10 maggio 2013

Che fare dell'Euro?




Quasi un’introduzione Il compito che oggi sta di fronte a quel che resta della sinistra italiana è dei più difficili. La situazione è chiara, per chi sappia guardarla: ma per affrontarla è necessaria, dopo tante piccole innovazioni più predicate che praticate, una netta e dolorosa rottura con l’europeismo dogmatico che da troppo tempo ci accompagna. E’ chiaro infatti che ogni libera espressione elettorale della volontà degli elettori sudeuropei rende inattuabile il patto che ha consentito finora la sopravvivenza dell’euro, perché impedisce di fatto la tranquilla attuazione delle restrizioni previste dal Fiscal Compact, anche in eventuale versione light. E’ chiaro quindi che l’euro, come moneta che unisce nord e sud Europa, è ormai irreversibilmente finito, perché anche se restasse in vita ciò avverrebbe contro il volere di una massa crescente di cittadini europei. Ma è altrettanto chiaro che la sinistra italiana e continentale non è capace di un pensiero che sia all’altezza della situazione, perché non è capace di prendere atto della fine della globalizzazione e del riemergere degli stati nazionali (o meglio degli stati nazionali più forti) come attori principali della politica. Non è capace di capire che l’Europa è ancora fatta di nazioni, che le nazioni più forti dettano la direzione di marcia e che, anche a causa della persistente crisi economica, questa marcia conduce ad un gioco in cui il nord vince ed il sud perde. E che quindi una coerente difesa dei lavoratori italiani si identifica, oggi, con la costruzione di un discorso che sappia legare in maniera inedita questione di classe e questione nazionale. Le incertezze sono più che comprensibili: da Crispi a Mussolini, per tacere degli epigoni minori, in Italia nazionalismo fa rima con avventurismo autoritario. Per questo l’europeismo è parso a molti una ulteriore garanzia contro l’anima nera della società italiana, tanto che anche la sinistra anticapitalista ha visto in qualche modo nell’Europa un vincolo esterno che poteva obbligare il paese alle virtù democratiche. Purtroppo, però, l’ideologia del vincolo esterno è esattamente l’ideologia delle classi dominanti italiane, e purtroppo l’Europa si è trasformata, da ipotetico baluardo della democrazia, a baluardo del monetarismo contro la volontà popolare. Sarà quindi necessario rielaborare in fretta tutto il nostro orientamento degli ultimi decenni e riscoprire un nesso tra classe e nazione che in Italia ha avuto rari, benché importanti, momenti di emersione: nella Resistenza, nella difesa delle fabbriche contro l’invasore, nelle lotte postbelliche per il lavoro, nelle campagne comuniste contro l’imperialismo, e forse anche nel contraddittorio e perdente itinerario di Berlinguer. Si può fare.
E soprattutto si deve fare.
Le note che seguono tentano di argomentare questo assunto basandosi su vari lavori di diverso campo disciplinare e di diverso orientamento, non tutti convergenti su un’ipotesi di rottura dell’euro, ma certamente tutti concordi nel chiedere quanto meno la fine dell’ europeismo “incondizionato”. Si tratta degli scritti di Alberto Bagnai, Bruno Amoroso, Emiliano Brancaccio, Leonardo Paggi, Lucio Caracciolo, Vladimiro Giacchè. Ho tenuto conto anche delle critiche all’Unione europea ed all’euro mosse da chi, come Riccardo Bellofiore, Alfonso Gianni e Bruno Steri, non ne deduce però conclusioni radicali. Queste note non intendono proporre l’immediata uscita dall’euro, ma sottolineare la necessità di inscrivere la nostra azione nella prospettiva storica del superamento dell’euro, precondizione per la creazione di una nuova unità politica europea fondata su un recupero delle sovranità nazionali e monetarie come base per la successiva e progressiva costruzione di una vera sovranità politica continentale. Per chi inorridisce al solo sentir parlare di “sovranità” preciso che con questo termine qui non si intende indicare il fondamento di una politica assoluta, aggressiva sia verso l’interno che verso l’esterno, ma una condizione elementare della democrazia (“la sovranità appartiene al popolo…”) che non a caso è stata messa in discussione proprio dalla globalizzazione guidata dal capitalismo anglosassone. Una condizione elementare della democrazia, ma anche della politica e dell’esistenza stessa di una sinistra, giacché l’estinzione della differenza fra destra e sinistra non è che l’ultimo frutto della cancellazione della libertà di scelta, implicita nella fine della sovranità
1. L’Europa indiscutibileUn partito dei lavoratori non può limitarsi a prendere posizione a fianco di essi contro il capitalismo “in generale”, ma deve anche prendere posizione nei confronti della particolare forma spaziale, geografica, che di volta in volta è assunta dal dominio del capitale sul lavoro. Un partito che, su questo tema, assuma di fatto la stessa posizione dell’avversario, è condannato a non avere mai una vera e propria autonomia. In questi anni il movimento operaio ed i movimenti civili hanno ritenuto che l’Unione europea offrisse uno spazio più ampio alle lotte popolari e costituisse (vigendo la cosiddetta globalizzazione) la dimensione minima per ogni tipo di politica, e quindi anche per la politica progressiva, la dimensione europea è apparsa indiscutibile, ed è per questo che, al di là di ogni esame logico, i difetti dell’Unione e quelli dell’euro sono stati dichiarati ipso facto emendabili.
2. Un gioco truccatoInvece, come mostreremo, l’Unione europea e l’euro non sono affatto un campo neutro in cui giocare al meglio la lotta di classe e quella civile. Il campo è indubbiamente più ampio di quello nazionale e, parlando astrattamente, potrebbe farci giocare una partita più importante, con risultati più rilevanti e più duraturi. Ma, ragionando concretamente, esso si presenta come un campo truccato, dove noi giochiamo sempre in salita e l’arbitro sta con gli altri: in realtà non è un campo, ma un meccanismo concepito ed attuato proprio per indebolire la lotta di classe e neutralizzare i diritti civili, primo fra tutti il diritto di voto. E’ quindi impossibile democratizzare l’Europa, proprio come è stato impossibile democratizzare la globalizzazione, poiché entrambe, nel costituirsi, determinano le condizioni che ne rendono impossibile una versione progressiva: la globalizzazione concedendo la massima libertà di movimento ai capitali, l’Unione europea imponendo la difesa del capitale monetario come valore costituzionale, garantito proprio dall’euro e dalla Bce. Dire che si può costruire, attraverso le lotte continentali, un’Europa diversa è dire solo una mezza verità: si tace, infatti, che per costruire l’Europa sociale si deve non solo superare questa Europa, ma anche superare l’euro. E tutti coloro che lottano per l’altra Europa senza mettere però in discussione il regime dell’euro rischiano di agire irresponsabilmente perché si ritraggono davanti alle conseguenze della propria azione.
3. Un’osservazione di GramsciDunque l’Unione europea non può essere considerata, fatalisticamente, come dimensione migliore sol perché “più grande”. Giova al riguardo meditare sulla seguente osservazione di Gramsci: “La questione nasce dal non concepire la storia come storia di classi. Una classe ha raggiunto un certo stadio, ha costruito una certa forma di vita statale: la classe dominata, che insorge, in quanto spezza questa realtà acquisita, è perciò reazionaria? Stati unitari, movimenti autonomisti; lo Stato unitario è stato un progresso storico, necessario, ma non perciò si può dire che ogni movimento tendente a spezzare gli Stati unitari sia antistorico e reazionario; se la classe dominata non può raggiungere la sua storicità altro che spezzando questi involucri, significa che si tratta di unità amministrative militari-fiscali, non di unità moderne”. Insomma: uno spazio statuale più grande è anche uno spazio migliore solo quando consente alla classe dominata di esprimere la propria autonomia politica. In caso contrario il nazionalismo non è meglio dell’autonomismo o del federalismo. E, come accade oggi, l’europeismo non è comunque meglio del nazionalismo. Quando il dominio di classe assume forma nazionalistica si deve essere internazionalisti, europeisti e in qualche caso autonomisti. Quando invece, come succede in Europa, quel dominio passa proprio attraverso la distruzione dello stato nazionale, si deve elaborare un nazionalismo democratico orientato verso una nuova Europa confederale.
4. Il mito dell’Europa anti-UsaSi esita a mettere in discussione l’Unione europea anche perché resiste il mito dell’Europa come potenziale polo di contrasto dell’egemonia Usa. L’Europa ideale forse corrisponde al mito, quella reale no. Il fondamento dell’inizio del processo unitario, alla fine degli anni ’50, si trova proprio nella definitiva scomparsa di ogni velleità di potenza da parte delle nazioni del continente. L’Europa si presenta quindi da subito come soggetto economico invece che politico, avente funzione di volano territoriale dello sviluppo mondiale, ma strategicamente disciplinato dalla Nato. L’accelerazione di fine secolo avviene in questa stessa direzione: al momento della caduta del Muro le redini passano di fatto alla Germania che razionalmente sceglie di basare la propria forza sull’espansione economica piuttosto che su quella politica (e quindi di continuare nella costruzione economicista dell’unità europea) perché teme le inevitabili reazioni internazionali ad un suo protagonismo politico-militare. L’Unione europea si sviluppa dunque come unità priva di una propria politica estera, ed è quindi l’esatto contrario di un soggetto politico. E’ per questo, oltre che per preoccupazioni di ordine economico, che gli Usa preferiscono, pur con le inevitabili contraddizioni, la forma attuale dell’Unione europea (oppure una unità politica costruita imbrigliando la Germania con una pletora di stati atlantisti): un mutamento di questa forma costringerebbe infatti la Germania ad un maggior ruolo politico, la avvicinerebbe ulteriormente alla Russia e riporterebbe quest’ultima vicino alle posizioni perse col crollo del Patto di Varsavia.
5. Il mito dell’Europa sovranazionaleMolte delle speranze di una positiva evoluzione dell’Unione si basano su un altro mito: quello dell’Europa sovranazionale. Ma l’Unione europea e l’euro si reggono purtroppo su patti intergovernativi e quindi sull’ incerto asse Parigi-Berlino. Chi sia il vero sovrano d’Europa lo si è visto, come sempre accade, nello stato d’eccezione, ossia nella crisi esplosa nel 2008. Se in tempi di bonaccia a governare sono le istituzioni comunitarie, alle quali si possono comodamente imputare le scelte più sgradite, all’emergere della crisi queste ammutoliscono e decide il direttorio informale franco-tedesco, il cui ruolo si condensa poi nel dominio del Consiglio europeo, ossia dell’organo intergovernativo. Questa identificazione del sovrano è essenziale: non si comprende nulla delle prospettive europee se non si comprende che sovrani sono ancora i governi nazionali ed in particolare il governo più forte, ossia quello tedesco. E che per tale motivo i criteri che guidano le scelte fondamentali dell’Unione non sono quelli di un’astratta razionalità europeista, capace di mediare tra i diversi interessi degli stati membri, ma quelli degli interessi nazionali del duo franco-tedesco e soprattutto del partner prevalente: il che conduce ad una crisi continua dell’Unione stessa. Infatti con il crollo del Muro, e con la conseguente creazione dell’euro, crolla, come ha dovuto riconoscere lo stesso Carlo Azeglio Ciampi, anche il sogno europeo. Preoccupata per il crescente potere della Germania, la Francia ottiene l’abbandono del marco in cambio del via libera all’unificazione tedesca; ma la Germania accetta l’euro solo se ed in quanto esso somiglia al marco. Così, al progressivo avvicinamento economico e politico dei diversi paesi si sostituisce la costruzione forzosa di un’unica area valutaria che aumenta, a lungo andare, la divaricazione fra i paesi perché impone una moneta unica ad economie del tutto diverse. E perché questa moneta incorpora le “virtù” del marco: deflazione, indipendenza della Bce e stabilità monetaria, i tre dogmi su cui è costruito l’euro, le tre cause, o concause, della distruzione dell’unità europea.
6. Deflazione, Bce, stabilitàLa scelta deflazionista è strategica per la Germania perché questo paese è (e lo diverrà sempre di più nei confronti degli altri paesi europei) sia esportatore netto che creditore netto: da ciò, per adesso e per lungo tempo, l’impossibilità di una diversa politica economica di Berlino, giacché ogni accenno di inflazione ridurrebbe i suoi crediti ed aumenterebbe i prezzi delle sue merci.
Quanto all’indipendenza della Bce essa consente di costruire un particolare stato capitalistico che costringe gli stati nazionali a finanziarsi solo attraverso il mercato, escludendo ogni monetizzazione del debito. Da ciò l’aumento del costo del debito e quindi la riduzione delle spese sociali e quindi il collasso del vecchio modello di compromesso fra classi: la Bce, con le sue scelte “puramente” monetarie, impone di fatto anche una politica fiscale restrittiva senza avere, al riguardo, nessuna legittimazione politica. La stabilità monetaria completa l’opera, non solo perché garantisce il creditore contro il debitore, ma anche perché ha lo stesso effetto che aveva il gold standard: rendere strutturalmente scarso il denaro e quindi costringere il lavoro a svalorizzarsi per attrarre capitale; come scrive Alberto Bagnai l’euro è il Reagan europeo.
Questo meccanismo, che è strutturalmente contrario ad ogni politica popolare, potrebbe essere forse riformabile se fosse espressione di una comune volontà transnazionale che, sperimentati i difetti della propria costituzione monetaria, decidesse razionalmente di cambiarla. Ma esso è invece espressione dello stato forte, ed a quest’ultimo apporta quasi solo benefici. Per questo, quindi, salvo ripensamenti improbabili di Berlino, può essere solo corretto qua e là, e non certo ribaltato.
7. L’euro aggrava gli squilibriA quanto sopra si aggiungono gli effetti dell’unicità della moneta in presenza di economie diverse. Deve esser chiaro, preliminarmente, che i guai dell’economia italiana non derivano (o non derivavano) principalmente dall’euro. Derivano dalla grave sottocapitalizzazione di tutte le imprese (piccole, medie e grandi), dalla latitanza delle banche privatizzate, dall’assenza di intervento pubblico e di politica industriale, dalla precarizzazione del lavoro. E deve essere chiaro che la forza dell’economia tedesca è (o era) essenzialmente endogena. Nessun sentimento antitedesco, quindi, nessuna risibile rivendicazione della cosiddetta italianità. In partenza l’economia tedesca è più produttiva (anche se non di molto) di quella italiana. Ma il fatto è che l’euro aggrava gli squilibri invece di attenuarli. Già ci ha pensato il mercato unico a far addensare le risorse produttive sul versante nordoccidentale del continente: i capitali vanno soprattutto là dove c’è maggior concentrazione industriale, ed il processo si autoalimenta. A ciò l’euro aggiunge l’eliminazione delle monete nazionali e quindi l’impossibilità di svalutare per recuperare gli squilibri dei conti tra paesi. L’autodenigrazione così diffusa in Italia ci fa dimenticare che la svalutazione non è un furbesco stratagemma dei pigri a danno dei più laboriosi, ma è, insieme alla rivalutazione, un meccanismo fisiologico di riequilibrio: non è una panacea, ma nemmeno il male assoluto. In un gruppo di paesi connessi ma aventi diversi gradi di competitività, se i paesi in deficit (e qui stiamo parlando del deficit nei conti con l’estero che è in maggioranza deficit privato) non possono svalutare e quelli in surplus non possono (e non vogliono) rivalutare, gli squilibri sono condannati a riprodursi, ed ogni prospettiva unitaria perde senso. Ai paesi in deficit non resta che sostituire l’impossibile svalutazione monetaria con la svalutazione reale, ossia con la depressione dei salari, e quindi della domanda e così via. I paesi in surplus dovrebbero compensare questo movimento aumentando salari e domanda (rivalutazione reale): nel nostro caso, invece, il paese che più degli altri avrebbe dovuto rivalutare, ossia la Germania, ha riacquisito competitività operando a sua volta una grossa svalutazione reale, ossia una riduzione dei salari finanziata (e socialmente attenuata) dal denaro pubblico erogato in barba ai criteri di Maastricht. Del resto, l’Unione impone di fatto il riequilibrio ai soli paesi in deficit, mentre una logica realmente unitaria, come quella proposta da Keynes per il sistema di Bretton Woods, richiederebbe l’obbligo di riequilibrio anche ai paesi in surplus.
di Mimmo Porcaro

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10 maggio 2013

Che fare dell'Euro?




Quasi un’introduzione Il compito che oggi sta di fronte a quel che resta della sinistra italiana è dei più difficili. La situazione è chiara, per chi sappia guardarla: ma per affrontarla è necessaria, dopo tante piccole innovazioni più predicate che praticate, una netta e dolorosa rottura con l’europeismo dogmatico che da troppo tempo ci accompagna. E’ chiaro infatti che ogni libera espressione elettorale della volontà degli elettori sudeuropei rende inattuabile il patto che ha consentito finora la sopravvivenza dell’euro, perché impedisce di fatto la tranquilla attuazione delle restrizioni previste dal Fiscal Compact, anche in eventuale versione light. E’ chiaro quindi che l’euro, come moneta che unisce nord e sud Europa, è ormai irreversibilmente finito, perché anche se restasse in vita ciò avverrebbe contro il volere di una massa crescente di cittadini europei. Ma è altrettanto chiaro che la sinistra italiana e continentale non è capace di un pensiero che sia all’altezza della situazione, perché non è capace di prendere atto della fine della globalizzazione e del riemergere degli stati nazionali (o meglio degli stati nazionali più forti) come attori principali della politica. Non è capace di capire che l’Europa è ancora fatta di nazioni, che le nazioni più forti dettano la direzione di marcia e che, anche a causa della persistente crisi economica, questa marcia conduce ad un gioco in cui il nord vince ed il sud perde. E che quindi una coerente difesa dei lavoratori italiani si identifica, oggi, con la costruzione di un discorso che sappia legare in maniera inedita questione di classe e questione nazionale. Le incertezze sono più che comprensibili: da Crispi a Mussolini, per tacere degli epigoni minori, in Italia nazionalismo fa rima con avventurismo autoritario. Per questo l’europeismo è parso a molti una ulteriore garanzia contro l’anima nera della società italiana, tanto che anche la sinistra anticapitalista ha visto in qualche modo nell’Europa un vincolo esterno che poteva obbligare il paese alle virtù democratiche. Purtroppo, però, l’ideologia del vincolo esterno è esattamente l’ideologia delle classi dominanti italiane, e purtroppo l’Europa si è trasformata, da ipotetico baluardo della democrazia, a baluardo del monetarismo contro la volontà popolare. Sarà quindi necessario rielaborare in fretta tutto il nostro orientamento degli ultimi decenni e riscoprire un nesso tra classe e nazione che in Italia ha avuto rari, benché importanti, momenti di emersione: nella Resistenza, nella difesa delle fabbriche contro l’invasore, nelle lotte postbelliche per il lavoro, nelle campagne comuniste contro l’imperialismo, e forse anche nel contraddittorio e perdente itinerario di Berlinguer. Si può fare.
E soprattutto si deve fare.
Le note che seguono tentano di argomentare questo assunto basandosi su vari lavori di diverso campo disciplinare e di diverso orientamento, non tutti convergenti su un’ipotesi di rottura dell’euro, ma certamente tutti concordi nel chiedere quanto meno la fine dell’ europeismo “incondizionato”. Si tratta degli scritti di Alberto Bagnai, Bruno Amoroso, Emiliano Brancaccio, Leonardo Paggi, Lucio Caracciolo, Vladimiro Giacchè. Ho tenuto conto anche delle critiche all’Unione europea ed all’euro mosse da chi, come Riccardo Bellofiore, Alfonso Gianni e Bruno Steri, non ne deduce però conclusioni radicali. Queste note non intendono proporre l’immediata uscita dall’euro, ma sottolineare la necessità di inscrivere la nostra azione nella prospettiva storica del superamento dell’euro, precondizione per la creazione di una nuova unità politica europea fondata su un recupero delle sovranità nazionali e monetarie come base per la successiva e progressiva costruzione di una vera sovranità politica continentale. Per chi inorridisce al solo sentir parlare di “sovranità” preciso che con questo termine qui non si intende indicare il fondamento di una politica assoluta, aggressiva sia verso l’interno che verso l’esterno, ma una condizione elementare della democrazia (“la sovranità appartiene al popolo…”) che non a caso è stata messa in discussione proprio dalla globalizzazione guidata dal capitalismo anglosassone. Una condizione elementare della democrazia, ma anche della politica e dell’esistenza stessa di una sinistra, giacché l’estinzione della differenza fra destra e sinistra non è che l’ultimo frutto della cancellazione della libertà di scelta, implicita nella fine della sovranità
1. L’Europa indiscutibileUn partito dei lavoratori non può limitarsi a prendere posizione a fianco di essi contro il capitalismo “in generale”, ma deve anche prendere posizione nei confronti della particolare forma spaziale, geografica, che di volta in volta è assunta dal dominio del capitale sul lavoro. Un partito che, su questo tema, assuma di fatto la stessa posizione dell’avversario, è condannato a non avere mai una vera e propria autonomia. In questi anni il movimento operaio ed i movimenti civili hanno ritenuto che l’Unione europea offrisse uno spazio più ampio alle lotte popolari e costituisse (vigendo la cosiddetta globalizzazione) la dimensione minima per ogni tipo di politica, e quindi anche per la politica progressiva, la dimensione europea è apparsa indiscutibile, ed è per questo che, al di là di ogni esame logico, i difetti dell’Unione e quelli dell’euro sono stati dichiarati ipso facto emendabili.
2. Un gioco truccatoInvece, come mostreremo, l’Unione europea e l’euro non sono affatto un campo neutro in cui giocare al meglio la lotta di classe e quella civile. Il campo è indubbiamente più ampio di quello nazionale e, parlando astrattamente, potrebbe farci giocare una partita più importante, con risultati più rilevanti e più duraturi. Ma, ragionando concretamente, esso si presenta come un campo truccato, dove noi giochiamo sempre in salita e l’arbitro sta con gli altri: in realtà non è un campo, ma un meccanismo concepito ed attuato proprio per indebolire la lotta di classe e neutralizzare i diritti civili, primo fra tutti il diritto di voto. E’ quindi impossibile democratizzare l’Europa, proprio come è stato impossibile democratizzare la globalizzazione, poiché entrambe, nel costituirsi, determinano le condizioni che ne rendono impossibile una versione progressiva: la globalizzazione concedendo la massima libertà di movimento ai capitali, l’Unione europea imponendo la difesa del capitale monetario come valore costituzionale, garantito proprio dall’euro e dalla Bce. Dire che si può costruire, attraverso le lotte continentali, un’Europa diversa è dire solo una mezza verità: si tace, infatti, che per costruire l’Europa sociale si deve non solo superare questa Europa, ma anche superare l’euro. E tutti coloro che lottano per l’altra Europa senza mettere però in discussione il regime dell’euro rischiano di agire irresponsabilmente perché si ritraggono davanti alle conseguenze della propria azione.
3. Un’osservazione di GramsciDunque l’Unione europea non può essere considerata, fatalisticamente, come dimensione migliore sol perché “più grande”. Giova al riguardo meditare sulla seguente osservazione di Gramsci: “La questione nasce dal non concepire la storia come storia di classi. Una classe ha raggiunto un certo stadio, ha costruito una certa forma di vita statale: la classe dominata, che insorge, in quanto spezza questa realtà acquisita, è perciò reazionaria? Stati unitari, movimenti autonomisti; lo Stato unitario è stato un progresso storico, necessario, ma non perciò si può dire che ogni movimento tendente a spezzare gli Stati unitari sia antistorico e reazionario; se la classe dominata non può raggiungere la sua storicità altro che spezzando questi involucri, significa che si tratta di unità amministrative militari-fiscali, non di unità moderne”. Insomma: uno spazio statuale più grande è anche uno spazio migliore solo quando consente alla classe dominata di esprimere la propria autonomia politica. In caso contrario il nazionalismo non è meglio dell’autonomismo o del federalismo. E, come accade oggi, l’europeismo non è comunque meglio del nazionalismo. Quando il dominio di classe assume forma nazionalistica si deve essere internazionalisti, europeisti e in qualche caso autonomisti. Quando invece, come succede in Europa, quel dominio passa proprio attraverso la distruzione dello stato nazionale, si deve elaborare un nazionalismo democratico orientato verso una nuova Europa confederale.
4. Il mito dell’Europa anti-UsaSi esita a mettere in discussione l’Unione europea anche perché resiste il mito dell’Europa come potenziale polo di contrasto dell’egemonia Usa. L’Europa ideale forse corrisponde al mito, quella reale no. Il fondamento dell’inizio del processo unitario, alla fine degli anni ’50, si trova proprio nella definitiva scomparsa di ogni velleità di potenza da parte delle nazioni del continente. L’Europa si presenta quindi da subito come soggetto economico invece che politico, avente funzione di volano territoriale dello sviluppo mondiale, ma strategicamente disciplinato dalla Nato. L’accelerazione di fine secolo avviene in questa stessa direzione: al momento della caduta del Muro le redini passano di fatto alla Germania che razionalmente sceglie di basare la propria forza sull’espansione economica piuttosto che su quella politica (e quindi di continuare nella costruzione economicista dell’unità europea) perché teme le inevitabili reazioni internazionali ad un suo protagonismo politico-militare. L’Unione europea si sviluppa dunque come unità priva di una propria politica estera, ed è quindi l’esatto contrario di un soggetto politico. E’ per questo, oltre che per preoccupazioni di ordine economico, che gli Usa preferiscono, pur con le inevitabili contraddizioni, la forma attuale dell’Unione europea (oppure una unità politica costruita imbrigliando la Germania con una pletora di stati atlantisti): un mutamento di questa forma costringerebbe infatti la Germania ad un maggior ruolo politico, la avvicinerebbe ulteriormente alla Russia e riporterebbe quest’ultima vicino alle posizioni perse col crollo del Patto di Varsavia.
5. Il mito dell’Europa sovranazionaleMolte delle speranze di una positiva evoluzione dell’Unione si basano su un altro mito: quello dell’Europa sovranazionale. Ma l’Unione europea e l’euro si reggono purtroppo su patti intergovernativi e quindi sull’ incerto asse Parigi-Berlino. Chi sia il vero sovrano d’Europa lo si è visto, come sempre accade, nello stato d’eccezione, ossia nella crisi esplosa nel 2008. Se in tempi di bonaccia a governare sono le istituzioni comunitarie, alle quali si possono comodamente imputare le scelte più sgradite, all’emergere della crisi queste ammutoliscono e decide il direttorio informale franco-tedesco, il cui ruolo si condensa poi nel dominio del Consiglio europeo, ossia dell’organo intergovernativo. Questa identificazione del sovrano è essenziale: non si comprende nulla delle prospettive europee se non si comprende che sovrani sono ancora i governi nazionali ed in particolare il governo più forte, ossia quello tedesco. E che per tale motivo i criteri che guidano le scelte fondamentali dell’Unione non sono quelli di un’astratta razionalità europeista, capace di mediare tra i diversi interessi degli stati membri, ma quelli degli interessi nazionali del duo franco-tedesco e soprattutto del partner prevalente: il che conduce ad una crisi continua dell’Unione stessa. Infatti con il crollo del Muro, e con la conseguente creazione dell’euro, crolla, come ha dovuto riconoscere lo stesso Carlo Azeglio Ciampi, anche il sogno europeo. Preoccupata per il crescente potere della Germania, la Francia ottiene l’abbandono del marco in cambio del via libera all’unificazione tedesca; ma la Germania accetta l’euro solo se ed in quanto esso somiglia al marco. Così, al progressivo avvicinamento economico e politico dei diversi paesi si sostituisce la costruzione forzosa di un’unica area valutaria che aumenta, a lungo andare, la divaricazione fra i paesi perché impone una moneta unica ad economie del tutto diverse. E perché questa moneta incorpora le “virtù” del marco: deflazione, indipendenza della Bce e stabilità monetaria, i tre dogmi su cui è costruito l’euro, le tre cause, o concause, della distruzione dell’unità europea.
6. Deflazione, Bce, stabilitàLa scelta deflazionista è strategica per la Germania perché questo paese è (e lo diverrà sempre di più nei confronti degli altri paesi europei) sia esportatore netto che creditore netto: da ciò, per adesso e per lungo tempo, l’impossibilità di una diversa politica economica di Berlino, giacché ogni accenno di inflazione ridurrebbe i suoi crediti ed aumenterebbe i prezzi delle sue merci.
Quanto all’indipendenza della Bce essa consente di costruire un particolare stato capitalistico che costringe gli stati nazionali a finanziarsi solo attraverso il mercato, escludendo ogni monetizzazione del debito. Da ciò l’aumento del costo del debito e quindi la riduzione delle spese sociali e quindi il collasso del vecchio modello di compromesso fra classi: la Bce, con le sue scelte “puramente” monetarie, impone di fatto anche una politica fiscale restrittiva senza avere, al riguardo, nessuna legittimazione politica. La stabilità monetaria completa l’opera, non solo perché garantisce il creditore contro il debitore, ma anche perché ha lo stesso effetto che aveva il gold standard: rendere strutturalmente scarso il denaro e quindi costringere il lavoro a svalorizzarsi per attrarre capitale; come scrive Alberto Bagnai l’euro è il Reagan europeo.
Questo meccanismo, che è strutturalmente contrario ad ogni politica popolare, potrebbe essere forse riformabile se fosse espressione di una comune volontà transnazionale che, sperimentati i difetti della propria costituzione monetaria, decidesse razionalmente di cambiarla. Ma esso è invece espressione dello stato forte, ed a quest’ultimo apporta quasi solo benefici. Per questo, quindi, salvo ripensamenti improbabili di Berlino, può essere solo corretto qua e là, e non certo ribaltato.
7. L’euro aggrava gli squilibriA quanto sopra si aggiungono gli effetti dell’unicità della moneta in presenza di economie diverse. Deve esser chiaro, preliminarmente, che i guai dell’economia italiana non derivano (o non derivavano) principalmente dall’euro. Derivano dalla grave sottocapitalizzazione di tutte le imprese (piccole, medie e grandi), dalla latitanza delle banche privatizzate, dall’assenza di intervento pubblico e di politica industriale, dalla precarizzazione del lavoro. E deve essere chiaro che la forza dell’economia tedesca è (o era) essenzialmente endogena. Nessun sentimento antitedesco, quindi, nessuna risibile rivendicazione della cosiddetta italianità. In partenza l’economia tedesca è più produttiva (anche se non di molto) di quella italiana. Ma il fatto è che l’euro aggrava gli squilibri invece di attenuarli. Già ci ha pensato il mercato unico a far addensare le risorse produttive sul versante nordoccidentale del continente: i capitali vanno soprattutto là dove c’è maggior concentrazione industriale, ed il processo si autoalimenta. A ciò l’euro aggiunge l’eliminazione delle monete nazionali e quindi l’impossibilità di svalutare per recuperare gli squilibri dei conti tra paesi. L’autodenigrazione così diffusa in Italia ci fa dimenticare che la svalutazione non è un furbesco stratagemma dei pigri a danno dei più laboriosi, ma è, insieme alla rivalutazione, un meccanismo fisiologico di riequilibrio: non è una panacea, ma nemmeno il male assoluto. In un gruppo di paesi connessi ma aventi diversi gradi di competitività, se i paesi in deficit (e qui stiamo parlando del deficit nei conti con l’estero che è in maggioranza deficit privato) non possono svalutare e quelli in surplus non possono (e non vogliono) rivalutare, gli squilibri sono condannati a riprodursi, ed ogni prospettiva unitaria perde senso. Ai paesi in deficit non resta che sostituire l’impossibile svalutazione monetaria con la svalutazione reale, ossia con la depressione dei salari, e quindi della domanda e così via. I paesi in surplus dovrebbero compensare questo movimento aumentando salari e domanda (rivalutazione reale): nel nostro caso, invece, il paese che più degli altri avrebbe dovuto rivalutare, ossia la Germania, ha riacquisito competitività operando a sua volta una grossa svalutazione reale, ossia una riduzione dei salari finanziata (e socialmente attenuata) dal denaro pubblico erogato in barba ai criteri di Maastricht. Del resto, l’Unione impone di fatto il riequilibrio ai soli paesi in deficit, mentre una logica realmente unitaria, come quella proposta da Keynes per il sistema di Bretton Woods, richiederebbe l’obbligo di riequilibrio anche ai paesi in surplus.
di Mimmo Porcaro

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