23 febbraio 2013

Sono arrivati alla frutta








Mentre Giorgio Napolitano vola negli USA, per rassicurare il presidente Obama, comegià fatto in precedenza con la UE e la BCE, sul fatto che l'esito delle elezioni è sotto controllo e dalle urne emergerà comunque vada solamente un governo di camerieri preposto a continuare sulla strada dell'annientamento del paese e della riduzione in miseria della popolazione, il circo equestre della campagna elettorale, ormai in completa confusione, inizia a sperimentare esperienze tragicomiche di un lirismo impressionante.
Beppe Grillo si appropria delle piazze d'Italia e riesce a riempirle ben oltre quanto potesse essere immaginabile, raccogliendo una marea di consensi, intorno a slogan (alcuni condivisibili altri meno) in fondo molto elementari ma sempre ben calati all'interno della realtà di un paese in via di disgregazione e vittima della disperazione diffusa che sta montando sempre più. E dovrebbe bastare un'occhiata a quelle piazze ed alla composizione dei cittadini che le riempono, per comprendere come il suo sarà probabilmente un successo che travalicherà anche le più ardite previsioni. Successo determinato dalle sue grandi capacità di comunicatore, dall'ottima struttura organizzativa messa in campo, dal malcontento generalizzato della popolazione, ma anche e soprattutto dall'assoluta mancanza di alternative credibili fra coloro (partiti che possano aspirare a superare il 4%) che si propongono alla guida del paese. Il nulla assoluto presente intorno a Grillo stupisce infatti innanzitutto per la totale mancanza di qualsiasi elemento di novità o interesse che prescinda dalla volontà di continuare sulla strada intrapresa, se è il caso fino alla morte, pronti a tutto per la UE e per l'euro, come a suo tempo ebbe modo di dire il leader maximo Mario Draghi.....


Legacoop Bersani si è ormai ridotto ad interpretare la macchietta di sè stesso e dopo avere girato il mondo in lungo e in largo dal giorno seguente all'investitura alle primarie, nel tentativo di vendere la pelle di un orso ancora vivo, si è ritrovato impantanato nello scandalo della banca di partito, nei rapporti promiscui con Vendola e Monti, impegnato giorno dopo giorno nel mendicare il ruolo di maitre, presso una BCE sempre più scettica nei suoi confronti. Nel goffo tentativo di esperire un qualche pensiero autonomo che potesse risultare accattivante per l'elettorato ormai fidelizzato (quello che non lo era l'ha lasciato da tempo) è arrivato perfino ad imbastire filippiche contro la corruzione, tanto più grottesche se pronunciate dal leader di un partito che della corruzione ha fatto la propria bandiera, come dimostra appieno proprio lo scandalo MPS, e da un uomo noto per essersi fatto "regalare" un centinaio di migliaia di euro proprio da quel Riva attualmente sotto accusa per avere sterminato le famiglie di Taranto attraverso l'inquinamento generato dall'azienda di famiglia.
Ma siccome sia il lato buonista, con tanto di parlata emiliana, sia quello "grintoso" preposto a sbranare gli avversari, sembrano continuare a sortire scarsi effetti in termini di popolarità, l'ultima carta giocata sul filo della disperazione è la riesumazione della salma politica di Romano Prodi, proposto sul palco a Milano e destinato a ritorcersi come un boomerang proprio sulle spalle di Bersani, se solo gli italiani si ricorderanno chi fu l'uomo che più di ogni altro si prodigò per trascinare l'Italia nell'incubo dell'euro e della UE.

Se il nulla abbacinante di Bersani è di quelli che danno fastidio agli occhi, certo non sta riuscendo a fare di meglio Berlusconi. Il salapuzio di Arcore, svestiti i panni del presidente dimissionario che per 13 mesi ha votato pedissequamente ogni legge lacrime e sangue di Mario Monti, ha indossato i panni del rivoluzionario, dividendosi fra una certosina opera di contestazione di tutti i provvedimenti da lui stesso votati ed il ruolo d'imbonitore da mercato rionale. Una vera parodia del voto di scambio ad personam: "Se mi voti ti rimborso l'IMU, ti abbasso l'Irpef, ti togo l'irap e per i primi 10mila offro anche un tablet in regalo o una termocoperta per chi si trova già ad albergare sotto i ponti". Un Ponte ai siciliani, un TAV ai piemontesi, un Mose ai veneziani, un rigassificatore ai livornesi e via così fino al termine delle scorte.
Dopo avere lodato Monti, fino al punto di proporlo al ruolo di leader della propria coalizione (facendo il paio con i tentativi di Bersani), nella veste di nemico del banchiere di Goldman Sachs Berlusconi appare davvero scarsamente credibile e pure un poco grottesco. Le promesse, i regali ed i contratti appaiono sempre più come merce stantia, garantiranno forse il recupero di qualche punto percentuale, ma la mancanza d'aria si percspisce chiaramente.

Il banchiere golpista di Goldman Sachs Mario Monti, che ancora governa il paese dopo essere riuscito a mandarlo a picco in soli 13 mesi non sta certo meglio. La sua discesa in politica, fra un salottino TV, un cane in affitto ed i comizi tenuti dentro a bugigattoli riservati a pochi intimi, tratteggia la figura patetica di un personaggio che se solo si affacciasse su una piazza riceverebbe in dono quintali di pomodori ed arance, oltre ad epiteti impronunciabili.
Il suo compito non è certamente quello di raccogliere un esteso consenso popolare, ma semplicemente quello di marcare il territorio, consapevole del fatto che chiunque vorrà proprorsi per governare dovrà passare da lui per chiedere il permesso della UE, della BCE, dell'FMI, di Obama e del resto del mondo.
La campagna elettorale, se possibile, patetica lo è ancora di più, fra la promessa di diminuzione delle tasse (da lui stesso varate) portata con la mano destra, mentre quella sinistra (ancora al governo) continua a metterne sempre di nuove. E la pretesa di avere salvato un paese dove dopo il salvataggio solo più una persona su due ha ancora un lavoro, il pil è in caduta libera (ma non si tratta di decrescita, bensì di recessione) le imprese chiudono a ritmo forsennato e sta sparendo perfino la speranza.

A fare da corollario a questo campionario di miserie umane non poteva mancare il giudice Antonio Ingroia, vero e proprio re della questua, che da quando è entrato in politica ha sbagliato tutto quello che poteva sbagliare e forse anche qualcosa di più. Ha mendicato i voti dei movimenti che si battono sui territori e dopo avere ricevuto un netto rifiuto ha cercato di appropiarsene lo stesso maldestramente. Ha mendicato l'appoggio del PD ma gli hanno chiuso la porta in faccia senza neppure premurarsi di spingerlo fuori. Ha mendicato l'appoggio di Grillo provocando più di una risata. Ha mendicato il sostegno di Nichi Vendola che ormai alberga in casa PD e certo non ha intenzione di camminare fuori, dove fa freddo e per andare in parlamento occorre il 4%.
Poi dopo avere collezionato un serie di brutte figure da fare impallidire perfino i politici consumati ed essersi proclamato mentore di una società civile che alberga solamente nel suo immaginario, con tanti compagni di viaggio come Ferrero, Diliberto e Bonelli che preferiscono restare nell'ombra nella speranza che la gente si scordi chi sono e un nutrito manipolo di poliziotti, giudici ed avvocati che non guastano mai, ha fatto pure la pessima scelta di andare a parlare in TV. Dove il telespettatore ha compreso fin da subito che la sua "rivoluzione" è un po' troppo vicina a Befera e ad Equitalia per rivestire un qualche carattere popolare, così come il suo concetto di "evasore" molto omnicomprensivo, fino a comprendere nella massa dei cittadini da perseguitare anche i pensionati ed i disoccupati che non arrivano a fine mese.
Già un partito i cui voti sono quotidianamente in vendita al borsino del miglior offerente non rappresentava qualcosa di molto accattivante, ma la sensazione inizia a diventare quella che se Ingroia continuerà a parlare, perfino il 4% inizierà a diventare un miraggio quasi come l'alleanza con il PD.

Insomma Napolitano, imitando Bersani, ha già venduto la pelle dell'orso ai propri padroni, ma potrebbe anche non riuscire a prenderlo e vedersi costretto a riportare gli italiani alle urne una seconda volta, magari in primavera, nella speranza che in quell'occasione abbiano capito bene quali sono gli ordini e cosa devono fare.

di Marco Cedolin 

22 febbraio 2013

Il debito infinito




Nell'anno 55 prima della nostra era, Cicerone scriveva: «Il bilancio dovrebbe essere equilibrato, le finanze pubbliche dovrebbero essere colmate, il debito pubblico dovrebbe essere ridotto, l'arroganza della amministrazione dovrebbe essere abolita e controllata e l'aiuto ai paesi esteri dovrebbe essere diminuito per E il rischio che Roma cada nel falli- mento».  da un bel pezzo che la classe politica non legge più Cicerone! Dalla fine degli anni Settanta, la maggior parte dei paesi industrializzati sono entrati in un regime di debito permanente, dal quale nemmeno i periodi di forte crescita economica hanno consentito di uscire.
Il debito misurato è quello delle amministrazioni pubbliche, che viene chiamato "debito sovrano" o "debito pubblico". Il debito pubblico "nel senso di Maastricht", misurato in valore nominale (e non in valore di mercato), viene definito come il totale degli impegni finanziari degli Stati contratti sotto forma di prestiti risultanti dall'accumulazione, sul filo degli anni, di una differenza negativa tra le loro entrate e le loro spese o i loro oneri. Esso concerne tre settori: le amministrazioni centrali, cioè lo Stato propriamente detto, le amministrazioni locali (collettività territoriali, organismi pubblici, ecc.) e i sistemi di Previdenza centrali. Il trattato di Maastricht del 1992 aveva adottato i principi che il deficit degli Stati membri dell'Unione europea non avrebbe dovuto superare il 3% del prodotto interno lordo (Pil) e che il loro debito pubblico sarebbe dovuto rimanere al di sotto del 60% del Pil. Quegli obiettivi non sono stati raggiunti. Globalmente, il debito pubblico nella zona euro è aumentato del 26,7% dal 2007. Oggi rappresenta l'80% del Pil globale della zona. Ma in questo caso si tratta solo di una media. Nel 2011, otto paesidell'Unione europea esibivano un debito superiore all'80% del loro Pil: l'Ungheria e la Gran Bretagna (80,1%), la Germania (83%), la Francia (85%), il Portogallo (92%), il Belgio (97%), l'Italia (120%) e la Grecia (160%). Gli americani non se la passano meglio: al momento, ogni spesa pubblica effettuata negli Stati Uniti viene finanziata nella misura del 42% da prestiti!
In Francia, il debito pubblico nel 1980 rappresentava solo il 20,7% del Pil, ovvero l'equivalente di 92,2 miliardi di euro. Nel 2007, quando Nicolas Sarkozy è stato eletto alla testa dello Stato, aveva già raggiunto il 64,2% del Pil (1.211 miliardi di euro). Oggi ammonta all'85,3% (1.688 miliardi di euro), con un 30% di aumento in quattro anni. Il rapporto 2011 della Corte dei conti lascia prevedere che potrebbe raggiungere il 100% del Pil nel 2016. La parte essenziale del debito è a carico delle amministrazioni centrali: 1.297 miliardi di euro su 1.646 nel 2011 (le collettività locali erano indebitate solo per un ammontare di 156 miliardi, la Previdenza sociale per una cifra di 191 miliardi). E il deficit delle finanze pubbliche, che si è fissato nel 2011 a 98,5 miliardi di airo, continua a crescere al ritmo di 3.200 euro al secondo! Il servizio del debito rappresenta il pagamento annuale dei prestiti sottoscritti giunti alla scadenza. Il carico del debito costituisce il pagamento dei soli interessi, ovvero in Francia circa 50 miliardi di euro l'anno, il che corrisponde al 20% del bilancio dello Stato, all'89% dell'imposta sul reddito, o ancora al 140% dell'imposta sulle società. Poiché il rimborso del capitale del debito ammonta a circa 80 miliardi di euro, il servizio totale del debito rappresenta oggi per lo Stato 118 miliardi di euro, cioè l'equivalente della totalità delle sue risorse fiscali dirette. Mentre il pagamento dei soli interessi, sta per diventare la prima posta di bilancio dello Stato, prima dell'Educazione nazionale, della Difesa o della previdenza. Ma a chi dobbiamo tutto questo denaro? Essenzialmente ai mercati finanziari, ad istituti bancari, a compagnie di assicurazione, a fondi pensionistici e a talune societàacquistanoo. Sono loro che "aCquistano" titoli del debito francese, si tratti delle obbligazioni assimilabili del Tesoro (Oat), le più importanti in volume, che sono prodotti a lungo termine, dei buoni del Tesoro a interesse annuale (Btan), che hanno una durata da due a cinque anni, o dei buoni del Tesoro a tassi fissi e a interessi predefiniti (Btf), a brevissimo termine. Di fatto, oggi è attraverso la gestione dei debiti degli Stati che i mercati finanziari sono strutturati ed organizzati. Gli istituti finanziari scambiano poi il debito che hanno "acquistato" in forme molteplici, come i prodotti derivati, il che consente loro di speculare a propria volta sui mercati. Il paese industrializzato più indebitato è il Giappone, con un debito che supera il 195% del suo Pil, ma questo debito è essenzialmente detenuto dagli stessi giapponesi, il che pone il Giappone relativamente al riparo dalle alee della congiunture internazionali. Non è il caso della Francia, dove il 68% del debito negoziabile dello Stato è nelle mani di investitori "non residenti", cioè stranieri. Quali sono i paesi che ne possiedono di più? E impossibile saperlo con certezza, giacché la legge proibisce di divulgare tale informazione. Come si è arrivati a questo punto? Le cause ovviamente sono molteplici: deficit di bilancio a ripetizione (la Francia è in deficit da quasi quarant'anni), incapacità della maggior parte degli Stati di padroneggiare le spese pubbliche, riforme fiscali e riduzioni di tasse demagogiche (se la fiscalità non fosse cambiata dal 1999, il debito francese oggi sarebbe di circa 20 punti di Pil in meno), deindustrializzazione in parte dovuta alle delocalizzazioni rese possibili dalla globalizzazione (nell'insieme dei paesi appartenenti alla Ocde, qualcosa come 17 milioni di posti di lavoro industriali sono stati distrutti nell'arco di soli due anni), deregolamentazione, privatizzazioni e via dicendo.
Una delle cause immediate dell'innalzamento del debito risiede nei piani di salvataggio della finanza decisi dagli Stati nel 2008 e nel 2009. Per salvare le banche e le compagnie di assicurazioni, gli Stati hanno dovuto a loro volta contrarre prestiti sui mercati, il che ha accresciuto il loro debito in proporzioni enormi. Somme astronomiche (800 miliardi di dollari negli Stati uniti, 117 miliardi di sterline in Gran Bretagna) sono state spese per impedire che le banche sprofondassero, decisione che ha gravato in pari misura sulle finanze pubbliche. Complessivamente, le quattro principali banche centrali (Riserva federale americana, Banca centrale europea, Banca del Giappone e Banca d'Inghilterra) hanno iniettato 5.000 miliardi di dollari nell'economia mondiale fra il 2008 e il 2010. È il più grande trasferimento di ricchezze della storia dal settore pubblico al settore privato! Un trasferimento che ha permesso alle banche salvate dagli Stati di ritrovarsi creditrici dei propri salvatori... Nel frattempo, il credito ha continuato a generalizzarsi. La possibilità di contrarre prestiti per coprire le spese correnti o acquistare un alloggio offerta ai nuclei familiari è stata la principale innovazione finanziaria del capitalismo del dopoguerra. Indebitandosi massicciamente, le famiglie hanno indiscutibilmente contribuito, fra il 1948 e il 1973, alla prosperità dell'epoca del Glorioso Trentennio, poiché l'indebitamento ha consentito alla macchina dei consumi di continuare a girare. E il credito si è ulteriormente sviluppato quando le monete, divenute fiduciarie, hanno definitivamente smesso di essere convertibili in oro. Il debito è un contratto fra due entità che ha per oggetto uno scambio scaglionato nel tempo. Il credito è definito come il potere di acquistare in cambio di una promessa di pagare. Il sistema ovviamente funziona solo se questa promessa è mantenuta. La crisi attuale, come è noto, è iniziata negli Stati uniti nell'estate 2007, con la vicenda dei subprimes. Le famiglie americane, incapaci di risparmiare, sono state sistematicamente incitate ad indebitarsi ipotecando il loro alloggio. Dal momento che il ricorso al prestito per loro non era altro che un modo per mantenere artificialmente il livello di vita malgrado il calo dei loro redditi, i fallimenti non hanno tardato a moltiplicarsi. Le banche e le compagnie di assicurazione sono state a loro volta minacciate, il che ha condotto gli Stati a concedere massicciamente prestiti per salvarle. Così la crisi del sovraindebitamento privato si è trasformata in crisi del sovraindebitamento pubblico.
Il concetto di debito è oggi fortemente associato al meccanismo di creazione monetaria. L'apertura di crediti da parte delle banche private è una creazione di moneta scritturale, puramente contabile, vale a dire virtuale, che è il risultato di un semplice gioco di scritture.Tramite la creazione monetaria, le banche creano ex nihilo un "potere d'acquisto" che trasmettono ai clienti a cui concedono prestiti. Questa moneta costituisce oggigiorno oltre il 90% della massa monetaria. Il suo ruolo è amplificato dall'effetto moltiplicatore del credito consentito dal sistema delle riserve frazionarie, che permette alle banche di prestare varie volte l'ammontare dei propri fondi. Una gran parte dei debiti pubblici si trova quindi oggi nei conti delle banche, che non hanno mai smesso di acquistare rifinanziandosi presso la Banca centrale europea ad un prezzo quasi nullo. In altri termini, le banche hanno prestato agli Stati, ad un tasso d'interesse variabile, somme che hanno avuto in prestito per quasi niente. Ma perché gli Stati non possono procurarsi autonomamente le somme in questione presso la Banca centrale? Semplicemente perché ciò è loro proibito!
La data chiave è quella del 3 gennaio 1973, data in cui il governo francese, su proposta di Valéry Giscard d'Estaing, all'epoca ministro delle Finanze, ha fatto adottare una legge di riforma degli statuti della Banca di Francia, disponendo che «il Tesoro pubblico non può essere presentatore dei propri effetti allo sconto della Banca di Francia» (art. 25), il che significava che era ormai proibito alla Banca di Francia accordare prestiti — per definizione non gravati da interesse — allo Stato, che di conseguenza era obbligato a contrarre prestiti sui mercati finanziari ai tassi che questi ritengono adeguati. Tale disposizione è stata in seguito generalizzata in tutta l'Europa, prima di essere ripresa nel trattato di Maastricht (art. 104) e poi nel trattato di Lisbona (art. 123), che stabilisce il divieto per la Banca centrale europea di prestare agli Stati, talché questi si vedono costretti a sottoscrivere prestiti con i mercati o con istituti privati pagando forti tassi di interesse. Le banche private, invece, possono continuare a prendere a prestito denaro dalla Bce ad un tasso risibile (meno dell'1%) per prestarlo agli Stati ad un tasso variabile fra il 3,5% e il 7%.
La legge del 1973 segna il momento in cui la Banca di Francia ha abbandonato il ruolo di servizio pubblico e spossessato lo Stato della sovranità monetaria. In origine, quella legge si appoggiava sul fatto che i prestiti senza interessi accordati dalle banche centrali agli Stati favorivano l'inflazione. Non era falso, ma si è passati da un eccesso all'altro. Invece di conservare lo stesso sistema pur istituendo una procedura che consentisse di limitare l'inflazione, si è puramente e semplicemente decretato che le banche centrali non avrebbero più potuto concedere prestiti agli Stati ma avrebbero potuto farlo alle banche ad un tasso d'interesse ridicolmente basso. Il maggiore privilegio degli Stati, che era il privilegio di battere moneta, è stato così trasferito alle banche, e al settore privato si è concesso il monopolio della creazione monetaria.
Già nel 1999 Maurice Allais, Premio Nobel di economia, scriveva: «Nella sostanza, l'attuale creazion monetaria ex nihilo da parte del sistema bancari è identica, non esito a dirlo, alla creazione di mone da parte dei falsari. Concretamente, sfocia nei me desimi risultati. L'unica differenza è che sono diversi coloro che ne approfittano» (La crise mondiale d'aujourd'hui).
Ancora di recente Mario Draghi, nuovo presidente della Bce, ha deciso di accordare alle banche prestiti in euro ad un tasso dell'i % su tre anni, senza alcuna limitazione di importo. Dato che il tasso Euribor, cioè il tasso al quale le banche si prestano denaro, è dell'1,9%, le istituzioni finanziarie della zona euro hanno in tale modo avuto accesso a finanziamenti due volte meno costosi. Non sorprendentemente, 523 banche europee hanno immediatamente sottoscritto la prima parte di questa offerta, datata 21 dicembre 2011, per un ammontare di 489 miliardi di euro — che avrebbero potuto prestare agli Stati al tasso da loro stesse deciso!
A questo punto intervengono le agenzie di rating, il cui ruolo è ormai ben noto. Più un paese riceve una buona quotazione, più ha la possibilità di contrarre prestiti a tassi ridotti (dalli% al 4%, in funzione della durata del prestito contratto). Viceversa, un paese mal quotato deve far fronte ad un innalzamento dei tassi d'interesse, che si suppone possa compensare il rischio più elevato che gli istituti e mercati si assumono prestandogli denaro.
Le agenzie sono infallibili? Nient'affatto, perché non è possibile per loro valutare in perfetta obiettività un futuro che è, per sua natura, indeterminato. Nel dicembre del 2010, l'agenzia di rating Standard & Poor's sottolineava ad esempio che «la Francia è quotata AAA, cioè con il voto più alto, con una prospettiva stabile, il che significa che non si vede questo voto avere sbalzi nei prossimi due anni». Tredici mesi dopo, la Francia perdeva la "tripla A". Dato più grave: le opinioni delle agenzie di rating possono essere paragonate a termometri che, non contenti di registrare la temperatura, la farebbero automaticamente innalzare quando constatassero che è cattiva. Basta infatti che un paese sia "degradato" perché i suoi prestiti divengano più costosi e di conseguenza la sua situazione si aggravi.
ssumiamo. Sin devonoo a tassi d'ine fissatai credit loro pialute finanziQuegli inter Essendo i non e i mer rimborsare né il debito né gli interessi, gli Stati contraggono nuovi prestiti, innanzitutto per far funzionare i propri paesi, poi per rimborsare l'importo del debito precedente, infine per rimborsare gli interessi di quest'ultimo, il che ha l'effetto di aumentare ancora il loro debito e di appesantirne gli interessi. E dato che la loro situazione si aggrava, anche i tassi di interessi che vengono loro imposti aumentano. Risultato: più rimborsano, più prendono a prestito e più devono pagare. Il debito viene così posto in una situazione di crescita esponenziale per la semplice ragione che tutto il denaro messo in circolazione lo è attraverso prestiti bancari e il contraente il prestito deve sempre rimborsare più dell'importo riscosso. Una spirale infernale. Come uscirne? La soluzione che gli Stati hanno scelto per risanare la situazione consiste nell'intervenire sulle pensioni, sugli assegni familiari o sugli stipendi dei dipendenti pubblici, nel ridurre i programmi sociali, nel diminuire il numero dei funzionari, nel vendere o privatizzare tutto ciò che può esserlo (il che riduce di altrettanto il loro patrimonio), nell'instaurare ovunque rigore ed austerità. Il problema è che quegli stessi Stati vogliono nel contempo "rilanciare la crescita". E i programmi di austerità comportano meccanicamente un aggravio della disoccupazione e un deterioramento del potere d'acquisto, quindi della domanda, il che non può che frenare la crescita e diminuire ulteriormente la solvibilità degli Stati. Sotto l'effetto dell'austerità, l'economia non può più essere trainata dal consumo, che è inevitabilmente destinato a contrarsi. Le classi medie e le classi popolari sono allora le prime a pagare l'imperizia della classe dominante. Quando l'austerità raggiunge un livello mai visto in tempo di pace, le conseguenze politiche e sociali minacciano di sfociare nel caos. L'applicazione di programmi di austerità finisce con l'«organizzare la recessione in Europa, con il risultato che i paesi non usciranno mai dal sovraindebitamento», ha dichiarato di recente Hubert Védrine, interrogato dal quotidiano del Québec «le Devoir». Per poi esortare a «domare i mercati» piuttosto che a rassicurarli, «perché questi mercati non sono una raccolta di vecchie persone inquiete, ma una palude di coccodrilli».
C'è un altro modo di comportarsi? Una soluzione, perlomeno a breve termine, sarebbe che la Bce accettasse di "monetizzare il debito", cioè di svolgere il ruolo di prestatore di ultima istanza. Ma la Bce si rifiuta di farlo, la Germania anche e la Commissione europea pure. Che fare, allora? Rinazionalizzare l'economia e porre fine all'indipendenza delle banche centrali? E quel che ha fatto il governo ungherese, con la conseguenza di esporsi a una denuncia per «violazione del diritto comunitario» presentata dalla Commissione europea. Cancellare il debito? Sarebbe possibile se tutti i paesi indebitati lo esigessero contemporaneamente (la Francia, con un tratto di penna, ha cancellato nel giugno 2011 l'intero debito del Togo). Ma nessuno vuol decidersi a farlo. Allora? Allora, in mancanza di una rimessa in discussione dei fondamenti dell'attuale sistema, ognuno sega coscienziosamente il ramo sul quale è seduto. I politici si lamentano di dipendere dai mercati finanziari e dalle agenzie di rating, ma hanno fatto tutto quel che occorreva per porsi sotto il loro controllo. Hanno deregolamentato i mercati per decenni, hanno liberalizzato il credito, hanno tollerato le delocalizzazioni, hanno consentito alle banche di deposito e alle banche d'investimento di fondere le loro attività, hanno proibito alle banche centrali di aiutare finanziariamente gli Stati, hanno lasciato che la stretta azionaria si sviluppasse al di là del ragionevole, hanno dato alle agenzie di rating il potere (che in precedenza non avevano) di dare voti agli Stati, mentre questi si indebitavano in modo duraturo. Oggi raccolgono i frutti della propria cecità.
Viene chiamato «usura» l'interesse di importo eccessivo attribuito ad un prestito. Ma l'usura è altresì il procedimento che consente di imprigionare il contraente un prestito in un debito che non può più rimborsare e di impadronirsi dei beni che gli appartengono e che egli ha accettato di dare in garanzia. È esattamente quel che vediamo accadere attualmente su scala planetaria. Quello che Keynes chiamava un «regime di creditori» corrisponde alla definizione moderna dell'usura. I procedimenti usurari sono rintracciabili nella maniera in cui i mercati finanziari e le banche possono fare man bassa degli attivi reali degli Stati indebitati, impadronendosi dei loro averi a titolo di interessi di un debito la cui componente principale costituisce una montagna di denaro virtuale che non potrà mai essere rimborsata.
In conseguenza della crisi, l'Europa del Sud si trova oggi ad essere governata da tecnocrati e banchieri formatisi in Goldman Sachs o in Lehman Brothers. «Essere governati dal denaro organizzato è altrettanto pericoloso quanto esserlo dal crimine organizzato», diceva Roosevelt.
Non vi sarà alcun riaggiustamento spontaneo del sistema. Nessun paese ha oggi i mezzi per arrestare la crescita del proprio debito in percentuale del Pil, nessuno ha i mezzi per rimborsare la parte principale del proprio debito. Per questo motivo la crisi del debito è assai più grave della crisi dell'euro, che in rapporto ad essa svolge esclusivamente il ruolo di circostanza aggravante. Prova ne sia il fatto che i paesi industrializzati che non appartengono alla zona euro sono altrettanto indebitati quanto gli altri, se non di più. L'Europa si orienta verso la recessione, gli Stati Uniti e il Regno Unito verso la depressione. Malgrado tutte le manovre dilatorie, un'esplosione generalizzata appare inevitabile di qui a due anni.
di Alain de Benoist 

20 febbraio 2013

666 il numero della Bestia



 



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Ci siamo. Benedetto XVI ha dichiarato di volersi dimettere. La motivazione ufficiale è che non si sente più nelle condizioni di svolgere il suo ruolo, ma ha accompagnato la sua dichiarazione d’imminenti dimissioni con l’ennesima analisi della situazione interna al Vaticano, dichiarando nuovamente che i nemici della Chiesa sono al suo interno. È evidente che il Pontefice sta lanciando dei messaggi per far capire a chi ha orecchie per intendere che le dimissioni sono “obbligate” da eventi molto gravi che sconvolgano la Chiesa e il mondo. Basterebbe ricordarsi le parole che Ratzinger pronunciò, appena eletto, dichiarandosi “umile servitore nella Vigna del Signore”, un passo che si ricollega al messianismo e quindi agli eventi apocalittici.

È singolare che nessuno si sia mai chiesto perché Papa Giovanni Paolo II abbia cercato di resistere così tanto malgrado le sue precarie condizioni di salute, e perché a un tratto, giunto a una data precisa, smise di lottare e “si lasciò morire”. Ai vertici del Vaticano, sono a conoscenza di misteri che neppure noi immaginiamo. Pensare che il mondo sia governato solamente da questioni materiali, è un errore. Al di là del limite del pensiero fenomenologico, c’è da considerare che i fenomeni in questione non siano solo necessariamente quelli materiali, ma anche quelli metafisici. Giovanni Paolo II sentiva il dovere di resistere sino a una data precisa, perché potesse compiersi ciò che era previsto dalle profezie. Si è molto speculato, nella pessima narrativa e nella cinematografia americana, sul fatidico 21 12 2012, parlando a vanvera di “fine del mondo”. La Bibbia parla chiaro a proposito, dicendo che la Terra, creata da Dio, non ha data di termine e sarà eterna. Si può non essere credenti, ma se si ha la fede non è lecito credere a modo nostro. Apocalisse è un termine di derivazione greca che significa “Rivelazione”. La fine del mondo non fu mai annunziata, né dalla Bibbia, né dal Vangelo, e neppure dal Corano. La fine dei tempi – collegata alla oramai famosa data Maya del 21 12 2012 – non è la fine fisica dell’umanità, bensì la fine di un’era. Corrisponde alla fine dell’Età del ferro e il ritorno all’Età dell’oro, che Evola aveva spiegato in libri esemplari come “Rivolta contro il mondo moderno” e che gli hippie avevano presentito già tra gli anni 60 e 70. Eppure il 21 12 2012 è già passato, ma nulla è accaduto. Al di là di quanto ha affermato Margherita Hack che, pur atea, ha voluto precisare che la data 21 12 2012 era sbagliata, in quanto con il passare del tempo si era avuta una sfasatura dei calendari; c’è anche la teoria che il 21 12 2012 non fosse una data di “passaggio netto”, bensì di passaggio sfumato, un evento che, iniziato in quella data, si sarebbe compiuto entro la fine di Marzo (si dice il 21). Ebbene, è singolare che non si faccia sufficientemente notare che le elezioni politiche 2013 in Italia si avranno il 24 e il 25 Febbraio e che le dimissioni del Papa sono previste per il 28 dello stesso mese. E ancora che Mario Monti è entrato nel parlamento italiano esattamente il giorno 11.11.11 e che secondo alcune profezie il 21 marzo 2013 ci sarà “la caduta di Roma”.
Che cosa possa essere “questa caduta”, non è dato di sapere, ma potrebbe essere il crollo finanziario e politico del Vaticano e a tale proposito è bene ricordare che nello scandalo Monte dei Paschi di Siena pare essere coinvolto anche il Vaticano. Secondo le profezie, il conteggio dei papi dimostrerebbe che quello attuale è l’ultimo della storia, seguito da “Pietro il romano”. Secondo le profezie la Chiesa si sarebbe conclusa com’è iniziata, cioè con Pietro. E, infatti, proprio per queste ragioni il regolamento interno del Vaticano non consente a nessuno che si chiami Pietro di essere eletto Papa, almeno fin che non saremo giunti “alla fine”. Per questa stessa ragione, neppure il Segretario di Stato Vaticano può chiamarsi Pietro, in quanto, in caso di decesso del Papa, in attesa del Conclave, è il Segretario di Stato che siede sul trono di Pietro, perciò sarebbe come un “Papa ad interim”. Eppure l’attuale Segretario di Stato Vaticano si chiama, appunto, Tarcisio Pietro Evasio Bertone, ed è nato a Romano Canavese. È lui “Pietro il romano”? 

Certo si può tranquillamente pensare che siano tutte coincidenze, ma uno dei passaggi fondamentali dell’Apocalisse di Giovanni, recita così: “Faceva sì che tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi ricevessero un marchio sulla mano destra e sulla fronte; e che nessuno potesse comprare o vendere senza avere tale marchio, cioè il nome della bestia o il numero del suo nome. Qui sta la sapienza. Chi ha intelligenza calcoli il numero della bestia: essa rappresenta un nome d'uomo. E tal cifra è seicentosessantasei”. Già in miei precedenti articoli e interventi su “Il Giornale del Ribelle” ho scritto dell’intenzione di talune forze politiche italiane di abolire la moneta contante, per sostituirla con la carta di credito, e del fatto che in Usa la riforma Obama ha, di fatto, introdotto l’uso del microchip RFID. Quello che ancora non avevo detto è che si prevede che questo chip sia introdotto proprio sulla mano destra o sulla fronte e che al suo interno il conto bancario è contenuto attraverso un codice a barre. Quanti sanno che tutti i codici a barre hanno come numero di partenza un 6, nel mezzo un altro 6 e terminano con un terzo 6? 666, il numero della bestia, altro non sarebbe che il codice a barre contenuto nel chip RFID. Secondo le profezie, quando questo Papa si “allontanerà”, salirà al trono del mondo l’Anticristo che dominerà su una dittatura mondiale. Il suo regno dovrebbe durare poco e sarebbe sostituito dal Regno di Cristo, un Regno di pace e amore universale. Perciò l’Apocalisse non sarebbe un evento negativo, bensì positivo, ma prima di giungere a questo Regno di Cristo bisognerebbe superare delle tremende prove. Antonio Socci fu il primo ad annunciare che il Pontefice stava considerando la possibilità di dimettersi, e molti lo avevano preso per visionario, invece ci siamo, tra poco il Papa si dimetterà e vedremo se gli eventi delle profezie si avvereranno. Da parte nostra, non possiamo essere complici del male. Dobbiamo opporci alla carta di credito e al chip, dobbiamo opporci a ogni tentativo di unificazione europea e mondiale, dobbiamo opporci a ogni forma di tentativo di controllo della società. All’euromondialismo, rispondiamo con il nazional-localismo. Se è scritto che la dittatura mondiale si compia, si compirà, ma non con la nostra complicità, o almeno, non con la mia!  


di Gianluca Donati 

23 febbraio 2013

Sono arrivati alla frutta








Mentre Giorgio Napolitano vola negli USA, per rassicurare il presidente Obama, comegià fatto in precedenza con la UE e la BCE, sul fatto che l'esito delle elezioni è sotto controllo e dalle urne emergerà comunque vada solamente un governo di camerieri preposto a continuare sulla strada dell'annientamento del paese e della riduzione in miseria della popolazione, il circo equestre della campagna elettorale, ormai in completa confusione, inizia a sperimentare esperienze tragicomiche di un lirismo impressionante.
Beppe Grillo si appropria delle piazze d'Italia e riesce a riempirle ben oltre quanto potesse essere immaginabile, raccogliendo una marea di consensi, intorno a slogan (alcuni condivisibili altri meno) in fondo molto elementari ma sempre ben calati all'interno della realtà di un paese in via di disgregazione e vittima della disperazione diffusa che sta montando sempre più. E dovrebbe bastare un'occhiata a quelle piazze ed alla composizione dei cittadini che le riempono, per comprendere come il suo sarà probabilmente un successo che travalicherà anche le più ardite previsioni. Successo determinato dalle sue grandi capacità di comunicatore, dall'ottima struttura organizzativa messa in campo, dal malcontento generalizzato della popolazione, ma anche e soprattutto dall'assoluta mancanza di alternative credibili fra coloro (partiti che possano aspirare a superare il 4%) che si propongono alla guida del paese. Il nulla assoluto presente intorno a Grillo stupisce infatti innanzitutto per la totale mancanza di qualsiasi elemento di novità o interesse che prescinda dalla volontà di continuare sulla strada intrapresa, se è il caso fino alla morte, pronti a tutto per la UE e per l'euro, come a suo tempo ebbe modo di dire il leader maximo Mario Draghi.....


Legacoop Bersani si è ormai ridotto ad interpretare la macchietta di sè stesso e dopo avere girato il mondo in lungo e in largo dal giorno seguente all'investitura alle primarie, nel tentativo di vendere la pelle di un orso ancora vivo, si è ritrovato impantanato nello scandalo della banca di partito, nei rapporti promiscui con Vendola e Monti, impegnato giorno dopo giorno nel mendicare il ruolo di maitre, presso una BCE sempre più scettica nei suoi confronti. Nel goffo tentativo di esperire un qualche pensiero autonomo che potesse risultare accattivante per l'elettorato ormai fidelizzato (quello che non lo era l'ha lasciato da tempo) è arrivato perfino ad imbastire filippiche contro la corruzione, tanto più grottesche se pronunciate dal leader di un partito che della corruzione ha fatto la propria bandiera, come dimostra appieno proprio lo scandalo MPS, e da un uomo noto per essersi fatto "regalare" un centinaio di migliaia di euro proprio da quel Riva attualmente sotto accusa per avere sterminato le famiglie di Taranto attraverso l'inquinamento generato dall'azienda di famiglia.
Ma siccome sia il lato buonista, con tanto di parlata emiliana, sia quello "grintoso" preposto a sbranare gli avversari, sembrano continuare a sortire scarsi effetti in termini di popolarità, l'ultima carta giocata sul filo della disperazione è la riesumazione della salma politica di Romano Prodi, proposto sul palco a Milano e destinato a ritorcersi come un boomerang proprio sulle spalle di Bersani, se solo gli italiani si ricorderanno chi fu l'uomo che più di ogni altro si prodigò per trascinare l'Italia nell'incubo dell'euro e della UE.

Se il nulla abbacinante di Bersani è di quelli che danno fastidio agli occhi, certo non sta riuscendo a fare di meglio Berlusconi. Il salapuzio di Arcore, svestiti i panni del presidente dimissionario che per 13 mesi ha votato pedissequamente ogni legge lacrime e sangue di Mario Monti, ha indossato i panni del rivoluzionario, dividendosi fra una certosina opera di contestazione di tutti i provvedimenti da lui stesso votati ed il ruolo d'imbonitore da mercato rionale. Una vera parodia del voto di scambio ad personam: "Se mi voti ti rimborso l'IMU, ti abbasso l'Irpef, ti togo l'irap e per i primi 10mila offro anche un tablet in regalo o una termocoperta per chi si trova già ad albergare sotto i ponti". Un Ponte ai siciliani, un TAV ai piemontesi, un Mose ai veneziani, un rigassificatore ai livornesi e via così fino al termine delle scorte.
Dopo avere lodato Monti, fino al punto di proporlo al ruolo di leader della propria coalizione (facendo il paio con i tentativi di Bersani), nella veste di nemico del banchiere di Goldman Sachs Berlusconi appare davvero scarsamente credibile e pure un poco grottesco. Le promesse, i regali ed i contratti appaiono sempre più come merce stantia, garantiranno forse il recupero di qualche punto percentuale, ma la mancanza d'aria si percspisce chiaramente.

Il banchiere golpista di Goldman Sachs Mario Monti, che ancora governa il paese dopo essere riuscito a mandarlo a picco in soli 13 mesi non sta certo meglio. La sua discesa in politica, fra un salottino TV, un cane in affitto ed i comizi tenuti dentro a bugigattoli riservati a pochi intimi, tratteggia la figura patetica di un personaggio che se solo si affacciasse su una piazza riceverebbe in dono quintali di pomodori ed arance, oltre ad epiteti impronunciabili.
Il suo compito non è certamente quello di raccogliere un esteso consenso popolare, ma semplicemente quello di marcare il territorio, consapevole del fatto che chiunque vorrà proprorsi per governare dovrà passare da lui per chiedere il permesso della UE, della BCE, dell'FMI, di Obama e del resto del mondo.
La campagna elettorale, se possibile, patetica lo è ancora di più, fra la promessa di diminuzione delle tasse (da lui stesso varate) portata con la mano destra, mentre quella sinistra (ancora al governo) continua a metterne sempre di nuove. E la pretesa di avere salvato un paese dove dopo il salvataggio solo più una persona su due ha ancora un lavoro, il pil è in caduta libera (ma non si tratta di decrescita, bensì di recessione) le imprese chiudono a ritmo forsennato e sta sparendo perfino la speranza.

A fare da corollario a questo campionario di miserie umane non poteva mancare il giudice Antonio Ingroia, vero e proprio re della questua, che da quando è entrato in politica ha sbagliato tutto quello che poteva sbagliare e forse anche qualcosa di più. Ha mendicato i voti dei movimenti che si battono sui territori e dopo avere ricevuto un netto rifiuto ha cercato di appropiarsene lo stesso maldestramente. Ha mendicato l'appoggio del PD ma gli hanno chiuso la porta in faccia senza neppure premurarsi di spingerlo fuori. Ha mendicato l'appoggio di Grillo provocando più di una risata. Ha mendicato il sostegno di Nichi Vendola che ormai alberga in casa PD e certo non ha intenzione di camminare fuori, dove fa freddo e per andare in parlamento occorre il 4%.
Poi dopo avere collezionato un serie di brutte figure da fare impallidire perfino i politici consumati ed essersi proclamato mentore di una società civile che alberga solamente nel suo immaginario, con tanti compagni di viaggio come Ferrero, Diliberto e Bonelli che preferiscono restare nell'ombra nella speranza che la gente si scordi chi sono e un nutrito manipolo di poliziotti, giudici ed avvocati che non guastano mai, ha fatto pure la pessima scelta di andare a parlare in TV. Dove il telespettatore ha compreso fin da subito che la sua "rivoluzione" è un po' troppo vicina a Befera e ad Equitalia per rivestire un qualche carattere popolare, così come il suo concetto di "evasore" molto omnicomprensivo, fino a comprendere nella massa dei cittadini da perseguitare anche i pensionati ed i disoccupati che non arrivano a fine mese.
Già un partito i cui voti sono quotidianamente in vendita al borsino del miglior offerente non rappresentava qualcosa di molto accattivante, ma la sensazione inizia a diventare quella che se Ingroia continuerà a parlare, perfino il 4% inizierà a diventare un miraggio quasi come l'alleanza con il PD.

Insomma Napolitano, imitando Bersani, ha già venduto la pelle dell'orso ai propri padroni, ma potrebbe anche non riuscire a prenderlo e vedersi costretto a riportare gli italiani alle urne una seconda volta, magari in primavera, nella speranza che in quell'occasione abbiano capito bene quali sono gli ordini e cosa devono fare.

di Marco Cedolin 

22 febbraio 2013

Il debito infinito




Nell'anno 55 prima della nostra era, Cicerone scriveva: «Il bilancio dovrebbe essere equilibrato, le finanze pubbliche dovrebbero essere colmate, il debito pubblico dovrebbe essere ridotto, l'arroganza della amministrazione dovrebbe essere abolita e controllata e l'aiuto ai paesi esteri dovrebbe essere diminuito per E il rischio che Roma cada nel falli- mento».  da un bel pezzo che la classe politica non legge più Cicerone! Dalla fine degli anni Settanta, la maggior parte dei paesi industrializzati sono entrati in un regime di debito permanente, dal quale nemmeno i periodi di forte crescita economica hanno consentito di uscire.
Il debito misurato è quello delle amministrazioni pubbliche, che viene chiamato "debito sovrano" o "debito pubblico". Il debito pubblico "nel senso di Maastricht", misurato in valore nominale (e non in valore di mercato), viene definito come il totale degli impegni finanziari degli Stati contratti sotto forma di prestiti risultanti dall'accumulazione, sul filo degli anni, di una differenza negativa tra le loro entrate e le loro spese o i loro oneri. Esso concerne tre settori: le amministrazioni centrali, cioè lo Stato propriamente detto, le amministrazioni locali (collettività territoriali, organismi pubblici, ecc.) e i sistemi di Previdenza centrali. Il trattato di Maastricht del 1992 aveva adottato i principi che il deficit degli Stati membri dell'Unione europea non avrebbe dovuto superare il 3% del prodotto interno lordo (Pil) e che il loro debito pubblico sarebbe dovuto rimanere al di sotto del 60% del Pil. Quegli obiettivi non sono stati raggiunti. Globalmente, il debito pubblico nella zona euro è aumentato del 26,7% dal 2007. Oggi rappresenta l'80% del Pil globale della zona. Ma in questo caso si tratta solo di una media. Nel 2011, otto paesidell'Unione europea esibivano un debito superiore all'80% del loro Pil: l'Ungheria e la Gran Bretagna (80,1%), la Germania (83%), la Francia (85%), il Portogallo (92%), il Belgio (97%), l'Italia (120%) e la Grecia (160%). Gli americani non se la passano meglio: al momento, ogni spesa pubblica effettuata negli Stati Uniti viene finanziata nella misura del 42% da prestiti!
In Francia, il debito pubblico nel 1980 rappresentava solo il 20,7% del Pil, ovvero l'equivalente di 92,2 miliardi di euro. Nel 2007, quando Nicolas Sarkozy è stato eletto alla testa dello Stato, aveva già raggiunto il 64,2% del Pil (1.211 miliardi di euro). Oggi ammonta all'85,3% (1.688 miliardi di euro), con un 30% di aumento in quattro anni. Il rapporto 2011 della Corte dei conti lascia prevedere che potrebbe raggiungere il 100% del Pil nel 2016. La parte essenziale del debito è a carico delle amministrazioni centrali: 1.297 miliardi di euro su 1.646 nel 2011 (le collettività locali erano indebitate solo per un ammontare di 156 miliardi, la Previdenza sociale per una cifra di 191 miliardi). E il deficit delle finanze pubbliche, che si è fissato nel 2011 a 98,5 miliardi di airo, continua a crescere al ritmo di 3.200 euro al secondo! Il servizio del debito rappresenta il pagamento annuale dei prestiti sottoscritti giunti alla scadenza. Il carico del debito costituisce il pagamento dei soli interessi, ovvero in Francia circa 50 miliardi di euro l'anno, il che corrisponde al 20% del bilancio dello Stato, all'89% dell'imposta sul reddito, o ancora al 140% dell'imposta sulle società. Poiché il rimborso del capitale del debito ammonta a circa 80 miliardi di euro, il servizio totale del debito rappresenta oggi per lo Stato 118 miliardi di euro, cioè l'equivalente della totalità delle sue risorse fiscali dirette. Mentre il pagamento dei soli interessi, sta per diventare la prima posta di bilancio dello Stato, prima dell'Educazione nazionale, della Difesa o della previdenza. Ma a chi dobbiamo tutto questo denaro? Essenzialmente ai mercati finanziari, ad istituti bancari, a compagnie di assicurazione, a fondi pensionistici e a talune societàacquistanoo. Sono loro che "aCquistano" titoli del debito francese, si tratti delle obbligazioni assimilabili del Tesoro (Oat), le più importanti in volume, che sono prodotti a lungo termine, dei buoni del Tesoro a interesse annuale (Btan), che hanno una durata da due a cinque anni, o dei buoni del Tesoro a tassi fissi e a interessi predefiniti (Btf), a brevissimo termine. Di fatto, oggi è attraverso la gestione dei debiti degli Stati che i mercati finanziari sono strutturati ed organizzati. Gli istituti finanziari scambiano poi il debito che hanno "acquistato" in forme molteplici, come i prodotti derivati, il che consente loro di speculare a propria volta sui mercati. Il paese industrializzato più indebitato è il Giappone, con un debito che supera il 195% del suo Pil, ma questo debito è essenzialmente detenuto dagli stessi giapponesi, il che pone il Giappone relativamente al riparo dalle alee della congiunture internazionali. Non è il caso della Francia, dove il 68% del debito negoziabile dello Stato è nelle mani di investitori "non residenti", cioè stranieri. Quali sono i paesi che ne possiedono di più? E impossibile saperlo con certezza, giacché la legge proibisce di divulgare tale informazione. Come si è arrivati a questo punto? Le cause ovviamente sono molteplici: deficit di bilancio a ripetizione (la Francia è in deficit da quasi quarant'anni), incapacità della maggior parte degli Stati di padroneggiare le spese pubbliche, riforme fiscali e riduzioni di tasse demagogiche (se la fiscalità non fosse cambiata dal 1999, il debito francese oggi sarebbe di circa 20 punti di Pil in meno), deindustrializzazione in parte dovuta alle delocalizzazioni rese possibili dalla globalizzazione (nell'insieme dei paesi appartenenti alla Ocde, qualcosa come 17 milioni di posti di lavoro industriali sono stati distrutti nell'arco di soli due anni), deregolamentazione, privatizzazioni e via dicendo.
Una delle cause immediate dell'innalzamento del debito risiede nei piani di salvataggio della finanza decisi dagli Stati nel 2008 e nel 2009. Per salvare le banche e le compagnie di assicurazioni, gli Stati hanno dovuto a loro volta contrarre prestiti sui mercati, il che ha accresciuto il loro debito in proporzioni enormi. Somme astronomiche (800 miliardi di dollari negli Stati uniti, 117 miliardi di sterline in Gran Bretagna) sono state spese per impedire che le banche sprofondassero, decisione che ha gravato in pari misura sulle finanze pubbliche. Complessivamente, le quattro principali banche centrali (Riserva federale americana, Banca centrale europea, Banca del Giappone e Banca d'Inghilterra) hanno iniettato 5.000 miliardi di dollari nell'economia mondiale fra il 2008 e il 2010. È il più grande trasferimento di ricchezze della storia dal settore pubblico al settore privato! Un trasferimento che ha permesso alle banche salvate dagli Stati di ritrovarsi creditrici dei propri salvatori... Nel frattempo, il credito ha continuato a generalizzarsi. La possibilità di contrarre prestiti per coprire le spese correnti o acquistare un alloggio offerta ai nuclei familiari è stata la principale innovazione finanziaria del capitalismo del dopoguerra. Indebitandosi massicciamente, le famiglie hanno indiscutibilmente contribuito, fra il 1948 e il 1973, alla prosperità dell'epoca del Glorioso Trentennio, poiché l'indebitamento ha consentito alla macchina dei consumi di continuare a girare. E il credito si è ulteriormente sviluppato quando le monete, divenute fiduciarie, hanno definitivamente smesso di essere convertibili in oro. Il debito è un contratto fra due entità che ha per oggetto uno scambio scaglionato nel tempo. Il credito è definito come il potere di acquistare in cambio di una promessa di pagare. Il sistema ovviamente funziona solo se questa promessa è mantenuta. La crisi attuale, come è noto, è iniziata negli Stati uniti nell'estate 2007, con la vicenda dei subprimes. Le famiglie americane, incapaci di risparmiare, sono state sistematicamente incitate ad indebitarsi ipotecando il loro alloggio. Dal momento che il ricorso al prestito per loro non era altro che un modo per mantenere artificialmente il livello di vita malgrado il calo dei loro redditi, i fallimenti non hanno tardato a moltiplicarsi. Le banche e le compagnie di assicurazione sono state a loro volta minacciate, il che ha condotto gli Stati a concedere massicciamente prestiti per salvarle. Così la crisi del sovraindebitamento privato si è trasformata in crisi del sovraindebitamento pubblico.
Il concetto di debito è oggi fortemente associato al meccanismo di creazione monetaria. L'apertura di crediti da parte delle banche private è una creazione di moneta scritturale, puramente contabile, vale a dire virtuale, che è il risultato di un semplice gioco di scritture.Tramite la creazione monetaria, le banche creano ex nihilo un "potere d'acquisto" che trasmettono ai clienti a cui concedono prestiti. Questa moneta costituisce oggigiorno oltre il 90% della massa monetaria. Il suo ruolo è amplificato dall'effetto moltiplicatore del credito consentito dal sistema delle riserve frazionarie, che permette alle banche di prestare varie volte l'ammontare dei propri fondi. Una gran parte dei debiti pubblici si trova quindi oggi nei conti delle banche, che non hanno mai smesso di acquistare rifinanziandosi presso la Banca centrale europea ad un prezzo quasi nullo. In altri termini, le banche hanno prestato agli Stati, ad un tasso d'interesse variabile, somme che hanno avuto in prestito per quasi niente. Ma perché gli Stati non possono procurarsi autonomamente le somme in questione presso la Banca centrale? Semplicemente perché ciò è loro proibito!
La data chiave è quella del 3 gennaio 1973, data in cui il governo francese, su proposta di Valéry Giscard d'Estaing, all'epoca ministro delle Finanze, ha fatto adottare una legge di riforma degli statuti della Banca di Francia, disponendo che «il Tesoro pubblico non può essere presentatore dei propri effetti allo sconto della Banca di Francia» (art. 25), il che significava che era ormai proibito alla Banca di Francia accordare prestiti — per definizione non gravati da interesse — allo Stato, che di conseguenza era obbligato a contrarre prestiti sui mercati finanziari ai tassi che questi ritengono adeguati. Tale disposizione è stata in seguito generalizzata in tutta l'Europa, prima di essere ripresa nel trattato di Maastricht (art. 104) e poi nel trattato di Lisbona (art. 123), che stabilisce il divieto per la Banca centrale europea di prestare agli Stati, talché questi si vedono costretti a sottoscrivere prestiti con i mercati o con istituti privati pagando forti tassi di interesse. Le banche private, invece, possono continuare a prendere a prestito denaro dalla Bce ad un tasso risibile (meno dell'1%) per prestarlo agli Stati ad un tasso variabile fra il 3,5% e il 7%.
La legge del 1973 segna il momento in cui la Banca di Francia ha abbandonato il ruolo di servizio pubblico e spossessato lo Stato della sovranità monetaria. In origine, quella legge si appoggiava sul fatto che i prestiti senza interessi accordati dalle banche centrali agli Stati favorivano l'inflazione. Non era falso, ma si è passati da un eccesso all'altro. Invece di conservare lo stesso sistema pur istituendo una procedura che consentisse di limitare l'inflazione, si è puramente e semplicemente decretato che le banche centrali non avrebbero più potuto concedere prestiti agli Stati ma avrebbero potuto farlo alle banche ad un tasso d'interesse ridicolmente basso. Il maggiore privilegio degli Stati, che era il privilegio di battere moneta, è stato così trasferito alle banche, e al settore privato si è concesso il monopolio della creazione monetaria.
Già nel 1999 Maurice Allais, Premio Nobel di economia, scriveva: «Nella sostanza, l'attuale creazion monetaria ex nihilo da parte del sistema bancari è identica, non esito a dirlo, alla creazione di mone da parte dei falsari. Concretamente, sfocia nei me desimi risultati. L'unica differenza è che sono diversi coloro che ne approfittano» (La crise mondiale d'aujourd'hui).
Ancora di recente Mario Draghi, nuovo presidente della Bce, ha deciso di accordare alle banche prestiti in euro ad un tasso dell'i % su tre anni, senza alcuna limitazione di importo. Dato che il tasso Euribor, cioè il tasso al quale le banche si prestano denaro, è dell'1,9%, le istituzioni finanziarie della zona euro hanno in tale modo avuto accesso a finanziamenti due volte meno costosi. Non sorprendentemente, 523 banche europee hanno immediatamente sottoscritto la prima parte di questa offerta, datata 21 dicembre 2011, per un ammontare di 489 miliardi di euro — che avrebbero potuto prestare agli Stati al tasso da loro stesse deciso!
A questo punto intervengono le agenzie di rating, il cui ruolo è ormai ben noto. Più un paese riceve una buona quotazione, più ha la possibilità di contrarre prestiti a tassi ridotti (dalli% al 4%, in funzione della durata del prestito contratto). Viceversa, un paese mal quotato deve far fronte ad un innalzamento dei tassi d'interesse, che si suppone possa compensare il rischio più elevato che gli istituti e mercati si assumono prestandogli denaro.
Le agenzie sono infallibili? Nient'affatto, perché non è possibile per loro valutare in perfetta obiettività un futuro che è, per sua natura, indeterminato. Nel dicembre del 2010, l'agenzia di rating Standard & Poor's sottolineava ad esempio che «la Francia è quotata AAA, cioè con il voto più alto, con una prospettiva stabile, il che significa che non si vede questo voto avere sbalzi nei prossimi due anni». Tredici mesi dopo, la Francia perdeva la "tripla A". Dato più grave: le opinioni delle agenzie di rating possono essere paragonate a termometri che, non contenti di registrare la temperatura, la farebbero automaticamente innalzare quando constatassero che è cattiva. Basta infatti che un paese sia "degradato" perché i suoi prestiti divengano più costosi e di conseguenza la sua situazione si aggravi.
ssumiamo. Sin devonoo a tassi d'ine fissatai credit loro pialute finanziQuegli inter Essendo i non e i mer rimborsare né il debito né gli interessi, gli Stati contraggono nuovi prestiti, innanzitutto per far funzionare i propri paesi, poi per rimborsare l'importo del debito precedente, infine per rimborsare gli interessi di quest'ultimo, il che ha l'effetto di aumentare ancora il loro debito e di appesantirne gli interessi. E dato che la loro situazione si aggrava, anche i tassi di interessi che vengono loro imposti aumentano. Risultato: più rimborsano, più prendono a prestito e più devono pagare. Il debito viene così posto in una situazione di crescita esponenziale per la semplice ragione che tutto il denaro messo in circolazione lo è attraverso prestiti bancari e il contraente il prestito deve sempre rimborsare più dell'importo riscosso. Una spirale infernale. Come uscirne? La soluzione che gli Stati hanno scelto per risanare la situazione consiste nell'intervenire sulle pensioni, sugli assegni familiari o sugli stipendi dei dipendenti pubblici, nel ridurre i programmi sociali, nel diminuire il numero dei funzionari, nel vendere o privatizzare tutto ciò che può esserlo (il che riduce di altrettanto il loro patrimonio), nell'instaurare ovunque rigore ed austerità. Il problema è che quegli stessi Stati vogliono nel contempo "rilanciare la crescita". E i programmi di austerità comportano meccanicamente un aggravio della disoccupazione e un deterioramento del potere d'acquisto, quindi della domanda, il che non può che frenare la crescita e diminuire ulteriormente la solvibilità degli Stati. Sotto l'effetto dell'austerità, l'economia non può più essere trainata dal consumo, che è inevitabilmente destinato a contrarsi. Le classi medie e le classi popolari sono allora le prime a pagare l'imperizia della classe dominante. Quando l'austerità raggiunge un livello mai visto in tempo di pace, le conseguenze politiche e sociali minacciano di sfociare nel caos. L'applicazione di programmi di austerità finisce con l'«organizzare la recessione in Europa, con il risultato che i paesi non usciranno mai dal sovraindebitamento», ha dichiarato di recente Hubert Védrine, interrogato dal quotidiano del Québec «le Devoir». Per poi esortare a «domare i mercati» piuttosto che a rassicurarli, «perché questi mercati non sono una raccolta di vecchie persone inquiete, ma una palude di coccodrilli».
C'è un altro modo di comportarsi? Una soluzione, perlomeno a breve termine, sarebbe che la Bce accettasse di "monetizzare il debito", cioè di svolgere il ruolo di prestatore di ultima istanza. Ma la Bce si rifiuta di farlo, la Germania anche e la Commissione europea pure. Che fare, allora? Rinazionalizzare l'economia e porre fine all'indipendenza delle banche centrali? E quel che ha fatto il governo ungherese, con la conseguenza di esporsi a una denuncia per «violazione del diritto comunitario» presentata dalla Commissione europea. Cancellare il debito? Sarebbe possibile se tutti i paesi indebitati lo esigessero contemporaneamente (la Francia, con un tratto di penna, ha cancellato nel giugno 2011 l'intero debito del Togo). Ma nessuno vuol decidersi a farlo. Allora? Allora, in mancanza di una rimessa in discussione dei fondamenti dell'attuale sistema, ognuno sega coscienziosamente il ramo sul quale è seduto. I politici si lamentano di dipendere dai mercati finanziari e dalle agenzie di rating, ma hanno fatto tutto quel che occorreva per porsi sotto il loro controllo. Hanno deregolamentato i mercati per decenni, hanno liberalizzato il credito, hanno tollerato le delocalizzazioni, hanno consentito alle banche di deposito e alle banche d'investimento di fondere le loro attività, hanno proibito alle banche centrali di aiutare finanziariamente gli Stati, hanno lasciato che la stretta azionaria si sviluppasse al di là del ragionevole, hanno dato alle agenzie di rating il potere (che in precedenza non avevano) di dare voti agli Stati, mentre questi si indebitavano in modo duraturo. Oggi raccolgono i frutti della propria cecità.
Viene chiamato «usura» l'interesse di importo eccessivo attribuito ad un prestito. Ma l'usura è altresì il procedimento che consente di imprigionare il contraente un prestito in un debito che non può più rimborsare e di impadronirsi dei beni che gli appartengono e che egli ha accettato di dare in garanzia. È esattamente quel che vediamo accadere attualmente su scala planetaria. Quello che Keynes chiamava un «regime di creditori» corrisponde alla definizione moderna dell'usura. I procedimenti usurari sono rintracciabili nella maniera in cui i mercati finanziari e le banche possono fare man bassa degli attivi reali degli Stati indebitati, impadronendosi dei loro averi a titolo di interessi di un debito la cui componente principale costituisce una montagna di denaro virtuale che non potrà mai essere rimborsata.
In conseguenza della crisi, l'Europa del Sud si trova oggi ad essere governata da tecnocrati e banchieri formatisi in Goldman Sachs o in Lehman Brothers. «Essere governati dal denaro organizzato è altrettanto pericoloso quanto esserlo dal crimine organizzato», diceva Roosevelt.
Non vi sarà alcun riaggiustamento spontaneo del sistema. Nessun paese ha oggi i mezzi per arrestare la crescita del proprio debito in percentuale del Pil, nessuno ha i mezzi per rimborsare la parte principale del proprio debito. Per questo motivo la crisi del debito è assai più grave della crisi dell'euro, che in rapporto ad essa svolge esclusivamente il ruolo di circostanza aggravante. Prova ne sia il fatto che i paesi industrializzati che non appartengono alla zona euro sono altrettanto indebitati quanto gli altri, se non di più. L'Europa si orienta verso la recessione, gli Stati Uniti e il Regno Unito verso la depressione. Malgrado tutte le manovre dilatorie, un'esplosione generalizzata appare inevitabile di qui a due anni.
di Alain de Benoist 

20 febbraio 2013

666 il numero della Bestia



 



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Ci siamo. Benedetto XVI ha dichiarato di volersi dimettere. La motivazione ufficiale è che non si sente più nelle condizioni di svolgere il suo ruolo, ma ha accompagnato la sua dichiarazione d’imminenti dimissioni con l’ennesima analisi della situazione interna al Vaticano, dichiarando nuovamente che i nemici della Chiesa sono al suo interno. È evidente che il Pontefice sta lanciando dei messaggi per far capire a chi ha orecchie per intendere che le dimissioni sono “obbligate” da eventi molto gravi che sconvolgano la Chiesa e il mondo. Basterebbe ricordarsi le parole che Ratzinger pronunciò, appena eletto, dichiarandosi “umile servitore nella Vigna del Signore”, un passo che si ricollega al messianismo e quindi agli eventi apocalittici.

È singolare che nessuno si sia mai chiesto perché Papa Giovanni Paolo II abbia cercato di resistere così tanto malgrado le sue precarie condizioni di salute, e perché a un tratto, giunto a una data precisa, smise di lottare e “si lasciò morire”. Ai vertici del Vaticano, sono a conoscenza di misteri che neppure noi immaginiamo. Pensare che il mondo sia governato solamente da questioni materiali, è un errore. Al di là del limite del pensiero fenomenologico, c’è da considerare che i fenomeni in questione non siano solo necessariamente quelli materiali, ma anche quelli metafisici. Giovanni Paolo II sentiva il dovere di resistere sino a una data precisa, perché potesse compiersi ciò che era previsto dalle profezie. Si è molto speculato, nella pessima narrativa e nella cinematografia americana, sul fatidico 21 12 2012, parlando a vanvera di “fine del mondo”. La Bibbia parla chiaro a proposito, dicendo che la Terra, creata da Dio, non ha data di termine e sarà eterna. Si può non essere credenti, ma se si ha la fede non è lecito credere a modo nostro. Apocalisse è un termine di derivazione greca che significa “Rivelazione”. La fine del mondo non fu mai annunziata, né dalla Bibbia, né dal Vangelo, e neppure dal Corano. La fine dei tempi – collegata alla oramai famosa data Maya del 21 12 2012 – non è la fine fisica dell’umanità, bensì la fine di un’era. Corrisponde alla fine dell’Età del ferro e il ritorno all’Età dell’oro, che Evola aveva spiegato in libri esemplari come “Rivolta contro il mondo moderno” e che gli hippie avevano presentito già tra gli anni 60 e 70. Eppure il 21 12 2012 è già passato, ma nulla è accaduto. Al di là di quanto ha affermato Margherita Hack che, pur atea, ha voluto precisare che la data 21 12 2012 era sbagliata, in quanto con il passare del tempo si era avuta una sfasatura dei calendari; c’è anche la teoria che il 21 12 2012 non fosse una data di “passaggio netto”, bensì di passaggio sfumato, un evento che, iniziato in quella data, si sarebbe compiuto entro la fine di Marzo (si dice il 21). Ebbene, è singolare che non si faccia sufficientemente notare che le elezioni politiche 2013 in Italia si avranno il 24 e il 25 Febbraio e che le dimissioni del Papa sono previste per il 28 dello stesso mese. E ancora che Mario Monti è entrato nel parlamento italiano esattamente il giorno 11.11.11 e che secondo alcune profezie il 21 marzo 2013 ci sarà “la caduta di Roma”.
Che cosa possa essere “questa caduta”, non è dato di sapere, ma potrebbe essere il crollo finanziario e politico del Vaticano e a tale proposito è bene ricordare che nello scandalo Monte dei Paschi di Siena pare essere coinvolto anche il Vaticano. Secondo le profezie, il conteggio dei papi dimostrerebbe che quello attuale è l’ultimo della storia, seguito da “Pietro il romano”. Secondo le profezie la Chiesa si sarebbe conclusa com’è iniziata, cioè con Pietro. E, infatti, proprio per queste ragioni il regolamento interno del Vaticano non consente a nessuno che si chiami Pietro di essere eletto Papa, almeno fin che non saremo giunti “alla fine”. Per questa stessa ragione, neppure il Segretario di Stato Vaticano può chiamarsi Pietro, in quanto, in caso di decesso del Papa, in attesa del Conclave, è il Segretario di Stato che siede sul trono di Pietro, perciò sarebbe come un “Papa ad interim”. Eppure l’attuale Segretario di Stato Vaticano si chiama, appunto, Tarcisio Pietro Evasio Bertone, ed è nato a Romano Canavese. È lui “Pietro il romano”? 

Certo si può tranquillamente pensare che siano tutte coincidenze, ma uno dei passaggi fondamentali dell’Apocalisse di Giovanni, recita così: “Faceva sì che tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi ricevessero un marchio sulla mano destra e sulla fronte; e che nessuno potesse comprare o vendere senza avere tale marchio, cioè il nome della bestia o il numero del suo nome. Qui sta la sapienza. Chi ha intelligenza calcoli il numero della bestia: essa rappresenta un nome d'uomo. E tal cifra è seicentosessantasei”. Già in miei precedenti articoli e interventi su “Il Giornale del Ribelle” ho scritto dell’intenzione di talune forze politiche italiane di abolire la moneta contante, per sostituirla con la carta di credito, e del fatto che in Usa la riforma Obama ha, di fatto, introdotto l’uso del microchip RFID. Quello che ancora non avevo detto è che si prevede che questo chip sia introdotto proprio sulla mano destra o sulla fronte e che al suo interno il conto bancario è contenuto attraverso un codice a barre. Quanti sanno che tutti i codici a barre hanno come numero di partenza un 6, nel mezzo un altro 6 e terminano con un terzo 6? 666, il numero della bestia, altro non sarebbe che il codice a barre contenuto nel chip RFID. Secondo le profezie, quando questo Papa si “allontanerà”, salirà al trono del mondo l’Anticristo che dominerà su una dittatura mondiale. Il suo regno dovrebbe durare poco e sarebbe sostituito dal Regno di Cristo, un Regno di pace e amore universale. Perciò l’Apocalisse non sarebbe un evento negativo, bensì positivo, ma prima di giungere a questo Regno di Cristo bisognerebbe superare delle tremende prove. Antonio Socci fu il primo ad annunciare che il Pontefice stava considerando la possibilità di dimettersi, e molti lo avevano preso per visionario, invece ci siamo, tra poco il Papa si dimetterà e vedremo se gli eventi delle profezie si avvereranno. Da parte nostra, non possiamo essere complici del male. Dobbiamo opporci alla carta di credito e al chip, dobbiamo opporci a ogni tentativo di unificazione europea e mondiale, dobbiamo opporci a ogni forma di tentativo di controllo della società. All’euromondialismo, rispondiamo con il nazional-localismo. Se è scritto che la dittatura mondiale si compia, si compirà, ma non con la nostra complicità, o almeno, non con la mia!  


di Gianluca Donati