, oltre che di senso della decenza: perché, tranne che mostrare il culo, questi barbari della pornografia di massa non sono capaci di niente, nemmeno di essere creativi nella loro volgarità e nel loro sfrenato narcisismo; non sanno neppure essere pornografici in maniera personale, da esseri umani e non da pecore belanti.
Inutile dire come, in tutto questo, non vi sia neppure l’ombra, non diremo dell’erotismo, ma neanche della sensualità.
Per dirla tutta: non conosciamo nulla di più deprimente, nulla di più mortificante, nulla di meno eccitante di queste chiappe sbattute in faccia al primo che passa, a un tanto il chilo, come carne di qualità scadente; di questi ombelichi sparati addosso a chi preferirebbe non vederli, non trovandoli né belli, né invitanti, né desiderabili; a questi bacini, ora ossuti, ora cicciosi, sempre sgraziati e sommamente insulsi; di questi tatuaggi che fuoriescono dappertutto, a imitazione di qualche divetta da strapazzo, di qualche velina televisiva, di qualche straccetto di showgirl che non sa fare niente: né cantare, né ballare, e nemmeno parlare in un italiano decente o muoversi con un minimo di grazia e di naturalezza.
Tentazioni? No davvero.
Eppure, sempre più frequenti sono le situazioni in cui uno, letteralmente, non sa più dove girare lo sguardo; sui treni, sugli autobus, per la strada, nei supermercati, nelle scuole, negli uffici: ovunque è una esibizione quotidiana, implacabile, tristissima, di mercanzia corporea.
Ovunque si fa a gara per chi mostra qualche centimetro di pelle nuda in più, per chi ostenta la scollatura più audace, per chi abbassa un poco di più la cintura dei pantaloni: al punto che ti chiedi come fanno a non perderli per strada e a non restare tutti nudi, dalla vita in giù, come mamma li ha fatti, scarpe o stivaletti a parte.
Se entri in un negozio e chiedi un articolo che si trova in uno dei ripiani alti dello scaffale, la commessa, salendo con la scaletta, ti costringe ad ammirare tutto il suo pancino nudo, mentre la maglietta, già cortissima, si solleva di quasi mezzo metro al di sopra dei jeans, e l’immancabile farfallina tatuata ti ammicca dolcemente sopra l’inguine.
Se passeggi sulla pensilina in attesa del treno, puntualmente in ritardo, non puoi fare a meno di sbattere con lo sguardo, e quasi anche coi piedi, contro il roseo sedere dei ragazzi che, borse di scuola a tracolla e mascelle perennemente impegnate a ruminare gomma americana, siedono scompostamente sulle panchine, sui bordi delle aiole, sui libri stessi posati a terra: e ti chiedi se sia proprio naturale tutto quel piegarsi in avanti, tutto quel curvarsi sulla schiena, assumendo delle pose alquanto innaturali; o se non sia, piuttosto, una strategia lungamente studiata e messa a punto fin nei minimi dettagli, magari con l’aiuto e il consiglio degli amici.
Se, poi, stanco e sudato, stai facendo la fila all’ufficio postale e finalmente, armato del tuo bravo numero come al supermarket, arrivi allo sportello, ecco che ti devi sorbire lo show erotico dell’impiegata che, dovendo chinarsi per cercare la tua raccomandata inevasa, ti mostra più roba di quanta non ne facesse vedere Kim Basinger a Mickey Rourke in «Nove settimane e mezzo»; oppure, come direbbe il buon principe di Salina de «Il gattopardo» al suo confessore, più roba di quanto le mogli d’un tempo non ne mostrassero ai mariti, dopo una pluridecennale vita coniugale e dopo avere messo al mondo una intera nidiata di eredi.
E quando poi si volta, non sai nemmeno come affrontare il suo sguardo: ti domandi se ti possa leggere in viso l’effetto che il suo spettacolino ha provocato; ti senti colpevole come un ragazzino colto in fallo, anche se a tutto pensavi, quando hai raggiunto il sospirato sportello, tranne che a eccitarti sbirciando le grazie, magari discutibili, di questa sconosciuta che ora sembra ridacchiare del tuo imbarazzo o, peggio, fiutare le prove della tua malizia sporcacciona.
Che bella situazione: colpevole di niente, eppure sospettato, quanto meno, di cattivi pensieri (perché il maschio, si sa, nella cultura post-femminista, è sempre un porcaccione); provocato e, forse, un po’ turbato, senza aver mosso un dito per arrivare a tanto; costretto, infine, a mostrare urbanità e naturalezza, persino indifferenza, insomma a non fare una piega, quando hai dovuto subire da quella perfetta sconosciuta un comportamento non meno pesante ed invasivo delle persecuzioni sessuali che tante donne lamentano da parte di colleghi e capiufficio.
Ma l’uomo è quello che pensa sempre male, la donna no; se la donna mostra il suo corpo, lo fa per caso, con innocenza, senza intenzione; mentre se l’uomo guarda, allora vuol dire che è un porco, un selvaggio, un potenziale stupratore.
E comunque, qualsiasi cosa lui faccia, sbaglia: se si mostra emozionato, allora la donna lo guarda di traverso, immaginando che lui abbia immaginato cose sporche e irriferibili proprio su di lei («Ma come si permette quello lì, che nemmeno lo conosco!»); se, viceversa, ostenta nonchalance, allora c’è il caso che lei lo guardi ancora più di traverso, ferita a sangue nella sua vanità femminile («Ma guarda che razza di impotente, possibile che io valga così poco?; no, non è impossibile: quello non è nemmeno un impotente, è proprio un gran finocchio!»).
Ironia di una situazione senza sbocchi, assurdamente circolare e punitiva: ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere.
Intanto, le chiappe trionfano e, se qualcuno pensa male, peggio per lui: vuol dire che ci mette la malizia; è un problema suo, povero guardone frustrato.
Qualcun altro, comunque, ci sta facendo sopra un bel guadagno: un bel guadagno economico, vogliamo dire, con tanti, tanti zeri.
Sarà un caso che emergano così prepotentemente, dai tenebrosi abissi della zona corporea proibita, proprio i marchi della biancheria intima, proprio i filetti del perizoma, come se ci fosse lo zampino di un segreto e inconfessabile accordo pubblicitario fra produttore e consumatore, trasformato, quest’ultimo, in volonteroso modello ed in solerte agente propagandistico a costo zero, anzi, addirittura pagante?
Quando mai i modelli devono pagare il produttore per fargli la pubblicità? Eppure è proprio questo che sta accadendo: milioni di consumatori e di consumatrici comprano la merce a caro prezzo e poi fanno i modelli, gratuitamente, assiduamente, giorno e notte, per strada e sul lavoro, tra un poco li vedremo pure in chiesa.
Anzi, a dire il vero, quest’ultima eventualità si è già presentata, e non da ieri: ma, anche qui, la battaglia che qualche prete isolato ha intrapreso contro i pantaloni a vita bassa delle parrocchiane è destinata, come quella dei presidi delle scuole medie, a finire nel grottesco e nel ridicolo, se non addirittura sulla stampa e nelle aule dei tribunali.
Come si permette, quell’arrogante ministro di Dio, di rifiutare la comunione alla ragazza che gli si presenta davanti con l’ombelico al vento? Certamente deve trattarsi di un abietto seguace di monsignor Lefebvre, di un arnese da museo che non sa stare al passo con questi nostri tempi, giovanili e democratici, dove (come direbbe Tasso) «s’ei piace, ei lice».
Così stanno le cose: non ci si difende dalla pornografia di massa; bisogna rassegnarsi a subirla, e questo è tutto.
Dalla pornografia d’un tempo, ci si poteva ancora difendere, almeno in qualche misura: si poteva cambiar canale o spegnere il televisore; si poteva non comprare quel giornale o, magari, strappar via le pagine più oscene e fastidiose.
Certo, era più difficile difendersi dalla pubblicità murale: da quei metri e metri di cartelloni da cui ammiccavano già ventri e sederi, ma di graziosissime modelle.
Oggi, ventri e sederi si sono democraticamente moltiplicati e sono quelli della commessa, dell’impiegata, dello studente, della ragazzina e del ragazzino della porta accanto.
Perciò, mi raccomando, l’importante è non scomporsi: se ti turbi, allora sei colpevole; e sei finito.

di Francesco Lamendola

10 giugno 2011

Dai supermarket ai social network 'esistenze in vendita'

uomo merce
Nella società dei consumatori noi stessi ci siamo trasformati in merce (The future of capitalism, 2009-2010 BenHeine)

Nella società dei consumatori nessuno può diventare soggetto senza prima trasformarsi in merce, e nessuno può tenere al sicuro la propria soggettività senza riportare in vita, risuscitare e reintegrare costantemente le capacità che vengono attribuite e richieste ad una merce vendibile.

Lo scrive Zygmunt Bauman, uno dei sociologi più illustri di sempre, probabilmente il più profondo conoscitore della società contemporanea. E continua, “la caratteristica più spiccata della società dei consumi, per quanto attentamente custodita e totalmente occultata, è la trasformazione dei consumatori in merce”.

Già, proprio così. Per chi da anni osserva lo strano mondo in cui viviamo con l'occhio lucido dello studioso il responso è inequivocabile: siamo merce. D'altronde era inevitabile. È l'altro lato di quella stessa moneta che ci fornisce, da una quarantina d'anni a questa parte, una libertà di acquisto senza precedenti.

Tutto ebbe inizio nei primi anni Settanta, quando un vento di novità che spirava da oltreoceano portò fino in Europa un nuovo stile di vita. Per la prima volta nella storia, l'attività principale della vita dell'uomo non ruotava più attorno alla produzione, bensì al consumo. È questa – nelle parole del grande polacco – la svolta che conduce la cosiddetta modernità solida nelle braccia melliflue della post-modernità, o modernità liquida.

Consumismo, mercato, deregolamentazione, liberalizzazioni, sono le parole del momento, che invocano un mondo senza leggi né regole prestabilite, eccezion fatta per una: ogni dinamica o relazione, fra soggetti o oggetti, deve essere regolata esclusivamente dal libero flusso di denaro. Via le pastoie delle convenzioni sociali, via la routine e la tradizione, via le istituzioni e persino gli stati nazione: nessuna legge scritta o remora morale si dovrà opporre allo scambio di moneta sonante.

Così, questi sconvolgimenti epocali che come gocce di miele sul barattolo colano dall'alto dei rapporti fra nazioni fino a sciogliere i legami secolari fra individui, hanno un altro effetto non da poco. Ci abituano a considerare tutto alla stregua di una merce da scegliere fra le tante.

consumismo
Per tutta la nostra esistenza abbiamo a che fare con prodotti che dobbiamo scegliere nel minor tempo possibile, sull'onda di un capriccio o di un vezzo momentaneo

Riflettiamoci. Per tutta la nostra esistenza abbiamo a che fare con prodotti che dobbiamo scegliere nel minor tempo possibile, sull'onda di un capriccio o di un vezzo momentaneo. Dagli scaffali dei supermercati decine di merci simili ci accecano con colori sgargianti, ci corteggiano come pavoni con la coda spiegata sperando di essere scelte, di primeggiare rispetto alle altre.

Noi decidiamo spesso in una frazione di secondo, senza riflettere; ma dietro a quell'atto istintivo ci sono miliardi di euro e mesi di lavoro spesi proprio per propiziare quel gesto irrazionale a favore di quel prodotto e a scapito degli altri. Di questi atti, poi, ne compiamo infiniti ogni giorno; pare proprio che le uniche scelte che ci vengono concesse in questo mondo dalle libertà infinite siano scelte di consumo.

Ad ogni modo non è il caso di perderci nei meccanismi, pur interessanti, che sottendono alle scelte individuali nell'era dei consumi. Il nocciolo a cui si vuole qui arrivare è un altro: il fatto che ci siamo trasformati noi stessi in merce. E se ad oggi ancora non esiste una borsa degli esseri umani, in cui venir quotati, è solo perché la nostra particolarità, come merce, è quella di dividerci fra vari mercati. Mi spiegherò con qualche esempio.

Pensiamo ad un social network come Facebook, o ad alcune sue versioni più 'spinte' come Netlog o Badoo. Cosa ci spinge ad inserirvi le nostre foto, le nostre informazioni personali, i nostri gusti musicali finanche alle citazioni dei nostri comici, scrittori o cantanti preferiti? Semplice: stiamo cercando di quotare noi stessi sul mercato delle relazioni sociali e amorose. Esponiamo le nostre caratteristiche migliori, ciò che ci rende unici e inimitabili, con la speranza di essere scelti da un possibile 'consumatore' di relazioni interpersonali. Al tempo stesso usiamo il social network come un grande database da spulciare alla ricerca di soggetti interessanti che corrispondano alle nostre aspettative e capricci di consumatori.

vestiti scaffali
Nei social network noi esponiamo le nostre caratteristiche migliori con la speranza di essere scelti da un possibile 'consumatore' di relazioni interpersonali

Date un'occhiata all'homepage del sito Badoo e confrontatela con la foto qui accanto: non sono poi così diverse; entrambe sono vetrine che espongono le loro merci migliori con la speranza di attirare al proprio interno il ghiotto consumatore. Ma nel caso del social network, il prezzo da pagare – sempre che lo si consideri un prezzo – per poter fare acquisti liberamente è essere esposti noi stessi. Siamo soggetti liberi di scegliere solo se accettiamo di essere merci, come dicevamo.

Ma il mercato delle relazioni sociali non è l'unico in cui collochiamo la nostra poliedrica figura. Basta cambiare piattaforma per rendersene conto. Spostiamoci su Linkedin ed ecco che avremo posizionato noi stessi sul mercato del lavoro. Chi acquista lavoro ha sul sito un'enorme database di proposte da filtrare a seconda delle esigenze; chi lo offre, o per meglio dire si offre, esalta le proprie doti per spiccare sugli altri e rendersi appetibile agli occhi dell'acquirente. E – uscendo dai confini del web – facciamo lo stesso ogni volta che inviamo un curriculum in cui descriviamo, come in un'etichetta, le nostre caratteristiche lavorative; oppure quando scegliamo con cura l'abito da indossare per un colloquio. E questo vale per ogni aspetto in cui si esprime la nostra esistenza.

Si spiegano così alcuni dilemmi dell'uomo contemporaneo. Perché le relazioni sono oggi così fragili? Probabilmente perché come per ogni merce, una volta svanita la spinta emotiva iniziale che ha portato all'acquisto si tende ad abbandonare l'usato in favore del nuovo e migliore: le infinite possibilità che si hanno davanti seducono ben più della sicurezza di ciò che si è già scelto. Il consumo necessita una rapida obsolescenza delle merci, altrimenti l'intero meccanismo s'incepperebbe. E perché poi si è così perennemente insoddisfatti? Verosimilmente perché necessitiamo uno sforzo costante per renderci appetibili come merci, e se ci adagiassimo diventeremmo obsoleti molto in fretta.

Dunque l'aspetto più dolce e piacevole della nostra esistenza ci investe nella dimensione di consumatori, nella libertà di sollazzarci, appagare i nostri capricci e placare le nostre smanie con gli acquisti spensierati. L'aspetto più duro, difficile e faticoso invece è quello che ci interessa in qualità di merce, con la continua necessità di emergere rispetto alle altre merci, di ricollocarsi verso l'alto, di arrampicarsi senza sosta e più veloci degli altri per restare in vetrina, visibili agli occhi dei consumatori.

fuga consumismo
Come si ferma questo meccanismo che fa di ogni cosa, anche di noi stessi, una merce?

Ora è evidente che questo meccanismo è malato e va cambiato. Un sistema che in meno di mezzo secolo ha ridotto ogni cosa ad una merce, persino noi stessi – e nel frattempo, en passant, è riuscito a distruggere ecosistemi, frantumare culture, inquinare acqua, aria e terra – va fermato ad ogni costo. E qui ci scontriamo con uno dei limiti maggiori della sociologia contemporanea. Si è soliti pensare che tale sistema sia immodificabile, inattaccabile. Come mai? Perché – si dice – non esistono più centri di potere da attaccare. Il mercato è un marchingegno globale che, una volta attivato, è impossibile disinnescare o controllare, alla stregua di una fusione nucleare.

Le opzioni sono due: o questo è vero, oppure è una favola. Dal basso non è facile capire se gli enormi ingranaggi economici che ci si muovono sopra il capo – e da cui sovente dobbiamo ripararci per evitare di restarne schiacciati – siano controllati da qualcuno che sta all'altra estremità oppure facciano parte di un organismo semovente. Personalmente sono dell'avviso – mi si dia pure del complottista – che esistono persone che muovono le pesanti leve. La storia del mercato che si autoregola mi è sempre parsa una favoletta cui possono credere solo bambini ingenui ed economisti.

Un esempio. Chi regola l'emissione del denaro – generalmente una banca centrale – manovrando le leve dell'inflazione è in grado di generare crisi economiche mondiali con uno schiocco di dita; aumentando o diminuendo la quantità di liquidità in circolazione si possono decidere le sorti del mondo intero. Al tempo stesso una multinazionale è in grado facilmente di tenere in scacco una nazione, minacciando di spostare i propri investimenti e il proprio capitale. Generare crisi avrà poi l'effetto, fra gli altri, di aumentare la concentrazione economica grazie al fallimento delle piccole e medie imprese. Si riazzera tutto, i ricchi diventano ancor più ricchi e potenti e si ricomincia tutto da capo.

Ma come si ferma questo meccanismo? Non abbiamo molto in mano. Non manovriamo leve noi, abbiamo giusto una manciata di sassi e qualche fuscello, tutto quello che ci è rimasto. Ma possiamo costruirci dei paletti da conficcare al suolo. E su di essi far incastrare i macro-ingranaggi. Paletti che siano le fondamenta per ricostruire qualcosa di solido. Che dicano al mondo che non tutto è una merce.

Si potrebbe ripartire, ad esempio, dai beni comuni. Affermare che esistono ancora dei beni che vanno sottratti al mercato perché sono indispensabili per la vita delle persone. Beni come l'acqua, l'aria, il territorio, la cultura, l'energia, la salute. E via e via, a suon di paletti far inceppare tutto, sconquassare un intero sistema economico. Per arrivare un giorno a togliere dal mercato persino noi stessi.

di Andrea Degl'Innocenti

09 giugno 2011

La Federal Reserve USA ammette di non possedere oro



La notizia è di quelle importanti, anche se nei media ufficiali non troveremo traccia. Alvarez Scott, avvocato della Federal Reserve, il banco centrale degli Stati Uniti, lo scroso primo giugno, in un dibattito con il congressista republicano Ron Paul, ha ammesso che la Federal Reserve non possiede oro ed ha spiegato che l’oro ascritto al bilancio del Banco Centrale USA si riferisce a certificati in oro del 1934. Vedasi il video del dibattito in cui l'avvocato Alvarez Scott afferma che la FED non possiede oro dal 1934.



Nel 1934, la legge sulle riserve in oro, obbligò la Federal Reserve, il banco centrale USA a consegnare tutto il suo oro al Ministero del Tesoro, ottenendo in cambio certificati in oro, equivalenti al valore dell’oro consegnato a prezzo del 1934; tale valore è stato rivalutato negli anni successivi, ma attualmente è fermo dal 1973 a 42,22 dollari l’oncia.

A parte la possibilità per la FED di demandare il Tesoro, significa che il dollaro emesso dalla FED dal 1934 in poi non è mai stato supportato dall’oro. Ossia, il valore reale del dollaro è da considerarsi decisamente inferiore a quello che tutti credono proprio perchè non ha nessun supporto in oro.

Il dollaro negli ultimi quarant’anni è stato stampato in quantità enormemente superiore al supporto in oro che si credeva in possesso alla FED; adesso si scopre che la FED non possiede alcun oro, quindi il dollaro è supportatato da un bel niente! Conclusione: vale ancora meno di quanto si potesse immaginare.

In sostanza il dollaro, la moneta USA, nel 1944 era diventata la unica moneta utilizzata negli scambi internazionali in virtù del fatto che con gli accordi di Bretton Woods era diventata l’unica moneta convertibile in oro. Tutti i paesi del mondo per potere operare a livello internazionale si sono riempiti di dollari credendo che fosse supportato dall’oro. Il 15 agosto del 1971 gli USA decretano l’inconvertibilità dell’oro, però di fatto il dollaro non era mai stato convertibile dato che la Federal reserve non possedeva oro e non lo possiede físicamente dal 1934, come ha ammesso oggi!

Il dollaro anche dopo il 1971 continua ad essere usato come moneta internazionale grazie al fatto che il petrolio, il prodotto più importante, è scambiato in dollari, ma di fatto il dollaro è una moneta sopravvalutata e quando crollerà, cosa sempre più prossima ormai, trascinerà nel baratro gli USA e tutto l’occidente (Vedasi nostro articoloDominique Strauss-Kahn, il Fondo Monetario Internazionale, il ruolo egemonico degli Stati Uniti ed il destino di milioni di esseri umani”).

La notizia odierna della conferma ufficale che la FED non possiede oro fisico dal 1934 non fa altro che confermare che il valore del dollaro, praticamente non sopportato da un bel niente, è sopravvalutato ed è destinato a svalutarsi.

Se a ciò, aggiungiamo le voci sempre più diffuse, secondo le quali le riserve in oro degli USA, che dovrebbero ammontare a 8.133,5 tonnellate di proprietà del Tesoro e stivate a Fort Knox, sarebbero state in gran parte vendute in passato e sostituite da oro falso, ovvero tungsteno ricoperto da un leggero strato di oro (vedasi, ad esempio l’articolo di Dan Eden “Fake gold bars! What's next?”) si comprende che la fine del dollaro ed il declino degli USA è molto più vicino di quanto si possa credere.
di Attilio Folliero -

08 giugno 2011

Pornografia della vita quotidiana


Aggrediti quotidianamente dalla volgarità e dalla oscenità dei messaggi pubblicitari, lo siamo anche dai comportamenti abituali delle persone, primo fra tutti l’abbigliamento.
Vestirsi, o piuttosto svestirsi, in un certo modo, significa esercitare una forma di potere sul prossimo, specialmente se si è giovani e belli: il potere di imporgli la provocazione sessuale, di costringerlo o a voltare la testa dall’altra parte, per l’imbarazzo (e talvolta per il disgusto) o a guardare con desiderio, come un povero fesso, la merce che viene generosamente esposta, anzi, esibita ed ostentata, ma che non è in vendita.
Inutile parlare, ormai, di decoro o di buon gusto: se ne sono andati per sempre, spazzati via dalla grossolanità più sfacciata, dall’esibizionismo più becero.
Inutile parlare di rispetto di se stessi e di senso del pudore: che cosa sono mai questi concetti, se non reliquie di un passato morto e sepolto, che non può tornare?
Inutile, infine, fare appello allo stesso senso della libertà e della democrazia, facendo osservare che la prima finisce dove inizia quella altrui, e che la seconda si nutre del rispetto di tutti e di ciascuno, compresi quelli che vorrebbero andarsene per i fatti propri, senza essere provocati ad ogni passo e senza essere arruolati a forza tra il pubblico di uno spettacolo indecente.
Un preside di Trento, l’ennesimo, ci ha provato: ha proibito l’ingresso alle lezioni agli alunni che si presentano a scuola con i pantaloni a vita bassa, esibendo abbondantemente le nudità del ventre e del sedere, con tanto di mutandine e perizoma a vista.
Ma non è servito e non servirà a nulla, lo sappiamo benissimo.
In una cittadina del Sud degli Stati Uniti la giunta comunale ha addirittura minacciato una multa di 500 dollari a chi se ne va in giro per la strada indossando pantaloni a vita bassa: con il solo risultato, presumibilmente, di coprirsi di ridicolo e di passare pure per razzista e oscurantista, di nemica della sacrosanta libertà dei cittadini.
Se uno vuol mostrare al mondo le proprie mutandine o, magari, l’assenza di mutandine; se vuol far vedere, ogni volta che si piega o che si siede, le sue chiappe, più o meno ben tornite, più o meno abbronzate, oppure, sul versante opposto, i suoi peli pubici: che male c’è?
Forse che la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, in quella rovente estate del 1789, nonché la Dichiarazione dei diritti umani, proclamata sempre a Parigi, del 1948, sono state scritte per nulla?Forse che non valgono nemmeno la carta e l’inchiostro su cui furono vergate?
E allora, armiamoci e partiamo: giù le braghe, fuori le mutande: viva la marcia della libertà e crepino i vieti pregiudizi dell’Ancien Régime, il moralismo ipocrita dei bacchettoni, delle cariatidi borghesi!
Abbiamo combattuto per la libertà, sì o no? E dunque vogliamo indossare i pantaloni col cavallo sempre più basso, sfoggiare sempre più la biancheria intima: a colori sgargianti, giallo shocking, rosso fuoco; o a disegnini teneramente erotici: a fiorellini, a pois.
Ora che è arrivato il caldo, poi, si salvi chi può: quella di calare le braghe è diventata pure una necessità fisiologica; la pelle, si sa, deve poter respirare.
Sicché, quando un baldo giovanotto o una simpatica ragazza si siedono al bar o, semplicemente, sui banchi della scuola, magari sfogliando il vocabolario di latino, non c’è niente di più normale che godersi lo spettacolo dei loro sederini esposti all’aria per almeno una decina di centimetri al di sotto dell’osso sacro.
Non sempre è un bello spettacolo, perché non sempre i proprietari di quei fondoschiena possono vantare un fisico da modelli; ma il punto, ovviamente, non è questo: non si tratta di una questione estetica, ma etica.
Anche se quelli che ci vengono offerti alla vista fossero i sederi più belli del mondo, la loro esibizione estemporanea, nei momenti e nei luoghi meno opportuni, è pornografia allo stato puro: pornografia della vita quotidiana.
È una pornografia di massa, così come vi sono una società di massa, una comunicazione di massa, un turismo di massa; per cui ci dovremo abituare, piaccia o non piaccia, anche alle chiappe di massa, agli addomi di massa, ai tatuaggi di massa nelle zone pubiche.
Già, i tatuaggi: sempre gli stessi, quelli sfoggiati dagli squallidi vip dei rotocalchi scandalistici o dei reality della tv spazzatura; sempre gli stessi angioletti, le stesse farfalle, gli stessi cuoricini; e sempre occhieggianti dagli stessi angoli intimi.
Essi rivelano una totale mancanza di personalità, oltre che di senso della decenza: perché, tranne che mostrare il culo, questi barbari della pornografia di massa non sono capaci di niente, nemmeno di essere creativi nella loro volgarità e nel loro sfrenato narcisismo; non sanno neppure essere pornografici in maniera personale, da esseri umani e non da pecore belanti.
Inutile dire come, in tutto questo, non vi sia neppure l’ombra, non diremo dell’erotismo, ma neanche della sensualità.
Per dirla tutta: non conosciamo nulla di più deprimente, nulla di più mortificante, nulla di meno eccitante di queste chiappe sbattute in faccia al primo che passa, a un tanto il chilo, come carne di qualità scadente; di questi ombelichi sparati addosso a chi preferirebbe non vederli, non trovandoli né belli, né invitanti, né desiderabili; a questi bacini, ora ossuti, ora cicciosi, sempre sgraziati e sommamente insulsi; di questi tatuaggi che fuoriescono dappertutto, a imitazione di qualche divetta da strapazzo, di qualche velina televisiva, di qualche straccetto di showgirl che non sa fare niente: né cantare, né ballare, e nemmeno parlare in un italiano decente o muoversi con un minimo di grazia e di naturalezza.
Tentazioni? No davvero.
Eppure, sempre più frequenti sono le situazioni in cui uno, letteralmente, non sa più dove girare lo sguardo; sui treni, sugli autobus, per la strada, nei supermercati, nelle scuole, negli uffici: ovunque è una esibizione quotidiana, implacabile, tristissima, di mercanzia corporea.
Ovunque si fa a gara per chi mostra qualche centimetro di pelle nuda in più, per chi ostenta la scollatura più audace, per chi abbassa un poco di più la cintura dei pantaloni: al punto che ti chiedi come fanno a non perderli per strada e a non restare tutti nudi, dalla vita in giù, come mamma li ha fatti, scarpe o stivaletti a parte.
Se entri in un negozio e chiedi un articolo che si trova in uno dei ripiani alti dello scaffale, la commessa, salendo con la scaletta, ti costringe ad ammirare tutto il suo pancino nudo, mentre la maglietta, già cortissima, si solleva di quasi mezzo metro al di sopra dei jeans, e l’immancabile farfallina tatuata ti ammicca dolcemente sopra l’inguine.
Se passeggi sulla pensilina in attesa del treno, puntualmente in ritardo, non puoi fare a meno di sbattere con lo sguardo, e quasi anche coi piedi, contro il roseo sedere dei ragazzi che, borse di scuola a tracolla e mascelle perennemente impegnate a ruminare gomma americana, siedono scompostamente sulle panchine, sui bordi delle aiole, sui libri stessi posati a terra: e ti chiedi se sia proprio naturale tutto quel piegarsi in avanti, tutto quel curvarsi sulla schiena, assumendo delle pose alquanto innaturali; o se non sia, piuttosto, una strategia lungamente studiata e messa a punto fin nei minimi dettagli, magari con l’aiuto e il consiglio degli amici.
Se, poi, stanco e sudato, stai facendo la fila all’ufficio postale e finalmente, armato del tuo bravo numero come al supermarket, arrivi allo sportello, ecco che ti devi sorbire lo show erotico dell’impiegata che, dovendo chinarsi per cercare la tua raccomandata inevasa, ti mostra più roba di quanta non ne facesse vedere Kim Basinger a Mickey Rourke in «Nove settimane e mezzo»; oppure, come direbbe il buon principe di Salina de «Il gattopardo» al suo confessore, più roba di quanto le mogli d’un tempo non ne mostrassero ai mariti, dopo una pluridecennale vita coniugale e dopo avere messo al mondo una intera nidiata di eredi.
E quando poi si volta, non sai nemmeno come affrontare il suo sguardo: ti domandi se ti possa leggere in viso l’effetto che il suo spettacolino ha provocato; ti senti colpevole come un ragazzino colto in fallo, anche se a tutto pensavi, quando hai raggiunto il sospirato sportello, tranne che a eccitarti sbirciando le grazie, magari discutibili, di questa sconosciuta che ora sembra ridacchiare del tuo imbarazzo o, peggio, fiutare le prove della tua malizia sporcacciona.
Che bella situazione: colpevole di niente, eppure sospettato, quanto meno, di cattivi pensieri (perché il maschio, si sa, nella cultura post-femminista, è sempre un porcaccione); provocato e, forse, un po’ turbato, senza aver mosso un dito per arrivare a tanto; costretto, infine, a mostrare urbanità e naturalezza, persino indifferenza, insomma a non fare una piega, quando hai dovuto subire da quella perfetta sconosciuta un comportamento non meno pesante ed invasivo delle persecuzioni sessuali che tante donne lamentano da parte di colleghi e capiufficio.
Ma l’uomo è quello che pensa sempre male, la donna no; se la donna mostra il suo corpo, lo fa per caso, con innocenza, senza intenzione; mentre se l’uomo guarda, allora vuol dire che è un porco, un selvaggio, un potenziale stupratore.
E comunque, qualsiasi cosa lui faccia, sbaglia: se si mostra emozionato, allora la donna lo guarda di traverso, immaginando che lui abbia immaginato cose sporche e irriferibili proprio su di lei («Ma come si permette quello lì, che nemmeno lo conosco!»); se, viceversa, ostenta nonchalance, allora c’è il caso che lei lo guardi ancora più di traverso, ferita a sangue nella sua vanità femminile («Ma guarda che razza di impotente, possibile che io valga così poco?; no, non è impossibile: quello non è nemmeno un impotente, è proprio un gran finocchio!»).
Ironia di una situazione senza sbocchi, assurdamente circolare e punitiva: ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere.
Intanto, le chiappe trionfano e, se qualcuno pensa male, peggio per lui: vuol dire che ci mette la malizia; è un problema suo, povero guardone frustrato.
Qualcun altro, comunque, ci sta facendo sopra un bel guadagno: un bel guadagno economico, vogliamo dire, con tanti, tanti zeri.
Sarà un caso che emergano così prepotentemente, dai tenebrosi abissi della zona corporea proibita, proprio i marchi della biancheria intima, proprio i filetti del perizoma, come se ci fosse lo zampino di un segreto e inconfessabile accordo pubblicitario fra produttore e consumatore, trasformato, quest’ultimo, in volonteroso modello ed in solerte agente propagandistico a costo zero, anzi, addirittura pagante?
Quando mai i modelli devono pagare il produttore per fargli la pubblicità? Eppure è proprio questo che sta accadendo: milioni di consumatori e di consumatrici comprano la merce a caro prezzo e poi fanno i modelli, gratuitamente, assiduamente, giorno e notte, per strada e sul lavoro, tra un poco li vedremo pure in chiesa.
Anzi, a dire il vero, quest’ultima eventualità si è già presentata, e non da ieri: ma, anche qui, la battaglia che qualche prete isolato ha intrapreso contro i pantaloni a vita bassa delle parrocchiane è destinata, come quella dei presidi delle scuole medie, a finire nel grottesco e nel ridicolo, se non addirittura sulla stampa e nelle aule dei tribunali.
Come si permette, quell’arrogante ministro di Dio, di rifiutare la comunione alla ragazza che gli si presenta davanti con l’ombelico al vento? Certamente deve trattarsi di un abietto seguace di monsignor Lefebvre, di un arnese da museo che non sa stare al passo con questi nostri tempi, giovanili e democratici, dove (come direbbe Tasso) «s’ei piace, ei lice».
Così stanno le cose: non ci si difende dalla pornografia di massa; bisogna rassegnarsi a subirla, e questo è tutto.
Dalla pornografia d’un tempo, ci si poteva ancora difendere, almeno in qualche misura: si poteva cambiar canale o spegnere il televisore; si poteva non comprare quel giornale o, magari, strappar via le pagine più oscene e fastidiose.
Certo, era più difficile difendersi dalla pubblicità murale: da quei metri e metri di cartelloni da cui ammiccavano già ventri e sederi, ma di graziosissime modelle.
Oggi, ventri e sederi si sono democraticamente moltiplicati e sono quelli della commessa, dell’impiegata, dello studente, della ragazzina e del ragazzino della porta accanto.
Perciò, mi raccomando, l’importante è non scomporsi: se ti turbi, allora sei colpevole; e sei finito.

di Francesco Lamendola