
Il
ciclo politico iniziatosi con l’”operazione colorata” Mani Pulite si
sta per compiere con un colpo di scena più apparente che reale, ovvero
con il Governo del Presidente, garante degli interessi dei “mercati” e
vera manina d’oltreoceano in versione tricolore, che ha benedetto
l’alleanza tra Berlusconi – il “nano malefico” che voleva distruggere
l’Europa, secondo l’”Economist” (il settimanale preferito dai
“centro-sinistri” che considerano “populista” chiunque non riesca a
guadagnare almeno 10000 euro al mese), e che “rappresenta”, in
particolare, i propri interessi e quelli dei suoi compagni (e
“compagne”) di merende – e Bersani, un politico di seconda categoria,
“rappresentante” degli interessi del ceto medio “semicolto”, ma
soprattutto di quelli della grande industria (decotta) e della finanza
(fellona) tricolori, anche se probabilmente non li “rappresenta” bene
come il suo rivale, il “giovane” sindaco di Firenze, quel Renzi che come
Nanni Moretti pare sia sempre sul punto di affogare in un barattolo di
nutella. Eppure si tratta solo del finale di una commedia dell’assurdo
per il “popolo bue”, che evidentemente, dopo oltre vent’anni di teatrino
politico di infimo ordine, lo si ritiene talmente rincitrullito da
poter fargli ingoiare qualsiasi rospo. Infatti, quel che in realtà sta
accadendo (perché in politica, se non sempre, quasi sempre l’apparenza
inganna) è non opposto a quel che appare, ma un po’ più complesso di che
quel che appare, giacché è l’intero che conta, se si vuol comprendere
il senso delle singole parti).
Non
vogliamo certo sostenere che l’analisi della situazione in cui si trova
il nostro Paese non debba tener conto della suddetta “operazione
colorata” che diede origine ad uno nuovo corso politico, “simbolo” del
quale si può considerare il noto incontro tra “gentiluomini” (o se si
preferisce, il gentlemen’s agreement) a bordo del panfilo Britannia, il 2
giugno 1992. Nondimeno, si deve tener presente che se i mezzi di cui si
sono avvalsi e si avvalgano gli strateghi dei centri egemonici
euroatlantisti (notare il plurale) sono stati e sono gli “agenti” che
rappresentano i diversi gruppi d’interesse “indigeni”, tali “attori
politici” (da Berlusconi a D’Alema, da Amato a Prodi e così via), anche
se ben remunerati per i loro “servigi”, sono solo “strumenti”(spesso
perfino inconsapevoli, esattamente come i gazzettieri al soldo dei
diversi gruppi d’interesse in lotta tra di loro) di strategie
geopolitiche il cui scopo non lo si deve certo confondere con i mezzi
che si usano per raggiungerlo. Non ci vuole molto allora per capire qual
è il “fine reale” che tali centri egemonici perseguono con tenacia e
coerenza almeno dagli anni Settanta, ma che solo le “mani pulite” della
magistratura italiana hanno reso assai meno difficile conseguire.
Vediamo brevemente perché.
L’Italia,
nel secondo dopoguerra – vuoi per il ruolo di una solida e dinamica
impresa pubblica, soprattutto nei settori strategici (Eni, Iri etc.),
vuoi per una miriade di intraprendenti piccole e medie imprese, diffuse a
macchia di leopardo in buona parte del territorio nazionale, vuoi per
la presenza della Chiesa cattolica e di un forte partito comunista,
assai ben organizzato e ben radicato nella struttura sociale- era uno
Stato a sovranità limitata, ma con caratteristiche tali da renderlo
“anomalo” rispetto agli altri Stati occidentali (ossia non conforme alla
regola generale, alla norma, alla struttura tipica dell’Occidente), e
da permettere alla classe dirigente italiana, o meglio ad alcuni membri
di essa, di avere un certa libertà di manovra, anche a livello
internazionale. Il tutto reso in qualche modo ancora più significativo
dal fatto che la società italiana, pur conoscendo un massiccio fenomeno
di migrazione interna negli anni Cinquanta e Sessanta (specialmente dal
Sud al Nord, verso il triangolo industriale i cui vertici erano Torino
Milano e Genova), era ancora contraddistinta da principi e valori di una
cultura plurisecolare (e ancora legata al mondo contadino), e dal fatto
che la grande industria a gestione pubblica coesisteva con un
capitalismo di tipo sostanzialmente familiare e borghese, ossia con
poche grande aziende private (benché assai diverse per quanto concerne
il modo di intendere la funzione sociale del capitale, sì che non è un
caso che oggi sia ancora presente la Fiat, ma non l’Olivetti). Un
capitalismo pertanto differente da quello basato sui funzionari del
capitale (e che era presente già da tempo in Occidente), dato che la
particolare formazione sociale italiana comportava appunto che la
maggior parte dei manager fossero al servizio non tanto del capitale
quanto dello Stato, inteso come insieme di apparati coercitivi e
ideologici (non necessariamente in senso negativo), in grado di svolgere
una funzione pubblica e strategica nettamente distinta da (benché, lo
si deve riconoscere, non necessariamente contrapposta a) quella di
interessi privati, nazionali o stranieri. Una differenza non da poco sia
sul piano politico che su quello economico (Enrico Mattei docet).
D’altronde,
a partire dagli anni Settanta, con la fine del Gold Standard, il
capitalismo occidentale dovendo far fronte alla crisi geopolitica del
centro regolatore mondiale del capitalismo, cioè gli Stati Uniti, seppe
reagire con una innovazione strategica (che traeva profitto dalla
“rivoluzione tecnologica” nel campo dell’elettronica e in quello
dell’informatica), incentrata sulla ridefinizione della potenza
statunitense in chiave non solo politico-militare, ma anche in chiave
finanziaria, e che doveva obbligare, nel giro di pochi anni, i singoli
Stati a dipendere dalle decisioni del “mercato”, sfruttando in primo
luogo le “disfunzioni” del Welfare State (clientelismo,
assistenzialismo, inefficienza etc.), non allo scopo di “curarlo” ma di
liquidarlo definitivamente. Un mutamento quindi che non avrebbe potuto
non avere “pesanti” conseguenze per la struttura sociale ed economica
italiana, qualora l’Italia non si fosse dotata rapidamente di una nuova
“corazza” politico-economica, sfruttando quei margini di manovra di cui
ancor godeva. Tuttavia, il sistema politico italiano già reso
inefficiente dal diffondersi della corruzione e scosso dalla strategia
della tensione, nonché dal terrorismo, rosso e nero, aveva enormi
difficoltà a rinnovarsi. Tanto che fu il referendum sul divorzio a
mostrare al Pci (che, convinto della necessità di un’alleanza con le
masse popolari democristiane, temeva che tale referendum fosse un grave
errore) che i tempi stavano cambiando anche in Italia e che il vento
dell’Ovest avrebbe soffiato molto più forte, considerando pure le
evidenti e non contingenti patologie che affliggevano il sistema
sovietico. Cominciò così il lungo cammino del più grande e forte partito
comunista occidentale verso Washington. Un percorso non “lineare”, né
privo di difficoltà o di incertezze – sia per il caso Moro, sia per
contrastare la politica del CAF (Craxi, Andreotti, Forlani), sia per non
allarmare troppo la propria “base” – ma che venne a configurasi sempre
più chiaramente come un passaggio – accelerato ma non causato dal
crollo dell’Unione Sovietica – dall’eurocomunismo all’euroatlantismo.
Ragion
per cui, negli anni Ottanta, da un lato, venne completamente a mancare
quella spinta ideale che negli anni precedenti, nonostante tutto, era
ancora presente anche in certi ambienti politici, non solo di sinistra o
cattolici, e a consolidarsi un regime partitocratico imperniato sul
(già menzionato) CAF, ma pure sulla partecipazione alla gestione della
“cosa pubblica” del Pci mentre continuava la sua ”lunga marcia” verso
Ovest. Dall’altro, con la rinuncia al controllo politico del settore
strategico nazionale e l’abbandono di un’idea di bene comune (e di
giustizia sociale) condivisa da tutti gli strati della popolazione, in
particolare dai ceti medio-bassi e popolari, si sancì il definitivo
distacco di gran parte della intellighenzia italiana da ogni concezione
socialista. Un mutamento di “paradigma” politico-culturale favorito non
poco dall’onda lunga del Sessantotto che spazzò via nel medesimo tempo
la “vecchia” morale borghese e le strutture sociali e culturali ancora
legate al mondo contadino – maunicamente al
fine di “glorificare” una sorta di “fondamentalismo laico e liberista”
(assai ben rappresentato dal quotidiano “La Repubblica”) che, in quanto
“espressione” di un egualitarismo astratto e formale, “maschera” le
reali e sostanziali diseguaglianze sociali ed economiche, promuovendo
quella forma di individualismo, secondo cui lo Stato deve essere
neutrale rispetto ai valori, mentre si deve lasciare che sia il
“mercato” a decidere quali siano i valori fondanti di una società.
Si
badi però che ciò non significa che non fosse necessario modernizzare
il sistema sociale italiano; anzi è vero l’opposto, giacché la
modernizzazione del sistema italiano era ormai inevitabile. Il problema
era come modernizzare. Un problema che la classe politica di allora non si pose nemmeno, tranne qualche lodevole eccezione, essendo interessata a chi doveva
modernizzare – allorché fu palese, soprattutto dopo il risultato del
referendum sul divorzio, che si doveva modernizzare – ma non a come si
doveva modernizzare. Epperò, non è assurdo ipotizzare che la necessità
di modernizzare il sistema sociale italiano, avrebbe potuto anche dare
origine ad un corso politico diverso da quello neoliberista, evitando di
svellere quelle “radici culturali” che di fatto erano a fondamento del
“particolare sviluppo” del nostro Paese – una questione tutt’altro che
irrilevante come dimostra il “fallimento” politico, e non solo politico,
di una Unione Europea che, privilegiando una “demenziale” ottica
economicistica, non tiene neanche conto delle differenze tra l’area
mediterranea e quella baltica). Comunque sia, è innegabile che –
allorquando si attuava una ristrutturazione della megamacchina
capitalistica occidentale tramite le politiche di deregolamentazione e
di liberalizzazione del movimento dei capitali, che rendevano possibile
ciò che si suole denominare – assai genericamente – mondializzazione o
globalizzazione – “ignorando” il “soggetto (geo)politico che mondializza
o globalizza) – la cultura politica italiana, anziché concentrarsi
sulla funzione della politica della potenza capitalistica predominante e
del conflitto (geo)politico, preferì rivolgere la propria attenzione
alla “soggettività”, alla microfisica del potere, all’economia
libidinale e così via (una “svolta” le cui coneguenze cominciano a
vedersi solo oggi che la finanziarizzazione dell’economia mondiale sta
rivelando il suo volto (geo)politico).
Non
sorprende quindi che, proprio quando era necessario avere un “classe
politica” capace di “giocare la carta” della ”peculiarità” del sistema
italiano in un contesto geopolitico del tutto diverso da quello che
aveva contrassegnato fino ad allora il secondo dopoguerra, con la
vicenda di Mani Pulite si siano venute a creare le condizioni per poter
smantellare la nostra unica macchina da guerra che – sebbene non fosse
del tutto “gioiosa” e fosse pure da ammodernare – sarebbe stata
indubbiamente in grado di difendere l’interesse generale se comandata da
abili condottieri. Sicché, si può ritenere che, in un certo senso, la
stessa “operazione colorata” Mani Pulite sia stata generata, per così
dire, dalla “marcia delle cose” più che dalla volontà dei singoli attori
(geo)politici (e con ciò si elimina pure, in radice, qualsiasi
“complottismo” da bar dello sport), consentendo ai diversi gruppi
politici “locali” (invero bande di mercenari al servizio di potentati
stranieri tutti filo-atlantisti) di lottare tra di loro per aggiudicarsi
l’“osso migliore”, mentre venivano gettate le fondamenta della nuova
Nato e della nuova Unione Europea, (una ”ristrutturazione” assolutamente
necessaria dopo il crollo del Muro e la riunificazione della Germania).
Facile
dunque comprendere il “fine reale” dei centri egemonici atlantisti
adesso che il loro disegno si è quasi completamente realizzato: se la
Nato è il braccio violento della legge del “mercato occidentale” e
l’Unione Europea, dopo l’introduzione dell’euro (anche allo scopo di
saldare la Germania all’Atlantico), è uno zombie geopolitico alla mercé
dei “mercati”, lo Stato italiano si è definitivamente (o quasi)
trasformato (senza che nessuno dei diversi schieramenti in lotta tra di
loro vi si sia mai opposto, al di là di alcuni giri di valzer con Putin e
Gheddafi da parte del “nano” – in senso politico, s’intende – di
Arcore) in un funzionario del capitale euroatlantista che
deve svolgere bene i compiti (assai importanti, al contrario di quanto
pensano parecchi italiani “ingenui”) assegnatigli dai “mercati”. D’altra
parte, dovrebbe essere manifesto a chiunque che se negli anni Novanta
il debito pubblico (cresciuto a dismisura dopo il divorzio tra
Bankitalia e Tesoro) fu usato per (s)vendere il nostro settore
strategico ai potentati stranieri, ancora una volta i “mercati” possono
far leva sul debito pubblico per trarre il massimo profitto dalla
situazione originatasi dopo lo tsunami finanziario del 2008 (e costato
all’Italia, secondo lo stesso Draghi, il 5% del Pil). Il che per i
centri egemonici euroatlantisti e i loro zelanti servitori (politici,
gazzettieri e intellettuali) è “cosa buona e giusta”, ma non per quei
“molti” ormai quasi del tutto privi di diritti sociali ed economici. Ma
anche il teatrino della politica italiana, del resto, non può più
nascondere il fatto che il berlusconismo e l’antiberlusconismo sono, in
realtà, due “effetti di superficie” della medesima “struttura profonda”.
Naturalmente
vi sono molte altre questioni di cui si dovrebbe tener conto per
spiegare il rapporto tra siffatta “struttura profonda” ed suoi “effetti
di superficie”, passati e presenti. Lo scopo di questa breve nota,
tuttavia, è solo quello di mostrare, sia pure a grande linee, alcune delle ragioni (geo)politiche, onde capire meglio la tendenza fondamentale della
politica italiana adesso che il nostro Paese si trova nella morsa di
una gravissima crisi economica (e la “pressione” dei “mercati” e dei
loro “agenti” sui ceti medio-bassi e popolari ha raggiunto livelli
intollerabili). Anche noi ci rendiamo però perfettamente conto che
un’analisi approfondita non deve limitarsi ad alcune considerazioni a
volo d’uccello su una fase storica così difficile e densa di eventi,
alcuni dei quali perfino di portata epocale. Sotto questo punto di
vista, di “lavoro” ve n’è certo ancora molto da fare, e a maggior
ragione lo si deve fare per interpretare bene i “singoli particolari”.
Ma non è tanto l’aspetto meramente storico che rileva e nemmeno (anche
se può sembrare blasfemo considerando la crisi che colpisce milioni di
italiani) quello meramente economico, quanto piuttosto evidenziare i
lineamenti fondamentali della strategia di quei “centri di potenza” che
hanno messo in ginocchio lo Stato italiano trasformandolo in un funzionario del capitale euroatlantista.
Sarebbe dunque necessario liberarsi al più presto di schemi concettuali
obsoleti e/o “politicamente corretti”, nonché di ogni forma di
economicismo, marxista o liberista che sia, e ciò proprio per
interpretare correttamente il rapporto tra il Politico – inteso come
funzione strategica per “regolare” i conflitti tra (sub)dominanti o tra
(sub)dominanti e “dominati” – e l’Economico (secondo la “lezione” di
Gianfranco La Grassa, i cui scritti sono di gran lunga i migliori su
questo delicato argomento). Vale a dire che è essenziale comprendere la
funzione dello Stato alla luce della supremazia del Politico, giacché
oggi più che mai la vera “posta in gioco” è la (ri)conquista dello Stato, se
si vuole delineare una prospettiva opposta a quella
dell’euroatlantismo, sia sotto il profilo (geo)politico che sotto quello
culturale e socio-economico.
di Fabio Falchi
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