25 ottobre 2011

Parabola del banchiere con cuore a sinistra





http://liberamentenews.files.wordpress.com/2011/10/profumofrodefiscale.jpg?w=201&h=300


Un profilo dell' ex a.d. di Unicredit, indagato per frode fiscale. Amico di Prodi, siglò l'accordo con Geronzi per l'ingresso in Unicredit della romana Capitalia. Fu poi esautorato con l'intervento attivo di Bisignani: un addio addolcito da una buonuscita milionaria


E' l'ex banchiere che nel 2006 ha votato per Romano Prodi alle primarie dell'Ulivo, come il suo ex diretto concorrente, Corrado Passera di Banca Intesa, il quale però si è avvicinato al governo Berlusconi (e anche per questo, dicono in molti, è ancora al suo posto). Genovese, classe 1957, l'infanzia trascorsa a Palermo e poi, dall'età di 13 anni, a Milano, Alessandro Profumo è l'ex amministratore delegato di Unicredit coinvolto nell'indagine giudiziaria per frode fiscale, nella quale la Procura di Milano il 18 ottobre fa ha fatto sequestrare 245 milioni di euro alla banca.

Profumo sembra un predestinato alla carriera in banca. A vent'anni viene assunto al Banco Lariano e ci resta dieci anni, dopo un po' si iscrive all'università, fa la vita dello studente lavoratore, a 30 anni si laurea in economia alla Bocconi. Poi lavora alla McKinsey, la società di consulenza aziendale nella quale si formano molti manager di successo, li chiamano i Mc Kinsey-boy, una categoria (o una lobby) che non piace a tutti ma che nelle aziende riesce a fare molta strada. Profumo arriva al Credito Italiano nel 1994, un anno dopo la sua privatizzazione e quattro anni dopo, con la nascita del gruppo Unicredit, ne diventa amministratore delegato. Comincia una fase di acquisizioni di istituti minori e di espansione all'estero, culminata nell'acquisizione del gruppo tedesco Hvb nel 2005. L'operazione fa aumentare le dimensioni della banca ma non fa bene al conto economico, perché nelle filiali "austroungariche" si annidano dei problemi.

L'altra grande operazione è nel 2007, l'accordo con Cesare Geronzi per la fusione in Unicredit della romana Capitalia, una banca con molte sofferenze in bilancio ma con forti agganci nei palazzi della politica (da Berlusconi a D'Alema). Rientra nell'accordo con Profumo anche la nomina di Geronzi alla presidenza di Mediobanca, ma con la crisi finanziaria che esplode nel settembre 2008 i conti di Unicredit cominciano a soffrire pesantemente. Comincia la discesa che porterà all'esautoramento di Profumo dopo 13 anni, il 21 settembre 2010.
"Mi mandano via", dice lui stesso due giorni prima del consiglio di amministrazione che lo esautora. Il motivo non è mai stato spiegato, tuttavia negli ultimi anni i conti della banca non andavano più bene come prima e Profumo, avendo bisogno di fare due aumenti di capitale ravvicinati, aveva trovato l'aiuto della Libia ( http://www.ilpost.it/2010/09/20/unicredit-libia-profumo/ ) , entrata nel capitale con una quota complessiva del 7,5 per cento. Un'avanzata che ha irritato le fondazioni bancarie principali azioniste di Unicredit, soprattutto la Cariverona e la Crt di Torino, guidate dai potenti Paolo Biasi e Fabrizio Palenzona, decisivi per l'allontanamento di Profumo.

Chi si è dato molto da fare per disarcionare il banchiere vicino all'Ulivo è anche uno dei più potenti lobbisti italiani, Luigi Bisignani ( http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/06/30/p4-bisignani-brigava-per-cacciare-profumo-da-unicredit-lo-sbattiamo-fuori/132806/ ) , già iscritto alla loggia massonica segreta P2 e condannato per la tangente Enimont, dal 15 giugno scorso agli arresti domiciliari nell'indagine sulla P4, una rete di dossier, ricatti, potere. "Lo cacciamo!", confidava Bisignani al telefono a un dirigente dell'Unicredit, Luca De Dominicis, 11 giorni prima delle dimissioni ufficiali.

Profumo viene ricordato come un dirigente che ha tenuto la banca lontano da operazioni politiche, come l'ingresso nel capitale di Telecom Italia e il controverso progetto della nuova Alitalia, operazioni condotte invece dalla Banca Intesa di Passera. L'altra caratteristica del banchiere con il cuore a sinistra è quella di essere stato molto ben pagato, con lo stipendio più alto in Italia: poco più di nove milioni euro lordi nel 2007, l'anno record. Un primato che ha confermato al momento dell'addio, addolcito da una buonuscita di circa 40 milioni di euro al lordo delle tasse, più un'erogazione in beneficenza di due milioni fatta dalla banca, su sua indicazione, alla Casa della carità di don Colmegna. Attualmente l'ex banchiere è nel consiglio di sorveglianza di una banca russa, la Sberbank e in maggio è entrato nel consiglio di amministrazione dell'Eni. Nel gruppo pubblico del petrolio e del gas, guidato da un altro ex McKinsey, Paolo Scaroni, lavora come dirigente la moglie di Profumo, Sabina Ratti.
di Gianni Dragoni

24 ottobre 2011

Condividi: Panico Usa: è Wall Street a detenere il nostro debito

Gli Usa sono letteralmente terrorizzati: se crolla uno Stato europeo, uno qualsiasi, vanno in crisi le grandi banchefrancesi e tedesche sorrette da Wall Street. Ecco perché Washington è così attenta alla crisi europea e raccomanda a Bruxelles di scongiurare il rischio di default, a cominciare da quello della Grecia: il collasso a catena porterebbe alla bancarotta delle centrali finanziarie statunitensi. Lo afferma Robert Reich, docente di politiche pubbliche all’università californiana di Berkeley, già ministro del lavoro del presidente Clinton nonché autore di tredici libri. «Perché l’America dovrebbe essere così preoccupata? Se volete sapere la vera ragione, seguite i soldi. Un default greco (o irlandese, spagnolo, italiano o portoghese) avrebbe sul nostro sistema finanziario lo stesso effetto dell’implosione della Lehman Brothers nel 2008. Il caos finanziario».

E’ l’analista Debora Billi a sottolineare l’intervento di Reich affidato al web: «Sì, esportiamo in Europa – ammette il professore – ma le esportazioni non Timothy Geithnerfiniranno e, in ogni caso, sono una goccia nel mare dell’economia statunitense». Se il presidente della Fed, Ben Bernanke, ha «unito la sua voce a quella di coloro che sono preoccupati per la crisi del debito europea», la vera ragione risiede nella drammatica fragilità del sistema finanziario creato da Wall Street ed esteso all’Europa: «Un default della Grecia o di qualsiasi altra nazione europea affogata nei debiti – scrive Reich – può facilmente colpire lebanche tedesche o francesi, che hanno prestato molto alla Grecia». E qui «entra in ballo Wall Street», che «ha prestato una montagna di soldi allebanche tedesche e francesi».

La totale esposizione all’eurozona, continua Reich, è pari a 2700 miliardi di dollari, e quella verso Francia e Germania rappresenta circa la metà del totale. E non sono solo i prestiti alle banche tedesche e francesi ad essere preoccupanti: «Wall Street è anche coinvolta in ogni sorta di derivati emessi dall’Europa – sull’energia, la moneta, i tassi di interesse e di cambio. Se una banca tedesca o francese fallisce, l’effetto domino è incalcolabile». Capito? Seguite i soldi, raccomanda Reich: «Se la Grecia crolla, gli investitori cominceranno a fuggire da Irlanda, Spagna, Italia e Portogallo. Tutto ciò farà annaspare le banchetedesche e francesi. Se una di queste banche collassa, o mostra gravi segni di stress, Wall Street è in guai seri. Persino in guai più seri che dopo la Lehman Brothers».

Ecco perché le azioni delle principali banche Usa sono scese così tanto nel mese scorso, osserva l’economista californiano, fiutando il peggio: Morgan Stanley ha chiuso al punto più basso dal dicembre 2008. La gigantesca banca d’affari mondiale è in pericolo, sottolinea Debora Billi nel suo blog “Crisis.blogosfere“: «Reich sostiene che, se le banche europee falliscono, la Morgan può perdere 30 miliardi di dollari», ovvero «2 miliardi in più del totale dei suoi assets», pur sostenendo di non avere alcuna esposizione Robert Reichverso lebanche francesi: «In realtà, l’esposizione deriva da assicurazioni, derivati e swaps. Ecco perché a Washington sono terrorizzati – e perché il segretario al Tesoro Tim Geithner continua a supplicare gli europei di salvare la Grecia e le altre nazioni indebitate».

«Non vi confondete», avverte la Billi: «Gli Usa vogliono che l’Europa salvi le nazioni indebitate così che esse possano ripagare le banche europee. Altrimenti, le banche potrebbero implodere – portando Wall Street con loro. E una delle tante ironie è che alcune delle nazioni indebitate (l’Irlanda è l’esempio migliore), si trovano in tale situazione proprio perché hanno fatto un bailout alle loro banche nella crisi che è cominciata a Wall Street. Chiuso il cerchio». In altre parole, conclude Debora Billi, non è la Grecia il problema. Né l’Italia, il Portogallo, o la Spagna. «Il vero problema è il sistema finanziario – centrato a Wall Street. E noi non l’abbiamo ancora risolto».

di Giorgio Cattaneo

23 ottobre 2011

Capitalismo produttivo, finanziario, di Stato & sociale



Si fa presto a dire capitalismo. Fa presto sia chi ne elogia le infallibili virtù, tanto chi se ne dichiara “anti” o “contro”. Ma di quale capitalismo si tessono gli elogi e di quale, invece, ci si dichiara fieri avversori? Perché di capitalismi ce ne sono molti. Perfino il comunismo, che dai più è considerato il suo esatto opposto, può essere definito come tipologia di capitalismo: di stato – certo – ma pur sempre capitalismo. Se per capitale, infatti, si intende la quantità di moneta e altri beni monetizzabili, come i mezzi di produzione, posseduti da uno o più individui, trasferire il capitale dall’individuo allo stato, dal privato al pubblico, non cambia poi di molto la questione. Semmai, la distinzione fra capitalismo e comunismo si pone sugli effetti prodotti da questa ideologia della proprietà, a partire dal profitto, dal superprofitto e, soprattutto, dalla loro destinazione d’uso. Ma qui siamo già a valle del processo capitalistico: quando, cioè, il capitale inizialmente investito produce il suo frutto. A monte, invece, la distinzione va fatta proprio sul tipo di investimento scelto ed operato dal capitalista. E qui le opzioni sono due: capitalismo produttivo e capitalismo finanziario. Almeno inizialmente, la differenza era netta: il primo investiva in attività produttive di imprese e servizi, ne assumeva il rischio e offriva lavoro. Il secondo si limitava a prestare capitale a chi non ne possedeva, con poco o nessun rischio (sin dall’antichità l’insolvenza del debitore era punita drasticamente fino al massimo della pena: la schiavitù dell’insolvente che diventava, così, “proprietà” del creditore) e, soprattutto, senza produrre altro che denaro dal denaro. Per sé e solo per sé. Tanto era chiara la distinzione che i redditi del capitalismo produttivo si chiamavano “guadagni” (poi, “profitti”) e quelli del capitalismo finanziario, “interessi” o, in caso di eccesso della domanda di restituzione del prestito originario, “usura”.

La distinzione rimase evidente per secoli: difficilmente il finanziere diventava produttore o il produttore, finanziere. I ruoli cominciarono a diventare meno nitidi sul finire del Medio Evo, quando a Genova, nel 1406, nacque la prima banca moderna: il Banco di San Giorgio. Oh, la banca! questa sovrana istituzione privata che è diventata l’incubo dei giorni nostri. Va detto che all’inizio non fu neanche una cattiva idea, offrendosi, la banca, come mediatrice riconosciuta e garante del passaggio di denaro fra risparmiatori e imprenditori. Lo scambio aveva dei costi (differenza fra interesse dato a chi depositava i suoi risparmi e quello chiesto all’imprenditore che fruiva del prestito) ma i vantaggi dovuti dal vertiginoso aumento dalla circolazione del denaro e dai suoi investimenti produttivi furono enormi. Tanto che, con un’accelerazione incredibile a quei tempi, Genova divenne la potenza economica ricordata dalla storia. Gli svantaggi? Uno e originario, ma non immediatamente percepito nella sua portata negativa: l’immenso potere della banca di Genova divenne in breve tempo superiore a quello del governo politico. Con quali effetti? Innanzi tutto, con quello di dettare le sue leggi di primato all’intera economia dello stato. A quel punto, appare ovvio, i confini fra capitalismo produttivo e capitalismo finanziario cominciarono ad assottigliarsi fino quasi a non poter distinguere dove comincia l’uno e dove finisce l’altro.

Ma ci vollero altri secoli per poter prendere atto del fenomeno con analisi lucide tipo quella di Vladimir Il’ič Ul’janov, in arte rivoluzionaria e per fama al mondo semplicemente Lenin: «Il vecchio capitalismo, il capitalismo della libera concorrenza, con la borsa suo regolatore indispensabile, se ne va a gambe all’aria, soppiantato da un nuovo capitalismo, nel suo stadio imperialistico, che presenta tutti i segni di un fenomeno di transizione, una miscela di libera concorrenza e di monopolio. L’ultima parola dello sviluppo del sistema bancario è sempre il monopolio. Nell’intimo nesso tra le banche e l’industria appare, nel modo più evidente, la nuova funzione delle banche. Allo stesso tempo si sviluppa, per così dire, un’unione personale della banca con le maggiori imprese industriali e commerciali, una loro fusione mediante il possesso di azioni o l’entrata dei direttori di banche nei consigli d’amministrazione delle imprese e viceversa. Pertanto si giunge a una sempre maggior fusione, a una simbiosi (Bukharin), del capitale bancario col capitale industriale. L’imperialismo è l’epoca del capitale finanziario e dei monopoli, che sviluppano dappertutto la tendenza al dominio, anziché alla libertà».

Destrutturiamo il suo detto. Il “capitalismo industriale” (o produttivo) si connota con le parole chiave: “libera concorrenza” (di mercato) e “regole” (ce ne sono o potrebbero essercene altre di regole oltre alla “borsa” che, anzi, oggi appare terreno di pertinenza finanziaria ma, per quel che serve, atteniamoci al principio della “regola”). Il capitalismo finanziario (quello delle banche e altri noti istituti) invece, si distingue con i termini: “imperialismo” (oggi, forse, Lenin direbbe globalizzazione), “monopolio” (ma monopolistica, in quanto statale, lo fu anche l’economia sovietica) e “dominio” (in antitesi alla libertà). L’altra parola chiave è “fusione” fra capitalismo produttivo e capitalismo finanziario «mediante – osservava giustamente Lenin – il possesso di azioni o l’entrata dei direttori di banche nei consigli d’amministrazione delle imprese e viceversa».

Ed è esattamente quello che è avvenuto e continua ad avvenire sotto i nostri occhi, anche in Italia. Il vecchio capitalismo produttivo è ormai alla mercé delle banche e delle speculazioni di borsa. Antiche aziende produttive, come la Fiat, vanno trasformandosi in holding finanziarie. Altre, come la Fincantieri, in crisi di commesse, non ottengono credito per riconvertirsi. Le uniche attività di rilievo economico registrabili sono le scalate dei finanzieri nei consigli di amministrazione delle società esposte al debito. Il solo sviluppo accertato è quello della moneta in mano agli squali che cannibalizzano tutto il cannibalizzabile, senza produrre un solo posto di lavoro in più. Gli stati politici, privi di mandato per regolare i mercati finanziari nei superiori casi del bene comune, subiscono gli stessi identici processi delle imprese, aggrediti come sono da chi possiede i suoi titoli e spinge al rialzo l’offerta degli interessi.

Torneranno tempi più normali per questa “povera patria”, come auspicava Franco Battiato nell’omonima canzone? Bisognerebbe, innanzi tutto, mettere una bella capezza (penso ad una robin-tax planetaria, per esempio) al collo dell’usorocrazia mondiale. Poi, a me personalmente, basterebbe entrasse in auge il capitalismo sociale di Adriano Olivetti, l’imprenditore industriale che a Ivrea reinvestiva il superprofitto della sua azienda in beni e servizi socialmente utili per la comunità dei lavoratori. A questo, magari, aggiungerei la richiesta di rendere finalmente esecutivo l’articolo 46 della Costituzione italiana che testualmente recita: «Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende». Niente di più.

di Miro Renzaglia

25 ottobre 2011

Parabola del banchiere con cuore a sinistra





http://liberamentenews.files.wordpress.com/2011/10/profumofrodefiscale.jpg?w=201&h=300


Un profilo dell' ex a.d. di Unicredit, indagato per frode fiscale. Amico di Prodi, siglò l'accordo con Geronzi per l'ingresso in Unicredit della romana Capitalia. Fu poi esautorato con l'intervento attivo di Bisignani: un addio addolcito da una buonuscita milionaria


E' l'ex banchiere che nel 2006 ha votato per Romano Prodi alle primarie dell'Ulivo, come il suo ex diretto concorrente, Corrado Passera di Banca Intesa, il quale però si è avvicinato al governo Berlusconi (e anche per questo, dicono in molti, è ancora al suo posto). Genovese, classe 1957, l'infanzia trascorsa a Palermo e poi, dall'età di 13 anni, a Milano, Alessandro Profumo è l'ex amministratore delegato di Unicredit coinvolto nell'indagine giudiziaria per frode fiscale, nella quale la Procura di Milano il 18 ottobre fa ha fatto sequestrare 245 milioni di euro alla banca.

Profumo sembra un predestinato alla carriera in banca. A vent'anni viene assunto al Banco Lariano e ci resta dieci anni, dopo un po' si iscrive all'università, fa la vita dello studente lavoratore, a 30 anni si laurea in economia alla Bocconi. Poi lavora alla McKinsey, la società di consulenza aziendale nella quale si formano molti manager di successo, li chiamano i Mc Kinsey-boy, una categoria (o una lobby) che non piace a tutti ma che nelle aziende riesce a fare molta strada. Profumo arriva al Credito Italiano nel 1994, un anno dopo la sua privatizzazione e quattro anni dopo, con la nascita del gruppo Unicredit, ne diventa amministratore delegato. Comincia una fase di acquisizioni di istituti minori e di espansione all'estero, culminata nell'acquisizione del gruppo tedesco Hvb nel 2005. L'operazione fa aumentare le dimensioni della banca ma non fa bene al conto economico, perché nelle filiali "austroungariche" si annidano dei problemi.

L'altra grande operazione è nel 2007, l'accordo con Cesare Geronzi per la fusione in Unicredit della romana Capitalia, una banca con molte sofferenze in bilancio ma con forti agganci nei palazzi della politica (da Berlusconi a D'Alema). Rientra nell'accordo con Profumo anche la nomina di Geronzi alla presidenza di Mediobanca, ma con la crisi finanziaria che esplode nel settembre 2008 i conti di Unicredit cominciano a soffrire pesantemente. Comincia la discesa che porterà all'esautoramento di Profumo dopo 13 anni, il 21 settembre 2010.
"Mi mandano via", dice lui stesso due giorni prima del consiglio di amministrazione che lo esautora. Il motivo non è mai stato spiegato, tuttavia negli ultimi anni i conti della banca non andavano più bene come prima e Profumo, avendo bisogno di fare due aumenti di capitale ravvicinati, aveva trovato l'aiuto della Libia ( http://www.ilpost.it/2010/09/20/unicredit-libia-profumo/ ) , entrata nel capitale con una quota complessiva del 7,5 per cento. Un'avanzata che ha irritato le fondazioni bancarie principali azioniste di Unicredit, soprattutto la Cariverona e la Crt di Torino, guidate dai potenti Paolo Biasi e Fabrizio Palenzona, decisivi per l'allontanamento di Profumo.

Chi si è dato molto da fare per disarcionare il banchiere vicino all'Ulivo è anche uno dei più potenti lobbisti italiani, Luigi Bisignani ( http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/06/30/p4-bisignani-brigava-per-cacciare-profumo-da-unicredit-lo-sbattiamo-fuori/132806/ ) , già iscritto alla loggia massonica segreta P2 e condannato per la tangente Enimont, dal 15 giugno scorso agli arresti domiciliari nell'indagine sulla P4, una rete di dossier, ricatti, potere. "Lo cacciamo!", confidava Bisignani al telefono a un dirigente dell'Unicredit, Luca De Dominicis, 11 giorni prima delle dimissioni ufficiali.

Profumo viene ricordato come un dirigente che ha tenuto la banca lontano da operazioni politiche, come l'ingresso nel capitale di Telecom Italia e il controverso progetto della nuova Alitalia, operazioni condotte invece dalla Banca Intesa di Passera. L'altra caratteristica del banchiere con il cuore a sinistra è quella di essere stato molto ben pagato, con lo stipendio più alto in Italia: poco più di nove milioni euro lordi nel 2007, l'anno record. Un primato che ha confermato al momento dell'addio, addolcito da una buonuscita di circa 40 milioni di euro al lordo delle tasse, più un'erogazione in beneficenza di due milioni fatta dalla banca, su sua indicazione, alla Casa della carità di don Colmegna. Attualmente l'ex banchiere è nel consiglio di sorveglianza di una banca russa, la Sberbank e in maggio è entrato nel consiglio di amministrazione dell'Eni. Nel gruppo pubblico del petrolio e del gas, guidato da un altro ex McKinsey, Paolo Scaroni, lavora come dirigente la moglie di Profumo, Sabina Ratti.
di Gianni Dragoni

24 ottobre 2011

Condividi: Panico Usa: è Wall Street a detenere il nostro debito

Gli Usa sono letteralmente terrorizzati: se crolla uno Stato europeo, uno qualsiasi, vanno in crisi le grandi banchefrancesi e tedesche sorrette da Wall Street. Ecco perché Washington è così attenta alla crisi europea e raccomanda a Bruxelles di scongiurare il rischio di default, a cominciare da quello della Grecia: il collasso a catena porterebbe alla bancarotta delle centrali finanziarie statunitensi. Lo afferma Robert Reich, docente di politiche pubbliche all’università californiana di Berkeley, già ministro del lavoro del presidente Clinton nonché autore di tredici libri. «Perché l’America dovrebbe essere così preoccupata? Se volete sapere la vera ragione, seguite i soldi. Un default greco (o irlandese, spagnolo, italiano o portoghese) avrebbe sul nostro sistema finanziario lo stesso effetto dell’implosione della Lehman Brothers nel 2008. Il caos finanziario».

E’ l’analista Debora Billi a sottolineare l’intervento di Reich affidato al web: «Sì, esportiamo in Europa – ammette il professore – ma le esportazioni non Timothy Geithnerfiniranno e, in ogni caso, sono una goccia nel mare dell’economia statunitense». Se il presidente della Fed, Ben Bernanke, ha «unito la sua voce a quella di coloro che sono preoccupati per la crisi del debito europea», la vera ragione risiede nella drammatica fragilità del sistema finanziario creato da Wall Street ed esteso all’Europa: «Un default della Grecia o di qualsiasi altra nazione europea affogata nei debiti – scrive Reich – può facilmente colpire lebanche tedesche o francesi, che hanno prestato molto alla Grecia». E qui «entra in ballo Wall Street», che «ha prestato una montagna di soldi allebanche tedesche e francesi».

La totale esposizione all’eurozona, continua Reich, è pari a 2700 miliardi di dollari, e quella verso Francia e Germania rappresenta circa la metà del totale. E non sono solo i prestiti alle banche tedesche e francesi ad essere preoccupanti: «Wall Street è anche coinvolta in ogni sorta di derivati emessi dall’Europa – sull’energia, la moneta, i tassi di interesse e di cambio. Se una banca tedesca o francese fallisce, l’effetto domino è incalcolabile». Capito? Seguite i soldi, raccomanda Reich: «Se la Grecia crolla, gli investitori cominceranno a fuggire da Irlanda, Spagna, Italia e Portogallo. Tutto ciò farà annaspare le banchetedesche e francesi. Se una di queste banche collassa, o mostra gravi segni di stress, Wall Street è in guai seri. Persino in guai più seri che dopo la Lehman Brothers».

Ecco perché le azioni delle principali banche Usa sono scese così tanto nel mese scorso, osserva l’economista californiano, fiutando il peggio: Morgan Stanley ha chiuso al punto più basso dal dicembre 2008. La gigantesca banca d’affari mondiale è in pericolo, sottolinea Debora Billi nel suo blog “Crisis.blogosfere“: «Reich sostiene che, se le banche europee falliscono, la Morgan può perdere 30 miliardi di dollari», ovvero «2 miliardi in più del totale dei suoi assets», pur sostenendo di non avere alcuna esposizione Robert Reichverso lebanche francesi: «In realtà, l’esposizione deriva da assicurazioni, derivati e swaps. Ecco perché a Washington sono terrorizzati – e perché il segretario al Tesoro Tim Geithner continua a supplicare gli europei di salvare la Grecia e le altre nazioni indebitate».

«Non vi confondete», avverte la Billi: «Gli Usa vogliono che l’Europa salvi le nazioni indebitate così che esse possano ripagare le banche europee. Altrimenti, le banche potrebbero implodere – portando Wall Street con loro. E una delle tante ironie è che alcune delle nazioni indebitate (l’Irlanda è l’esempio migliore), si trovano in tale situazione proprio perché hanno fatto un bailout alle loro banche nella crisi che è cominciata a Wall Street. Chiuso il cerchio». In altre parole, conclude Debora Billi, non è la Grecia il problema. Né l’Italia, il Portogallo, o la Spagna. «Il vero problema è il sistema finanziario – centrato a Wall Street. E noi non l’abbiamo ancora risolto».

di Giorgio Cattaneo

23 ottobre 2011

Capitalismo produttivo, finanziario, di Stato & sociale



Si fa presto a dire capitalismo. Fa presto sia chi ne elogia le infallibili virtù, tanto chi se ne dichiara “anti” o “contro”. Ma di quale capitalismo si tessono gli elogi e di quale, invece, ci si dichiara fieri avversori? Perché di capitalismi ce ne sono molti. Perfino il comunismo, che dai più è considerato il suo esatto opposto, può essere definito come tipologia di capitalismo: di stato – certo – ma pur sempre capitalismo. Se per capitale, infatti, si intende la quantità di moneta e altri beni monetizzabili, come i mezzi di produzione, posseduti da uno o più individui, trasferire il capitale dall’individuo allo stato, dal privato al pubblico, non cambia poi di molto la questione. Semmai, la distinzione fra capitalismo e comunismo si pone sugli effetti prodotti da questa ideologia della proprietà, a partire dal profitto, dal superprofitto e, soprattutto, dalla loro destinazione d’uso. Ma qui siamo già a valle del processo capitalistico: quando, cioè, il capitale inizialmente investito produce il suo frutto. A monte, invece, la distinzione va fatta proprio sul tipo di investimento scelto ed operato dal capitalista. E qui le opzioni sono due: capitalismo produttivo e capitalismo finanziario. Almeno inizialmente, la differenza era netta: il primo investiva in attività produttive di imprese e servizi, ne assumeva il rischio e offriva lavoro. Il secondo si limitava a prestare capitale a chi non ne possedeva, con poco o nessun rischio (sin dall’antichità l’insolvenza del debitore era punita drasticamente fino al massimo della pena: la schiavitù dell’insolvente che diventava, così, “proprietà” del creditore) e, soprattutto, senza produrre altro che denaro dal denaro. Per sé e solo per sé. Tanto era chiara la distinzione che i redditi del capitalismo produttivo si chiamavano “guadagni” (poi, “profitti”) e quelli del capitalismo finanziario, “interessi” o, in caso di eccesso della domanda di restituzione del prestito originario, “usura”.

La distinzione rimase evidente per secoli: difficilmente il finanziere diventava produttore o il produttore, finanziere. I ruoli cominciarono a diventare meno nitidi sul finire del Medio Evo, quando a Genova, nel 1406, nacque la prima banca moderna: il Banco di San Giorgio. Oh, la banca! questa sovrana istituzione privata che è diventata l’incubo dei giorni nostri. Va detto che all’inizio non fu neanche una cattiva idea, offrendosi, la banca, come mediatrice riconosciuta e garante del passaggio di denaro fra risparmiatori e imprenditori. Lo scambio aveva dei costi (differenza fra interesse dato a chi depositava i suoi risparmi e quello chiesto all’imprenditore che fruiva del prestito) ma i vantaggi dovuti dal vertiginoso aumento dalla circolazione del denaro e dai suoi investimenti produttivi furono enormi. Tanto che, con un’accelerazione incredibile a quei tempi, Genova divenne la potenza economica ricordata dalla storia. Gli svantaggi? Uno e originario, ma non immediatamente percepito nella sua portata negativa: l’immenso potere della banca di Genova divenne in breve tempo superiore a quello del governo politico. Con quali effetti? Innanzi tutto, con quello di dettare le sue leggi di primato all’intera economia dello stato. A quel punto, appare ovvio, i confini fra capitalismo produttivo e capitalismo finanziario cominciarono ad assottigliarsi fino quasi a non poter distinguere dove comincia l’uno e dove finisce l’altro.

Ma ci vollero altri secoli per poter prendere atto del fenomeno con analisi lucide tipo quella di Vladimir Il’ič Ul’janov, in arte rivoluzionaria e per fama al mondo semplicemente Lenin: «Il vecchio capitalismo, il capitalismo della libera concorrenza, con la borsa suo regolatore indispensabile, se ne va a gambe all’aria, soppiantato da un nuovo capitalismo, nel suo stadio imperialistico, che presenta tutti i segni di un fenomeno di transizione, una miscela di libera concorrenza e di monopolio. L’ultima parola dello sviluppo del sistema bancario è sempre il monopolio. Nell’intimo nesso tra le banche e l’industria appare, nel modo più evidente, la nuova funzione delle banche. Allo stesso tempo si sviluppa, per così dire, un’unione personale della banca con le maggiori imprese industriali e commerciali, una loro fusione mediante il possesso di azioni o l’entrata dei direttori di banche nei consigli d’amministrazione delle imprese e viceversa. Pertanto si giunge a una sempre maggior fusione, a una simbiosi (Bukharin), del capitale bancario col capitale industriale. L’imperialismo è l’epoca del capitale finanziario e dei monopoli, che sviluppano dappertutto la tendenza al dominio, anziché alla libertà».

Destrutturiamo il suo detto. Il “capitalismo industriale” (o produttivo) si connota con le parole chiave: “libera concorrenza” (di mercato) e “regole” (ce ne sono o potrebbero essercene altre di regole oltre alla “borsa” che, anzi, oggi appare terreno di pertinenza finanziaria ma, per quel che serve, atteniamoci al principio della “regola”). Il capitalismo finanziario (quello delle banche e altri noti istituti) invece, si distingue con i termini: “imperialismo” (oggi, forse, Lenin direbbe globalizzazione), “monopolio” (ma monopolistica, in quanto statale, lo fu anche l’economia sovietica) e “dominio” (in antitesi alla libertà). L’altra parola chiave è “fusione” fra capitalismo produttivo e capitalismo finanziario «mediante – osservava giustamente Lenin – il possesso di azioni o l’entrata dei direttori di banche nei consigli d’amministrazione delle imprese e viceversa».

Ed è esattamente quello che è avvenuto e continua ad avvenire sotto i nostri occhi, anche in Italia. Il vecchio capitalismo produttivo è ormai alla mercé delle banche e delle speculazioni di borsa. Antiche aziende produttive, come la Fiat, vanno trasformandosi in holding finanziarie. Altre, come la Fincantieri, in crisi di commesse, non ottengono credito per riconvertirsi. Le uniche attività di rilievo economico registrabili sono le scalate dei finanzieri nei consigli di amministrazione delle società esposte al debito. Il solo sviluppo accertato è quello della moneta in mano agli squali che cannibalizzano tutto il cannibalizzabile, senza produrre un solo posto di lavoro in più. Gli stati politici, privi di mandato per regolare i mercati finanziari nei superiori casi del bene comune, subiscono gli stessi identici processi delle imprese, aggrediti come sono da chi possiede i suoi titoli e spinge al rialzo l’offerta degli interessi.

Torneranno tempi più normali per questa “povera patria”, come auspicava Franco Battiato nell’omonima canzone? Bisognerebbe, innanzi tutto, mettere una bella capezza (penso ad una robin-tax planetaria, per esempio) al collo dell’usorocrazia mondiale. Poi, a me personalmente, basterebbe entrasse in auge il capitalismo sociale di Adriano Olivetti, l’imprenditore industriale che a Ivrea reinvestiva il superprofitto della sua azienda in beni e servizi socialmente utili per la comunità dei lavoratori. A questo, magari, aggiungerei la richiesta di rendere finalmente esecutivo l’articolo 46 della Costituzione italiana che testualmente recita: «Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende». Niente di più.

di Miro Renzaglia