Da quando vidi il film Il maschio e la femmina (1966) la prima volta avevo l’età dei suoi protagonisti e me ne colpì l’intelligenza nella descrizione dei disagi e speranze di una generazione. Ma quel che più ne ricordo è la scritta che, a bruciapelo e senza necessità evidente, interrompeva una scena per affermare che «la pubblicità è il fascismo del nostro tempo». Si è governato e si governa, in gran parte del mondo occidentale, con gli strumenti del consenso e del consumo, riuscendo quasi sempre a evitare il manganello e la censura diretta. Col companatico al posto del pane, la televisione al posto dei giochi del circo (ultima variante i festival di letteratura e altra cultura) e con la pubblicità.
Pubblicità  in senso lato – di uno stile di  vita, di un modello  di società  propagandato come il migliore o l’unico  possibile – ma che  anche nel  senso specifico e ristretto di un tipo di  comunicazione che  mira a far  acquistare delle cose. Il potere della  pubblicità è  cresciuto  enormemente, la stampa, per esempio, ne vive e ne  è  ricattata, le  leggi che la limitavano sono state progressivamente   abbattute e ci  sono riviste dove le pagine di testo sono un terzo di   quelle riservate  alla pubblicità, senza considerare la pubblicità   indiretta. 
 Fu Vance Packard per primo a denunciare questo  attentato alla  democrazia  e alla libertà dell’informazione in un libro  celebre, I persuasori  occulti,   a metà degli anni cinquanta. A noi poteva sembrare  fantascienza, ma   poi, come in molti altri campi, la fantascienza è  diventata realtà, e   come “genere” letterario è quasi scomparso (riprende  oggi, mascherato,   nella più accorta letteratura per ragazzi). Anche la  battuta di  Godard,  che al suo tempo indicava una preoccupazione o una  messa in  guardia, è  oggi una constatazione. 
Un’idea moderna di  pubblicità è  esplosa in Italia negli anni sessanta,  prima la  pubblicità era  secondaria, rozza, poco o niente mediata. Su un   giornale degli anni  trenta o quaranta la pubblicità di un lassativo si   serviva  dell’immagine celebre dell’incontro tra Dante e Beatrice lungo   l’Arno  accompagnata dal verso della Commedia «Io son Beatrice che ti   faccio  andare». Poi, col boom, vennero le grandi agenzie e la leva dei    professorini che avevano sulla scrivania dei loro uffici milanesi e    torinesi (l’ho visto coi miei occhi, ho avuto molti amici che si sono    dati a quel mestiere) le opere di Jung e altri studiosi di simboli e    miti, di immagini archetipiche, di studi sull’inconscio. La pubblicità    si faceva furba e intellettuale, un settore in enorme espansione. Non    sembrava disdicevole farne una professione. 
La fase   successiva è il ’68: quando si trattò di trovare lavoro molti  passarono   dal movimento alla pubblicità, soprattutto a Milano (più assai  di   quelli che finirono nel giornalismo o nella politica istituzionale,  ma   ovviamente meno di quelli finiti nella scuola). Ne vennero una  perdita   di sottigliezza, messaggi sempre meno velati, una aggressività  via  via  più volgare e diretta. 
I giornali sono brutti anche per i ricatti della pubblicità. E se sfogliamo un quotidiano di quelli importanti (che sono due, forse tre, in stretto legame con lotte e intrighi del potere, dominatori dell’informazione bacata e nemici giurati della riflessione e delle connessioni) vediamo che vi si fronteggiano pagine di cronaca raccapricciante e di pubblicità da mondo dei sogni. E colpisce il leit-motiv, il tormentone sessuale: chi compra un’automobile X o Y scopa meglio e di più, e questo vale per una scatola di piselli o una birra, un computer o un best-seller, e volti e corpi di giovani robot da film americano imbecille vi si offrono spudoratamente, come in un Eden ritrovato dove ogni albero, animale o nuvola serve solo a veicolare un unico messaggio: comprate, solo così sarete felici.
La sua logica è  berlusconiana, ma chi protesta per altre  forme  di manipolazione trova  questa normale, o meglio, la trovano  normale i  giornali e i  giornalisti che se ne nutrono. L’elargizione  della  pubblicità Fiat,  per esempio, è stato un modo di influire sui  giornali  della sinistra,  anche quelli apparentemente più liberi. 
La  manipolazione  pubblicitaria incide in profondità sulla salute mentale  e  sulla morale  dei destinatari dei loro messaggi, e su quelli della   Repubblica. È  espressione del fascismo del nostro tempo. Dopo la guerra,   molti figli  chiesero ai padri come si erano comportati sotto fascismo o   nazismo.  Accadrà anche in Italia, dopo il trentennio che muore?  Sarebbe  sano,  ma non succederà.
di Goffredo Fofi
Nessun commento:
Posta un commento