12 gennaio 2012

Schiavo della finanza, lo Stato non può più spendere per noi



Può sembrare un’eresia, ma non lo è: dalla crisi si può uscire in un solo modo, e cioè aumentando la spesa pubblica. Si aggraverebbe il debito? Inizialmente, sì. Ma investire in settori strategici per produrre lavororisolleverebbe l’economia, la domanda, le entrate fiscali. Servirebbe una piena sovranità statale e monetaria, che gli Stati europei hanno perduto: costretti a farsi prestare denaro dalla finanza privata, vengono dissuasi dall’indebitarsi ulteriormente, pena la crescita esplosiva dei margini speculativi. Lo Stato, unico soggetto nato per spendere a deficit per il benessere reale dei cittadini, è stato imbrigliato: il grande capitale pretende che si comporti non come uno Stato, ma come una famiglia o un’azienda. Neutralizzata la capacità finanziaria dello Stato, i cittadini sono indifesi di fronte alla crisi.

Il premio Nobel Paul Krugman, ostile alla linea di rigore dei governi europei (che considera suicida e votata all’inevitabile macelleria sociale, senza eurosbocchi possibili) ha scritto sul “New York Times” un intervento intitolato “Nessuno capisce cos’è il debito”. Intendeva: nessun economista della scuola preferita dai conservatori, quelli che dagli anni ’80 hanno progressivamente marginalizzato la finanza pubblica a unico vantaggio di quella privata. Il debito cui si riferiva Krugman, scrivono Guido Carandini e Paolo Leon in un’analisi su “Repubblica” ripresa da “Micromega”, è il debito pubblicogenerato dal disavanzo della spesa statale. Chi aborrisce il disavanzo, dice Krugman, teme che possa impoverire i cittadini, costretti a rimborsare il denaro preso a prestito: come se gli Usa fossero una famiglia, alle prese con le rate di un mutuo. Errore: il debito pubblico è istituzionalmente “dovuto” ai cittadini, e in ogni caso la spesa sociale è un investimento che alla lunga produce maggiori entrate.

«L’enorme debito contratto durante la seconda guerra mondiale – scrivono Carandini e Leon, citando Krugman – non è mai stato rimborsato ma è diventato progressivamente irrilevante man mano che l’economia Usa cresceva e con essa i redditi soggetti a tassazione». Inoltre: una famiglia oberata dai debiti deve senz’altro del denaro a qualcuno, mentre il debito pubblico degli Usa è in larga parte denaro «che è dovuto ai suoi stessi cittadini». È vero che a causa del debito contratto per vincere la seconda guerra mondiale i contribuenti sono stati colpiti da un onere eccezionale, ma quel debito «era anche posseduto dai contribuenti che avevano acquistato i titoli del Tesoro americano e quindi non rese più poveri gli americani del dopoguerra». Al contrario: proprio grazie a quel debito, i Paul Krugmancittadini «godettero del più marcato aumento dei redditi e degli standard di vita mai avvenuto nella storia degli Stati Uniti».

Secondo Krugman, quindi, la necessità di stimolare l’occupazione rende sopportabile un aumento del debito assai superiore a quello che la “saggezza convenzionale” ritiene accettabile. Oggi scontiamo tutti la «miope visione degli economisti e dei politici che avversano l’indebitamento statale». Le argomentazioni di Krugman? Per Carandini e Leon sono perfettamente convincenti, anche se non forniscono, di quella “miopia”, una ragione logica. Che invece emerge chiaramente da una diversa teoria, secondo la quale, per sua natura, il capitalismo tende a occultare la relazione tra la dimensione privata-individuale e quella pubblica-statale. Come le due facce di una moneta, l’una nasconde l’altra: il punto di vista della famiglia che si indebita oscura la visione dell’intervento statale, cioè il punto di vista delle sue conseguenze sull’insieme dei cittadini. Come se Stato e cittadini fossero all’oscuro delle conseguenze delle rispettive azioni.

Per superare questa assurda dicotomia, sostengono Carandini e Leon, occorre collocarsi in una terza dimensione, quella collettiva, la sola che «rende evidente la duplice interconnessione pubblico-privato, ignorando la quale si incorre in errori gravi». Le regole ossessive dell’austerità? «Magari buone per le famiglie, ma non per i governi». Basta dare un’occhiata alla composizione del “reddito nazionale”, cioè la somma aritmetica di profitti e salari, ottenuta senza distinguere tra l’obiettivo familiare (il salario) e quello aziendale (il profitto). E’ il cuore della partita in corso: più profitti, a scapito dei salari. Risultato: crollo dei consumi e riduzione del Pil. Nonostante la resistenza delle imprese, se invece si aumentassero i salari a scapito dei profitti si otterrebbero più consumi e quindi una crescita automatica del Paolo Leonprodotto interno lordo. Peccato che che i singoli attori – famiglie e aziende – non ne siano pienamente consapevoli.

«Ecco dunque che questo famoso Pil non dipende né dai comportamenti individuali, come sostiene la scienza economica prevalente, né da autonome azioni pubbliche, ma da comportamenti politici, sindacali e/o lobbistici che influiscono in larga misura proprio sulle politiche economiche e di distribuzione dei redditi da parte degli Stati, e quindi sul tipo di spesa pubblica che essi attuano». Per Carandini e Leon, se gli Stati «mettono in atto politiche di austerità quando la crisi è di domanda, seguendo l’istinto individuale che nellacrisi spinge per il risparmio, allora la crisi non è battuta». Se invece aumentano la spesa pubblica a favore di attività produttive, si comportano come nel dopoguerra: l’iniziale aggravio dell’indebitamento non impoverisce affatto la comunità. Al contrario, la arricchisce: più salari, più profitti, più Pil. Ad una condizione: la sovranità finanziaria pubblica, che mette lo Stato al riparo dall’affanno di dover conseguire benefici immediati.

Per investire sulla collettività nazionale spendendo a deficit, e vederne i risultati concreti in termini economici, lo Stato ha infatti bisogno di tempo: ieri ce l’aveva, oggi non più. Il problema? I mercati finanziari e il loro predominio a livello globale. Se anche, anziché ridurla come fa adesso, lo Stato decidesse di accrescere la spesa pubblica per stimolare la produzione e l’occupazione, il maggiore indebitamento che ne deriverebbe «non avrebbe come effetto immediato l’aumento del Pil, ma dovrebbe misurarsi con la speculazione finanziaria che, incapace di prevederne gli effetti positivi nel periodo più lungo, ne farebbe salire il costo (lo spread) tanto da vanificarne gli effetti positivi». Carandini e Leon non hanno dubbi: «Questa è la trappola in cui si trovano oggi tutti i Paesi, compreso il nostro, nei quali la sovranità è stata svuotata da poteri metanazionali e da una cultura economica e politica incapace di sollevare lo sguardo a livello collettivo e di dominare il rischio di una prolungata recessione, assai pericolosa per le nostre democrazie».

di Giorgio Cattaneo

11 gennaio 2012

È il crollo di un mondo. Forze immense stanno per scatenarsi



Così parla Frédéric Lordon, famoso economista francese, direttore delle ricerche del CNRS, in una lunga intervista alla Revue des Livres. A proposito delle forze che stanno per scatenarsi, ecco cosa prevede:

«Se, come si poteva prevedere dal 2010 col lancio dei piani di austerità coordinati, lo scacco annunciato conduce ad un’ondata di default sovrani, seguirà immediatemente il collasso del sistema bancario (o li precederà, per semplice effetto d’anticipazione degli investitori); e questo, contrariamente a quello del 2008, sarà irrecuperabile, perchè gli Stati (che hanno salvato le banche nel 2008, ndr) sono finanziariamente a terra. Allora non resterà altra alternativa che l’emissione monetaria massiccia, oppure l’esplosione della zona euro se la Banca Centrale Europea (e la Germania) rifiutano questa prima soluzione.

«In un week-end cambierà letteralmente il mondo e vedremo cose inaudite: re-instaurazione del controllo sui capitali, nazionalizzazioni-lampo o addirittura requisizioni di banche, riarmo delle Banche Centrali nazionali – misura che segnerà da sè la fine della moneta unica – la dipartita della Germania seguita da qualche satellite, la costituzione di un blocco euro-sud oppure il ritorno alle monete nazionali. Quando avverrà? Nessuno può dirlo con certezza (...) ma tra sei o dodici mesi, quando s’imporrà la constatazione della recessione generale, risultante dalla austerità generalizzata, e gli investitori vedranno salire irresistibilmente le ondate dei debiti pubblici che si supponeva di arrestare con le politiche restrittive, la consapevolezza dell’impasse totale che albeggerà in quel momento porterà gli operatori stessi a dichiarare una ‘capitolazione’, ossia alla loro fuga massiccia dai mercati-titoli, e per il gioco dei meccanismi di propagazione creati dalla finanza liberalizzata, una dislocazione totale dei mercati dei capitali, in tutti i settori.

«E nel frattempo si accumulano le tensioni politiche – fino al punto di rottura? Come ogni soglia critica a livello storico-sociale, non si sa in anticipo dove essa si trova nè cosa ne determina il superamento. La sola cosa certa è che la spossessione generalizzata della sovranità (per opera della finanza come dell’Europa neo-liberale) taglia in profondità i corpi sociali... i corpi sociali aggrediti dal liberalismo finiscono sempre per reagire, e a voltre brutalmente, in proporzione a quello che in precedenza hanno sopportato e accumulato (...). Non si possono lasciare i popoli durevolmente senza soluzione di sovranità – sia nazionale o d’altro tipo – senza che la recuperino a tutta forza e in forme che non saranno belle da vedere.

«... Quella che vien chiamata ‘crisi dell’euro’ non è in prima istanza una crisi monetaria. Una delle stranezze degli eventi attuali è che la moneta europea non viene rifiutata affatto, nè dai residenti della zona nè dagli investitori internazionali, e lo dimostra la paritò euro-dollaro, che a parte qualche fluttuazione, si mantiene. È un fatto: non c’è (per ora) fuga dall’euro. Se ci sarà, sarà come sviluppo terminale di una crisi la cui natura è altra. Quale? La risposta è che si tratta di una crisi istituzionale.

«È il quadro istituzionale della moneta unica, come comunità di politiche economiche, che minaccia di volare a pezzi in seguito a crisi finanziarie aventi come epicentro i debiti pubblici e le banche. Se l’euro esplode, sarà per default sovrani che trascineranno crolli bancari – a meno che questi non vengano prima, per anticipazione dei default sovrani. In ogni caso il cuore della cosa sarà ancora una volta il sistema bancario, e l’impossibilità di lasciarlo andare in rovina, perchè la rovina totale del sistema bancario ci porterebbe in cinque giorni all’equivalente ineconomia dello stato di natura. Ma ciò non deve significare ‘rimetterlo sui binari per un altro giro’, senza cambiarne le regole.

«Anzi, approfitto per dire che, dopo avermi fatto per lungo tempo paura, la prospettiva di questo collasso quasi quasi mi piace, perchè creerà infine l’occasione di nazionalizzare integralmente il sistema bancario per pura e semplice requisizione (senza indennizzo) (...). Nell’ipotesi del collasso bancario, si tratta di sapere quale sarà – in assenza degli Stati, essi stessi rovinati – l’istituzione capace di organizzare la riattivazione delle banche per far loro riprendere l’attività di fornitura del credito. In questa ipotesi, non ne resta che una: la Banca Centrale Europea. Non dovrà solo assicurare alle banche un sostegno di liquidità (lo sta già facendo) ma liberarle degli attivi svalorizzati e ricapitalizzarle. Inutile dire che, data la scala del settore bancario intero, si tratta di un’operazione di creazione monetaria massiccia a cui bisognerà consentire. La BCE è pronta a questo? Sotto l’egemonia tedesca, direi di no. Ma l’urgenza estrema di restaurare nella loro integrità gli incassi monetari e di ristabilire il funzionamento del sistema di pagamenti richiederà un’azione ‘in giornata’! Significa che le lunghe tergiversazioni per ‘parlare ai nostri amici tedeschi’ o rinegoziare un trattato, saranno sparite dalla lista delle soluzioni pertinenti. Di fronte a quelli che si devono identificare come interessi vitali del corpo sociale, uno Stato, di fronte al non-volere della BCE, prenderebbe immediatamente la decisione di riarmare la propria Banca Centrale per farle emettere moneta in quantità sufficiente e ricostituire al più presto un troncone di sistema bancario capace di operare. La Germania, osservando nella zona una o due fonti di creazione monetaria fuori controllo, ossia di euro impuri suscittibili di corrompere gli euro puri di cui la BCE ha sola il privilegio di emissione, decreterebbe immediatamente l’impossibilità di restare in una tale ‘unione’ monetaria divenuta anarchica e l’abbandonerebbe subito, per rifare un blocco con qualche seguace selezionato sul momento (Austria, Olanda, Finlandia, Lussemburgo). Quanto alle altre nazioni, dovranno allora scegliere fra ricostituire un blocco alternativo oppure tornare ciascuna al proprio destino monetario; la Francia cercherà in tutti i modi di imbarcarsi con la Germania, senza la minima sicurezza di essere accettata a bordo (...)».

Se volete leggere il resto, qui:

«Nous assistons à l’écroulement d’un monde, des forces immenses sont sur le point d’être déchaînées», entretien avec Frédéric Lordon

10 gennaio 2012

Viktor Orbán, l'ungherese che turba i sogni dell'usura internazionale...

Viktor Orbán, è l'ungherese che da tempo turba i sogni dell'usurocrazia internazionale...e dei suoi portaborse ormai accertati, parassiti politici, giornalisti e media, in testa a tutti il partito della sinistra sionistra, americanista e banchiera: basta leggere cosa scrivono di lui, agitando i soliti spauracchi della partigianeria (...oggi però di moda a stelle e strisce), Liberation o Il Fatto Quotidiano. Maggiori informazioni tecniche sulla sua politica economica e finanziaria sono consultabili a questa pagina di BloombergTV (in lingua inglese).
E' tutto un coro che punta a demonizzare un capo di stato il quale, legittimamente, difende gli interessi della propria nazione sotto attacco da parte della setta in veste finanziaria.
Tra l'altro lo si accusa di introdurre schemi dittatoriali a causa di leggi elettorali appena varate, le quali mentre garantiscono a tutte le etnie e minoranze ad avere i loro rappresentanti eletti in Parlamneto con potere propositivo e legiferatore, limitano invece il diritto di voto, rendendolo semplicemente simbolico, ai rappresentanti Rom eletti in Palamento: e se non sanno da quelle parti come trattare i Rom, vista l'esperienza e conoscenza secolare che ne hanno, non saremo certo noi, dispensatori di baraccopoli (visto che di integrarsi tra noi "gaggi", lavorare ed accettare le regole del comune convivere non ne vogliono sapere), centri di spaccio e microcriminalità a spese dei lavoratori italiani contribuenti, a volerglielo insegnare...vero?
La così detta stampa, i persuasori occulti e agit-prop sul libro paga...di chi li paga e accredita, è invece infuriata perchè si ritiene limitata nel poter dispensare tutte le menzogne e perfidie che è solita diffondere per condizionare ed istigare le masse in nome della "libertà d'espressione". Il governo Orbán ha inteso moralizzare e stabilire comportamenti eticamente corretti e rispettosi per il buon costume, imponendo regole precise a stampa e mondo della cultura, le quali usano i mezzi di comunicazione di massa ed i palcoscenici non per informare ed illustrare verità, ma per disinformare, diffamare, distorcere la realtà dei fatti, screditare chi lavora per il bene del paese e non per gli interessi delle grandi lobby e multinazionali straniere.
Orbán ha, tra le altre cose, vietato che organismi OGM di qualsiasi genere fossero introdotti e commercializzati in Ungheria, e siamo sicuri che la Monsanto e le altre sorelle mafie transgenetiche (nonci riferiamo a Vladimiro Guadagno, in arte 'Lussuria', anche se forse anche lui è una vittima inconsapevole di queste gangs agroalimentari...) non avranno certo accolto con entusiasmo tale decisione...
Il suo 'peccato mortale' è però quello di non voler accettare i dictat della BCE e del FMI, imponendo al sistema bancario magiaro una politica protezionista nazionale, per difendere la sua terra dai mortali attacchi del "grande capitale internazionale": azione più che legittima e saggia in tempi di normalità, ma che nell'era delle "crisi finanziarie indotte" e di "guerre umanitarie" per terrorizzare popoli e governi, per spingerli ad invocare un Nuovo Ordine Mondiale (NWO) sotto l'autorità di un Unico Governo, suonano come eresie e bestemmie. Ed infatti ecco che i portavoce di tali poteri forti, chiamati a raccolta, scatenano la loro campagna di criminalizzazione su giornali e reti televisive: anzi, fanno a gare a chi le spara più forti. Il quotidiano "la Repubblica" ha addirittura evocato e riesumato la salma di Goebbels per spaventare maggiormente i suoi alienati lettori.
Le banche e le assicurazioni magiare sono state tassate per dare ossigeno e aiuto in un momento di grande difficoltà e transizione: più che giusto diranno in molti. Ed invece questa mossa non è affatto piaciuta agli usurai di Bruxelles e Wall Street, che subito hanno lanciato una campagna di guerra ai bonds ungheresi, generando le solite ripercussioni di terrorismo e rapina ai danni dell'economia nazionale ungherese e del suo popolo.
I portaborse della Goldman Sachs, posti autoritariamente ai vertici dei governi e delle istituzioni bacarie europee, Monti Mario, Draghi Mario, Papademos Lucas, senza che nessun democratico plebiscito popolare li abbia eletti, senza che nessuno dei circa 731milioni di cittadini europei li abbia voluti, non solo non si sognano neppure lontanamente di sfiorare i grandi capitali finanziari e le lobby dell'usura legalizzata, ma anzi varano leggi per favorirle, arricchirle (vedi anche solo il caso dell'obbligo alla transazione bancaria, che impone a circa mezzo milione di pensionati l'apertura di conto/corrente per cifre oltre poche centinaia d'euro), proteggerle, mettendo invece senza pudore le mani nelle tasche (...e non solo...) dei cittadini, dei poveracci, di chi lavora per stipendi da fame, dei pensionati, dei malati che necessitano cure e ricoveri, dei sudditi senza difesa (perchè chiamarli cittadini è un eccesso, in tali condizioni di falsa democrazia, vera dittatura dei prestasoldi del tempio).
Questo il paradosso:
Viktor Orbán, eletto democraticamente, con una maggioranza assoluta di due/terzi, chiede che ad aprire le borse e pagare l'obolo siano le banche, vara leggi a protezione della propria nazione da interferenze e attacchi da parte di gruppi di potere esterni finanziari-politici-culturali, limitando anche la libertà d'azione delle suddette banche quando le loro scelte e decisioni vanno contro gli interessi della nazione, e per questo viene crocifisso dai media e minacciato dai massoni/papponi di Bruxelles ed oltre-Atlantico, presentato al popolo come la bestia nera, il pericolo di deriva "nazista" (sempre "la Repubblica" già citata) da emarginare e criminalizzare.
Monti Mario, Draghi Mario, Papademos Lucas, invece, non eletti da nessuno, ma imposti e cooptati con il ricatto ed il terrore di scenari peggiori ed apocalittici, varano leggi che disarmano il popolo, lo impoveriscono, lo mettono alla mercè dell'elite finanziaria, gli tolgono la speranza per i propri figli, lo demotivano e spingono verso la disperazione, perchè malgrado per decenni esso abbia pagato i contributi pensionistici rischia di non poter un giorno neppure godere di qualche anno di meritato riposo, con l'età pensionabile sempre più allungata verso la morte e sempre più miserabile, dato l'aumento del costo dei prodotti, bollette, IVA, benzina, quindi cibo e beni di prima necessità. Ma questi dittatori per le banche, Monti Mario, Draghi Mario, Papademos Lucas, ci vengono invece presentati dagli stessi mezzi di informazione mediatica, stampa e TV, come eroi e salvatori, unica possibile speranza di uscire da una tremenda crisi (falsa come i loro datori di lavoro, passati o presenti che siano poco cambia, che l'hanno inventata e generata), mentre invece stanno pianificando la resa incondizionata ed il travaso di ricchezze e poteri locali nelle mani di quella setta di cui tutti loro fanno parte e che assume diverse identità e denominazioni a seconda delle mansioni particolari da svolgere (Bilderberg, Trilateral, CFR, Club di Roma, ed altri di cui la lista a questo link non è esaustiva).
L'obiettivo finale di questa guerra all'umanità è il suo controllo e dominio totale, in sintesi il NWO. Vi sembra una tesi cospirazionista, esagerata, immotivata?
I fatti mi sembra che piuttosto avvalorino, giorno dopo giorno, questa drammatica prospettiva, ed il fatto che anche in Vaticano si inneggi ad una "autorità finanziaria globale" (il Sole 24 ore) si tratti e consideri come meglio gestire l'usura, argomento e mezzo un tempo vietato dottrinalmente, e ci sia una sponda di matrice "spirituale" che accolga e rimbalzi verso il popolo tali disgraziate idee, da' la misura di quanto in profondità sia contagiata e malata la società, infettata da questo morbo talmudico annidato e covato per millenni nel putridume d'un escatologia già riprovata e maledetta.
L'invertebrata natura di questa bestia immonda aspettava ad ergersi il momento in cui la debolezza spirituale e la sana etica fossero indebolite e stravolte nella loro essenza; che il diritto naturale fosse calpestato e vilipeso; che la vita fosse disprezzata, considerata un'incidente, e la morte divinizzata come un diritto inalienabile: per legge.
I profeti dell'avvento di questo mostro, pare siano a buon punto col lavoro.
Viktor Orbán, o si adeguerà agli ordini superiori, provenienti dai palazzi dove si decidono le sorti dell'Europa e del mondo, accetterà di far derubare ed incatenare il suo popolo e la sua nazione, oppure, come altri capi di stato scomodi e disobbedienti prima di lui, cercheranno di spazzarlo via, di sacrificarlo sull'ara del vitello d'oro, di annientarlo politicamente, fisicamente, se necessita militarmente.
Ma noi vogliamo sempre credere che "l'uomo propone e Dio dispone".
Facciamo i migliori auguri a Viktor Orbán, affinchè non si faccia contagiare dal morbo di cui sopra, che altri capi di stato emergano tra le macerie di questa euromassoneria, con il coraggio e la determinazione necessarie ad imitare Orbán, per rompere l'assedio e dare l'esempio che un'alternativa al ricatto dei prestasoldi planetari esiste. Basta una scintilla.


di Filippo Fortunato Pilato

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09 gennaio 2012

Lo Schema Ponzi Europeo


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parapà PONZI PONZI* pà! Allacciate le cinture di sicurezza cari amici di Rischio Calcolato, e abbiate la pazienza di seguire il filo logico di quanto segue, questa volta non sarò breve ma ne varrà la pena.

Questa è una di quelle faccende che quando le capisci, pensi tra te e te: Non è possibile che sia così, non può essere vero. E invece si è proprio vero!

Oggi andiamo in profondità nel mega schema Ponzi inventato da Mario Draghi (qualcuno direbbe eseguito da Mario Draghi..) per far tirare a campare ancora qualche mese la scassata baracca bancaria europea. (indovinate chi paga? scommetto che il sospetto vi viene ancora prima di leggere le conclusioni di questo articolo.).

Cominciamo dall’inizio:

A metà Dicembre, Mario Draghi annunciava che la BCE avrebbe effetuato un operazione di finanziamento straordinario in favore delle banche europee (leggete questo post per una trattazione dettagliata), in pratica la BCE, attraverso diverse aste si è messa a finanziare qualsiasi banca europea che si presenti ai suoi sportelli depositando a garanzia un “collaterale” ovvero crediti di bassa qualità allì1% di tasso per un periodo di 36 mesi.

Fino qui tutto bene? Andiamo avanti.

Come noto la prima asta si è svolta lo scorso 21 Dicembre 2011 e sono stati assegnati la bellezza di 486 miliardi di euro in nuovi finanziamenti, va detto che in realtà il nuovo debito creato ammonta a “solo” 211 miliardi in quanto contemporaneamente le banche hanno chiuso altri tipi di finanziamenti meno convenienti che intrattenevano con la BCE.

Facciamo ancora un passettino.

Il finanziamento straordinario della BCE, non si caratterizza solo per un tasso irrisorio, c’è anche la questione dei crediti di bassa qualità accettati come collaterale. Vedete, certi termini non vengono mai usati a caso, quando Draghi 20 giorni fa, parlava di abbassare il livello della qualità del credito accettato dalla BCE per concedere finanziamenti alle banche si riferiva ad una cosa ben precisa e specifica. E qui viene il bello (si fa per dire).

Prima di svelare l’arcano occorre fare un passo indietro.

Vi ricordate questo codicillo pro banche iscritto nella finanziaria del prof. Mario Monti:

Dal Decreto Legge del 6 Dicembre 2011 n. 201 prevede infatti all’articolo 8 comma primo:

Art. 8 – Misure per la stabilità del sistema creditizio

1. Ai sensi della Comunicazione della Commissione europea C(2011)8744 concernente l’applicazione delle norme in materia di aiuti di Stato alle misure di sostegno alle banche nel contesto della crisi finanziaria, il Ministro dell’economia e delle finanze, fino al 30 giugno 2012, è autorizzato a concedere la garanzia dello Stato sulle passività delle banche italiane, con scadenza da tre mesi fino a cinque anni o, a partire dal 1 gennaio 2012, a sette anni per le obbligazioni bancarie garantite di cui all’art. 7-bis della legge 30 aprile 1999, n. 130, e di emissione successiva alla data di entrata in vigore del presente decreto. Con decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze, si procede all’eventuale proroga del predetto termine in conformità alla normativa europea in materia. (FONTE)

Attenzione alle date, la norma entra in vigore dal 6 Dicembre 2011, una settimana prima che la BCE a “sorpresa” annunci l’LTRO (il finanziamento al’1% per 36 mesi).

Ok ci siamo? Andiamo avanti!

Da qui in poi ci aiuta un ottimo articolo apparso sul sito del sole 24 ore di Morya Longo datato 21 Dicembre:

Quando oggi la Banca centrale europea aprirà i rubinetti della liquidità, gli istituti di credito italiani potranno giocare jolly nuovi di zecca per «prelevare» denaro a Francoforte: le obbligazioni bancarie garantite dallo Stato previste dalla manovra del Governo Monti. Tutte le banche italiane sono già pronte a calare questo jolly, nella speranza di superare la pesante crisi di liquidità che le sta soffocando da mesi: già oggi, secondo le indiscrezioni raccolte dal «Sole 24 Ore», gli istituti italiani hanno a disposizione qualcosa come 50 miliardi di euro di questi nuovi titoli.

Li hanno già creati. Li hanno pronti all’uso. E li utilizzeranno già oggi per andare dalla Bce: questo significa che gli istituti italiani (dai big come Intesa e UniCredit, ai medi come Veneto Banca, Credito Valtellinese, Iccrea, Popolare di Vicenza e Popolare dell’Emilia) hanno la possibilità di prelevare da Francoforte 50 miliardi in più. E, in futuro, potranno arrivare a 228 miliardi di euro. Ecco la nuova ‘medicina’, artificiale, contro il credit crunch. ….

(……)

Effetti collaterali

Ma gli istituti potrebbero usare i soldi, prelevati dalla Bce anche grazie ai nuovi titoli, per farne altri usi. Non solo per rimborsare i propri titoli in scadenza, ma anche ‐ testimonia un banchiere ‐ «per ricomprare parte del proprio debito sul mercato a prezzi bassi». Ma le banche potrebbero anche fare altro (caldeggiate dalle stesse Autorità): utilizzare i finanziamenti della Bce (all’1%) per comprare BTp (che rendono il 6,5%). Questo avrebbe il merito di abbassare anche i rendimenti dei BTp e di dare un sollievo allo Stato. Ma avrebbe anche l’effetto collaterale di creare un corto circuito spaventoso: lo Stato mette la garanzia sui bond bancari, le banche li usano per finanziarsi in Bce e con i soldi comprano titoli dello stesso Stato. Non serve un genio per vedere, dietro questa «manna», una potenziale bomba.

Per una volta devo dare merito ad un media mainstream, dunque applausi a Morya Longo, ha centrato il punto.

Ma com’è andata in realtà?

da ASCA via Yahoo Finance:

(ASCA) – Roma, 21 dic – Sono 14 le banche italiane che hanno emesso bond con la garanzia dello Stato per un totale di 40,44 miliardi di euro e che da oggi sono in negoziazione. Nel dettaglio Intesa Sanpaolo (Dusseldorf: 575913.DU - notizie) ha emeso bond per 12 miliardi, Mps (BSE: MPSLTD.BO - notizie) 10 miliardi di euro, Unicredit (MDD: UCG.MDD - notizie) 7,5 miliardi, Banco Popolare (Francoforte: A0MWJR - notizie) 3 miliardi, Popolare Vicenza 1,5 miliardi, Carige per 1,3 miliardi, Dexia Crediop 1,05 miliardi, Popolare Sondrio 1 miliardo, Credem 800 milioni, Popolare Emilia Romagna 750 milioni, Iccrea banca Impresa 650, Credito Valtellinese 500 milioni, Iccrea Banca 290 milioni, Banca (Santiago: BANCA.SN - notizie) Etruria (Milano: PEL.MI - notizie) 100 milioni.

E ora l’ultimo tassello dello schema Ponzi (quello che non appare sul S24O): Siete pronti?

Sapete che cosa sono questi fantomatici bond emessi (anzi creati come dice la Longo) con garanzia dello stato? Bene, signore e signori sono dei giroconti! Vi siete chiesti come le banche siano riuscite a piazzare nel volgere di pochi giorni 40,44 miliardi di euro di cartaccia che non vuole più nessuno?

Semplice, questi benedetti bond garantiti dallo stato, se li sono sottoscritti sa soli!!!!!!!!!

Tanto per capirci le banche, hanno emesso bond a varie scadenze, e poi se li sono interamente sottoscritti da soli, dopodiche ci hanno fatto mettere il bollino blu della garanzia statale (costa circa un 1%) infine hanno presentato il tutto alla BCE come collaterale per ottenere nuovi finanziamenti.

Ole, Mr Ponzi! sei un bambino di fronte a questi geni!

Meritoriamente Zerohedge (link) ieri ha coperto questa storia (i russi non russano) e ci ha regalato la schermata di bloomberg che descrive un paio di questi Ponzi-Bond:

Intesa SanPaolo 3 month Bill

20120103_PT1_0

UniCredit 3 month Bill

20120103_PT2_020120103_PT4_0

Fantastico vero! E ora prepariamoci, perchè non finisce qui, a metà Gennaio 2012 la BCE farà una nuova asta per assegnare ancora un pochino di droga…oooops volevo dire, di debito all’1% alle banche che si presenteranno con nuovi Ponzi Bond da scontare alla cassa.

Siamo seduti su una Santa Barbara di debito e di moneta sempre più inflazionata.

parapà Ponzi Ponzi* pà!!

* (da Wikipedia) Charles Ponzi (Lugo, 3 marzo 1882 – Rio de Janeiro, 18 gennaio 1949) è stato un truffatore italiano. Immigrò negli Stati Uniti, dove divenne uno dei più grandi truffatori della storia americana.

Tra i molti nomi che adottò per mettere in atto le sue operazioni ci sono Charles Ponei, Charles P. Bianchi, Carl e Carlo. Il suo nome è legato all’espressione “schema di Ponzi” per indicare il meccanismo di truffa che adottò e che ancora oggi è in uso in numerose versioni moderne che fanno uso della posta elettronica…. (la catena di Sant’Antonio)

p.s. e se fallisce una di queste banche, indovinate a chi verranno a chiedere il conto della garanzia?

di Funny King

08 gennaio 2012

Viaggio in Argentina: la ripresa è possibile invertendo rotta

Argentina
Argentina: la ripresa economica è passata per la riappropriazione dello stato sociale e della sovranità monetaria

Riuscirà la cura Monti a risollevare la malridotta economia italiana? Ci salveremo dalla peggior crisi economica mai piombataci addosso oppure siamo solo agli inizi? E l'Europa ne uscirà più unita o più frammentata? L'euro reggerà il colpo? E le banche? E i cittadini? Migliaia di domande come queste affollano le menti degli italiani, le loro conversazioni a tavola e nei bar, i blog, i forum.

Una convinzione piuttosto diffusa è che la crisi economica sia qualcosa di incontrollabile, un processo che una volta iniziato, alla stregua di una fusione nucleare, è impossibile da fermare. Altra convinzione che si sente più volte ripetere, come un mantra, è che le misure della exit-strategy proposta da Monti sono “le uniche possibili”, che il rigore e l'austerità sono inevitabili. Queste convinzioni finiscono per legittimare le posizioni dei poteri dominanti e per farci abbandonare ogni battaglia in virtù di un bene e di una coesione nazionale superiori.

Idee del genere sono del tutto infondate. La crisi e le sue evoluzioni sono il risultato di precise politiche economiche decise a livello mondiale ed europeo. Basta dare uno sguardo ad altri paesi, seguire altri esempi, per accorgersi che politiche diverse conducono a risultati opposti; che è possibile uscire dalla crisi senza passare per misure economiche restrittive.

Diamo uno sguardo a quanto accaduto in Argentina. Dieci anni fa il paese era travolto e portato al fallimento da uno tsunami economico. Le cause della crisi affondavano le radici negli anni Novanta, quando per combattere un'inflazione galoppante, che aveva raggiunto la percentuale record del 5mila per cento nel 1989 (con tassi mensili del 200 per cento), il nuovo governo guidato da Carlos Menem decise di ancorare la valuta nazionale al dollaro.

Il cambio venne fissato dall'allora ministro dell'economia Domingo Cavallo nel rapporto di 1 ad 1: ogni dollaro Usa veniva scambiato per peso argentino; la banca centrale argentina era costretta a tenere nelle proprie casse riserve in dollari pari al valore della quantità di moneta in circolazione.

Il sistema riuscì in effetti nell'intento che si era preposto: l'inflazione della moneta si arrestò in fretta. Ma al tempo stesso il nuovo cambio fisso rendeva improvvisamente convenienti le importazioni, al punto che la produzione subì una brusca frenata; il paese andò incontro ad una vera e propria deindustrializzazione.

Nel frattempo il debito pubblico continuava ad aumentare. Un debito che, a detta del giornalista Denis Robert, autore del saggio Revelation$ (2001), era finanziato in modo illegale da alcuni grossi gruppi – fra cui Citibank – attraverso dei fondi nascosti. Questo sistema aveva fatto crescere il volume dell'economia sommersa argentina e alimentava la pratica dell'evasione fiscale e della fuga dei capitali all'estero.

Per pagare il debito il Fondo Monetario Internazionale – da sempre complice, per molti persino mandante nascosto, dei governi argentini fin dagli anni cinquanta – concedeva volentieri nuovi prestiti e dilazioni nei pagamenti dei vecchi, ma gli interessi erano sempre più elevati. E cosa faceva il governo per farvi fronte? Faceva quello che i dettami liberisti prevedono in questi casi: privatizzava.

Privatizzava, vendeva, svendeva, e con il flusso di denaro dall'estero ripagava prestiti e debito. Finché non ci fu più niente da vendere. E fu allora che, con la produzione e la crescita ferme, scoppiò la crisi più nera.

Nel 1999 il Pil diminuì del 4 per cento e il paese entrò in recessione. Gli investitori persero in fretta la propria fiducia e la fuga di capitali all'estero aumentò. Nel 2001, con la disoccupazione alle stelle, un debito enorme e l'economia in recessione iniziò una folle corsa agli sportelli: i cittadini presi dal panico iniziarono uno dopo l'altro a ritirare i propri risparmi per convertirli in altre valute.

Per arginare il fenomeno il governo decise di applicare una serie di misure, note come corralito che congelavano i conti bancari degli argentini e rendevano possibili solo piccoli prelievi. Questo ebbe come effetto principale di esasperare ancora di più i cittadini, che scesero in piazza per protesta.

Le manifestazioni che nascevano spontanee presero il nome di cacerolazos, dal rumore che i manifestanti ottenevano percuotendo pentole, tegami, padelle e casseruole con mestoli e cucchiai. Si trattava, almeno inizialmente, di proteste pacifiche, che però in molti casi sfociavano in atti dimostrativi anche violenti contro banche e multinazionali.

La polizia reagiva spesso con violenza. L'escalation culminò sul finire del 2001, quando il presidente Fernando de la Rúa dichiarò lo stato d'emergenza. Il 20 ed il 21 dicembre in Palza de Mayo – la piazza principale di Buenos Aires – gli scontri furono violentissimi. La polizia sparò sulla folla uccidendo circa quaranta persone. De la Rúa fu costretto a fuggire in elicottero per evitare il linciaggio.

Fu proprio allora, col paese scosso ed il presidente in fuga, che si iniziarono a porre le basi per una nuova Argentina. Partendo dalla prima decisione inevitabile: il default. Il nuovo governo ad interim dichiarò l'insolvenza su circa l'80 per cento del debito sovrano argentino, per un totale di 132 miliardi di dollari.

Subito dopo fu abolita anche la convertibilità a cambio fisso con il dollaro: il peso andò in contro ad una forte svalutazione. Inizialmente gli effetti furono devastanti: la percentuale dei cittadini al di sotto della soglia di povertà salì fino a sfiorare, nell'ottobre 2002, la quota del 60 per cento; circa il 30 per cento della popolazione era classificata in stato di povertà estrema, ovvero incapace di procurarsi il cibo.

I senzatetto divennero migliaia; in molti si dettero all'attività di cartoneros, ovvero raccoglitori di cartone, che cercavano frugando per strade e vicoli e poi rivendevano agli impianti di riciclaggio. Fu un passaggio doloroso ma inevitabile, ma è da lì che l'Argentina trovò la forza e prese la spinta per ripartire.

Alla guida del paese fu eletto Néstor Kirchner, un ex membro della gioventù peonista repressa nel sangue dalla dittatura militare del '76. Durante il suo governo, e quello successivo della moglie Cristina Fernández, l'Argentina mise in atto politiche economiche di stampo nettamente diverse da quelle degli ultimi cinquant'anni che, sotto l'egira dei poteri forti della finanza globale – l'Fmi su tutti -, avevano contribuito a smantellare lo stato sociale e generato la crisi.

Il peso debole favoriva una ripresa delle esportazioni e il governo non esitava a stampare moneta per finanziare la ripresa economica e riattivare i circuiti di previdenza sociale e distrutti da anni di neoliberismo. Molte funzioni e servizi furono ripubblicizzati, dall'acqua, all'elettricità, all'istruzione.

Inoltre l'alleanza con il Brasile di Lula assumeva un'importanza strategica fondamentale nell'opposizione agli Stati Uniti che guardavano all'America Latina come ad un terreno fertile per gli investimenti delle proprie multinazionali. Ftaa, acronimo di Free trade areas of America, si chiamava il progetto. Alca in spagnolo. Era finanziato dal governo Bush e mirava ad abbattere ogni barriera fra stati delle americhe, con l'evidente scopo di favorire i commerci Usa e fare dell'America latina una fabbrica a basso costo. Nel 2005, a Mar del Plata, l'alleanza Kirchner-Lula risultò fondamentale nel contrastare i progetti imperialisti statunitensi ed opporsi fermamente al progetto, facendolo di fatto morire sul nascere.

Nel 2006, un anno più tardi, con il paese che dal 2004 era tornato a crescere a tassi record del 7-10 per cento annui, l'Argentina finì di onorare il proprio prestito con l'Fmi e decise di non contrarne di nuovi.

Oggi l'Argentina è un paese sovrano, che cresce con tassi fra i più elevati al mondo e lo fa aumentando le garanzie sociali, i servizi statali, i diritti dei propri cittadini. Sono riconosciuti i matrimoni omosessuali, la libertà d'informazione è garantita attraverso apposite leggi che impediscono i monopoli, il rispetto dei diritti umani è ritenuto uno dei principi fondamentali della repubblica. Nell'ottobre 2011 Cristina Fernández è stata rieletta alla guida del paese con il 54 per cento dei voti.

Esiste il modo di uscire dalla crisi senza passare per l'austerità, per la stabilità, ma piuttosto attraverso uno stato forte, che stampa moneta per finanziare servizi e ripresa economica. Certo, non in questa Europa, in cui l'emissione di denaro è affidata ad un manipolo di banchieri, a cui interessano i tassi di cambio dell'euro con il dollaro, l'inflazione, non certo il benessere degli euro-cittadini. Non in un'Europa, insomma, basata su un'unione esclusivamente finanziaria, senza uno straccio di politiche sociali condivise.

di Andrea Degl'Innocenti

07 gennaio 2012

I segnali di implosione della bolla immobiliare cinese






È sempre più evidente che in Cina la bolla dovuta alla speculazione immobiliare sta per esplodere. L’esito destabilizzerà il sistema bancario del paese, rallenterà la crescita economica e avrà un forte impatto sull'economia di tutto il mondo che ha contato sulla Cina come volano della crescita dall’inizio della crisi finanziaria globale nel 2008.

Un articolo del mese scorso nella rivista Foreign Affairs Stati Uniti ha evidenziato che "le riduzioni dei prezzi forti e improvvise "stavano “sconvolgendo il mercato degli immobili in tutta la Cina". Ha citato I dati del settore che mostrano un calo del 35 per cento nel valore delle case nuove costruite a Pechino nel solo novembre, e che I costruttori hanno ormai in inventario invenduto per 22 mesi a Pechino e per 21 a Shangai.

Scritto da un accademico della prestigiosa università Tsinghua di Pechino, l'articolo riporta: "Tutti, dai proprietari locali posto agli speculatori cinesi e agli investitori internazionali, sono preoccupati per queste diminuzioni, che oramai indicano che la ‘più grande bolla del secolo’, come viene chiamata dall’inizio di quest’anno, è appena scoppiata, con serie conseguenze non solo per una delle economie più promettenti al mondo, ma anche per l’ambito internazionale."

Spinto dal settore edilizio, nel 2010 il paese ha prodotto 627 milioni di tonnellate di acciaio, il 44,3 per cento della produzione mondiale; 1,87 miliardi di tonnellate di cemento, il 60% del totale globale; il 43% dei macchinari per le costruzioni, gli escavatori e i bulldozer. La rapida espansione dell’edilizia speculativa ha fatto esplodere anche la spesa della classe media, con un forte aumento della richiesta di autovetture: nel 2010 la produzione cinese di auto è stata pari a 18,2 milioni di veicoli, un quarto della produzione mondiale.

Importanti aziende multinazionali, come quelle minerarie in Australia e in Brasile, e i produttori di attrezzature in Germania e Giappone, saranno le prime a subire colpi pesanti da un calo pronunciato del valore degli immobili in Cina. Anche la Cina potrebbe causare un altro shock, oltre recessioni già previste in Europa e in altre zone del pianeta.

L’attuale bolla immobiliare ha le sue radici nella crisi finanziaria mondiale del 2008-09. Il regime stalinista cinese ha dato in prestito trilioni di dollari nel disperato tentativo di arginare le rivolte sociali dopo che 23 milioni di migranti, soprattutto nelle industrie esportatrici, avevano perso il lavoro. Ma l’esito più importante è stato il moltiplicarsi dei prestiti concessi agli enti locali, ai costruttori e alle aziende industriali per speculare sul mercato immobiliare.

Guidato dalla rapida espansione del settore edilizio, gli investimenti di capitale attualmente formano quasi il 50% per PIL nazionale, Nei primi dieci mesi dell'anno scorso, sono stati edificati 3,6 miliardi di metri quadrati di superficie, con vendite pari solamente a 709 milioni di metri quadrati, indicando un’enorme superiorità dell’offerta sulla domanda.

Allo stessa tempo l’inaccessibilità della casa è diventata una questione di grande importanza politica in Cina. Prendendo in considerazione i prezzi all’inizio di quest’anno, a Pechino ci vogliono 36 anni di uno stipendio medio per comprarsi una casa normale, contro i 18 a Singapore, 12 a New York e 5 a Francoforte.

Inoltre, si stima che circa 65 milioni di case sono al momento “vacanti”, tenute vuote per cercare di spuntare un prezzo di vendita più alto in futuro. Questa irrazionalità sociale è espressa ancora più visivamente nelle città più piccole, come Ordos della Mongolia Interna dove gli investimenti immobiliari hanno registrato una crescita media del 69% negli ultimi quattro anni, quando la media nazionale è invece del 27,6 per cento. Grandi parti di Ordos sono diventate città fantasma, con gli speculatori che lasciano incompiuti o vuoti interi isolati.

Alla fine del 2010, Pechino ha cercato di sopire il pubblico scontento per l’incremento dei prezzi, imponendo restrizioni alla concessione di prestiti dal parte delle banche e ai proprietari di case. Queste misure hanno solo aggravato l'instabilità finanziaria, dato che molti operatori si sono rivolti ad altri per ottenere prestiti estremamente alti. La montante crisi economica si è sommata alla mancanza della ripresa nei maggiori mercati di esportazioni, gli Stati Uniti, il Giappone e l'Unione Europea.

Le aziende nel centro di smistamento dell’export di Wenzhou hanno contratto molti prestiti con caratteristiche infide che portano i tassi di interesse fino al 150 per cento. Le svendite nel settore immobiliare minacciarono di scatenare un effetto domino, facendo fuori un gran numero di piccole e media imprese. Più di 80 imprenditori cariche di debito hanno abbandonato la città, e lo scorso anno un produttore di scarpe si è suicidato.

Il crollo del mercato immobiliare è divenuto una nuova fonte di malcontento. La scorsa fine settimana, migliaia di piccoli investitori hanno manifestato nella stazione ferroviaria della città di Anyang, nel tentativo di far arrivare le proprie lamentele alla dirigenza di Pechino. Hanno perso i propri risparmi in strutture di investimento stile Ponzi, basate anche sull’immobiliare, che poi sono fallite. Fin da ottobre, gli operatori di molti di questi schemi sono fuggiti dopo che le loro strutture - fondate sull'imbroglio degli investitori, invogliati dagli altri ritorni – sono andate perdute.

I dati pubblicati la settimana scorsa dalla Bank of China sul primo trimestre segnala l’enorme mole dei debiti contratti dagli enti locali per finanziare progetti immobiliari e infrastrutturali in un pacchetto di stimoli che risale al 2008: "Le dimensioni reali del debito sono probabilmente maggiori [rispetto alla stima ufficiale di 1,69 trilioni di dollari] e gran parte di questo debito è a breve scadenza.” La crisi nella vendita dei terreni, che formavano più del 40% delle entrate degli enti locali, ha fatto grandi danni. Da gennaio a novembre dell'anno scorso, sono stati venduti 24.000 lotti di terreno per un totale di 1,18 trilioni di yuan, con un calo di valore pari al 30,5 per cento rispetto allo stesso periodo del 2010.

Per compensare la flessione del mercato immobiliare, Pechino sta poggiando le proprie speranze sulla costruzione di 36 milioni di appartamenti sovvenzionati per il 2015. Questa strategia da "due piccioni con una fava" cerca di offrire edilizia economica per i lavoratori a basso reddito, cercando di mantenere la crescita guidata dagli investimenti. Ma i sondaggi dimostrano che la maggior parte dei costruttori non ha alcun incentivo a costruire immobili che caleranno di prezzo. Si sospetta che i governi municipali abbiano gonfiati i dati di questi progetti, considerando i buchi di prospezione con l’"inizio" della costruzione. I prestiti bancari per questi progetti, specialmente se destinati agli affitti, potrebbero diventare un’altra fonte di cattivo debito nei prossimi anni, a causa dei bassi rendimenti degli affitti stessi.

La Bank of China ha previsto per quest’anno una crescita economica dell’8,8%, dopo il 9,3% del 2011. Comunque, Andy Xie, un importante economista cinese, ha affermato la settimana scorsa che, viste le enormi distorsioni enormi create dalla bolla immobiliare, ci potrebbe essere una "correzione" che durerebbe fino al 2014 e che potrebbe dimezzare la percentuale di crescita, portandola a solo il 4-5 per cento. "Se pensate che il 2008 sia stato pessimo,”, ha scritto Xie, "allora allacciatevi le cinture di sicurezza per il 2012."

Una crescita drammaticamente lenta, per non menzionare l’irrisolta crisi finanziaria, porterà inevitabilmente a un aumento della disoccupazione, causando fermenti sociali in Cina che avranno immense implicazioni sul capitalismo globale.

di Juan Chan

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Fonte: Signs that China’s property bubble is imploding


05 gennaio 2012

Perché agli USA serve una grande guerra?




Perché agli USA serve una grande guerra

Attualmente ci troviamo nel mezzo d’una fase di turbolenza del ciclo evolutivo mondiale, cominciata negli anni ’80 e destinata a terminare per la metà del XXI secolo. Nel corso di tale processo, gli USA stanno evidentemente perdendo il loro status di superpotenza…

Stime fornite dagli esperti dell’Accademia Russa delle Scienze mostrano che l’attuale periodo di forte instabilità dovrebbe terminare attorno al 2017-2019, con una crisi. La crisi non sarà profonda quanto quelle del 2008-2009 e del 2011-2012, e segnerà la transizione verso un’economia edificata su una nuova base tecnologica. Il rinnovamento economico probabilmente comporterà, nel 2016-2020, grossi mutamenti nell’equilibrio mondiale di potenza e grandi conflitti politico-militari che coinvolgeranno sia i pesi massimi dell’agone globale, sia i paesi in via di sviluppo. Presumibilmente, gli epicentri dei conflitti saranno nel Medio Oriente e nell’Asia Centrale post-sovietica.
Il secolo del dominio politico-militare e della supremazia economica globale degli USA è prossimo alla fine. Gli USA hanno fallito la prova dell’unipolarità e, feriti dai permanenti conflitti mediorientali, mancano oggi delle risorse necessarie a mantenere la guida mondiale.
La multipolarità implica una distribuzione più equa delle risorse mondiali ed una profonda trasformazione d’istituzioni internazionali come l’ONU, il FMI, la Banca Mondiale ecc. Al momento il Washington Consensus pare morto e sepolto, e l’agenda globale dovrebbe avere al primo posto la costruzione di un’economia con molti meno livelli d’incertezza, più rigidi regolamenti finanziari, ed una maggiore equità nell’allocazione dei ritorni e profitti economici.

I centri dello sviluppo economico stanno slittando dall’Occidente, che vanta la rivoluzione industriale tra i suoi grandi meriti, all’Asia. Cina e India dovrebbero prepararsi ad una corsa economica senza precedenti, con sullo sfondo una più ampia competizione tra le economie, che sfruttano i modelli del capitalismo di Stato e della democrazia tradizionale. Cina e India, i due paesi più popolosi al mondo, definiranno le direzioni ed il ritmo dello sviluppo futuro, ma la grande battaglia per la supremazia mondiale sarà combattuta tra USA e Cina: in palio c’è anche la scelta del sistema politico e del modello socie-economico post-industriale per il XXI secolo.
La domanda che sorge è: come reagiranno a questa transizione gli USA?

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Va tenuto conto che qualsiasi strategia statunitense parte dall’assunto che sia inaccettabile perdere la supremazia mondiale. Il collegamento tra leadership mondiale e prosperità nel XXI secolo è un assioma per le élites statunitensi, indipendente da tutti i dettagli politici.

Modelli matematici delle dinamiche geopolitiche globali portano a concludere che l’unica opzione a disposizione degli USA per arrestare il rapido disfacersi del suo status geopolitico impareggiato, sia quella di vincere un conflitto convenzionale su larga scala.

Non è un segreto che occasionalmente hanno funzionato (si pensi al collasso dell’URSS) anche metodi non militari di sbarazzarsi dei rivali, e le corrispondenti tecnologie sono costantemente affinate negli USA. D’altro canto, ad oggi paesi come la Cina o l’Iran sono apparsi evidentemente immuni alla manipolazione esterna. Se le attuali dinamiche geopolitiche dovessero persistere, ci si può attendere il cambiamento di leadership mondiale per il 2025, ed il solo modo per gli USA di arrestare questo processo è scatenare una grande guerra…

Il paese che stia per perdere la supremazia non ha altra opzione che colpire per primo, ed è ciò che Washington sta facendo da circa 15 anni. La peculiare tattica degli USA è di scegliere come bersagli non i candidati alternativi alla supremazia geopolitica, ma paesi che appaiono più facili da affrontare al momento. Attaccando Jugoslavia, Afghanistan o Iraq, gli USA hanno cercato di gestire problemi puramente economici, o regionali; ma una questione più grande richiederà senz’altro un bersaglio assai più significativo. Gli analisti militari ritengono che i candidati più a rischio d’essere presi a bersaglio nel nome d’una nuova redistribuzione globale siano l’Iran più la Siria ed i gruppi sciiti quali il libanese Hezbollah.

La redistribuzione è, di fatto, in corso. La Primavera Araba, tramata e gestita da Washington, ha creato le condizioni appropriate ad una fusione del mondo musulmano in un singolo califfato. Gli USA ritengono che questa nuova formazione aiuterà la vacillante superpotenza a mantenere la propria presa sulle risorse energetiche chiave a livello mondiale, e a salvaguardare i suoi interessi rispetto all’Asia e all’Africa. Senza dubbio, la sfida che ha indotto gli USA ad architettare questo nuovo tipo di sistemazione è il crescente potere della Cina.

Liberarsi di Iran e Siria, che si frappongono sulla strada del dominio globale statunitense, sarebbe il prossimo passo naturale per Washington. I tentativi di rovesciare il regime iraniano fomentando disordini tra la popolazione sono falliti clamorosamente, ed analisti militari sospettano che all’Iran spetti uno scenario analogo a quelli visti in Iraq e Afghanistan. Il piano ha serie possibilità di realizzarsi, anche se oggi persino il ritiro da Iraq e Afghanistan pone considerevoli problemi agli USA.

La realizzazione del progetto del Grande Medio Oriente – assieme a notevoli danni alla posizione di Russia e Cina – sarebbe l’obiettivo centrale che gli USA sperano di conseguire combattendo una grande guerra… Il disegno è divenuto ampiamente noto negli USA dopo la pubblicazione sul Armed Forces Journal della celebre mappa di Peters. La motivazione di fondo sta nell’espellere Russia e Cina dal Mediterraneo e dal Medio Oriente, nel tagliar fuori la Russia dal Caucaso Meridionale e dall’Asia Centrale, e nel disconnettere la Cina dai suoi fornitori d’energia più importanti.

Il materializzarsi del Grande Medio Oriente rovinerebbe le prospettive russe di costante e pacifico sviluppo; infatti l’instabile Caucaso del Sud, controllato dagli USA, trasmetterebbe ondate destabilizzanti nel Caucaso del Nord. Dal momento che la destabilizzazione sarebbe condotta da forze fondamentaliste islamiche, tutte le regioni russe a prevalenza musulmana sarebbero coinvolte.

Gli USA non sono più in grado di sostenere il Washington Consensus facendo affidamento su strumenti politici ed economici. Il cinese Jemin Jibao ha dipinto un quadro di strabiliante chiarezza, quando ha scritto che gli USA sono diventati un parassita mondiale che stampa illimitate quantità di dollari e le esporta per pagare le sue importazioni, e dunque sostiene gli eccessivi livelli di vita nordamericani derubando il resto del mondo. Il primo ministro russo ha espresso una visione simile durante il suo viaggio in Cina, il 17 novembre 2011.

Attualmente la Cina sta lavorando alacremente per limitare la sfera di circolazione del dollaro. La quota di valuta statunitense nelle riserve cinesi sta precipitando, e nell’aprile 2011 la Banca Centrale cinese ha annunciato il progetto di escludere totalmente il dollaro nelle compensazioni internazionali. Il colpo inferto al dominio valutario statunitense non è ovviamente destinato a rimanere senza risposta. Anche l’Iran sta cercando di ridurre la quota del dollaro nelle sue transazioni: nel luglio 2011 ha aperto una borsa petrolifera iraniana, dove sono accettati solo l’euro e la moneta persiana. Iran e Cina stanno negoziando di barattare prodotti cinesi col petrolio iraniano, rendendo così possibile, tra le altre cose, scavalcare le sanzioni imposte all’Iran. Il dirigente iraniano ha affermato che il volume degli scambi con la Cina dovrà raggiungere i 100 miliardi di dollari, e ciò renderebbe inefficaci i piani statunitensi per isolare l’Iran.
Gli sforzi statunitensi per destabilizzare il Medio Oriente potrebbero attribuirsi in parte al calcolo che la ricostruzione della regione, se devastata, richiederebbe massicce iniezioni di dollari, favorendo così la rivitalizzazione dell’economia statunitense. Nel 2011 la strategia statunitense mirante a preservare il dominio globale ha cominciato a tradursi in politiche basate sulla forza, dal momento che Washington vede nel deprezzamento dei possedimenti in dollari una possibile soluzione alla crisi. Una grande guerra potrebbe servire allo scopo. Il vincitore sarebbe in grado d’imporre al mondo le sue condizioni, come avvenne nel 1944 con la creazione del sistema di Bretton-Woods. Per Washington, guidare il mondo può valere una grande guerra.
Può l’Iran, fornitagli la necessaria assistenza, mettere fine all’espansione universale statunitense? La questione sarà trattata nel prossimo articolo.

di Viktor Burbaki

(Traduzione di Daniele Scalea)

Fonte: Strategic Culture Foundation

04 gennaio 2012

Argentina, la rinascita in dieci anni




Il tempo vola. Sono passati ormai più di dieci anni da quando l’Argentina, per usare le grate parole di Fidel Castro, precipitò il modello economico neoliberista nelle più remote profondità del prospicente Oceano Atlantico. In due giorni, fra il 19 ed il 20 dicembre 2001, l’allora presidente Fernando De La Rua, “liberalsocialista” eletto due anni prima nelle fila dello storico Partito Radicale, se la dovette svignare dal tetto della Casa Rosada a bordo di un elicottero, dopo aver ordinato un’inutile repressione a suon di mitragliate contro la folla in piazza, con un bilancio di oltre quaranta vittime ed i cui effetti furono soprattutto quelli di gettare ulteriore benzina sul fuoco. Proprio come le sollevazioni di Caracas del 1992 contro le austerità indette dal presidente Carlos Andrés Pérez (Caracazo), di Piazza delle Tre Culture a Tlatelolco in Messico nel ’68 o di Bogotà alla fine degli Anni Quaranta (Bogotazo): tutti episodi che insanguinarono la storia latinoamericana della seconda metà del Novecento con migliaia di vittime.
A causare l’insurrezione di Buenos Aires erano stati i “consigli” del FMI, culminati in una vera e propria serrata (“corralito”) dei conti correnti e dei bancomat: cosa che impedì non solo al proletariato ed al sottoproletariato ma anche al fino ad allora benestante ceto medio urbano di mantenersi da vivere, provvedendo al pagamento delle più elementari spese quotidiane. Era l’epilogo di una storia cominciata quasi cinquant’anni prima, col golpe del 1955 che aveva destituito Peròn consegnando il paese all’arbitrio ed al saccheggio da parte del FMI e del grande capitale nordamericano, in combutta con una classe politica locale neoliberale e pronamente filostatunitense. In una drammatica, caotica e “mimetica” alternanza fra tre dittature militari (di cui l’ultima, la più fatale, quella del cosiddetto “Processo di Riorganizzazione Nazionale”, dal 1976 al 1983), che provocarono oltre 30.000 desaparecidos, e governi “democratici” (ma oltremodo complici, disponibili e tolleranti sia verso le altre dittature militari e reazionarie del Continente sia verso i gruppi fascisti, terroristi e paramilitari attivi nel paese, per non parlare poi dell’impunità concessa ai militari dalle mani lordate di sangue), l’Argentina cambiò completamente volto. Se sotto Peròn era una delle prime dieci economie al mondo, con una crescita robusta, piena occupazione ed enormi riserve valutarie, 46 anni più tardi l’Argentina era invece il paese dei record negativi con il 71% di bambini sottonutriti nelle province più povere, il tasso di disoccupazione al 42% ed il debito pubblico procapite più alto al mondo. A causa della parità fra peso e dollaro le attività manifatturiere erano state spazzate via dalla concorrenza dei prodotti nordamericani, mentre le massicce privatizzazioni avevano liquidato un immenso patrimonio pubblico (scandaloso, per esempio, fu il caso dell’industria petrolifera di Stato, letteralmente regalata e frammentata fra sciacalli stranieri: si veda il bellissimo documentario “Diario del saccheggio” di Fernando Solanas, del 2003). Sempre sotto il camaleontico Menem la televisione commerciale e spazzatura aveva assunto il monopolio nella vita culturale, ergendosi a formidabile arma di distrazione di massa con cui distrarre e disinteressare la popolazione dal costante peculato e dalla crescente corruzione portati avanti dall’intera classe politica. Alle classi più povere si vendevano i sogni ed i miraggi di un’irraggiungibile società dei consumi e della ricchezza, un vero e proprio stordimento culturale, mentre nelle classi medie si fomentavano le solite paure del “socialismo” così funzionali ad avvincerle e convincerle a votare perennemente le destre e le sinistre liberali e liberiste serve del FMI e del consenso di Washington. In questo modo uno dei paesi più progrediti dell’America Latina e del mondo, non solo tecnicamente ed economicamente ma anche culturalmente, era stato completamente razziato, deturpato e dilapidato.
La caduta di De La Rua e del suo superministro dell’economia Domingo Cavallo (presidente del Banco Centrale sotto la dittatura dal 1976 al 1983) consegnò dunque il paese ad una fase rivoluzionaria, che non tardò ad essere guidata da quei giovani della sinistra peronista verso cui le squadriglie neofasciste della AAA (Alianza Anticomunista Argentina) ed il Processo di Riorganizzazione Nazionale negli anni Settanta avevano dedicato molto del loro zelo omicida. Tra questi emersero rapidamente Nestor Kirchner e successivamente sua moglie Christina Fernandez, che attraverso una cauta ma ferma politica redistributiva ridussero i livelli di povertà sociale di tre quarti rispetto agli anni Novanta. Il 2 gennaio 2002 l’Argentina aveva dichiarato il default sulle sue obbligazioni internazionali, ammettendo ovvero la propria impossibilità nel far fronte a tutti gli impegni economici contratti presso gli altri Stati. Per mesi il paese si ritrovò economicamente bloccato, ma a partire dal 2003 riprese a crescere con ritmi pari al 7%, presto elevati al 10% (la più forte crescita economica al mondo dopo quella cinese).
La riscossa e la rinascita dell’Argentina (parlare solo di “ripresa” sarebbe oggettivamente riduttivo) sono indubbiamente frutto di una serie di circostanze difficilmente ripetibili, almeno in termini geopolitici e congiunturali. Pensiamo ad esempio al fortissimo aumento del costo delle materie prime, che ha permesso al paese di rilanciare il settore agricolo in tempi molto rapidi, facendone una delle principali locomotive della propria economia. Ma vi sono anche altri fattori, come l’affacciarsi della Cina quale nuovo partner di riferimento strategico in sostituzione degli Stati Uniti e la partecipazione insieme al Brasile di Lula e al Venezuela di Chavez al processo d’integrazione latinoamericana. La chiave di volta, da questo punto di vista, è stata sicuramente l’incontro di Mar del Plata del 2005, che ha visto l’asse Argentina-Brasile rifiutare sdegnosamente il Trattato di Libero Commercio fra Stati Uniti e paesi latinoamericani (ALCA). Con questo progetto, caldamente sostenuto dall’amministrazione Bush, gli Stati Uniti puntavano a trasformare l’intera America Latina nella loro manifattura a basso costo (esattamente come già avviene col Messico attraverso il NAFTA), l’ideale per arginare la competitività cinese con un secolo di nuove ingiustizie per tutti i cittadini sud e centro americani. L’anno dopo, col sostegno politico ed economico venezuelano, insieme al Brasile l’Argentina chiuse definitivamente i propri conti col FMI con la storica frase “non abbiamo più bisogno dei vostri consigli interessati”. La crescente cooperazione con i nuovi governi progressisti latinoamericani (Bolivia, Nicaragua, Paraguay, Ecuador e via dicendo) e la reazione ferma contro i golpe in Honduras ed Ecuador (quest’ultimo fortunatamente fallito) hanno infine ulteriormente cementato il processo d’integrazione del Continente, restituendo all’Argentina quella statura internazionale persa ormai da decenni.
Lo Stato, smembrato, spogliato e privatizzato negli anni delle dittature e di Menem, ha recuperato il proprio ruolo nella società e soprattutto le sue responsabilità dinanzi ai cittadini. L’acqua, le poste, le linee aeree e i servizi scolastici e sociosanitari sono stati rinazionalizzati, mentre hanno visto la luce nuovi progetti in campo sociale e culturale finalzzati ad elevare il livello di vita della popolazione, anche in sinergia con gli altri paesi latinoamericani. Importanti, inoltre, i provvedimenti assunti a tutela dell’ambiente, della parità di genere e delle diversità, cosa quanto mai importante in uno dei paesi probabilmente più eterogenei e sfaccettati (culturalmente, religiosamente e socialmente) del mondo.
Il “rinascimento” argentino è passato anche attraverso una rivalorizzazione della cultura, tanto necessaria quanto irrinunciabile visto il degrado a cui i media erano giunti sotto Menem: le trasmissioni commerciali, un tempo il 100% dell’offerta “culturale” televisiva di tutto il paese, sono state ridotte ad un terzo. Per due terzi i media debbono occuparsi, com’è giusto che sia, d’argomenti sociali e culturali. Anche l’istruzione pubblica ha ricevuto un forte impulso, con gli stanziamenti più che triplicati (dal 2% al 6,5% del PIL: altro che Maria Stella Gelmini o Francesco Profumo!). Tutto ciò ha determinato un forte miglioramento del grado di senso civico, d’alfabetizzazione e di responsabilità politica e culturale di tutta la popolazione.
Questa è dunque l’Argentina di oggi: un paese che, ad onta delle tante perplessità dei media e degli intellettuali nostrani (disinformati ed in malafede, marci e malati fin nel midollo di quella cultura razzista che è l’eurocentrismo), ha saputo rialzare la testa. Un anno fa, dopo l’improvvisa morte di Nestor Kircher a seguito di un infarto, in tanti in Europa e Nord America predissero, probabilmente augurandoselo, un precoce ed incontrollabile crollo del “sogno neoperonista”. Sognavano il cedimento del mattone argentino augurandosi il crollo di tutto l’edificio latinoamericano, quindi brasiliano, boliviano, venezuelano, ecuadoriano e cubano; ed intanto, paghi della loro ignoranza che non li stimolava ad aggiornarsi e a guardare al di là delle loro strette barricate eurocentriche, continuavano a sguzzare nel cliché dell’Argentina da sfottersi in quanto stracciona. Sono rimasti, questi media, politici ed intellettuali “de noantri”, con un palmo di naso. L’Argentina ha continuato a crescere, in barba alle recrudescenze della crisi finanziaria globale che ha invece continuato a tormentare soprattutto quell’Occidente settentrionale da cui aveva avuto origine, e la “presidenta” Christina Fernandez da Kirchner è riuscita non soltanto a completare il suo mandato ma lo scorso 23 ottobre 2011 è stata persino rieletta dai suoi concittadini col 54% dei voti. Chissà se Obama, Cameron o Sarkozy potranno mai vantare una tale popolarità al prossimo giro…

di Filippo Bovo

03 gennaio 2012

Perchè gli stati devono pagare 600 volte più delle banche?






Sono cifre incredibili. Si sapeva già che, alla fine del 2008, George Bush e Henry Paulson avevano messo sul tavolo 700 miliardi di dollari (540 miliardi di Euro) per salvare le banche americane. Una somma colossale. Ma un giudice americano ha recentemente dato ragione ai giornalisti di Bloomberg che domandavano alla loro banca centrale di essere trasparente sull'aiuto che essa stessa aveva dato al sistema bancario.

Dopo aver spulciato 20.000 pagine di documenti diversi, Bloomberg mostra che la Federal Reserve (FED) ha segretamente prestato alle banche in difficoltà la somma di 1.200 miliardi al tasso incredibilmente basso dello 0,01 %.

Nello stesso momento, in molti paesi i popoli subiscono piani di austerità imposti da governi a cui i mercati finanziari non accettano di prestare miliardi a tassi di interesse inferiori al 6,7 o al 9%! Asfissiati da tali tassi di interesse, i governi sono “obbligati” a bloccare pensioni, sussidi familiari o salari dei dipendenti pubblici e di tagliare gli investimenti, e ciò fa aumentare la disoccupazione e presto ci farà sprofondare in una recessione molto grave.

É normale che in caso di crisi, le banche private, che si finanziano abitualmente all'1 % presso le banche centrali, possano beneficiare di tassi allo 0,01 % mentre certi Stati sono al contrario obbligati a pagare tassi 600 o 800 volte più elevati? “Essere governati dal denaro organizzato è tanto pericoloso quanto esserlo dal crimine organizzato”, affermava Roosevelt. Aveva ragione. Noi stiamo vivendo una crisi del capitalismo non regolamentato che può rivelarsi un suicidio per la nostra civilizzazione. Come affermano lo scrittore Edgar Morin e Stéphane Hessel in Le Chemin de l'ésperance (Fayard, 2011) [“I sentieri della speranza”, N.d.t.], le nostre società devono scegliere : la metamorfosi o la morte?

Aspetteremo che sia troppo tardi per aprire gli occhi? Aspetteremo che sia troppo tardi per capire la gravità della crisi e scegliere insieme la metamorfosi prima dello sfascio delle nostre società? Non abbiamo la possibilità qui di sviluppare le dieci o quindici riforme concrete che renderanno possibile questa metamorfosi. Vogliamo solamente dimostrare che è possibile dar torto a Paul Krugman quando spiega che l'Europa sta entrando in una “spirale negativa”. Come dare ossigeno alle nostre finanze pubbliche? Come agire senza modificare i trattati, il che richiederà mesi di lavoro e diverrà impossibile, se l'Europa è sempre più detestata dai suoi cittadini?

Angela Merkel ha ragione nel dire che niente deve incoraggiare i governi a continuare la fuga in avanti. Ma l'essenziale delle somme che i nostri Stati prendono in prestito sui mercati finanziari riguarda vecchi debiti. Nel 2012 la Francia deve prender in prestito 400 miliardi: 100 miliardi che corrispondono al deficit del bilancio (che sarebbe quasi nullo se si annullerebbero i ribassi d'imposta concessi negli ultimi dieci anni) e 300 miliardi che corrispondono a vecchi debiti, che arrivano a scadenza e che siamo incapaci di rimborsare se non ci reindebitiamo per le stesse cifre qualche ora prima di rimborsarli.

Far pagare tassi d'interesse colossali per debiti accumulati cinque o dieci anni fa non aiuta a responsabilizzare i governi ma ad asfissiare le nostre economie facendo guadagnare le banche private; con il pretesto che ci sia un rischio, prestano a tassi molto elevati sapendo che non c'è alcun rischio reale, perché il Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria (ESFS) [“Fondo salva stati”, N.d.t.] garantirà la solvibilità degli Stati debitori.

Bisogna finirla con questa concezione del due pesi due misure: ispirandoci a quello che ha fatto la banca centrale americana per salvare il sistema finanziario, proponiamo che “il vecchio debito” dei nostri Stati possa essere rifinanziato a tassi vicini allo 0%.

Non c'è bisogno di modificare i trattati europei per metter in atto questa idea: certo, la Banca centrale europea (BCE) non è autorizzata a prestare agli Stati membri, ma può prestare senza limite agli organismi pubblici di credito (articolo 21.3 dello statuto del sistema europeo delle banche centrali) e alle organizzazioni internazionali (articolo 23 dello stesso statuto). Essa può dunque prestare allo 0,01 % alla Banca Europea degli Investimenti (BEI) o alla Cassa dei depositi ed esse, a loro volta, possono prestare allo 0,02 % agli Stati che si indebitano per rimborsare i loro vecchi debiti.

Niente impedisce di attuare tali finanziamenti fin da gennaio! Non lo si dice abbastanza: il bilancio dell'Italia presenta un'eccedenza primaria. Esso sarebbe dunque in equilibrio se l'Italia non dovesse pagare dei costi finanziari sempre più elevati. Bisogna lasciare che l'Italia affondi nella recessione e nella crisi politica o bisogna accettare di porre fine alle rendite bancarie private? La risposta dovrebbe essere evidente per chi agisce in favore del bene comune.

Il ruolo che i trattati attribuiscono alla BCE è di quello di vegliare sulla stabilità dei prezzi. Come può non reagire quando alcuni paesi vedono i rendimenti dei loro buoni del Tesoro raddoppiare o triplicare in qualche mese? La BCE deve anche controllare la stabilità delle nostre economie. Come può non agire quando il prezzo del debito minaccia di farci cadere in un recessione che, secondo il governatore della Banca d'Inghilterra, sarebbe “più grave di quella del 1930”?

Se ci si attiene ai trattati, niente impedisce alla BCE d'agire con forza per far abbassare il costo del debito. Non solo non ci sono ostacoli che le impediscano di agire, ma anzi, ogni elemento la spinge in questa direzione. Se la BCE fosse fedele ai trattati dovrebbe far di tutto per diminuire il costo del debito pubblico. É parere comune che l'inflazione sia la cosa più inquietante.

Nel 1989, dopo la caduta del Muro di Berlino, è bastato un mese a Helmut Kohl, a François Mitterand e agli altri capi di Stato Europei per decidere di creare la moneta unica. Dopo quattro anni di crisi, cosa aspettano ancora i nostri dirigenti per dare ossigeno alle nostre finanze pubbliche? Il meccanismo che proponiamo potrebbe applicarsi immediatamente, sia per diminuire il costo del vecchio debito che per finanziare gli investimenti fondamentali per il nostro avvenire, come ad esempio un piano europeo di risparmio energetico.

Quelli che richiedono la negoziazione di un nuovo trattato europeo hanno ragione: con i paesi che la vogliono bisogna costruire una Europa politica capace d'agire sulla globalizzazione: un'Europa veramente democratica come già la proponeva Wolfgang Schäuble e Karl Lamers nel 1994 o Joschka Fischer nel 2000. Occorre un trattato di convergenza sociale e una vera governance economica.

Tutto ciò è indispensabile. Ma nessun nuovo trattato potrà esser adottato se il nostro continente sprofonda in una “spirale negativa” e i cittadini iniziano a detestare tutto quello che viene deciso a Bruxelles. È urgente inviare ai cittadini un segnale molto chiaro : l'Europa non è nelle mani delle lobby finanziarie.

È al servizio dei suoi cittadini.

di Michel Rocard e Pierre Larrouturou

E venga il caos





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Ha detto Monti che i conti torneranno. Invece, tutta l’aristocrazia del denaro e i baroni della crapula a spese dello Stato non sono mai andati via, non si sono mai staccati dai propri privilegi mentre l’Italia veniva infilzata dallo spread e dai mercati. I nobili ed i notabili decadenti ed improduttivi, per non decadere del tutto, si sono messi a disposizione dei principi stranieri offrendo l’appoggio di un governo collaborazionista che toglie a chi lavora per dare al parassita ed al liquidatore di beni strategici. Gli sciamani della salvezza nazionale per rimediare ai nostri malanni economici sono arrivati ad invocare ed ottenere l’ascesa al potere degli déi minori della finanza ristretta e della piccola accademia locale nella convinzione di poter placare, per affinità parentale, l’ira delle divinità mondiali onnipossenti che già ci colpivano con le loro saette geopolitiche. Il risultato è che ora arrivano fulmini da tutte le parti. I dioscuri Napolitano e Monti sono i principali responsabili di questa punizione apocalittica. Stanno realizzando un sacco contro la patria, con scasso della sovranità nazionale, celando la loro manovra con i rituali della responsabilità e con le astruse formule tecniche che anziché segnalare la loro competenza indicano soltanto la loro arroganza. Il Paese non è più in grado di decidere per se stesso, riceve ordini dall’estero via telefono (ma soprattutto telepaticamente) e rinuncia alla sua indipendenza per potersi affiancare al tavolo dei prepotenti in posizione defilata e riversa. Prega in ginocchio per non essere ulteriormente percosso ma la posizione assunta non ispira nessuna pietà negli aguzzini. Questa condizione di minorità internazionale non ci porterà da nessuna parte perché dell’Europa, senza coraggio e coscienza, concepita dagli Usa come un cuscinetto, noi siamo diventati il misero lettino. A brandelli sulla branda in cui siamo stati legati ogni giorno gli avvoltoi vengono a mangiarci il fegato e la speranza. E’ vero quanto dicono molti analisti e cioè che questa crisi non può essere risolta esclusivamente dall’interno in quanto la sua natura è sovranazionale. Anzi, più ci diamo dentro con sacrifici ed immolazioni sull’altare della borsa più bruciamo le nostre possibilità di ripresa. Tuttavia, il fulcro del problema non è monetario, non dipende dalla debolezza dell’euro, dall’assenza di una linea fiscale unitaria, dal ruolo della BCE ecc. ecc. Semmai questi sono gli effetti infausti di una inesistente integrazione comunitaria che copre il vuoto politico intorno a cui il Continente ha costruito il suo tempio comune. Le catene che ci tengono stretti a Bruxelles sono dunque immaginarie, non esistono anche se tintinnano, eppure non riusciamo a muoverci ed a spezzare l’incantesimo. Più dei catenacci europei sono le nostre gambe inferme e pesanti ad impedirci di scattare fuori da questo incubo chiamato Ue, mentre i nostri “partners” cercano di coprirsi dalle raffiche sistemiche conciando la nostra pelle. L’unica forza politica che non si è accodata alla processione dei partiti col capo cosparso di cenere, al corteo dei finti cordoglianti che funeralizzano il futuro del popolo italiano è la Lega. Forse più per calcoli elettorali che per sincero sentimento sociale. Ad ogni modo le sole “bestemmie” contro i semidei del semistato che hanno semi-distrutto la Costituzione innalzandola più in alto per affossarla meglio sono uscite dalle bocche dei torvi federalisti. Calderoli ha praticamente chiesto l’impeachment di Napolitano anche se per la strada arzigogolata di una Commissione d’inchiesta parlamentare. E sono stati altri colleghi dell’ex ministro, verdi non più come leghisti ma ormai solo come marziani rispetto ai mutanti istituzionali lobotomizzati dalla tecnica, a sollevare più volte il conflitto d’interessi e ad attirare l’attenzione sugli addentellati di Monti con massonerie e poteri marci mondiali. Se il movimento di Bossi non si fosse fatto corrompere così a lungo dall’aria pestilenziale romana ci sarebbe da augurarsi che le minacce separatiste riuscissero finalmente ad incanalarsi in un seguito di piazza e di tumulto. Chissà che non sia proprio lo spauracchio più temuto degli ultimi decenni, quello della secessione, a diventare la scintilla di un sommovimento col quale innescare tendenze di malcontento e di rivolta in tutta la Penisola, da nord a sud. Fino al disordine generale. Dopo il casino berlusconiano e il casinò montiano col banco che perde sempre chiediamo il caos ingovernabile anche per il protettorato che ora sta giocando di sponda con le potenze estere per assicurarci una lenta e dolorosa agonia. Il crollo totale sta diventando un auspicio, proprio come nei primi anni del secolo scorso allorché, da Salvemini a Bordiga, si sperava che qualcuno o qualcosa spazzasse via lo Stato liberale ormai marcio nella fondamenta. Abbiamo superato il punto di non ritorno e gli iettatori di gabinetto tentano ancora di raggirarci con i conti da far tornare. Meglio che venga giù tutto per provare a ricostruire il tempo e lo spazio di un’ Italia libera e padrona del suo destino.

di Gianni Petrosillo

02 gennaio 2012

Big bank: indebitatevi di più e il mondo vi sorriderà






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Cosa ci riserva il 2012 in tema di crisi? La Germania lascerà l’euro oppure la Bce si deciderà ad emettere gli eurobond? Va quasi da sé che una cosa esclude l’altra. Se l’euro e l’Europa perdono la locomotiva tedesca, pensare a una mutualizzazione del debito sovrano degli altri paesi membri è pura follia. In realtà, non dovrebbero accadere nessuna delle due cose: perché alla Germania conviene tenersi una moneta sicuramente più debole dell’eventuale nuovo marco, ai fini di cambio sul mercato extra-continentale, e perché secondo Mario Draghi, in una recentissima intervista al Financial Time «non ci possono essere emissioni comuni» (di eurobond, s’intende) essendo impensabile «una garanzia reciproca ed una possibilità di spesa separata». E siccome, il percorso per arrivare a un bilancio unico per tutti i 26 paesi della Ue è quanto meno impervio, l’ipotesi delle euro-obbligazioni non sembra essere esattamente dietro l’angolo.

Eppure, qualcosa deve essere fatto. Anzi, è già stato fatto. Anche se non è esattamente quanto sarebbe auspicabile. Infatti, qualche settimana fa, la Bce ha gentilmente elargito a 500 banche sparse sul continente qualcosa come 489,2 miliardi di euro al fine di garantire la liquidità per finanziare l’economia reale delle piccole imprese e delle famiglie che, così ci fanno sapere, per l’80% ricorrono ai prestiti degli istituti di credito. Alle banche italiane, sono andati 40,2 miliardi di euro, ovvero più del doppio di quanto la manovra da lacrime e sangue messa in atto dal Governo Monti, fra Imu, accise e Iva, ci farà pagare. Insomma, la Banca centrale europea versa alle banche italiane, al tasso irrisorio dell’1%, una montagna di soldi per finanziare famiglie e imprese che sono costrette ad indebitarsi, ad un tasso ben superiore all’1%, per pagare i debiti dello stato. Bisogna ammetterlo: il meccanismo infernale del debito permanente di tutti, uomini e stati, verso chi stampa i nostri soldi per poi prestarceli ad interesse è geniale. E non consente vie di uscita: più paghi, più sarai costretto a pagare.

Per esempio, la Crédit Suisse, fine analista delle cose finanziarie europee, prevede che nel 2012 i titoli di stato decennali italiani toccheranno il tasso record del 9% e quelli francesi il 5%. L’intero sistema monetario europeo, a quel punto, potrebbe collassare. A meno che… A meno che non siano gli stessi speculatori a fare un passo indietro nel timore che il crollo faccia diventare carta straccia i titoli in loro possesso. Il che varrebbe quanto il bel gesto del torturatore che protraesse l’agonia del condannato per paura di perdere il lavoro.

In questo scenario che chiamare buio è un eufemismo, c’è pure chi ha trovato la radice del male: consumiamo poco. Consumando poco, non incentiviamo la produzione. E se non incentiviamo la produzione, è recessione. Infatti, per il 2012 le più rinomate agenzie di rating prevedono un andazzo di questo tipo per il Pil: Francia +0,5% (dal previsto +0,8%), della Germania +0,8% (da +1%) e dell’Italia +0,1% (da +0,2%). «La recessione che si sta avvicinando all’Europa ha colpito prima Spagna, Portogallo e Grecia e adesso si sta allargando verso i Paesi “core” della zona euro, Francia e Germania» commenta Jean Michel Six, capo-economista di Standard & Poor’s. La domanda, allora, è: come si fa a sostenere la produzione se i soldi destinati al consumo se ne vanno per pagare il fisco e, al contempo, salari e pensioni vengono congelati? Semplice: che glieli ha dati a fare quasi 500 miliardi di euro la Bce alle banche territoriali? Accendete un altro mutuo e il mondo vi sorriderà.

C’è una parola chiave che il vertice di Bce, il privatizzatore di tutto il privatizzato in Italia fra il 1993 e il 2001, Mario Draghi, usa con costanza: “credibilità”. A parer suo è tutto un problema di credibilità. Più sei credibile, più inneschi il meccanismo virtuoso degli investimenti. E come si fa ad essere credibili? Pagando i debiti. Ma se pago i debiti, contraendo nuovi debiti, sono più o meno credibile per gli investitori? Secondo Mario Draghi, lo sei. E con la recessione come la mettiamo? Finanziamo le banche che finanziano te: così puoi consumare di nuovo e di più. Insomma, più ti impoverisci, più ti indebiti e più sei credibile. Più sei credibile e più puoi indebitarti. Sembra quasi la perifrasi del celebre ed esilarante siparietto di Gianni e Pinotto dove, alla domanda: «Who’s on first?» la risposta del nome del giocatore di prima base, «Who» innescava la ripetizione della domanda e della risposta in un equivoco infinito. Solo che, nel nostro caso, non c’è proprio niente da ridere.
di Miro Renzaglia

12 gennaio 2012

Schiavo della finanza, lo Stato non può più spendere per noi



Può sembrare un’eresia, ma non lo è: dalla crisi si può uscire in un solo modo, e cioè aumentando la spesa pubblica. Si aggraverebbe il debito? Inizialmente, sì. Ma investire in settori strategici per produrre lavororisolleverebbe l’economia, la domanda, le entrate fiscali. Servirebbe una piena sovranità statale e monetaria, che gli Stati europei hanno perduto: costretti a farsi prestare denaro dalla finanza privata, vengono dissuasi dall’indebitarsi ulteriormente, pena la crescita esplosiva dei margini speculativi. Lo Stato, unico soggetto nato per spendere a deficit per il benessere reale dei cittadini, è stato imbrigliato: il grande capitale pretende che si comporti non come uno Stato, ma come una famiglia o un’azienda. Neutralizzata la capacità finanziaria dello Stato, i cittadini sono indifesi di fronte alla crisi.

Il premio Nobel Paul Krugman, ostile alla linea di rigore dei governi europei (che considera suicida e votata all’inevitabile macelleria sociale, senza eurosbocchi possibili) ha scritto sul “New York Times” un intervento intitolato “Nessuno capisce cos’è il debito”. Intendeva: nessun economista della scuola preferita dai conservatori, quelli che dagli anni ’80 hanno progressivamente marginalizzato la finanza pubblica a unico vantaggio di quella privata. Il debito cui si riferiva Krugman, scrivono Guido Carandini e Paolo Leon in un’analisi su “Repubblica” ripresa da “Micromega”, è il debito pubblicogenerato dal disavanzo della spesa statale. Chi aborrisce il disavanzo, dice Krugman, teme che possa impoverire i cittadini, costretti a rimborsare il denaro preso a prestito: come se gli Usa fossero una famiglia, alle prese con le rate di un mutuo. Errore: il debito pubblico è istituzionalmente “dovuto” ai cittadini, e in ogni caso la spesa sociale è un investimento che alla lunga produce maggiori entrate.

«L’enorme debito contratto durante la seconda guerra mondiale – scrivono Carandini e Leon, citando Krugman – non è mai stato rimborsato ma è diventato progressivamente irrilevante man mano che l’economia Usa cresceva e con essa i redditi soggetti a tassazione». Inoltre: una famiglia oberata dai debiti deve senz’altro del denaro a qualcuno, mentre il debito pubblico degli Usa è in larga parte denaro «che è dovuto ai suoi stessi cittadini». È vero che a causa del debito contratto per vincere la seconda guerra mondiale i contribuenti sono stati colpiti da un onere eccezionale, ma quel debito «era anche posseduto dai contribuenti che avevano acquistato i titoli del Tesoro americano e quindi non rese più poveri gli americani del dopoguerra». Al contrario: proprio grazie a quel debito, i Paul Krugmancittadini «godettero del più marcato aumento dei redditi e degli standard di vita mai avvenuto nella storia degli Stati Uniti».

Secondo Krugman, quindi, la necessità di stimolare l’occupazione rende sopportabile un aumento del debito assai superiore a quello che la “saggezza convenzionale” ritiene accettabile. Oggi scontiamo tutti la «miope visione degli economisti e dei politici che avversano l’indebitamento statale». Le argomentazioni di Krugman? Per Carandini e Leon sono perfettamente convincenti, anche se non forniscono, di quella “miopia”, una ragione logica. Che invece emerge chiaramente da una diversa teoria, secondo la quale, per sua natura, il capitalismo tende a occultare la relazione tra la dimensione privata-individuale e quella pubblica-statale. Come le due facce di una moneta, l’una nasconde l’altra: il punto di vista della famiglia che si indebita oscura la visione dell’intervento statale, cioè il punto di vista delle sue conseguenze sull’insieme dei cittadini. Come se Stato e cittadini fossero all’oscuro delle conseguenze delle rispettive azioni.

Per superare questa assurda dicotomia, sostengono Carandini e Leon, occorre collocarsi in una terza dimensione, quella collettiva, la sola che «rende evidente la duplice interconnessione pubblico-privato, ignorando la quale si incorre in errori gravi». Le regole ossessive dell’austerità? «Magari buone per le famiglie, ma non per i governi». Basta dare un’occhiata alla composizione del “reddito nazionale”, cioè la somma aritmetica di profitti e salari, ottenuta senza distinguere tra l’obiettivo familiare (il salario) e quello aziendale (il profitto). E’ il cuore della partita in corso: più profitti, a scapito dei salari. Risultato: crollo dei consumi e riduzione del Pil. Nonostante la resistenza delle imprese, se invece si aumentassero i salari a scapito dei profitti si otterrebbero più consumi e quindi una crescita automatica del Paolo Leonprodotto interno lordo. Peccato che che i singoli attori – famiglie e aziende – non ne siano pienamente consapevoli.

«Ecco dunque che questo famoso Pil non dipende né dai comportamenti individuali, come sostiene la scienza economica prevalente, né da autonome azioni pubbliche, ma da comportamenti politici, sindacali e/o lobbistici che influiscono in larga misura proprio sulle politiche economiche e di distribuzione dei redditi da parte degli Stati, e quindi sul tipo di spesa pubblica che essi attuano». Per Carandini e Leon, se gli Stati «mettono in atto politiche di austerità quando la crisi è di domanda, seguendo l’istinto individuale che nellacrisi spinge per il risparmio, allora la crisi non è battuta». Se invece aumentano la spesa pubblica a favore di attività produttive, si comportano come nel dopoguerra: l’iniziale aggravio dell’indebitamento non impoverisce affatto la comunità. Al contrario, la arricchisce: più salari, più profitti, più Pil. Ad una condizione: la sovranità finanziaria pubblica, che mette lo Stato al riparo dall’affanno di dover conseguire benefici immediati.

Per investire sulla collettività nazionale spendendo a deficit, e vederne i risultati concreti in termini economici, lo Stato ha infatti bisogno di tempo: ieri ce l’aveva, oggi non più. Il problema? I mercati finanziari e il loro predominio a livello globale. Se anche, anziché ridurla come fa adesso, lo Stato decidesse di accrescere la spesa pubblica per stimolare la produzione e l’occupazione, il maggiore indebitamento che ne deriverebbe «non avrebbe come effetto immediato l’aumento del Pil, ma dovrebbe misurarsi con la speculazione finanziaria che, incapace di prevederne gli effetti positivi nel periodo più lungo, ne farebbe salire il costo (lo spread) tanto da vanificarne gli effetti positivi». Carandini e Leon non hanno dubbi: «Questa è la trappola in cui si trovano oggi tutti i Paesi, compreso il nostro, nei quali la sovranità è stata svuotata da poteri metanazionali e da una cultura economica e politica incapace di sollevare lo sguardo a livello collettivo e di dominare il rischio di una prolungata recessione, assai pericolosa per le nostre democrazie».

di Giorgio Cattaneo

11 gennaio 2012

È il crollo di un mondo. Forze immense stanno per scatenarsi



Così parla Frédéric Lordon, famoso economista francese, direttore delle ricerche del CNRS, in una lunga intervista alla Revue des Livres. A proposito delle forze che stanno per scatenarsi, ecco cosa prevede:

«Se, come si poteva prevedere dal 2010 col lancio dei piani di austerità coordinati, lo scacco annunciato conduce ad un’ondata di default sovrani, seguirà immediatemente il collasso del sistema bancario (o li precederà, per semplice effetto d’anticipazione degli investitori); e questo, contrariamente a quello del 2008, sarà irrecuperabile, perchè gli Stati (che hanno salvato le banche nel 2008, ndr) sono finanziariamente a terra. Allora non resterà altra alternativa che l’emissione monetaria massiccia, oppure l’esplosione della zona euro se la Banca Centrale Europea (e la Germania) rifiutano questa prima soluzione.

«In un week-end cambierà letteralmente il mondo e vedremo cose inaudite: re-instaurazione del controllo sui capitali, nazionalizzazioni-lampo o addirittura requisizioni di banche, riarmo delle Banche Centrali nazionali – misura che segnerà da sè la fine della moneta unica – la dipartita della Germania seguita da qualche satellite, la costituzione di un blocco euro-sud oppure il ritorno alle monete nazionali. Quando avverrà? Nessuno può dirlo con certezza (...) ma tra sei o dodici mesi, quando s’imporrà la constatazione della recessione generale, risultante dalla austerità generalizzata, e gli investitori vedranno salire irresistibilmente le ondate dei debiti pubblici che si supponeva di arrestare con le politiche restrittive, la consapevolezza dell’impasse totale che albeggerà in quel momento porterà gli operatori stessi a dichiarare una ‘capitolazione’, ossia alla loro fuga massiccia dai mercati-titoli, e per il gioco dei meccanismi di propagazione creati dalla finanza liberalizzata, una dislocazione totale dei mercati dei capitali, in tutti i settori.

«E nel frattempo si accumulano le tensioni politiche – fino al punto di rottura? Come ogni soglia critica a livello storico-sociale, non si sa in anticipo dove essa si trova nè cosa ne determina il superamento. La sola cosa certa è che la spossessione generalizzata della sovranità (per opera della finanza come dell’Europa neo-liberale) taglia in profondità i corpi sociali... i corpi sociali aggrediti dal liberalismo finiscono sempre per reagire, e a voltre brutalmente, in proporzione a quello che in precedenza hanno sopportato e accumulato (...). Non si possono lasciare i popoli durevolmente senza soluzione di sovranità – sia nazionale o d’altro tipo – senza che la recuperino a tutta forza e in forme che non saranno belle da vedere.

«... Quella che vien chiamata ‘crisi dell’euro’ non è in prima istanza una crisi monetaria. Una delle stranezze degli eventi attuali è che la moneta europea non viene rifiutata affatto, nè dai residenti della zona nè dagli investitori internazionali, e lo dimostra la paritò euro-dollaro, che a parte qualche fluttuazione, si mantiene. È un fatto: non c’è (per ora) fuga dall’euro. Se ci sarà, sarà come sviluppo terminale di una crisi la cui natura è altra. Quale? La risposta è che si tratta di una crisi istituzionale.

«È il quadro istituzionale della moneta unica, come comunità di politiche economiche, che minaccia di volare a pezzi in seguito a crisi finanziarie aventi come epicentro i debiti pubblici e le banche. Se l’euro esplode, sarà per default sovrani che trascineranno crolli bancari – a meno che questi non vengano prima, per anticipazione dei default sovrani. In ogni caso il cuore della cosa sarà ancora una volta il sistema bancario, e l’impossibilità di lasciarlo andare in rovina, perchè la rovina totale del sistema bancario ci porterebbe in cinque giorni all’equivalente ineconomia dello stato di natura. Ma ciò non deve significare ‘rimetterlo sui binari per un altro giro’, senza cambiarne le regole.

«Anzi, approfitto per dire che, dopo avermi fatto per lungo tempo paura, la prospettiva di questo collasso quasi quasi mi piace, perchè creerà infine l’occasione di nazionalizzare integralmente il sistema bancario per pura e semplice requisizione (senza indennizzo) (...). Nell’ipotesi del collasso bancario, si tratta di sapere quale sarà – in assenza degli Stati, essi stessi rovinati – l’istituzione capace di organizzare la riattivazione delle banche per far loro riprendere l’attività di fornitura del credito. In questa ipotesi, non ne resta che una: la Banca Centrale Europea. Non dovrà solo assicurare alle banche un sostegno di liquidità (lo sta già facendo) ma liberarle degli attivi svalorizzati e ricapitalizzarle. Inutile dire che, data la scala del settore bancario intero, si tratta di un’operazione di creazione monetaria massiccia a cui bisognerà consentire. La BCE è pronta a questo? Sotto l’egemonia tedesca, direi di no. Ma l’urgenza estrema di restaurare nella loro integrità gli incassi monetari e di ristabilire il funzionamento del sistema di pagamenti richiederà un’azione ‘in giornata’! Significa che le lunghe tergiversazioni per ‘parlare ai nostri amici tedeschi’ o rinegoziare un trattato, saranno sparite dalla lista delle soluzioni pertinenti. Di fronte a quelli che si devono identificare come interessi vitali del corpo sociale, uno Stato, di fronte al non-volere della BCE, prenderebbe immediatamente la decisione di riarmare la propria Banca Centrale per farle emettere moneta in quantità sufficiente e ricostituire al più presto un troncone di sistema bancario capace di operare. La Germania, osservando nella zona una o due fonti di creazione monetaria fuori controllo, ossia di euro impuri suscittibili di corrompere gli euro puri di cui la BCE ha sola il privilegio di emissione, decreterebbe immediatamente l’impossibilità di restare in una tale ‘unione’ monetaria divenuta anarchica e l’abbandonerebbe subito, per rifare un blocco con qualche seguace selezionato sul momento (Austria, Olanda, Finlandia, Lussemburgo). Quanto alle altre nazioni, dovranno allora scegliere fra ricostituire un blocco alternativo oppure tornare ciascuna al proprio destino monetario; la Francia cercherà in tutti i modi di imbarcarsi con la Germania, senza la minima sicurezza di essere accettata a bordo (...)».

Se volete leggere il resto, qui:

«Nous assistons à l’écroulement d’un monde, des forces immenses sont sur le point d’être déchaînées», entretien avec Frédéric Lordon

10 gennaio 2012

Viktor Orbán, l'ungherese che turba i sogni dell'usura internazionale...

Viktor Orbán, è l'ungherese che da tempo turba i sogni dell'usurocrazia internazionale...e dei suoi portaborse ormai accertati, parassiti politici, giornalisti e media, in testa a tutti il partito della sinistra sionistra, americanista e banchiera: basta leggere cosa scrivono di lui, agitando i soliti spauracchi della partigianeria (...oggi però di moda a stelle e strisce), Liberation o Il Fatto Quotidiano. Maggiori informazioni tecniche sulla sua politica economica e finanziaria sono consultabili a questa pagina di BloombergTV (in lingua inglese).
E' tutto un coro che punta a demonizzare un capo di stato il quale, legittimamente, difende gli interessi della propria nazione sotto attacco da parte della setta in veste finanziaria.
Tra l'altro lo si accusa di introdurre schemi dittatoriali a causa di leggi elettorali appena varate, le quali mentre garantiscono a tutte le etnie e minoranze ad avere i loro rappresentanti eletti in Parlamneto con potere propositivo e legiferatore, limitano invece il diritto di voto, rendendolo semplicemente simbolico, ai rappresentanti Rom eletti in Palamento: e se non sanno da quelle parti come trattare i Rom, vista l'esperienza e conoscenza secolare che ne hanno, non saremo certo noi, dispensatori di baraccopoli (visto che di integrarsi tra noi "gaggi", lavorare ed accettare le regole del comune convivere non ne vogliono sapere), centri di spaccio e microcriminalità a spese dei lavoratori italiani contribuenti, a volerglielo insegnare...vero?
La così detta stampa, i persuasori occulti e agit-prop sul libro paga...di chi li paga e accredita, è invece infuriata perchè si ritiene limitata nel poter dispensare tutte le menzogne e perfidie che è solita diffondere per condizionare ed istigare le masse in nome della "libertà d'espressione". Il governo Orbán ha inteso moralizzare e stabilire comportamenti eticamente corretti e rispettosi per il buon costume, imponendo regole precise a stampa e mondo della cultura, le quali usano i mezzi di comunicazione di massa ed i palcoscenici non per informare ed illustrare verità, ma per disinformare, diffamare, distorcere la realtà dei fatti, screditare chi lavora per il bene del paese e non per gli interessi delle grandi lobby e multinazionali straniere.
Orbán ha, tra le altre cose, vietato che organismi OGM di qualsiasi genere fossero introdotti e commercializzati in Ungheria, e siamo sicuri che la Monsanto e le altre sorelle mafie transgenetiche (nonci riferiamo a Vladimiro Guadagno, in arte 'Lussuria', anche se forse anche lui è una vittima inconsapevole di queste gangs agroalimentari...) non avranno certo accolto con entusiasmo tale decisione...
Il suo 'peccato mortale' è però quello di non voler accettare i dictat della BCE e del FMI, imponendo al sistema bancario magiaro una politica protezionista nazionale, per difendere la sua terra dai mortali attacchi del "grande capitale internazionale": azione più che legittima e saggia in tempi di normalità, ma che nell'era delle "crisi finanziarie indotte" e di "guerre umanitarie" per terrorizzare popoli e governi, per spingerli ad invocare un Nuovo Ordine Mondiale (NWO) sotto l'autorità di un Unico Governo, suonano come eresie e bestemmie. Ed infatti ecco che i portavoce di tali poteri forti, chiamati a raccolta, scatenano la loro campagna di criminalizzazione su giornali e reti televisive: anzi, fanno a gare a chi le spara più forti. Il quotidiano "la Repubblica" ha addirittura evocato e riesumato la salma di Goebbels per spaventare maggiormente i suoi alienati lettori.
Le banche e le assicurazioni magiare sono state tassate per dare ossigeno e aiuto in un momento di grande difficoltà e transizione: più che giusto diranno in molti. Ed invece questa mossa non è affatto piaciuta agli usurai di Bruxelles e Wall Street, che subito hanno lanciato una campagna di guerra ai bonds ungheresi, generando le solite ripercussioni di terrorismo e rapina ai danni dell'economia nazionale ungherese e del suo popolo.
I portaborse della Goldman Sachs, posti autoritariamente ai vertici dei governi e delle istituzioni bacarie europee, Monti Mario, Draghi Mario, Papademos Lucas, senza che nessun democratico plebiscito popolare li abbia eletti, senza che nessuno dei circa 731milioni di cittadini europei li abbia voluti, non solo non si sognano neppure lontanamente di sfiorare i grandi capitali finanziari e le lobby dell'usura legalizzata, ma anzi varano leggi per favorirle, arricchirle (vedi anche solo il caso dell'obbligo alla transazione bancaria, che impone a circa mezzo milione di pensionati l'apertura di conto/corrente per cifre oltre poche centinaia d'euro), proteggerle, mettendo invece senza pudore le mani nelle tasche (...e non solo...) dei cittadini, dei poveracci, di chi lavora per stipendi da fame, dei pensionati, dei malati che necessitano cure e ricoveri, dei sudditi senza difesa (perchè chiamarli cittadini è un eccesso, in tali condizioni di falsa democrazia, vera dittatura dei prestasoldi del tempio).
Questo il paradosso:
Viktor Orbán, eletto democraticamente, con una maggioranza assoluta di due/terzi, chiede che ad aprire le borse e pagare l'obolo siano le banche, vara leggi a protezione della propria nazione da interferenze e attacchi da parte di gruppi di potere esterni finanziari-politici-culturali, limitando anche la libertà d'azione delle suddette banche quando le loro scelte e decisioni vanno contro gli interessi della nazione, e per questo viene crocifisso dai media e minacciato dai massoni/papponi di Bruxelles ed oltre-Atlantico, presentato al popolo come la bestia nera, il pericolo di deriva "nazista" (sempre "la Repubblica" già citata) da emarginare e criminalizzare.
Monti Mario, Draghi Mario, Papademos Lucas, invece, non eletti da nessuno, ma imposti e cooptati con il ricatto ed il terrore di scenari peggiori ed apocalittici, varano leggi che disarmano il popolo, lo impoveriscono, lo mettono alla mercè dell'elite finanziaria, gli tolgono la speranza per i propri figli, lo demotivano e spingono verso la disperazione, perchè malgrado per decenni esso abbia pagato i contributi pensionistici rischia di non poter un giorno neppure godere di qualche anno di meritato riposo, con l'età pensionabile sempre più allungata verso la morte e sempre più miserabile, dato l'aumento del costo dei prodotti, bollette, IVA, benzina, quindi cibo e beni di prima necessità. Ma questi dittatori per le banche, Monti Mario, Draghi Mario, Papademos Lucas, ci vengono invece presentati dagli stessi mezzi di informazione mediatica, stampa e TV, come eroi e salvatori, unica possibile speranza di uscire da una tremenda crisi (falsa come i loro datori di lavoro, passati o presenti che siano poco cambia, che l'hanno inventata e generata), mentre invece stanno pianificando la resa incondizionata ed il travaso di ricchezze e poteri locali nelle mani di quella setta di cui tutti loro fanno parte e che assume diverse identità e denominazioni a seconda delle mansioni particolari da svolgere (Bilderberg, Trilateral, CFR, Club di Roma, ed altri di cui la lista a questo link non è esaustiva).
L'obiettivo finale di questa guerra all'umanità è il suo controllo e dominio totale, in sintesi il NWO. Vi sembra una tesi cospirazionista, esagerata, immotivata?
I fatti mi sembra che piuttosto avvalorino, giorno dopo giorno, questa drammatica prospettiva, ed il fatto che anche in Vaticano si inneggi ad una "autorità finanziaria globale" (il Sole 24 ore) si tratti e consideri come meglio gestire l'usura, argomento e mezzo un tempo vietato dottrinalmente, e ci sia una sponda di matrice "spirituale" che accolga e rimbalzi verso il popolo tali disgraziate idee, da' la misura di quanto in profondità sia contagiata e malata la società, infettata da questo morbo talmudico annidato e covato per millenni nel putridume d'un escatologia già riprovata e maledetta.
L'invertebrata natura di questa bestia immonda aspettava ad ergersi il momento in cui la debolezza spirituale e la sana etica fossero indebolite e stravolte nella loro essenza; che il diritto naturale fosse calpestato e vilipeso; che la vita fosse disprezzata, considerata un'incidente, e la morte divinizzata come un diritto inalienabile: per legge.
I profeti dell'avvento di questo mostro, pare siano a buon punto col lavoro.
Viktor Orbán, o si adeguerà agli ordini superiori, provenienti dai palazzi dove si decidono le sorti dell'Europa e del mondo, accetterà di far derubare ed incatenare il suo popolo e la sua nazione, oppure, come altri capi di stato scomodi e disobbedienti prima di lui, cercheranno di spazzarlo via, di sacrificarlo sull'ara del vitello d'oro, di annientarlo politicamente, fisicamente, se necessita militarmente.
Ma noi vogliamo sempre credere che "l'uomo propone e Dio dispone".
Facciamo i migliori auguri a Viktor Orbán, affinchè non si faccia contagiare dal morbo di cui sopra, che altri capi di stato emergano tra le macerie di questa euromassoneria, con il coraggio e la determinazione necessarie ad imitare Orbán, per rompere l'assedio e dare l'esempio che un'alternativa al ricatto dei prestasoldi planetari esiste. Basta una scintilla.


di Filippo Fortunato Pilato

*

09 gennaio 2012

Lo Schema Ponzi Europeo


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parapà PONZI PONZI* pà! Allacciate le cinture di sicurezza cari amici di Rischio Calcolato, e abbiate la pazienza di seguire il filo logico di quanto segue, questa volta non sarò breve ma ne varrà la pena.

Questa è una di quelle faccende che quando le capisci, pensi tra te e te: Non è possibile che sia così, non può essere vero. E invece si è proprio vero!

Oggi andiamo in profondità nel mega schema Ponzi inventato da Mario Draghi (qualcuno direbbe eseguito da Mario Draghi..) per far tirare a campare ancora qualche mese la scassata baracca bancaria europea. (indovinate chi paga? scommetto che il sospetto vi viene ancora prima di leggere le conclusioni di questo articolo.).

Cominciamo dall’inizio:

A metà Dicembre, Mario Draghi annunciava che la BCE avrebbe effetuato un operazione di finanziamento straordinario in favore delle banche europee (leggete questo post per una trattazione dettagliata), in pratica la BCE, attraverso diverse aste si è messa a finanziare qualsiasi banca europea che si presenti ai suoi sportelli depositando a garanzia un “collaterale” ovvero crediti di bassa qualità allì1% di tasso per un periodo di 36 mesi.

Fino qui tutto bene? Andiamo avanti.

Come noto la prima asta si è svolta lo scorso 21 Dicembre 2011 e sono stati assegnati la bellezza di 486 miliardi di euro in nuovi finanziamenti, va detto che in realtà il nuovo debito creato ammonta a “solo” 211 miliardi in quanto contemporaneamente le banche hanno chiuso altri tipi di finanziamenti meno convenienti che intrattenevano con la BCE.

Facciamo ancora un passettino.

Il finanziamento straordinario della BCE, non si caratterizza solo per un tasso irrisorio, c’è anche la questione dei crediti di bassa qualità accettati come collaterale. Vedete, certi termini non vengono mai usati a caso, quando Draghi 20 giorni fa, parlava di abbassare il livello della qualità del credito accettato dalla BCE per concedere finanziamenti alle banche si riferiva ad una cosa ben precisa e specifica. E qui viene il bello (si fa per dire).

Prima di svelare l’arcano occorre fare un passo indietro.

Vi ricordate questo codicillo pro banche iscritto nella finanziaria del prof. Mario Monti:

Dal Decreto Legge del 6 Dicembre 2011 n. 201 prevede infatti all’articolo 8 comma primo:

Art. 8 – Misure per la stabilità del sistema creditizio

1. Ai sensi della Comunicazione della Commissione europea C(2011)8744 concernente l’applicazione delle norme in materia di aiuti di Stato alle misure di sostegno alle banche nel contesto della crisi finanziaria, il Ministro dell’economia e delle finanze, fino al 30 giugno 2012, è autorizzato a concedere la garanzia dello Stato sulle passività delle banche italiane, con scadenza da tre mesi fino a cinque anni o, a partire dal 1 gennaio 2012, a sette anni per le obbligazioni bancarie garantite di cui all’art. 7-bis della legge 30 aprile 1999, n. 130, e di emissione successiva alla data di entrata in vigore del presente decreto. Con decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze, si procede all’eventuale proroga del predetto termine in conformità alla normativa europea in materia. (FONTE)

Attenzione alle date, la norma entra in vigore dal 6 Dicembre 2011, una settimana prima che la BCE a “sorpresa” annunci l’LTRO (il finanziamento al’1% per 36 mesi).

Ok ci siamo? Andiamo avanti!

Da qui in poi ci aiuta un ottimo articolo apparso sul sito del sole 24 ore di Morya Longo datato 21 Dicembre:

Quando oggi la Banca centrale europea aprirà i rubinetti della liquidità, gli istituti di credito italiani potranno giocare jolly nuovi di zecca per «prelevare» denaro a Francoforte: le obbligazioni bancarie garantite dallo Stato previste dalla manovra del Governo Monti. Tutte le banche italiane sono già pronte a calare questo jolly, nella speranza di superare la pesante crisi di liquidità che le sta soffocando da mesi: già oggi, secondo le indiscrezioni raccolte dal «Sole 24 Ore», gli istituti italiani hanno a disposizione qualcosa come 50 miliardi di euro di questi nuovi titoli.

Li hanno già creati. Li hanno pronti all’uso. E li utilizzeranno già oggi per andare dalla Bce: questo significa che gli istituti italiani (dai big come Intesa e UniCredit, ai medi come Veneto Banca, Credito Valtellinese, Iccrea, Popolare di Vicenza e Popolare dell’Emilia) hanno la possibilità di prelevare da Francoforte 50 miliardi in più. E, in futuro, potranno arrivare a 228 miliardi di euro. Ecco la nuova ‘medicina’, artificiale, contro il credit crunch. ….

(……)

Effetti collaterali

Ma gli istituti potrebbero usare i soldi, prelevati dalla Bce anche grazie ai nuovi titoli, per farne altri usi. Non solo per rimborsare i propri titoli in scadenza, ma anche ‐ testimonia un banchiere ‐ «per ricomprare parte del proprio debito sul mercato a prezzi bassi». Ma le banche potrebbero anche fare altro (caldeggiate dalle stesse Autorità): utilizzare i finanziamenti della Bce (all’1%) per comprare BTp (che rendono il 6,5%). Questo avrebbe il merito di abbassare anche i rendimenti dei BTp e di dare un sollievo allo Stato. Ma avrebbe anche l’effetto collaterale di creare un corto circuito spaventoso: lo Stato mette la garanzia sui bond bancari, le banche li usano per finanziarsi in Bce e con i soldi comprano titoli dello stesso Stato. Non serve un genio per vedere, dietro questa «manna», una potenziale bomba.

Per una volta devo dare merito ad un media mainstream, dunque applausi a Morya Longo, ha centrato il punto.

Ma com’è andata in realtà?

da ASCA via Yahoo Finance:

(ASCA) – Roma, 21 dic – Sono 14 le banche italiane che hanno emesso bond con la garanzia dello Stato per un totale di 40,44 miliardi di euro e che da oggi sono in negoziazione. Nel dettaglio Intesa Sanpaolo (Dusseldorf: 575913.DU - notizie) ha emeso bond per 12 miliardi, Mps (BSE: MPSLTD.BO - notizie) 10 miliardi di euro, Unicredit (MDD: UCG.MDD - notizie) 7,5 miliardi, Banco Popolare (Francoforte: A0MWJR - notizie) 3 miliardi, Popolare Vicenza 1,5 miliardi, Carige per 1,3 miliardi, Dexia Crediop 1,05 miliardi, Popolare Sondrio 1 miliardo, Credem 800 milioni, Popolare Emilia Romagna 750 milioni, Iccrea banca Impresa 650, Credito Valtellinese 500 milioni, Iccrea Banca 290 milioni, Banca (Santiago: BANCA.SN - notizie) Etruria (Milano: PEL.MI - notizie) 100 milioni.

E ora l’ultimo tassello dello schema Ponzi (quello che non appare sul S24O): Siete pronti?

Sapete che cosa sono questi fantomatici bond emessi (anzi creati come dice la Longo) con garanzia dello stato? Bene, signore e signori sono dei giroconti! Vi siete chiesti come le banche siano riuscite a piazzare nel volgere di pochi giorni 40,44 miliardi di euro di cartaccia che non vuole più nessuno?

Semplice, questi benedetti bond garantiti dallo stato, se li sono sottoscritti sa soli!!!!!!!!!

Tanto per capirci le banche, hanno emesso bond a varie scadenze, e poi se li sono interamente sottoscritti da soli, dopodiche ci hanno fatto mettere il bollino blu della garanzia statale (costa circa un 1%) infine hanno presentato il tutto alla BCE come collaterale per ottenere nuovi finanziamenti.

Ole, Mr Ponzi! sei un bambino di fronte a questi geni!

Meritoriamente Zerohedge (link) ieri ha coperto questa storia (i russi non russano) e ci ha regalato la schermata di bloomberg che descrive un paio di questi Ponzi-Bond:

Intesa SanPaolo 3 month Bill

20120103_PT1_0

UniCredit 3 month Bill

20120103_PT2_020120103_PT4_0

Fantastico vero! E ora prepariamoci, perchè non finisce qui, a metà Gennaio 2012 la BCE farà una nuova asta per assegnare ancora un pochino di droga…oooops volevo dire, di debito all’1% alle banche che si presenteranno con nuovi Ponzi Bond da scontare alla cassa.

Siamo seduti su una Santa Barbara di debito e di moneta sempre più inflazionata.

parapà Ponzi Ponzi* pà!!

* (da Wikipedia) Charles Ponzi (Lugo, 3 marzo 1882 – Rio de Janeiro, 18 gennaio 1949) è stato un truffatore italiano. Immigrò negli Stati Uniti, dove divenne uno dei più grandi truffatori della storia americana.

Tra i molti nomi che adottò per mettere in atto le sue operazioni ci sono Charles Ponei, Charles P. Bianchi, Carl e Carlo. Il suo nome è legato all’espressione “schema di Ponzi” per indicare il meccanismo di truffa che adottò e che ancora oggi è in uso in numerose versioni moderne che fanno uso della posta elettronica…. (la catena di Sant’Antonio)

p.s. e se fallisce una di queste banche, indovinate a chi verranno a chiedere il conto della garanzia?

di Funny King

08 gennaio 2012

Viaggio in Argentina: la ripresa è possibile invertendo rotta

Argentina
Argentina: la ripresa economica è passata per la riappropriazione dello stato sociale e della sovranità monetaria

Riuscirà la cura Monti a risollevare la malridotta economia italiana? Ci salveremo dalla peggior crisi economica mai piombataci addosso oppure siamo solo agli inizi? E l'Europa ne uscirà più unita o più frammentata? L'euro reggerà il colpo? E le banche? E i cittadini? Migliaia di domande come queste affollano le menti degli italiani, le loro conversazioni a tavola e nei bar, i blog, i forum.

Una convinzione piuttosto diffusa è che la crisi economica sia qualcosa di incontrollabile, un processo che una volta iniziato, alla stregua di una fusione nucleare, è impossibile da fermare. Altra convinzione che si sente più volte ripetere, come un mantra, è che le misure della exit-strategy proposta da Monti sono “le uniche possibili”, che il rigore e l'austerità sono inevitabili. Queste convinzioni finiscono per legittimare le posizioni dei poteri dominanti e per farci abbandonare ogni battaglia in virtù di un bene e di una coesione nazionale superiori.

Idee del genere sono del tutto infondate. La crisi e le sue evoluzioni sono il risultato di precise politiche economiche decise a livello mondiale ed europeo. Basta dare uno sguardo ad altri paesi, seguire altri esempi, per accorgersi che politiche diverse conducono a risultati opposti; che è possibile uscire dalla crisi senza passare per misure economiche restrittive.

Diamo uno sguardo a quanto accaduto in Argentina. Dieci anni fa il paese era travolto e portato al fallimento da uno tsunami economico. Le cause della crisi affondavano le radici negli anni Novanta, quando per combattere un'inflazione galoppante, che aveva raggiunto la percentuale record del 5mila per cento nel 1989 (con tassi mensili del 200 per cento), il nuovo governo guidato da Carlos Menem decise di ancorare la valuta nazionale al dollaro.

Il cambio venne fissato dall'allora ministro dell'economia Domingo Cavallo nel rapporto di 1 ad 1: ogni dollaro Usa veniva scambiato per peso argentino; la banca centrale argentina era costretta a tenere nelle proprie casse riserve in dollari pari al valore della quantità di moneta in circolazione.

Il sistema riuscì in effetti nell'intento che si era preposto: l'inflazione della moneta si arrestò in fretta. Ma al tempo stesso il nuovo cambio fisso rendeva improvvisamente convenienti le importazioni, al punto che la produzione subì una brusca frenata; il paese andò incontro ad una vera e propria deindustrializzazione.

Nel frattempo il debito pubblico continuava ad aumentare. Un debito che, a detta del giornalista Denis Robert, autore del saggio Revelation$ (2001), era finanziato in modo illegale da alcuni grossi gruppi – fra cui Citibank – attraverso dei fondi nascosti. Questo sistema aveva fatto crescere il volume dell'economia sommersa argentina e alimentava la pratica dell'evasione fiscale e della fuga dei capitali all'estero.

Per pagare il debito il Fondo Monetario Internazionale – da sempre complice, per molti persino mandante nascosto, dei governi argentini fin dagli anni cinquanta – concedeva volentieri nuovi prestiti e dilazioni nei pagamenti dei vecchi, ma gli interessi erano sempre più elevati. E cosa faceva il governo per farvi fronte? Faceva quello che i dettami liberisti prevedono in questi casi: privatizzava.

Privatizzava, vendeva, svendeva, e con il flusso di denaro dall'estero ripagava prestiti e debito. Finché non ci fu più niente da vendere. E fu allora che, con la produzione e la crescita ferme, scoppiò la crisi più nera.

Nel 1999 il Pil diminuì del 4 per cento e il paese entrò in recessione. Gli investitori persero in fretta la propria fiducia e la fuga di capitali all'estero aumentò. Nel 2001, con la disoccupazione alle stelle, un debito enorme e l'economia in recessione iniziò una folle corsa agli sportelli: i cittadini presi dal panico iniziarono uno dopo l'altro a ritirare i propri risparmi per convertirli in altre valute.

Per arginare il fenomeno il governo decise di applicare una serie di misure, note come corralito che congelavano i conti bancari degli argentini e rendevano possibili solo piccoli prelievi. Questo ebbe come effetto principale di esasperare ancora di più i cittadini, che scesero in piazza per protesta.

Le manifestazioni che nascevano spontanee presero il nome di cacerolazos, dal rumore che i manifestanti ottenevano percuotendo pentole, tegami, padelle e casseruole con mestoli e cucchiai. Si trattava, almeno inizialmente, di proteste pacifiche, che però in molti casi sfociavano in atti dimostrativi anche violenti contro banche e multinazionali.

La polizia reagiva spesso con violenza. L'escalation culminò sul finire del 2001, quando il presidente Fernando de la Rúa dichiarò lo stato d'emergenza. Il 20 ed il 21 dicembre in Palza de Mayo – la piazza principale di Buenos Aires – gli scontri furono violentissimi. La polizia sparò sulla folla uccidendo circa quaranta persone. De la Rúa fu costretto a fuggire in elicottero per evitare il linciaggio.

Fu proprio allora, col paese scosso ed il presidente in fuga, che si iniziarono a porre le basi per una nuova Argentina. Partendo dalla prima decisione inevitabile: il default. Il nuovo governo ad interim dichiarò l'insolvenza su circa l'80 per cento del debito sovrano argentino, per un totale di 132 miliardi di dollari.

Subito dopo fu abolita anche la convertibilità a cambio fisso con il dollaro: il peso andò in contro ad una forte svalutazione. Inizialmente gli effetti furono devastanti: la percentuale dei cittadini al di sotto della soglia di povertà salì fino a sfiorare, nell'ottobre 2002, la quota del 60 per cento; circa il 30 per cento della popolazione era classificata in stato di povertà estrema, ovvero incapace di procurarsi il cibo.

I senzatetto divennero migliaia; in molti si dettero all'attività di cartoneros, ovvero raccoglitori di cartone, che cercavano frugando per strade e vicoli e poi rivendevano agli impianti di riciclaggio. Fu un passaggio doloroso ma inevitabile, ma è da lì che l'Argentina trovò la forza e prese la spinta per ripartire.

Alla guida del paese fu eletto Néstor Kirchner, un ex membro della gioventù peonista repressa nel sangue dalla dittatura militare del '76. Durante il suo governo, e quello successivo della moglie Cristina Fernández, l'Argentina mise in atto politiche economiche di stampo nettamente diverse da quelle degli ultimi cinquant'anni che, sotto l'egira dei poteri forti della finanza globale – l'Fmi su tutti -, avevano contribuito a smantellare lo stato sociale e generato la crisi.

Il peso debole favoriva una ripresa delle esportazioni e il governo non esitava a stampare moneta per finanziare la ripresa economica e riattivare i circuiti di previdenza sociale e distrutti da anni di neoliberismo. Molte funzioni e servizi furono ripubblicizzati, dall'acqua, all'elettricità, all'istruzione.

Inoltre l'alleanza con il Brasile di Lula assumeva un'importanza strategica fondamentale nell'opposizione agli Stati Uniti che guardavano all'America Latina come ad un terreno fertile per gli investimenti delle proprie multinazionali. Ftaa, acronimo di Free trade areas of America, si chiamava il progetto. Alca in spagnolo. Era finanziato dal governo Bush e mirava ad abbattere ogni barriera fra stati delle americhe, con l'evidente scopo di favorire i commerci Usa e fare dell'America latina una fabbrica a basso costo. Nel 2005, a Mar del Plata, l'alleanza Kirchner-Lula risultò fondamentale nel contrastare i progetti imperialisti statunitensi ed opporsi fermamente al progetto, facendolo di fatto morire sul nascere.

Nel 2006, un anno più tardi, con il paese che dal 2004 era tornato a crescere a tassi record del 7-10 per cento annui, l'Argentina finì di onorare il proprio prestito con l'Fmi e decise di non contrarne di nuovi.

Oggi l'Argentina è un paese sovrano, che cresce con tassi fra i più elevati al mondo e lo fa aumentando le garanzie sociali, i servizi statali, i diritti dei propri cittadini. Sono riconosciuti i matrimoni omosessuali, la libertà d'informazione è garantita attraverso apposite leggi che impediscono i monopoli, il rispetto dei diritti umani è ritenuto uno dei principi fondamentali della repubblica. Nell'ottobre 2011 Cristina Fernández è stata rieletta alla guida del paese con il 54 per cento dei voti.

Esiste il modo di uscire dalla crisi senza passare per l'austerità, per la stabilità, ma piuttosto attraverso uno stato forte, che stampa moneta per finanziare servizi e ripresa economica. Certo, non in questa Europa, in cui l'emissione di denaro è affidata ad un manipolo di banchieri, a cui interessano i tassi di cambio dell'euro con il dollaro, l'inflazione, non certo il benessere degli euro-cittadini. Non in un'Europa, insomma, basata su un'unione esclusivamente finanziaria, senza uno straccio di politiche sociali condivise.

di Andrea Degl'Innocenti

07 gennaio 2012

I segnali di implosione della bolla immobiliare cinese






È sempre più evidente che in Cina la bolla dovuta alla speculazione immobiliare sta per esplodere. L’esito destabilizzerà il sistema bancario del paese, rallenterà la crescita economica e avrà un forte impatto sull'economia di tutto il mondo che ha contato sulla Cina come volano della crescita dall’inizio della crisi finanziaria globale nel 2008.

Un articolo del mese scorso nella rivista Foreign Affairs Stati Uniti ha evidenziato che "le riduzioni dei prezzi forti e improvvise "stavano “sconvolgendo il mercato degli immobili in tutta la Cina". Ha citato I dati del settore che mostrano un calo del 35 per cento nel valore delle case nuove costruite a Pechino nel solo novembre, e che I costruttori hanno ormai in inventario invenduto per 22 mesi a Pechino e per 21 a Shangai.

Scritto da un accademico della prestigiosa università Tsinghua di Pechino, l'articolo riporta: "Tutti, dai proprietari locali posto agli speculatori cinesi e agli investitori internazionali, sono preoccupati per queste diminuzioni, che oramai indicano che la ‘più grande bolla del secolo’, come viene chiamata dall’inizio di quest’anno, è appena scoppiata, con serie conseguenze non solo per una delle economie più promettenti al mondo, ma anche per l’ambito internazionale."

Spinto dal settore edilizio, nel 2010 il paese ha prodotto 627 milioni di tonnellate di acciaio, il 44,3 per cento della produzione mondiale; 1,87 miliardi di tonnellate di cemento, il 60% del totale globale; il 43% dei macchinari per le costruzioni, gli escavatori e i bulldozer. La rapida espansione dell’edilizia speculativa ha fatto esplodere anche la spesa della classe media, con un forte aumento della richiesta di autovetture: nel 2010 la produzione cinese di auto è stata pari a 18,2 milioni di veicoli, un quarto della produzione mondiale.

Importanti aziende multinazionali, come quelle minerarie in Australia e in Brasile, e i produttori di attrezzature in Germania e Giappone, saranno le prime a subire colpi pesanti da un calo pronunciato del valore degli immobili in Cina. Anche la Cina potrebbe causare un altro shock, oltre recessioni già previste in Europa e in altre zone del pianeta.

L’attuale bolla immobiliare ha le sue radici nella crisi finanziaria mondiale del 2008-09. Il regime stalinista cinese ha dato in prestito trilioni di dollari nel disperato tentativo di arginare le rivolte sociali dopo che 23 milioni di migranti, soprattutto nelle industrie esportatrici, avevano perso il lavoro. Ma l’esito più importante è stato il moltiplicarsi dei prestiti concessi agli enti locali, ai costruttori e alle aziende industriali per speculare sul mercato immobiliare.

Guidato dalla rapida espansione del settore edilizio, gli investimenti di capitale attualmente formano quasi il 50% per PIL nazionale, Nei primi dieci mesi dell'anno scorso, sono stati edificati 3,6 miliardi di metri quadrati di superficie, con vendite pari solamente a 709 milioni di metri quadrati, indicando un’enorme superiorità dell’offerta sulla domanda.

Allo stessa tempo l’inaccessibilità della casa è diventata una questione di grande importanza politica in Cina. Prendendo in considerazione i prezzi all’inizio di quest’anno, a Pechino ci vogliono 36 anni di uno stipendio medio per comprarsi una casa normale, contro i 18 a Singapore, 12 a New York e 5 a Francoforte.

Inoltre, si stima che circa 65 milioni di case sono al momento “vacanti”, tenute vuote per cercare di spuntare un prezzo di vendita più alto in futuro. Questa irrazionalità sociale è espressa ancora più visivamente nelle città più piccole, come Ordos della Mongolia Interna dove gli investimenti immobiliari hanno registrato una crescita media del 69% negli ultimi quattro anni, quando la media nazionale è invece del 27,6 per cento. Grandi parti di Ordos sono diventate città fantasma, con gli speculatori che lasciano incompiuti o vuoti interi isolati.

Alla fine del 2010, Pechino ha cercato di sopire il pubblico scontento per l’incremento dei prezzi, imponendo restrizioni alla concessione di prestiti dal parte delle banche e ai proprietari di case. Queste misure hanno solo aggravato l'instabilità finanziaria, dato che molti operatori si sono rivolti ad altri per ottenere prestiti estremamente alti. La montante crisi economica si è sommata alla mancanza della ripresa nei maggiori mercati di esportazioni, gli Stati Uniti, il Giappone e l'Unione Europea.

Le aziende nel centro di smistamento dell’export di Wenzhou hanno contratto molti prestiti con caratteristiche infide che portano i tassi di interesse fino al 150 per cento. Le svendite nel settore immobiliare minacciarono di scatenare un effetto domino, facendo fuori un gran numero di piccole e media imprese. Più di 80 imprenditori cariche di debito hanno abbandonato la città, e lo scorso anno un produttore di scarpe si è suicidato.

Il crollo del mercato immobiliare è divenuto una nuova fonte di malcontento. La scorsa fine settimana, migliaia di piccoli investitori hanno manifestato nella stazione ferroviaria della città di Anyang, nel tentativo di far arrivare le proprie lamentele alla dirigenza di Pechino. Hanno perso i propri risparmi in strutture di investimento stile Ponzi, basate anche sull’immobiliare, che poi sono fallite. Fin da ottobre, gli operatori di molti di questi schemi sono fuggiti dopo che le loro strutture - fondate sull'imbroglio degli investitori, invogliati dagli altri ritorni – sono andate perdute.

I dati pubblicati la settimana scorsa dalla Bank of China sul primo trimestre segnala l’enorme mole dei debiti contratti dagli enti locali per finanziare progetti immobiliari e infrastrutturali in un pacchetto di stimoli che risale al 2008: "Le dimensioni reali del debito sono probabilmente maggiori [rispetto alla stima ufficiale di 1,69 trilioni di dollari] e gran parte di questo debito è a breve scadenza.” La crisi nella vendita dei terreni, che formavano più del 40% delle entrate degli enti locali, ha fatto grandi danni. Da gennaio a novembre dell'anno scorso, sono stati venduti 24.000 lotti di terreno per un totale di 1,18 trilioni di yuan, con un calo di valore pari al 30,5 per cento rispetto allo stesso periodo del 2010.

Per compensare la flessione del mercato immobiliare, Pechino sta poggiando le proprie speranze sulla costruzione di 36 milioni di appartamenti sovvenzionati per il 2015. Questa strategia da "due piccioni con una fava" cerca di offrire edilizia economica per i lavoratori a basso reddito, cercando di mantenere la crescita guidata dagli investimenti. Ma i sondaggi dimostrano che la maggior parte dei costruttori non ha alcun incentivo a costruire immobili che caleranno di prezzo. Si sospetta che i governi municipali abbiano gonfiati i dati di questi progetti, considerando i buchi di prospezione con l’"inizio" della costruzione. I prestiti bancari per questi progetti, specialmente se destinati agli affitti, potrebbero diventare un’altra fonte di cattivo debito nei prossimi anni, a causa dei bassi rendimenti degli affitti stessi.

La Bank of China ha previsto per quest’anno una crescita economica dell’8,8%, dopo il 9,3% del 2011. Comunque, Andy Xie, un importante economista cinese, ha affermato la settimana scorsa che, viste le enormi distorsioni enormi create dalla bolla immobiliare, ci potrebbe essere una "correzione" che durerebbe fino al 2014 e che potrebbe dimezzare la percentuale di crescita, portandola a solo il 4-5 per cento. "Se pensate che il 2008 sia stato pessimo,”, ha scritto Xie, "allora allacciatevi le cinture di sicurezza per il 2012."

Una crescita drammaticamente lenta, per non menzionare l’irrisolta crisi finanziaria, porterà inevitabilmente a un aumento della disoccupazione, causando fermenti sociali in Cina che avranno immense implicazioni sul capitalismo globale.

di Juan Chan

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Fonte: Signs that China’s property bubble is imploding


05 gennaio 2012

Perché agli USA serve una grande guerra?




Perché agli USA serve una grande guerra

Attualmente ci troviamo nel mezzo d’una fase di turbolenza del ciclo evolutivo mondiale, cominciata negli anni ’80 e destinata a terminare per la metà del XXI secolo. Nel corso di tale processo, gli USA stanno evidentemente perdendo il loro status di superpotenza…

Stime fornite dagli esperti dell’Accademia Russa delle Scienze mostrano che l’attuale periodo di forte instabilità dovrebbe terminare attorno al 2017-2019, con una crisi. La crisi non sarà profonda quanto quelle del 2008-2009 e del 2011-2012, e segnerà la transizione verso un’economia edificata su una nuova base tecnologica. Il rinnovamento economico probabilmente comporterà, nel 2016-2020, grossi mutamenti nell’equilibrio mondiale di potenza e grandi conflitti politico-militari che coinvolgeranno sia i pesi massimi dell’agone globale, sia i paesi in via di sviluppo. Presumibilmente, gli epicentri dei conflitti saranno nel Medio Oriente e nell’Asia Centrale post-sovietica.
Il secolo del dominio politico-militare e della supremazia economica globale degli USA è prossimo alla fine. Gli USA hanno fallito la prova dell’unipolarità e, feriti dai permanenti conflitti mediorientali, mancano oggi delle risorse necessarie a mantenere la guida mondiale.
La multipolarità implica una distribuzione più equa delle risorse mondiali ed una profonda trasformazione d’istituzioni internazionali come l’ONU, il FMI, la Banca Mondiale ecc. Al momento il Washington Consensus pare morto e sepolto, e l’agenda globale dovrebbe avere al primo posto la costruzione di un’economia con molti meno livelli d’incertezza, più rigidi regolamenti finanziari, ed una maggiore equità nell’allocazione dei ritorni e profitti economici.

I centri dello sviluppo economico stanno slittando dall’Occidente, che vanta la rivoluzione industriale tra i suoi grandi meriti, all’Asia. Cina e India dovrebbero prepararsi ad una corsa economica senza precedenti, con sullo sfondo una più ampia competizione tra le economie, che sfruttano i modelli del capitalismo di Stato e della democrazia tradizionale. Cina e India, i due paesi più popolosi al mondo, definiranno le direzioni ed il ritmo dello sviluppo futuro, ma la grande battaglia per la supremazia mondiale sarà combattuta tra USA e Cina: in palio c’è anche la scelta del sistema politico e del modello socie-economico post-industriale per il XXI secolo.
La domanda che sorge è: come reagiranno a questa transizione gli USA?

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Va tenuto conto che qualsiasi strategia statunitense parte dall’assunto che sia inaccettabile perdere la supremazia mondiale. Il collegamento tra leadership mondiale e prosperità nel XXI secolo è un assioma per le élites statunitensi, indipendente da tutti i dettagli politici.

Modelli matematici delle dinamiche geopolitiche globali portano a concludere che l’unica opzione a disposizione degli USA per arrestare il rapido disfacersi del suo status geopolitico impareggiato, sia quella di vincere un conflitto convenzionale su larga scala.

Non è un segreto che occasionalmente hanno funzionato (si pensi al collasso dell’URSS) anche metodi non militari di sbarazzarsi dei rivali, e le corrispondenti tecnologie sono costantemente affinate negli USA. D’altro canto, ad oggi paesi come la Cina o l’Iran sono apparsi evidentemente immuni alla manipolazione esterna. Se le attuali dinamiche geopolitiche dovessero persistere, ci si può attendere il cambiamento di leadership mondiale per il 2025, ed il solo modo per gli USA di arrestare questo processo è scatenare una grande guerra…

Il paese che stia per perdere la supremazia non ha altra opzione che colpire per primo, ed è ciò che Washington sta facendo da circa 15 anni. La peculiare tattica degli USA è di scegliere come bersagli non i candidati alternativi alla supremazia geopolitica, ma paesi che appaiono più facili da affrontare al momento. Attaccando Jugoslavia, Afghanistan o Iraq, gli USA hanno cercato di gestire problemi puramente economici, o regionali; ma una questione più grande richiederà senz’altro un bersaglio assai più significativo. Gli analisti militari ritengono che i candidati più a rischio d’essere presi a bersaglio nel nome d’una nuova redistribuzione globale siano l’Iran più la Siria ed i gruppi sciiti quali il libanese Hezbollah.

La redistribuzione è, di fatto, in corso. La Primavera Araba, tramata e gestita da Washington, ha creato le condizioni appropriate ad una fusione del mondo musulmano in un singolo califfato. Gli USA ritengono che questa nuova formazione aiuterà la vacillante superpotenza a mantenere la propria presa sulle risorse energetiche chiave a livello mondiale, e a salvaguardare i suoi interessi rispetto all’Asia e all’Africa. Senza dubbio, la sfida che ha indotto gli USA ad architettare questo nuovo tipo di sistemazione è il crescente potere della Cina.

Liberarsi di Iran e Siria, che si frappongono sulla strada del dominio globale statunitense, sarebbe il prossimo passo naturale per Washington. I tentativi di rovesciare il regime iraniano fomentando disordini tra la popolazione sono falliti clamorosamente, ed analisti militari sospettano che all’Iran spetti uno scenario analogo a quelli visti in Iraq e Afghanistan. Il piano ha serie possibilità di realizzarsi, anche se oggi persino il ritiro da Iraq e Afghanistan pone considerevoli problemi agli USA.

La realizzazione del progetto del Grande Medio Oriente – assieme a notevoli danni alla posizione di Russia e Cina – sarebbe l’obiettivo centrale che gli USA sperano di conseguire combattendo una grande guerra… Il disegno è divenuto ampiamente noto negli USA dopo la pubblicazione sul Armed Forces Journal della celebre mappa di Peters. La motivazione di fondo sta nell’espellere Russia e Cina dal Mediterraneo e dal Medio Oriente, nel tagliar fuori la Russia dal Caucaso Meridionale e dall’Asia Centrale, e nel disconnettere la Cina dai suoi fornitori d’energia più importanti.

Il materializzarsi del Grande Medio Oriente rovinerebbe le prospettive russe di costante e pacifico sviluppo; infatti l’instabile Caucaso del Sud, controllato dagli USA, trasmetterebbe ondate destabilizzanti nel Caucaso del Nord. Dal momento che la destabilizzazione sarebbe condotta da forze fondamentaliste islamiche, tutte le regioni russe a prevalenza musulmana sarebbero coinvolte.

Gli USA non sono più in grado di sostenere il Washington Consensus facendo affidamento su strumenti politici ed economici. Il cinese Jemin Jibao ha dipinto un quadro di strabiliante chiarezza, quando ha scritto che gli USA sono diventati un parassita mondiale che stampa illimitate quantità di dollari e le esporta per pagare le sue importazioni, e dunque sostiene gli eccessivi livelli di vita nordamericani derubando il resto del mondo. Il primo ministro russo ha espresso una visione simile durante il suo viaggio in Cina, il 17 novembre 2011.

Attualmente la Cina sta lavorando alacremente per limitare la sfera di circolazione del dollaro. La quota di valuta statunitense nelle riserve cinesi sta precipitando, e nell’aprile 2011 la Banca Centrale cinese ha annunciato il progetto di escludere totalmente il dollaro nelle compensazioni internazionali. Il colpo inferto al dominio valutario statunitense non è ovviamente destinato a rimanere senza risposta. Anche l’Iran sta cercando di ridurre la quota del dollaro nelle sue transazioni: nel luglio 2011 ha aperto una borsa petrolifera iraniana, dove sono accettati solo l’euro e la moneta persiana. Iran e Cina stanno negoziando di barattare prodotti cinesi col petrolio iraniano, rendendo così possibile, tra le altre cose, scavalcare le sanzioni imposte all’Iran. Il dirigente iraniano ha affermato che il volume degli scambi con la Cina dovrà raggiungere i 100 miliardi di dollari, e ciò renderebbe inefficaci i piani statunitensi per isolare l’Iran.
Gli sforzi statunitensi per destabilizzare il Medio Oriente potrebbero attribuirsi in parte al calcolo che la ricostruzione della regione, se devastata, richiederebbe massicce iniezioni di dollari, favorendo così la rivitalizzazione dell’economia statunitense. Nel 2011 la strategia statunitense mirante a preservare il dominio globale ha cominciato a tradursi in politiche basate sulla forza, dal momento che Washington vede nel deprezzamento dei possedimenti in dollari una possibile soluzione alla crisi. Una grande guerra potrebbe servire allo scopo. Il vincitore sarebbe in grado d’imporre al mondo le sue condizioni, come avvenne nel 1944 con la creazione del sistema di Bretton-Woods. Per Washington, guidare il mondo può valere una grande guerra.
Può l’Iran, fornitagli la necessaria assistenza, mettere fine all’espansione universale statunitense? La questione sarà trattata nel prossimo articolo.

di Viktor Burbaki

(Traduzione di Daniele Scalea)

Fonte: Strategic Culture Foundation

04 gennaio 2012

Argentina, la rinascita in dieci anni




Il tempo vola. Sono passati ormai più di dieci anni da quando l’Argentina, per usare le grate parole di Fidel Castro, precipitò il modello economico neoliberista nelle più remote profondità del prospicente Oceano Atlantico. In due giorni, fra il 19 ed il 20 dicembre 2001, l’allora presidente Fernando De La Rua, “liberalsocialista” eletto due anni prima nelle fila dello storico Partito Radicale, se la dovette svignare dal tetto della Casa Rosada a bordo di un elicottero, dopo aver ordinato un’inutile repressione a suon di mitragliate contro la folla in piazza, con un bilancio di oltre quaranta vittime ed i cui effetti furono soprattutto quelli di gettare ulteriore benzina sul fuoco. Proprio come le sollevazioni di Caracas del 1992 contro le austerità indette dal presidente Carlos Andrés Pérez (Caracazo), di Piazza delle Tre Culture a Tlatelolco in Messico nel ’68 o di Bogotà alla fine degli Anni Quaranta (Bogotazo): tutti episodi che insanguinarono la storia latinoamericana della seconda metà del Novecento con migliaia di vittime.
A causare l’insurrezione di Buenos Aires erano stati i “consigli” del FMI, culminati in una vera e propria serrata (“corralito”) dei conti correnti e dei bancomat: cosa che impedì non solo al proletariato ed al sottoproletariato ma anche al fino ad allora benestante ceto medio urbano di mantenersi da vivere, provvedendo al pagamento delle più elementari spese quotidiane. Era l’epilogo di una storia cominciata quasi cinquant’anni prima, col golpe del 1955 che aveva destituito Peròn consegnando il paese all’arbitrio ed al saccheggio da parte del FMI e del grande capitale nordamericano, in combutta con una classe politica locale neoliberale e pronamente filostatunitense. In una drammatica, caotica e “mimetica” alternanza fra tre dittature militari (di cui l’ultima, la più fatale, quella del cosiddetto “Processo di Riorganizzazione Nazionale”, dal 1976 al 1983), che provocarono oltre 30.000 desaparecidos, e governi “democratici” (ma oltremodo complici, disponibili e tolleranti sia verso le altre dittature militari e reazionarie del Continente sia verso i gruppi fascisti, terroristi e paramilitari attivi nel paese, per non parlare poi dell’impunità concessa ai militari dalle mani lordate di sangue), l’Argentina cambiò completamente volto. Se sotto Peròn era una delle prime dieci economie al mondo, con una crescita robusta, piena occupazione ed enormi riserve valutarie, 46 anni più tardi l’Argentina era invece il paese dei record negativi con il 71% di bambini sottonutriti nelle province più povere, il tasso di disoccupazione al 42% ed il debito pubblico procapite più alto al mondo. A causa della parità fra peso e dollaro le attività manifatturiere erano state spazzate via dalla concorrenza dei prodotti nordamericani, mentre le massicce privatizzazioni avevano liquidato un immenso patrimonio pubblico (scandaloso, per esempio, fu il caso dell’industria petrolifera di Stato, letteralmente regalata e frammentata fra sciacalli stranieri: si veda il bellissimo documentario “Diario del saccheggio” di Fernando Solanas, del 2003). Sempre sotto il camaleontico Menem la televisione commerciale e spazzatura aveva assunto il monopolio nella vita culturale, ergendosi a formidabile arma di distrazione di massa con cui distrarre e disinteressare la popolazione dal costante peculato e dalla crescente corruzione portati avanti dall’intera classe politica. Alle classi più povere si vendevano i sogni ed i miraggi di un’irraggiungibile società dei consumi e della ricchezza, un vero e proprio stordimento culturale, mentre nelle classi medie si fomentavano le solite paure del “socialismo” così funzionali ad avvincerle e convincerle a votare perennemente le destre e le sinistre liberali e liberiste serve del FMI e del consenso di Washington. In questo modo uno dei paesi più progrediti dell’America Latina e del mondo, non solo tecnicamente ed economicamente ma anche culturalmente, era stato completamente razziato, deturpato e dilapidato.
La caduta di De La Rua e del suo superministro dell’economia Domingo Cavallo (presidente del Banco Centrale sotto la dittatura dal 1976 al 1983) consegnò dunque il paese ad una fase rivoluzionaria, che non tardò ad essere guidata da quei giovani della sinistra peronista verso cui le squadriglie neofasciste della AAA (Alianza Anticomunista Argentina) ed il Processo di Riorganizzazione Nazionale negli anni Settanta avevano dedicato molto del loro zelo omicida. Tra questi emersero rapidamente Nestor Kirchner e successivamente sua moglie Christina Fernandez, che attraverso una cauta ma ferma politica redistributiva ridussero i livelli di povertà sociale di tre quarti rispetto agli anni Novanta. Il 2 gennaio 2002 l’Argentina aveva dichiarato il default sulle sue obbligazioni internazionali, ammettendo ovvero la propria impossibilità nel far fronte a tutti gli impegni economici contratti presso gli altri Stati. Per mesi il paese si ritrovò economicamente bloccato, ma a partire dal 2003 riprese a crescere con ritmi pari al 7%, presto elevati al 10% (la più forte crescita economica al mondo dopo quella cinese).
La riscossa e la rinascita dell’Argentina (parlare solo di “ripresa” sarebbe oggettivamente riduttivo) sono indubbiamente frutto di una serie di circostanze difficilmente ripetibili, almeno in termini geopolitici e congiunturali. Pensiamo ad esempio al fortissimo aumento del costo delle materie prime, che ha permesso al paese di rilanciare il settore agricolo in tempi molto rapidi, facendone una delle principali locomotive della propria economia. Ma vi sono anche altri fattori, come l’affacciarsi della Cina quale nuovo partner di riferimento strategico in sostituzione degli Stati Uniti e la partecipazione insieme al Brasile di Lula e al Venezuela di Chavez al processo d’integrazione latinoamericana. La chiave di volta, da questo punto di vista, è stata sicuramente l’incontro di Mar del Plata del 2005, che ha visto l’asse Argentina-Brasile rifiutare sdegnosamente il Trattato di Libero Commercio fra Stati Uniti e paesi latinoamericani (ALCA). Con questo progetto, caldamente sostenuto dall’amministrazione Bush, gli Stati Uniti puntavano a trasformare l’intera America Latina nella loro manifattura a basso costo (esattamente come già avviene col Messico attraverso il NAFTA), l’ideale per arginare la competitività cinese con un secolo di nuove ingiustizie per tutti i cittadini sud e centro americani. L’anno dopo, col sostegno politico ed economico venezuelano, insieme al Brasile l’Argentina chiuse definitivamente i propri conti col FMI con la storica frase “non abbiamo più bisogno dei vostri consigli interessati”. La crescente cooperazione con i nuovi governi progressisti latinoamericani (Bolivia, Nicaragua, Paraguay, Ecuador e via dicendo) e la reazione ferma contro i golpe in Honduras ed Ecuador (quest’ultimo fortunatamente fallito) hanno infine ulteriormente cementato il processo d’integrazione del Continente, restituendo all’Argentina quella statura internazionale persa ormai da decenni.
Lo Stato, smembrato, spogliato e privatizzato negli anni delle dittature e di Menem, ha recuperato il proprio ruolo nella società e soprattutto le sue responsabilità dinanzi ai cittadini. L’acqua, le poste, le linee aeree e i servizi scolastici e sociosanitari sono stati rinazionalizzati, mentre hanno visto la luce nuovi progetti in campo sociale e culturale finalzzati ad elevare il livello di vita della popolazione, anche in sinergia con gli altri paesi latinoamericani. Importanti, inoltre, i provvedimenti assunti a tutela dell’ambiente, della parità di genere e delle diversità, cosa quanto mai importante in uno dei paesi probabilmente più eterogenei e sfaccettati (culturalmente, religiosamente e socialmente) del mondo.
Il “rinascimento” argentino è passato anche attraverso una rivalorizzazione della cultura, tanto necessaria quanto irrinunciabile visto il degrado a cui i media erano giunti sotto Menem: le trasmissioni commerciali, un tempo il 100% dell’offerta “culturale” televisiva di tutto il paese, sono state ridotte ad un terzo. Per due terzi i media debbono occuparsi, com’è giusto che sia, d’argomenti sociali e culturali. Anche l’istruzione pubblica ha ricevuto un forte impulso, con gli stanziamenti più che triplicati (dal 2% al 6,5% del PIL: altro che Maria Stella Gelmini o Francesco Profumo!). Tutto ciò ha determinato un forte miglioramento del grado di senso civico, d’alfabetizzazione e di responsabilità politica e culturale di tutta la popolazione.
Questa è dunque l’Argentina di oggi: un paese che, ad onta delle tante perplessità dei media e degli intellettuali nostrani (disinformati ed in malafede, marci e malati fin nel midollo di quella cultura razzista che è l’eurocentrismo), ha saputo rialzare la testa. Un anno fa, dopo l’improvvisa morte di Nestor Kircher a seguito di un infarto, in tanti in Europa e Nord America predissero, probabilmente augurandoselo, un precoce ed incontrollabile crollo del “sogno neoperonista”. Sognavano il cedimento del mattone argentino augurandosi il crollo di tutto l’edificio latinoamericano, quindi brasiliano, boliviano, venezuelano, ecuadoriano e cubano; ed intanto, paghi della loro ignoranza che non li stimolava ad aggiornarsi e a guardare al di là delle loro strette barricate eurocentriche, continuavano a sguzzare nel cliché dell’Argentina da sfottersi in quanto stracciona. Sono rimasti, questi media, politici ed intellettuali “de noantri”, con un palmo di naso. L’Argentina ha continuato a crescere, in barba alle recrudescenze della crisi finanziaria globale che ha invece continuato a tormentare soprattutto quell’Occidente settentrionale da cui aveva avuto origine, e la “presidenta” Christina Fernandez da Kirchner è riuscita non soltanto a completare il suo mandato ma lo scorso 23 ottobre 2011 è stata persino rieletta dai suoi concittadini col 54% dei voti. Chissà se Obama, Cameron o Sarkozy potranno mai vantare una tale popolarità al prossimo giro…

di Filippo Bovo

03 gennaio 2012

Perchè gli stati devono pagare 600 volte più delle banche?






Sono cifre incredibili. Si sapeva già che, alla fine del 2008, George Bush e Henry Paulson avevano messo sul tavolo 700 miliardi di dollari (540 miliardi di Euro) per salvare le banche americane. Una somma colossale. Ma un giudice americano ha recentemente dato ragione ai giornalisti di Bloomberg che domandavano alla loro banca centrale di essere trasparente sull'aiuto che essa stessa aveva dato al sistema bancario.

Dopo aver spulciato 20.000 pagine di documenti diversi, Bloomberg mostra che la Federal Reserve (FED) ha segretamente prestato alle banche in difficoltà la somma di 1.200 miliardi al tasso incredibilmente basso dello 0,01 %.

Nello stesso momento, in molti paesi i popoli subiscono piani di austerità imposti da governi a cui i mercati finanziari non accettano di prestare miliardi a tassi di interesse inferiori al 6,7 o al 9%! Asfissiati da tali tassi di interesse, i governi sono “obbligati” a bloccare pensioni, sussidi familiari o salari dei dipendenti pubblici e di tagliare gli investimenti, e ciò fa aumentare la disoccupazione e presto ci farà sprofondare in una recessione molto grave.

É normale che in caso di crisi, le banche private, che si finanziano abitualmente all'1 % presso le banche centrali, possano beneficiare di tassi allo 0,01 % mentre certi Stati sono al contrario obbligati a pagare tassi 600 o 800 volte più elevati? “Essere governati dal denaro organizzato è tanto pericoloso quanto esserlo dal crimine organizzato”, affermava Roosevelt. Aveva ragione. Noi stiamo vivendo una crisi del capitalismo non regolamentato che può rivelarsi un suicidio per la nostra civilizzazione. Come affermano lo scrittore Edgar Morin e Stéphane Hessel in Le Chemin de l'ésperance (Fayard, 2011) [“I sentieri della speranza”, N.d.t.], le nostre società devono scegliere : la metamorfosi o la morte?

Aspetteremo che sia troppo tardi per aprire gli occhi? Aspetteremo che sia troppo tardi per capire la gravità della crisi e scegliere insieme la metamorfosi prima dello sfascio delle nostre società? Non abbiamo la possibilità qui di sviluppare le dieci o quindici riforme concrete che renderanno possibile questa metamorfosi. Vogliamo solamente dimostrare che è possibile dar torto a Paul Krugman quando spiega che l'Europa sta entrando in una “spirale negativa”. Come dare ossigeno alle nostre finanze pubbliche? Come agire senza modificare i trattati, il che richiederà mesi di lavoro e diverrà impossibile, se l'Europa è sempre più detestata dai suoi cittadini?

Angela Merkel ha ragione nel dire che niente deve incoraggiare i governi a continuare la fuga in avanti. Ma l'essenziale delle somme che i nostri Stati prendono in prestito sui mercati finanziari riguarda vecchi debiti. Nel 2012 la Francia deve prender in prestito 400 miliardi: 100 miliardi che corrispondono al deficit del bilancio (che sarebbe quasi nullo se si annullerebbero i ribassi d'imposta concessi negli ultimi dieci anni) e 300 miliardi che corrispondono a vecchi debiti, che arrivano a scadenza e che siamo incapaci di rimborsare se non ci reindebitiamo per le stesse cifre qualche ora prima di rimborsarli.

Far pagare tassi d'interesse colossali per debiti accumulati cinque o dieci anni fa non aiuta a responsabilizzare i governi ma ad asfissiare le nostre economie facendo guadagnare le banche private; con il pretesto che ci sia un rischio, prestano a tassi molto elevati sapendo che non c'è alcun rischio reale, perché il Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria (ESFS) [“Fondo salva stati”, N.d.t.] garantirà la solvibilità degli Stati debitori.

Bisogna finirla con questa concezione del due pesi due misure: ispirandoci a quello che ha fatto la banca centrale americana per salvare il sistema finanziario, proponiamo che “il vecchio debito” dei nostri Stati possa essere rifinanziato a tassi vicini allo 0%.

Non c'è bisogno di modificare i trattati europei per metter in atto questa idea: certo, la Banca centrale europea (BCE) non è autorizzata a prestare agli Stati membri, ma può prestare senza limite agli organismi pubblici di credito (articolo 21.3 dello statuto del sistema europeo delle banche centrali) e alle organizzazioni internazionali (articolo 23 dello stesso statuto). Essa può dunque prestare allo 0,01 % alla Banca Europea degli Investimenti (BEI) o alla Cassa dei depositi ed esse, a loro volta, possono prestare allo 0,02 % agli Stati che si indebitano per rimborsare i loro vecchi debiti.

Niente impedisce di attuare tali finanziamenti fin da gennaio! Non lo si dice abbastanza: il bilancio dell'Italia presenta un'eccedenza primaria. Esso sarebbe dunque in equilibrio se l'Italia non dovesse pagare dei costi finanziari sempre più elevati. Bisogna lasciare che l'Italia affondi nella recessione e nella crisi politica o bisogna accettare di porre fine alle rendite bancarie private? La risposta dovrebbe essere evidente per chi agisce in favore del bene comune.

Il ruolo che i trattati attribuiscono alla BCE è di quello di vegliare sulla stabilità dei prezzi. Come può non reagire quando alcuni paesi vedono i rendimenti dei loro buoni del Tesoro raddoppiare o triplicare in qualche mese? La BCE deve anche controllare la stabilità delle nostre economie. Come può non agire quando il prezzo del debito minaccia di farci cadere in un recessione che, secondo il governatore della Banca d'Inghilterra, sarebbe “più grave di quella del 1930”?

Se ci si attiene ai trattati, niente impedisce alla BCE d'agire con forza per far abbassare il costo del debito. Non solo non ci sono ostacoli che le impediscano di agire, ma anzi, ogni elemento la spinge in questa direzione. Se la BCE fosse fedele ai trattati dovrebbe far di tutto per diminuire il costo del debito pubblico. É parere comune che l'inflazione sia la cosa più inquietante.

Nel 1989, dopo la caduta del Muro di Berlino, è bastato un mese a Helmut Kohl, a François Mitterand e agli altri capi di Stato Europei per decidere di creare la moneta unica. Dopo quattro anni di crisi, cosa aspettano ancora i nostri dirigenti per dare ossigeno alle nostre finanze pubbliche? Il meccanismo che proponiamo potrebbe applicarsi immediatamente, sia per diminuire il costo del vecchio debito che per finanziare gli investimenti fondamentali per il nostro avvenire, come ad esempio un piano europeo di risparmio energetico.

Quelli che richiedono la negoziazione di un nuovo trattato europeo hanno ragione: con i paesi che la vogliono bisogna costruire una Europa politica capace d'agire sulla globalizzazione: un'Europa veramente democratica come già la proponeva Wolfgang Schäuble e Karl Lamers nel 1994 o Joschka Fischer nel 2000. Occorre un trattato di convergenza sociale e una vera governance economica.

Tutto ciò è indispensabile. Ma nessun nuovo trattato potrà esser adottato se il nostro continente sprofonda in una “spirale negativa” e i cittadini iniziano a detestare tutto quello che viene deciso a Bruxelles. È urgente inviare ai cittadini un segnale molto chiaro : l'Europa non è nelle mani delle lobby finanziarie.

È al servizio dei suoi cittadini.

di Michel Rocard e Pierre Larrouturou

E venga il caos





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Ha detto Monti che i conti torneranno. Invece, tutta l’aristocrazia del denaro e i baroni della crapula a spese dello Stato non sono mai andati via, non si sono mai staccati dai propri privilegi mentre l’Italia veniva infilzata dallo spread e dai mercati. I nobili ed i notabili decadenti ed improduttivi, per non decadere del tutto, si sono messi a disposizione dei principi stranieri offrendo l’appoggio di un governo collaborazionista che toglie a chi lavora per dare al parassita ed al liquidatore di beni strategici. Gli sciamani della salvezza nazionale per rimediare ai nostri malanni economici sono arrivati ad invocare ed ottenere l’ascesa al potere degli déi minori della finanza ristretta e della piccola accademia locale nella convinzione di poter placare, per affinità parentale, l’ira delle divinità mondiali onnipossenti che già ci colpivano con le loro saette geopolitiche. Il risultato è che ora arrivano fulmini da tutte le parti. I dioscuri Napolitano e Monti sono i principali responsabili di questa punizione apocalittica. Stanno realizzando un sacco contro la patria, con scasso della sovranità nazionale, celando la loro manovra con i rituali della responsabilità e con le astruse formule tecniche che anziché segnalare la loro competenza indicano soltanto la loro arroganza. Il Paese non è più in grado di decidere per se stesso, riceve ordini dall’estero via telefono (ma soprattutto telepaticamente) e rinuncia alla sua indipendenza per potersi affiancare al tavolo dei prepotenti in posizione defilata e riversa. Prega in ginocchio per non essere ulteriormente percosso ma la posizione assunta non ispira nessuna pietà negli aguzzini. Questa condizione di minorità internazionale non ci porterà da nessuna parte perché dell’Europa, senza coraggio e coscienza, concepita dagli Usa come un cuscinetto, noi siamo diventati il misero lettino. A brandelli sulla branda in cui siamo stati legati ogni giorno gli avvoltoi vengono a mangiarci il fegato e la speranza. E’ vero quanto dicono molti analisti e cioè che questa crisi non può essere risolta esclusivamente dall’interno in quanto la sua natura è sovranazionale. Anzi, più ci diamo dentro con sacrifici ed immolazioni sull’altare della borsa più bruciamo le nostre possibilità di ripresa. Tuttavia, il fulcro del problema non è monetario, non dipende dalla debolezza dell’euro, dall’assenza di una linea fiscale unitaria, dal ruolo della BCE ecc. ecc. Semmai questi sono gli effetti infausti di una inesistente integrazione comunitaria che copre il vuoto politico intorno a cui il Continente ha costruito il suo tempio comune. Le catene che ci tengono stretti a Bruxelles sono dunque immaginarie, non esistono anche se tintinnano, eppure non riusciamo a muoverci ed a spezzare l’incantesimo. Più dei catenacci europei sono le nostre gambe inferme e pesanti ad impedirci di scattare fuori da questo incubo chiamato Ue, mentre i nostri “partners” cercano di coprirsi dalle raffiche sistemiche conciando la nostra pelle. L’unica forza politica che non si è accodata alla processione dei partiti col capo cosparso di cenere, al corteo dei finti cordoglianti che funeralizzano il futuro del popolo italiano è la Lega. Forse più per calcoli elettorali che per sincero sentimento sociale. Ad ogni modo le sole “bestemmie” contro i semidei del semistato che hanno semi-distrutto la Costituzione innalzandola più in alto per affossarla meglio sono uscite dalle bocche dei torvi federalisti. Calderoli ha praticamente chiesto l’impeachment di Napolitano anche se per la strada arzigogolata di una Commissione d’inchiesta parlamentare. E sono stati altri colleghi dell’ex ministro, verdi non più come leghisti ma ormai solo come marziani rispetto ai mutanti istituzionali lobotomizzati dalla tecnica, a sollevare più volte il conflitto d’interessi e ad attirare l’attenzione sugli addentellati di Monti con massonerie e poteri marci mondiali. Se il movimento di Bossi non si fosse fatto corrompere così a lungo dall’aria pestilenziale romana ci sarebbe da augurarsi che le minacce separatiste riuscissero finalmente ad incanalarsi in un seguito di piazza e di tumulto. Chissà che non sia proprio lo spauracchio più temuto degli ultimi decenni, quello della secessione, a diventare la scintilla di un sommovimento col quale innescare tendenze di malcontento e di rivolta in tutta la Penisola, da nord a sud. Fino al disordine generale. Dopo il casino berlusconiano e il casinò montiano col banco che perde sempre chiediamo il caos ingovernabile anche per il protettorato che ora sta giocando di sponda con le potenze estere per assicurarci una lenta e dolorosa agonia. Il crollo totale sta diventando un auspicio, proprio come nei primi anni del secolo scorso allorché, da Salvemini a Bordiga, si sperava che qualcuno o qualcosa spazzasse via lo Stato liberale ormai marcio nella fondamenta. Abbiamo superato il punto di non ritorno e gli iettatori di gabinetto tentano ancora di raggirarci con i conti da far tornare. Meglio che venga giù tutto per provare a ricostruire il tempo e lo spazio di un’ Italia libera e padrona del suo destino.

di Gianni Petrosillo

02 gennaio 2012

Big bank: indebitatevi di più e il mondo vi sorriderà






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Cosa ci riserva il 2012 in tema di crisi? La Germania lascerà l’euro oppure la Bce si deciderà ad emettere gli eurobond? Va quasi da sé che una cosa esclude l’altra. Se l’euro e l’Europa perdono la locomotiva tedesca, pensare a una mutualizzazione del debito sovrano degli altri paesi membri è pura follia. In realtà, non dovrebbero accadere nessuna delle due cose: perché alla Germania conviene tenersi una moneta sicuramente più debole dell’eventuale nuovo marco, ai fini di cambio sul mercato extra-continentale, e perché secondo Mario Draghi, in una recentissima intervista al Financial Time «non ci possono essere emissioni comuni» (di eurobond, s’intende) essendo impensabile «una garanzia reciproca ed una possibilità di spesa separata». E siccome, il percorso per arrivare a un bilancio unico per tutti i 26 paesi della Ue è quanto meno impervio, l’ipotesi delle euro-obbligazioni non sembra essere esattamente dietro l’angolo.

Eppure, qualcosa deve essere fatto. Anzi, è già stato fatto. Anche se non è esattamente quanto sarebbe auspicabile. Infatti, qualche settimana fa, la Bce ha gentilmente elargito a 500 banche sparse sul continente qualcosa come 489,2 miliardi di euro al fine di garantire la liquidità per finanziare l’economia reale delle piccole imprese e delle famiglie che, così ci fanno sapere, per l’80% ricorrono ai prestiti degli istituti di credito. Alle banche italiane, sono andati 40,2 miliardi di euro, ovvero più del doppio di quanto la manovra da lacrime e sangue messa in atto dal Governo Monti, fra Imu, accise e Iva, ci farà pagare. Insomma, la Banca centrale europea versa alle banche italiane, al tasso irrisorio dell’1%, una montagna di soldi per finanziare famiglie e imprese che sono costrette ad indebitarsi, ad un tasso ben superiore all’1%, per pagare i debiti dello stato. Bisogna ammetterlo: il meccanismo infernale del debito permanente di tutti, uomini e stati, verso chi stampa i nostri soldi per poi prestarceli ad interesse è geniale. E non consente vie di uscita: più paghi, più sarai costretto a pagare.

Per esempio, la Crédit Suisse, fine analista delle cose finanziarie europee, prevede che nel 2012 i titoli di stato decennali italiani toccheranno il tasso record del 9% e quelli francesi il 5%. L’intero sistema monetario europeo, a quel punto, potrebbe collassare. A meno che… A meno che non siano gli stessi speculatori a fare un passo indietro nel timore che il crollo faccia diventare carta straccia i titoli in loro possesso. Il che varrebbe quanto il bel gesto del torturatore che protraesse l’agonia del condannato per paura di perdere il lavoro.

In questo scenario che chiamare buio è un eufemismo, c’è pure chi ha trovato la radice del male: consumiamo poco. Consumando poco, non incentiviamo la produzione. E se non incentiviamo la produzione, è recessione. Infatti, per il 2012 le più rinomate agenzie di rating prevedono un andazzo di questo tipo per il Pil: Francia +0,5% (dal previsto +0,8%), della Germania +0,8% (da +1%) e dell’Italia +0,1% (da +0,2%). «La recessione che si sta avvicinando all’Europa ha colpito prima Spagna, Portogallo e Grecia e adesso si sta allargando verso i Paesi “core” della zona euro, Francia e Germania» commenta Jean Michel Six, capo-economista di Standard & Poor’s. La domanda, allora, è: come si fa a sostenere la produzione se i soldi destinati al consumo se ne vanno per pagare il fisco e, al contempo, salari e pensioni vengono congelati? Semplice: che glieli ha dati a fare quasi 500 miliardi di euro la Bce alle banche territoriali? Accendete un altro mutuo e il mondo vi sorriderà.

C’è una parola chiave che il vertice di Bce, il privatizzatore di tutto il privatizzato in Italia fra il 1993 e il 2001, Mario Draghi, usa con costanza: “credibilità”. A parer suo è tutto un problema di credibilità. Più sei credibile, più inneschi il meccanismo virtuoso degli investimenti. E come si fa ad essere credibili? Pagando i debiti. Ma se pago i debiti, contraendo nuovi debiti, sono più o meno credibile per gli investitori? Secondo Mario Draghi, lo sei. E con la recessione come la mettiamo? Finanziamo le banche che finanziano te: così puoi consumare di nuovo e di più. Insomma, più ti impoverisci, più ti indebiti e più sei credibile. Più sei credibile e più puoi indebitarti. Sembra quasi la perifrasi del celebre ed esilarante siparietto di Gianni e Pinotto dove, alla domanda: «Who’s on first?» la risposta del nome del giocatore di prima base, «Who» innescava la ripetizione della domanda e della risposta in un equivoco infinito. Solo che, nel nostro caso, non c’è proprio niente da ridere.
di Miro Renzaglia