Nella società dei consumatori noi stessi ci siamo trasformati in merce (The future of capitalism, 2009-2010 BenHeine)
Nella società dei consumatori nessuno può diventare soggetto senza prima trasformarsi in merce, e nessuno può tenere al sicuro la propria soggettività senza riportare in vita, risuscitare e reintegrare costantemente le capacità che vengono attribuite e richieste ad una merce vendibile.
Lo scrive Zygmunt Bauman, uno dei sociologi più illustri di sempre, probabilmente il più profondo conoscitore della società contemporanea. E continua, “la caratteristica più spiccata della società dei consumi, per quanto attentamente custodita e totalmente occultata, è la trasformazione dei consumatori in merce”.
Già, proprio così. Per chi da anni osserva lo strano mondo in cui viviamo con l'occhio lucido dello studioso il responso è inequivocabile: siamo merce. D'altronde era inevitabile. È l'altro lato di quella stessa moneta che ci fornisce, da una quarantina d'anni a questa parte, una libertà di acquisto senza precedenti.
Tutto ebbe inizio nei primi anni Settanta, quando un vento di novità che spirava da oltreoceano portò fino in Europa un nuovo stile di vita. Per la prima volta nella storia, l'attività principale della vita dell'uomo non ruotava più attorno alla produzione, bensì al consumo. È questa – nelle parole del grande polacco – la svolta che conduce la cosiddetta modernità solida nelle braccia melliflue della post-modernità, o modernità liquida.
Consumismo, mercato, deregolamentazione, liberalizzazioni, sono le parole del momento, che invocano un mondo senza leggi né regole prestabilite, eccezion fatta per una: ogni dinamica o relazione, fra soggetti o oggetti, deve essere regolata esclusivamente dal libero flusso di denaro. Via le pastoie delle convenzioni sociali, via la routine e la tradizione, via le istituzioni e persino gli stati nazione: nessuna legge scritta o remora morale si dovrà opporre allo scambio di moneta sonante.
Così, questi sconvolgimenti epocali che come gocce di miele sul barattolo colano dall'alto dei rapporti fra nazioni fino a sciogliere i legami secolari fra individui, hanno un altro effetto non da poco. Ci abituano a considerare tutto alla stregua di una merce da scegliere fra le tante.
Per tutta la nostra esistenza abbiamo a che fare con prodotti che dobbiamo scegliere nel minor tempo possibile, sull'onda di un capriccio o di un vezzo momentaneo
Riflettiamoci. Per tutta la nostra esistenza abbiamo a che fare con prodotti che dobbiamo scegliere nel minor tempo possibile, sull'onda di un capriccio o di un vezzo momentaneo. Dagli scaffali dei supermercati decine di merci simili ci accecano con colori sgargianti, ci corteggiano come pavoni con la coda spiegata sperando di essere scelte, di primeggiare rispetto alle altre.
Noi decidiamo spesso in una frazione di secondo, senza riflettere; ma dietro a quell'atto istintivo ci sono miliardi di euro e mesi di lavoro spesi proprio per propiziare quel gesto irrazionale a favore di quel prodotto e a scapito degli altri. Di questi atti, poi, ne compiamo infiniti ogni giorno; pare proprio che le uniche scelte che ci vengono concesse in questo mondo dalle libertà infinite siano scelte di consumo.
Ad ogni modo non è il caso di perderci nei meccanismi, pur interessanti, che sottendono alle scelte individuali nell'era dei consumi. Il nocciolo a cui si vuole qui arrivare è un altro: il fatto che ci siamo trasformati noi stessi in merce. E se ad oggi ancora non esiste una borsa degli esseri umani, in cui venir quotati, è solo perché la nostra particolarità, come merce, è quella di dividerci fra vari mercati. Mi spiegherò con qualche esempio.
Pensiamo ad un social network come Facebook, o ad alcune sue versioni più 'spinte' come Netlog o Badoo. Cosa ci spinge ad inserirvi le nostre foto, le nostre informazioni personali, i nostri gusti musicali finanche alle citazioni dei nostri comici, scrittori o cantanti preferiti? Semplice: stiamo cercando di quotare noi stessi sul mercato delle relazioni sociali e amorose. Esponiamo le nostre caratteristiche migliori, ciò che ci rende unici e inimitabili, con la speranza di essere scelti da un possibile 'consumatore' di relazioni interpersonali. Al tempo stesso usiamo il social network come un grande database da spulciare alla ricerca di soggetti interessanti che corrispondano alle nostre aspettative e capricci di consumatori.
Nei social network noi esponiamo le nostre caratteristiche migliori con la speranza di essere scelti da un possibile 'consumatore' di relazioni interpersonali
Date un'occhiata all'homepage del sito Badoo e confrontatela con la foto qui accanto: non sono poi così diverse; entrambe sono vetrine che espongono le loro merci migliori con la speranza di attirare al proprio interno il ghiotto consumatore. Ma nel caso del social network, il prezzo da pagare – sempre che lo si consideri un prezzo – per poter fare acquisti liberamente è essere esposti noi stessi. Siamo soggetti liberi di scegliere solo se accettiamo di essere merci, come dicevamo.
Ma il mercato delle relazioni sociali non è l'unico in cui collochiamo la nostra poliedrica figura. Basta cambiare piattaforma per rendersene conto. Spostiamoci su Linkedin ed ecco che avremo posizionato noi stessi sul mercato del lavoro. Chi acquista lavoro ha sul sito un'enorme database di proposte da filtrare a seconda delle esigenze; chi lo offre, o per meglio dire si offre, esalta le proprie doti per spiccare sugli altri e rendersi appetibile agli occhi dell'acquirente. E – uscendo dai confini del web – facciamo lo stesso ogni volta che inviamo un curriculum in cui descriviamo, come in un'etichetta, le nostre caratteristiche lavorative; oppure quando scegliamo con cura l'abito da indossare per un colloquio. E questo vale per ogni aspetto in cui si esprime la nostra esistenza.
Si spiegano così alcuni dilemmi dell'uomo contemporaneo. Perché le relazioni sono oggi così fragili? Probabilmente perché come per ogni merce, una volta svanita la spinta emotiva iniziale che ha portato all'acquisto si tende ad abbandonare l'usato in favore del nuovo e migliore: le infinite possibilità che si hanno davanti seducono ben più della sicurezza di ciò che si è già scelto. Il consumo necessita una rapida obsolescenza delle merci, altrimenti l'intero meccanismo s'incepperebbe. E perché poi si è così perennemente insoddisfatti? Verosimilmente perché necessitiamo uno sforzo costante per renderci appetibili come merci, e se ci adagiassimo diventeremmo obsoleti molto in fretta.
Dunque l'aspetto più dolce e piacevole della nostra esistenza ci investe nella dimensione di consumatori, nella libertà di sollazzarci, appagare i nostri capricci e placare le nostre smanie con gli acquisti spensierati. L'aspetto più duro, difficile e faticoso invece è quello che ci interessa in qualità di merce, con la continua necessità di emergere rispetto alle altre merci, di ricollocarsi verso l'alto, di arrampicarsi senza sosta e più veloci degli altri per restare in vetrina, visibili agli occhi dei consumatori.
Come si ferma questo meccanismo che fa di ogni cosa, anche di noi stessi, una merce?
Ora è evidente che questo meccanismo è malato e va cambiato. Un sistema che in meno di mezzo secolo ha ridotto ogni cosa ad una merce, persino noi stessi – e nel frattempo, en passant, è riuscito a distruggere ecosistemi, frantumare culture, inquinare acqua, aria e terra – va fermato ad ogni costo. E qui ci scontriamo con uno dei limiti maggiori della sociologia contemporanea. Si è soliti pensare che tale sistema sia immodificabile, inattaccabile. Come mai? Perché – si dice – non esistono più centri di potere da attaccare. Il mercato è un marchingegno globale che, una volta attivato, è impossibile disinnescare o controllare, alla stregua di una fusione nucleare.
Le opzioni sono due: o questo è vero, oppure è una favola. Dal basso non è facile capire se gli enormi ingranaggi economici che ci si muovono sopra il capo – e da cui sovente dobbiamo ripararci per evitare di restarne schiacciati – siano controllati da qualcuno che sta all'altra estremità oppure facciano parte di un organismo semovente. Personalmente sono dell'avviso – mi si dia pure del complottista – che esistono persone che muovono le pesanti leve. La storia del mercato che si autoregola mi è sempre parsa una favoletta cui possono credere solo bambini ingenui ed economisti.
Un esempio. Chi regola l'emissione del denaro – generalmente una banca centrale – manovrando le leve dell'inflazione è in grado di generare crisi economiche mondiali con uno schiocco di dita; aumentando o diminuendo la quantità di liquidità in circolazione si possono decidere le sorti del mondo intero. Al tempo stesso una multinazionale è in grado facilmente di tenere in scacco una nazione, minacciando di spostare i propri investimenti e il proprio capitale. Generare crisi avrà poi l'effetto, fra gli altri, di aumentare la concentrazione economica grazie al fallimento delle piccole e medie imprese. Si riazzera tutto, i ricchi diventano ancor più ricchi e potenti e si ricomincia tutto da capo.
Ma come si ferma questo meccanismo? Non abbiamo molto in mano. Non manovriamo leve noi, abbiamo giusto una manciata di sassi e qualche fuscello, tutto quello che ci è rimasto. Ma possiamo costruirci dei paletti da conficcare al suolo. E su di essi far incastrare i macro-ingranaggi. Paletti che siano le fondamenta per ricostruire qualcosa di solido. Che dicano al mondo che non tutto è una merce.
Si potrebbe ripartire, ad esempio, dai beni comuni. Affermare che esistono ancora dei beni che vanno sottratti al mercato perché sono indispensabili per la vita delle persone. Beni come l'acqua, l'aria, il territorio, la cultura, l'energia, la salute. E via e via, a suon di paletti far inceppare tutto, sconquassare un intero sistema economico. Per arrivare un giorno a togliere dal mercato persino noi stessi.
di Andrea Degl'Innocenti
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